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Riassunto del libro "uomini e case nel medioevo tra Occidente e Oriente", Sintesi del corso di Storia Medievale

Riassunto dettagliato e conciso del libro"uomini e case nel medioevo tra Occidente e Oriente", per il corso magistrale di storia degli insediamenti e dei sistemi abitativi.

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

Caricato il 12/08/2022

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claudia-de-luca 🇮🇹

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Scarica Riassunto del libro "uomini e case nel medioevo tra Occidente e Oriente" e più Sintesi del corso in PDF di Storia Medievale solo su Docsity! STORIA DEGLI INSEDIAMENTI E DEI SISTEMI ABITATIVI MEDIEVALI Capitolo I: Modelli insediativi a confronto nei primi secoli del medioevo Le stirpi germaniche Nel 98 d.C. Tacito scrisse il De origine et situ Germanorum, conosciuta come Germania. In essa ci offre una descrizione minuziosa della società e delle consuetudini germaniche. Il documento è importante in quanto le stirpi barbariche avevano una cultura prevalentemente orale. Tra IV e V secolo, alla vigilia delle grandi migrazioni, si verificò una semplificazione del mondo germanico, con l’aggregazione di gruppi minori attorno a gruppi etnici dominanti e la creazione di stirpi di grandi dimensioni. I gruppi che si imposero nel tempo erano i Goti, Franchi, Vandali, Alamanni, Bavari, Longobardi. Le tribù germaniche al tempo di Tacito abitavano un mondo irto di foreste e paludi, sterile di alberi da frutta, ricco di bestiame da pascolo, dal clima rigido. Si dedicavano alla guerra di razzia, alla caccia, all’allevamento del bestiame e all’agricoltura. Si trattava di gruppi seminomadi in quanto non si soffermavano a lungo in un sito. Praticavano un’agricoltura elementare, senza concimazione e riposo dei campi, così erano costretti ad abbandonare spesso le terre divenute improduttive per altre più fertili. Dal punto di vista socio‐politico, privilegiavano una condizione che si basava sui clan, che a loro volta formavano una tribù, cioè un gruppo di famiglie discendenti da un antenato comune, cui erano affidate le terre, la cui proprietà a livello individuale era sconosciuta. Il tessuto insediativo era senza città, occupavano il terreno da coltivare in base al numero degli abitanti, e avevano villaggi a maglie larghe, dalle abitazioni interamente in legno. Il legno quindi il materiale principale di edificazione, spesso utilizzato anche grezzo, ci ricorda il fatto che gli insediamenti erano destinati a durare breve tempo. La foresta dominava la loro vita quotidiana, oltre alle tradizioni architettoniche, dominava anche il loro immaginario, credenze e pratiche religiose. I nomadi delle steppe Per Tacito sono sedentari i Germani (benché seminomadi), invece, cavalieri nomadi i Sarmati. I Sarmati o Sciti, termine usato dalle fonti bizantine per indicare i popoli nomadi delle steppe, vivevano su territori non adatti all’agricoltura, basavano la loro sussistenza soprattutto sull’allevamento del bestiame e, alla ricerca di nuovi pascoli, erano popolazioni contraddistinte da una frequente mobilità. Centrale nella loro vita era il cavallo, che serviva per gli spostamenti e i combattimenti. Il sistema di vita nomadico era incentrato sul possesso dei cavalli, base dell’alimentazione e del sistema militare, sulla mancanza di sedi stabili, sulla guerra come fonte di arricchimento, sulla poliarchia tribale. Nell’ultimo trentennio del IV secolo si imposero poi gli Unni, provenienti dall’Asia centrale, diedero vita ad un vastissimo impero che toccò l’apice con Attila verso la metà del V secolo. La partenza di questo popolo dalle sue sedi originarie nella steppa pontica diede l’avvio alla prima grande ondata migratoria da est verso ovest all’interno dell’impero romano. Dei costumi degli Unni, ci ha lasciato una minuziosa descrizione, già nel IV secolo, Ammiano Marcellino, soldato di origine orientale, attento cronista dei fatti del suo tempo. Nel suo racconto si sottolineano gli aspetti ferini e subumani del modo di vivere di questo popolo, il cui aspetto li avvicina agli animali. Il cavallo era una estensione del cavaliere, tanto che, nutrendosi prevalentemente di radici di erbe selvatiche e di carne semicruda, la riscaldavano tra le loro cosce e il dorso dei cavalli. Gli Alani, una popolazione iranica che conobbe un processo di compenetrazione con gli Unni, dai quali fu sottomessa, ci parla sempre Ammiano Marcellino nella sua opera Rerum gestarum Libri. L’autori li presenta meno selvaggi e di più bell’aspetto, comunque anche loro erano allevatori nomadi, senza sedi fisse, con un sistema abitativo simile a quello degli Unni, per lo più usavano dei carri/abitazione. Tra i nomadi, circa un secolo dopo gli Unni si affermarono gli Avari, popolazione asiatico‐mongolica, i Bulgari di origine turco‐slava‐tracica. E a partire dal VI secolo i Turchi, che abitavano la regione a ovest e nord‐ovest della Cina, si espansero in Sogdiana e in Bactriana, dando vita a un dominio fino al 744. Dei loro stili di vita ci parlano le fonti cinesi, come le Memorie dei Chou e la Vita del pellegrino buddista Husuan‐tsang. I turchi come Alani e Unni, si muovevano costantemente da un pascolo all’altro e caratteristica del loro sistema abitativo era la Yurta, la tenda di feltro, con la sua tipica apertura a oriente, traportata sui carri. Vi è un progresso tecnico nella vita del nomade pastore: il carro/abitazione diventa il carro/tenda, laddove la stessa poteva venire smontata, trasportata ed edificata autonomamente o essere mantenuta sul carro, a seconda delle soste di maggiore o minore durata. Tra i nomadi eurasiatici, i Khazari, che diedero vita nel VII secolo a un vasto dominio fino alla metà del secolo X nel territorio del basso Volga e del Caspio, adottarono alcuni modi di vita sedentari delle popolazioni vicine. Questo popolo esercitava sia l’allevamento sia l’agricoltura e conduceva una vita seminomade. In primavera fino all’autunno vivevano nella steppa, riparandosi nelle tende, mentre in inverno si ritiravano in città dove avevano costruito stabili abitazioni. Avevano anche una capitale, dal 652 fu Itil sulle rive del Volga. Slavi, Ungari, Normanni A partire dal VII secolo e fino al X‐XI, fecero la loro comparsa nuovi “barbari”, gli Slavi, gli Ungari e i Normanni. Gli Slavi venivano dalla vasta regione delimitata a nord dal Pripet, a ovest dall’Oder, a sud di Carpazi e a est dal Dnepr. All’inizio del VI secolo diverse tribù superarono il Danubio, e sotto la guida degli Avari, fecero irruzioni nella penisola balcanica, creando problemi all’impero d’Oriente e dando vita nel corso del tempo a isole insediative al suo interno; dal VII secolo si stanziarono nelle terre invase. Anche la spinta a occidente fu notevole e si arrestò ai tempi di Carlo Magno, che, sconfiggendo gli Avari liberò gli Slavi dal loro dominio. Gli slavi erano soprattutto agricoltori, praticavano anche caccia e pastorizia, seppur prima di stanziarsi nell’Europa orientale praticavano un’agricoltura solo parzialmente sedentaria ed erano quindi seminomadi. I loro primi stanziamenti erano costituiti da piccoli agglomerati, generalmente ubicati in località con facile accesso all’acqua. In seguito si formarono anche villaggi più consistenti, a pianta circolare, alcuni dei quali erano dotati di un cinta fortificata. Alla costruzione del fortilizio partecipavano diversi centri contadini, creando una comunità territoriale più ampia. In certi casi tutti i suoi membri vi si traferivano al suo interno, ma più spesso esso rimaneva solo un luogo di rifugio in caso di pericolo o usato come luogo di riunione. Sono state riconosciute dagli scavi archeologici tre tipologie costruttive delle abitazioni: ‐ L’isba: nella zona delle foreste, era costruita con tronchi scortecciati, appena sgrossati, incastrati gli uni sugli altri, poteva appoggiarsi sul terreno o anche essere sopraelevata su palafitte. Come anche le altre abitazioni non erano fatte per durare nel tempo, spesso venivano abbandonate in favore di nuove edificazioni. La suddivisione interna dello spazio prevedeva pochi vani, uno dei quali era riscaldato dalla presenza del focolare o anche in un angolo, dal forno, di creta in origine e poi in mattoni. ‐ La chata: nella steppa, era fatta di argilla, sassi e sabbia, di rami d’albero o canne intrecciate e poggiava direttamente sul suolo. ‐ La zemljanka: nella steppa boschiva, era per metà interrata ed era generalmente di forma rettangolare. Al di sopra della cavità si alzava un muro basso di tronchi e rami intonacati con fango, sul quale si posava un tetto a due spioventi ricoperto con terra. Nella zona delle foreste usavano i bagni di vapore, sistemati dentro a fossati. Gli Slavi, specialmente quelli occidentali, per immagazzinare i cereali scavavano nel terreno silos sotterranei profondi anche 2 o 3 metri, a forma di pera o di borsa, con il collo stretto. Il legno era comunque la materia base per la costruzione delle abitazioni, come pure dei complessi difensivi e dei ponti. Per le parti sopraelevate generalmente si usava la tecnica dei tronchi d’albero al naturale, sovrapposti orizzontalmente e incastrati all’estremità (Blockbau), e i tetti erano ricoperti con paglia, canne, tavole di legno o zolle di terra. La luce proveniva principalmente dalla porta d’ingresso, fumosità e oscurità prevalevano. Attorno alle abitazioni venivano spesso eretti granai, stalle e magazzini, sempre in legno. Gli oggetti di uso casalingo erano generalmente scarsi: recipienti e cucchiai di legno, catini, vasi e piatti di argilla, pochi coltelli di ferro. Verso la fine del IX secolo, fece la sua comparsa nell’area danubiano pannonica una nuova etnia, quella dei Magiari o Ungari. Stirpe di ceppo ugro‐finnico, il cui nucleo originario, intorno al V secolo a.C., dalla Siberia occidentale si mosse verso la regione compresa tra il tratto medio del Volga e le montagne degli Urali. Nella prima metà dell’VIII secolo d.C. gli Ungari si diressero a sud, in una zona della steppa boscosa della regione del Don, dove vennero a contatto con i Khazari. Alla fine si stabilirono in Pannonia. Qui si fermarono definitivamente, consolidando nel X secolo una nuova patria, dalla quale per lungo tempo partirono per compiere razzie contro l’Occidente cristiano. Sconfitti dal sovrano germanico Ottone I nel 955, si stabilizzarono sul loro territorio, si convertirono al cristianesimo e si organizzarono come un regno autonomo che rappresentò un baluardo rispetto alla minaccia di altre stirpi di cavalieri nomadi. All’inizio della loro storia gli Ungari vivevano come gli altri popoli nomadi della steppa, già nel corso dei secolo VIII‐IX, approfittando della protezione dei Khazari, una parte di essi si stabilì in villaggi e abbandonò la pastorizia per l’agricoltura e l’allevamento intensivo del bestiame. In Pannonia, come già detto, nel corso del X secolo si stabilirono permanentemente. La tipologia abitativa più diffusa era la casa monofamiliare, per metà interrata, di La casa elementare costituiva il ricovero fragile della parte più povera della popolazione contadina. Ma sembra aver connotato poi l’insediamento rurale nei territori dominati da Bisanzio verso oriente. Solitamente le case rurali avevano una pianta rettangolare o irregolare, consistevano di una, due o tre stanze, una delle quali dotata di focolare. Nel caso di edifici a più vani, uno doveva essere dotato di focolare, mentre un altro doveva essere adibito alla conservazione delle scorte cerealicole, immagazzinate in phitoi, grandi recipienti di terracotta, o in goubai, pozzi scavati nel terreno, e del vino contenuto in grandi recipienti di nome pitharia. Quando l’abitazione si sviluppava verso l’alto, al piano superiore vi era la dimora della famiglia, dotata di pochi e poveri arredi. I materiali da costruzione erano quelli reperibili in loco. La sopraelevazione poteva riguardare sia le singole abitazioni a struttura unitaria o elementare, che la dimora in un nucleo a corte. Si trattava però di una tipologia che si affermò molto lentamente nelle campagne, a lungo perdurò la tradizione costruttiva degli edifici rurali sviluppati a pianterreno. Questo per molte ragioni. La maggiore semplicità architettonica, la cui edificazione era resa possibile da conoscenze tecniche diffuse tra la popolazione rurale, per il costo economico, sia per materiali che per manodopera che doveva essere, per la casa solariatae, specializzata. La casa a sviluppo verticale interessò più i centri cittadini all’interno dei quali i problemi di organizzazione dello spazio erano più pressanti. La penetrazione anche economica della città nel suo territorio portò alla diffusione, anche per l’abitazione sparsa sul podere, del modello della casa solarium , solido e robusto investimento necessario per la redditività dell’azienda del proprietario cittadino borghese. Ne è un esempio la casa mezzadrile della Toscana nel tardo medioevo, che si presentava, all’interno della struttura a corte, con un pian terreno costituito da uno o due locali e un solaio raggiungibile con una scala interna in legno o una esterna in pietra. La casa contadina: materiali, tecniche Prima del XII‐XIII secolo, caratterizzò le costruzioni l’utilizzo di materiali deperibili, in primo luogo il legno. Le pareti potevano essere edificate secondo il sistema del clayonnage, cioè con un graticciato di rami, vimini, variamente riempito negli interstizi con torchis, argilla amalgamata con paglia. Vi potevano essere fondazioni, di legno, di ciottoli, pietrisco, argilla, meno spesso di pietra, sulle quali insistevano le pareti, oppure queste erano infissate direttamente sul suolo. Le indagini fondate sugli scavi archeologici hanno individuato negli ultimi cinquanta anni in Europa, dodici differenti tipi di strutture portanti di edifici rurali: a due pali contrapposti, a pali angolari, a pali perimetrali, a palo centrale, a tecnica mista, a due navate, a tre o più navate, con pavimento sopraelevato, senza di esso, su palafitta e senza pali. Sono state poi individuate nove diverse tecniche per la costruzione egli elevato: struttura aperta o senza elevati, tavolato ligneo orizzontale, stabbau (pareti di assi o paletti infissi sul terreno o su una trave di fondazione), a intreccio, tecnica mista, blockbau (a travi orizzontali sovrapposti e incastrati) palisandenbau (triplo allineamento di pali perimetrali a tenda, riempito di argilla, usato soprattutto per palizzate fortificate). Dalla combinazione di tutti questi elementi sono stati individuati due gruppi di strutture: a livello del suolo e semiscavate. Il legno di quercia, forte e pesante, durevole e resistente, facilmente accessibile, doveva trovare un largo impiego nell’edilizia, accanto al legno di conifera (abete), di castagno o di olmo. L’edilizia lignea era veloce, flessibile, modificabile e addirittura smontabile e ricostruibile in altre locazioni. La diffusione del legno trovò la sua generalizzazione con l’arrivo dei popoli “barbari”, che anche in ambito urbano andò a sostituire materiali più solidi come la pietra e laterizio, i quali solo nei secoli finali del medioevo ripresero ad essere ampiamente utilizzati. É a partire di secoli XII‐XIII che materiali e tecniche dell’architettura rurale cominciarono a cambiare. Si perfezionarono le tecniche di carpenteria, con l’impiego di legno lavorato e squadrato e aumentò la tendenza ad utilizzare materiali più resistenti come la pietra e il laterizio. L’utilizzo della pietra presentava una serie di problemi in quanto l’approvvigionamento non era sempre facile, il trasporto del materiale dalla cava al cantiere, l’attrezzatura per la sua lavorazione, il ricorso a manodopera specializzata. I costi lievitavano e così i tempi di edificazione, anche se poi i manufatti duravano a lungo. Un altro materiale solido e durevole che cominciò a diffondersi per la muratura delle pareti delle case rurali fu il mattone cotto, dal XIII secolo. Il sistema di copertura in laterizio si diffuse di nuovo nel mondo rurale fra XIII e XV secolo. Il sistema antico fatto di tegole piane, che necessitava di forti strutture di sostegno e d era sempre stato associato alla costruzione di pietra, fu abbandonato, e sostituito da sistemi più leggeri, o di sole tegole piatte, su tetti pendenti e inclinati, o di sole tegole incurvate (coppi) su tetti meno spioventi. Altri sistemi di copertura furono impiegati per tuto il medioevo. In primo luogo quelli vegetali, come la paglia, il canniccio, il legno, sotto forma di tavolette (scandulae). Si trattava di materiali che garantivano un buon riparo dal freddo, non troppo pesanti e di semplice disposizione, ma non duravano a lungo, necessitavano di una costante manutenzione ed erano facilmente aggredibili dal fuoco. La casa contadina: arredi e suppellettili La casa elementare e la dimora in un nucleo abitativo a corte, potevano avere un locale o più di uno. In ogni caso non avevano molti vani e inoltre erano polifunzionali, e all’interno degli stessi ambienti si mescolavano attività e oggetti diversi. Nei casi in cui vi era un unico vano vi era il focolare, era la stanza del riposo, della conservazione di alcune scorte, di custodia degli attrezzi, se vi erano più vani le attività potevano dislocarsi ma non rigidamente. Nel caso di un edificio solariato a pianterreno vi erano i servizi e al piano superiore la parte abitativa della famiglia. Comune a tutte le costruzioni era l’oscurità. Le aperture erano poche, la porta d’ingresso era la principale se non unica fonte di luce che poteva filtrare anche da eventuali interstizi dalle pareti o dal colmo del tetto. Di notte era la luce del fuoco che rischiarava l’ambiente. Il focolare presentava però inconvenienti importanti: il rischio di incendi era costante per i materiali costruttivi facilmente infiammabili, e la fuoriuscita del fumo era difficile. La soluzione più semplice, naturale per le dimore a corte fu quella di porlo al di fuori dell’abitazione, in un annesso separato che fungeva da cucina usando per il riscaldamento degli scaldini o dei bracieri. Altre soluzioni potevano essere quelle di posizionare il focolare al centro del locale o lungo le pareti laterali o in un angolo, cercando di isolare il fuoco con pietre, argilla o infossandolo nel pavimento. Ma l’ambiente comunque, date le poche aperture era sempre pieno di fumo. Le condizioni migliorarono con l’introduzione delle stufe da riscaldamento abbinate a stanze riscaldate e libere dal fumo (stuben) e con la costruzione di camini con cappa, canna fumaria o comignolo. Con il termine Stube si indicava un locale riscaldato, libero dal fumo, perchè il calore proveniva da una stufa, murata con argilla e pietra, la cui parte posteriore, con l’apertura per l’alimentazione del fuoco era posta in un vano all’esterno, mentre la parte ad arco, da cui si diffondeva il calore, si trovava nel locale interno. anche la struttura del camino preservava da incendi e fumo. Inizialmente si trattava di una cappa posta sul focolare, collegata a un condotto di lastre rivestite d’argilla sovrapposto alla parete, che portava il fumo all’esterno; in seguito il condotto trovò posto all’interno del muro, nel caso delle costruzioni in pietra o laterizio. Non erano previsti servizi igienici all’interno delle abitazioni e probabilmente nemmeno apposite strutture all’esterno. Per quel che riguarda gli arredi e le suppellettili sempre vi era l’essenzialità della dotazione domestica di beni mobili. La presenza promiscua di suppellettili rispondenti a esigenze diverse si collegava alla polifunzionalità degli ambienti. I principali pezzi del mobilio erano di legno e costituiti dal letto, quando vi era, dal tavolo. Da sgabelli e panche, cassoni e cassapanche. Ganci, scansie o rientranze nelle pareti servivano per appendere e riporre vestiti e oggetti di uso comune, l’armadio non rientrava nella tradizione del tempo. Tra gli oggetti vi erano strumenti per il fuoco, recipienti per cuocere i cibi, contenitori per conservare le vivande, per la mensa, taglieri di legno, più diffusi di piatti, scodelle, coltelli e cucchiai. Capitolo III: Nelle campagne medievali: la residenza signorile La “villa” tardo‐antica La villa tardo‐antica era posta sotto la sovraintendenza di un villicus, un fattore, controllato a sua volta da un conductor, un amministratore e aveva il suo centro direttivo, che consisteva in un vero e proprio insediamento, sul quale insisteva un nucleo edile complesso, nel quale si contrapponevano la residenza signorile, villa urbana, e la fattoria, villa rustica. Quest’ultima doveva contenere tutte le strutture necessarie alla lavorazione e conservazione dei prodotti dell’azienda, sia dal punto di vista delle attività agricole che da quello delle attività di allevamento, come granai, stalle, fienili, magazzini, edifici contenenti strumenti per la produzione del vino, dell’olio, cucine e alloggi per il ricovero della manodopera salariata o degli schiavi, ergastula. La villa urbana, destinata al dominus era costruita con pietra, mattoni e leganti,si articolava in diversi locali decorati con marmi, mosaici, affreschi, disposti attorno all’atrio scoperto e al peristilio, il cortile centrale scoperto e attorniato da un colonnato. Lo spazio destinato al dominus si ampliava fino a comprendere portici laterali, giardini, parchi, terme, padiglioni. Tra IV e V secolo molte ville furono fortificate. Della tradizione romana del sistema della villa, fecero tesoro i Franchi, nell’elaborare quella forma organizzativa dell’economia e del lavoro che fu l’azienda curtense che si diffuse nell’alto medioevo. Dalla “curtis” alla villa rinascimentale La curtis costituiva un centro di aggregazione insediativa, sociale, politica, oltre che una grande struttura di organizzazione economica: non a caso fu alla base dello sviluppo di veri e propri poteri signorili. A partire in particolare dal secolo IX per l’Italia e per l’area franco‐tedesca, rappresentò il sistema più diffuso dell’organizzazione della terra. (descrizione classica del sistema curtense: pars dominica, pars massaricia, corvée, iustitia dominica). Ogni curtis aveva un suo centro direttivo, che costituiva un nucleo insediativo, nel quale vi era la residenza del dominus, le abitazioni dei servi prebendari, servizi rustici, il tutto in modo da rendere l’azienda autosufficiente in molti casi. Il Capitulare de villis, che fra VIII e IX secolo, stabiliva norme dettagliate sulla modalità di gestione delle villae del patrimonio imperiale, prevedeva che sui centri dominici, ben custoditi da recinzioni, vi fessero la residenza padronale, dei torcularia, per la vinificazione, dei cellaria, magazzini, stalle per ogni genere di animali, opifici muniti di materiali per la filatura, tessitura, tintura. Il centro direttivo aziendale della curtis spesso era protetto da recinzioni, che ne facevano una clausura, dando vita a una struttura insediativa “a corte”, che abbiamo visto caratterizzare per lungo tempo anche l’abitazione contadina isolata. Dalla fine del IX secolo, in un periodo di grandi instabilità politica e generale insicurezza, molte curtis si dotarono di elementi difensivi. Molte di esse diventarono dei veri e propri centri fortificati, evolvendo verso la struttura del castello. Nei secoli posteriori al Mille, l’aumento demografico, la crescita agricola, la rinascita delle città, il maggiore dinamismo dei traffici commerciali provocarono profonde trasformazioni nella vita delle campagne. I cambiamenti nella vita agricola riguardarono i regimi della proprietà, le condizioni personali dei contadini, i modi di organizzazione e conduzione della terra. Si cercarono nuove forme di organizzazione produttiva, con conseguente trasformazione della società rurale. Come principali strutture di organizzazione del lavoro agricolo restarono ancora per lungo tempo le grandi proprietà organizzate in forme curtensi e signorili, che si erano andate rafforzando in molti casi come signorie territoriali, in quanto i rispettivi proprietari avevano concentrato nelle loro mani, facendo riferimento a centri incastellati, terre, uomini e, soprattutto, con il venir meno della capacità d’intervento dell’autorità centrale, poteri giurisdizionali. Con il tempo entrò in crisi l’aspetto funzionale classico del sistema curtense, che assistette al frazionamento progressivo e alla lottizzazione del dominico, a una grande frammentazione fondiaria anche del massaricio, alla scomparsa delle corvée e in generale all’alleggerimento dei servizi contadini e a una diffusione sempre più estesa del censo in denaro. La contrazione del dominico e l’allentamento dei legami tra questo e il massaricio, fecero della curtis un organismo fondiario molto diverso rispetto al passato, in quanto costituito da un insieme di poderi giustapposti uno all’altro, senza un riferimento preciso e costante a un centro dominicale. Nell’edilizia abitativa si utilizzavano materiali durevoli come il conglomerato cementizio, basato sul calcestruzzo (formato da un legante e materiali inerti impastati con acqua), usato in vari modi, associato o meno a pietre e mattoni, e il laterizio, sotto forma di mattoni cotti o di coperture per tetti. Dal IV secolo iniziò un periodo di trasformazione dell’edilizia urbana, in seguito al frazionamento del pars Occidentis, all’egemonia militare e politica delle popolazioni germaniche che vi si erano impiantate, al calo demografico, all’inaridirsi delle attività economiche. Tra IV e VI secolo si verificò la dissoluzione diuna edilizia di livello medio‐ alto, rappresentata da lussuose domus e da strutture abitative tradizionali come edifici a due piani. Il frazionamento e il degrado di queste vaste domus urbane, portò alla creazione di unità abitative unifamiliari di più basso livello costruttivo, con pareti lignee e pavimento in terra battuta. La tecnica edilizia più diffusa sembra essere stata allora quella mista, nella quale si integravano il recupero e il reimpiego di murature antiche associate all’uso del legno e di altri materiali deperibili e leganti come calce e argilla. La trasformazione del tessuto urbano proseguì tra VI e X secolo, subendo un’accelerazione, nella penisola italiana, con l’arrivo dei Longobardi intorno alla metà del secolo VI, (568). Nella “Langobardia” la decadenza urbana si accentuò, mentre la campagna diventò il luogo primario di organizzazione della vita economica, sociale e anche politica. I centri urbani si contrassero nella superficie e si riempirono di superfici coltivate all’interno. si ritrovava anche in ambito urbano la struttura “a corte”. La presenza del “verde” vicino alla casa si legava a un uso utilitaristico dello stesso, non più uno spazio del diletto come nelle domus antiche. Le strutture monumentali della città antica, non essendo più utilizzate secondo la loro originaria funzione, potevano servire come cave di materiale da costruzione. Oltre al materiale da reimpiego è soprattutto il legno ad essere utilizzato. Edilizia più fragile quindi, realizzata in ambito familiare, e affinando le tecniche di lavorazione del legno, rafforzate dalle tradizioni germaniche. Quindi dal VI secolo è soprattutto l’edilizia in legno ad essere documentata, fino al secolo X. Sono stati individuati essenzialmente tre tipi principali: edifici con pali portanti infissi nel terreno; edifici con pareti di tavole o pali verticali insistenti su un basamento in muratura; edifici con pareti lignee variamente strutturate infisse su travi orizzontali incassate nel terreno. Nella “Romania”, in quei territori dove il legame con la tradizione romana perdurò attraverso la mediazione bizantina, le città, pur all’interno di un generale processo di decadenza continuarono ad avere un ruolo primario nell’organizzazione della vita politica, economica e sociale. Troviamo così dimore per lo più a due piani, suddivise in vani con qualifiche funzionali diverse: il deposito/magazzino, la cantina/dispensa, la cucina, il balneo e i necessaria, cioè i servizi igienici, la stanza da soggiorno/pranzo, la camera da letto. Al pian terreno generalmente erano ubicati i vari servizi e, nel caso, anche botteghe che si affacciavano sulla strada, mentre al piano superiore i veri e propri locali di abitazione. Le case potevano avere un portico sul fronte e, di fianco o sul retro, un cortile. Le pareti degli edifici erano in muratura, documentati sono la pietra e il laterizio, vi erano anche edifici con il pianterreno in muratura e il primo piano in legno. In età tardo‐antica e altomedievale, nei territori dell’impero d’Oriente si mantenne dunque una certa vitalità urbana. La lunga vitalità urbana orientale aveva la sua rappresentazione migliore nella capitale, Costantinopoli. Il periodo pieno‐tardomedievale A cavallo del nuovo millennio, lo sviluppo agricolo e demografico, l’incremento degli scambi locali, regionali e internazionali favorirono il risveglio delle città, configurando nuovi assetti sociali, e si sperimentarono nuove forme di vita associata come il Comune. All’interno delle città iniziarono allora ad essere documentate abitazioni solariatae, come pure un edilizia in pietra o mattone, a fianco di quella lignea. Una caratteristica del paesaggio urbano italiano furono tra XII e XIII secolo le torri, la cui costruzione rispondeva a molteplici esigenze: come residenza, come strumento di difesa e offesa, di lotta armata per il potere, per i contrasti tra magnati e parte popolare, tra fazioni diverse facenti capo a famiglie o a gruppi parentali eminenti e che si richiamavano ai nomi del guelfismo e del ghibellinismo, fra i diversi comuni; servivano ad esibire ricchezza e potenza. La moltiplicazione delle case‐torri rifletteva il modo particolare secondo il quale l’aristocrazia interpretava spazi e luoghi della città. Le case‐torri si presentavano come robuste costruzioni, svettanti in altezza, tanto che a Firenze la norma De turribus exquadrandis del 1325 imponeva un altezza massima di 50 braccia, proponendosi di tenere a freno la superbia dei fiorentini. I nuovi ceti eminenti cittadini, nel corso del Trecento e del Quattrocento, si rivolsero verso un nuovo modello abitativo, quello del palazzo, che inizialmente si configurò come una struttura nata dall’accorpamento di più abitazioni precedenti, dotato di un’unica facciata sul fronte stradale. Il passo successivo fu la costruzione, soprattutto ne Quattrocento, di palazzi staccati ed emergenti dal tessuto urbano circostante, spesso ad esso sovrapposti in quanto la loro edificazione comportava l’acquisto e la distruzione di realtà abitative precedenti. Di massa imponente, presentavano poche finestre sulla facciata al pianterreno. Internamente, la struttura era in genere incentrata su di un cortile porticato, punto d’incontro tra spazio pubblico e privato. Quasi tutto il primo piano, dagli alti soffitti, era occupato da spaziose sale di rappresentanza, mentre le vere e proprie stanze a uso abitativo occupavano uno spazio ristretto o al secondo piano. Fra queste emergenze particolarmente significative sul piano costruttivo, si situavano case borghesi medio‐alte e case popolari per il popolo minuto, dando vita ad un tessuto edilizio mosso e articolato, risultato del carattere abbastanza disordinato dell’espansione urbana tra XI e XIII secolo. La tipologia edilizia più diffusa era rappresentata da un edificio affacciato su di una via, i lotti erano rettangolari e si estendevano in media per 4‐5 metri sul fronte e per 10‐15 metri in profondità, sul retro si trovava un’area vuota delimitata sul fronte opposto. La facciata sulla strada era soggetta a regolamentazione da parte degli statuti comunali, in merito all’ampiezza, al numero delle finestre, alla presenza di sporti, mentre la profondità era a discrezione degli abitanti. Questi edifici insistevano su più piani, anche 4 o 5, ma in genere non più di 2. Questo slancio verticale, dipendeva dalla fame di spazio dovuta all’incremento demografico che coinvolse le città fino al XIV secolo. Anche le case addossate una all’altra, e non più separate, servivano a massimizzare lo spazio, formando così dei blocchi di abitazioni con un fronte unico sulla strada. Il modulo base di questi edifici prevedeva un seminterrato, una bottega al pianterreno o ricoveri per animali o magazzini, mentre ai piani superiori erano adibiti a uso abitativo e si raggiungevano attraverso scale interne o esterne, poste sul retro. La cucina isolata all’ultimo piano come misura cautelare contro gli incendi. Lo spazio retrostante era occupato da un cortile aperto, che faceva da orto/frutteto/giardino. Nella Firenze del XV secolo, all’ultimo piano della casa si aggiunse la loggia, affacciata sul cortile, luogo di servizio e anche di incontro. La casa poteva allargare il suo spazio a spese di quello pubblico, protendendosi al piano superiore verso la strada, attraverso l’edificazione di sporti, sostenuti da puntelli di legno o muratura. Da essi si svilupparono i portici. L’acqua si attingeva dalle fontane e dai pozzi pubblici, posti nelle piazze o nei crocicchi, nei cortili potevano essercene di privati oppure erano presenti cisterne per l’acqua piovana; a partire dal Trecento nell’edilizia di più altro livello si diffusero anche quelli privati, interni alla casa, laddove l’acqua si attingeva con secchio e carrucola nel pozzo attraverso condotti ricavati nello spessore dei muri. Nell’edilizia popolare mancarono per lungo tempo servizi igienici, pertanto lo scarico si faceva direttamente sulla strada, dal XIV secolo strutture fisse iniziarono nei chiassi e nei bottini sotterranei, che facevano rifluire i liquami nella fogna. È sempre nel Trecento che presero piede anche i camini a muro, prima nelle città, dove la concentrazione di uomini favoriva gli incendi e poi nelle campagne. Il freddo e l’umidità entravano facilmente nelle abitazioni, le finestre erano aperte e protette generalmente da tendaggi o da scuri di legno. Questi furono sostituiti dal Duecento con impannate, cioè intelaiature sulle quali si tendevano pezzi di stoffa incerata o oleata, che permettevano alla luce di filtrare, ma non di isolare gli interni. Le strutture meno solide e precarie erano generalmente quelle popolari, mentre le soluzioni più durature e resistenti venivano applicate in primo luogo all’edilizia medio‐alta, privilegiando alcuni materiali rispetto ad altri, non solo per la maggiore facilità di reperimento ma per rispondere anche a scelte di gusto, tese ad individuare elementi caratterizzanti della propria città. Così il macigno e la pietra forte erano diffusi a Firenze, il rosso mattone nella Siena trecentesca. Per ricostruire il tipo di arredi e suppellettili importanti sono le fonti scritte come gli inventari dei beni mobili di personaggi di differente estrazione sociale e le fonti iconografiche. Quantità e qualità dell’arredo domestico, dipendevano in primo luogo dalle disponibilità economiche. Il letto del povero era costituito da un pagliericcio posato su un telaio di legno o per terra; quello di un cittadino di livello sociale medio‐alto era un mobile più o meno importante, di legno pregiato, posato su di una predella, con una incastellatura che permetteva di richiuderlo con cortine. Casse/cassoni/cofani contenevano il corredo della padrona di casa e altri arredi. Decorazioni pittoriche, stoffe pregiate, arazzi arredavano le pareti di chi poteva permetterselo. Tuttavia fino al Trecento si trattava sempre di un arredo essenziale, le differenze colpivano più che altro la qualità del singolo oggetto. Torri, palazzi, abitazioni di livello medio alto, case popolari, semplici capanne in legno e paglia si giustapponevano in un tessuto urbano caotico e irregolare, che, tra Due e Trecento i governi cittadini sentirono l’esigenza di riordinare. Si affermò nei ceti dirigenti un geloso senso di città, oltre al desiderio di renderla più bella e potervisi orgogliosamente riconoscere. L crisi economica e il crollo demografico di metà Trecento modificarono il ruolo della città nei confronti delle campagne e delle città tra loro. Si avviò l’abbandono e il degrado del tessuto edilizio più fragile, che diventò campo d’azione per le ristrutturazioni operate nel secolo successivo. Il panorama urbano nel corso del Quattrocento si fece più ordinato, nei tracciati viari regolari e con fondale, nelle piazze simmetriche, nella nuova architettura dei palazzi signorili ispirata dai classici principi dell’ordine, della simmetria, della proporzione. Capitolo V: L’Occidente e gli “altri” La conoscenza del mondo extra‐europeo da parte dell’Occidente medievale passava attraverso l’articolato e complesso intrecciarsi e sedimentarsi di una pluralità di elementi reali e fantastici. Nei confronti dell’alterità ci si poteva porre animati da genuina curiosità, stupore, ammirazione, ma anche da incomprensione, diffidenza, paura, sempre però sospinti dal riconoscimento del superiore livello di civiltà del proprio mondo, delle proprie forme di vita, dei propri usi, costumi, abitudini. Tra i più vistosi segni di riconoscimento e di disuguaglianza su cui si concentrava l’interesse dei viaggiatori vi erano certamente le caratteristiche del paesaggio visitato e le diverse forme di organizzazione del popolamento e dell’insediamento al suo interno. quello che colpiva maggiormente l’attenzione dei viaggiatori occidentali era l’esperienza di vita nomade che caratterizzava gli stili di vita di nuovi popoli con i quali si veniva in contatto. La tenda contro una dimora fissa, sintesi di un modo di vivere completamente diverso. L’Asia centrale e settentrionale Dal Duecento l’orizzonte dell’Europa occidentale si allargò verso le lontane terre dell’Asia, a causa delle invasioni mongole e della formazione di un impero vastissimo dal Mar Nero fino al Mar del Giappone. Il suo creatore fu Temujin, passato alla storia con il nome di Gengis Khan (1167 ca.‐1227), che unificò le tribù nomadi della steppa mongolica e diede l’avvio di una vasta opera di conquista nei confronti dell’impero cinese e del mondo islamico. Gengis Khan unificò le tribù turche e mongole che vivevano nella steppa mongolica, accomunate dalla medesima struttura economica e sociale. Questa, aristocratica, aveva la sua cellula fondamentale nel clan, mentre la struttura economica si basava sul possesso del bestiame e sull’ampiezza dei diritti di pascolo, non tanto sul possesso della terra. Si trattava di tribù nomadi, che stagionalmente si spostavano dai terreni di pascolo estivo a quelli invernali. L’inevitabile rapporto con le popolazioni sedentarie, come la civiltà agraria cinese, una volta sottomesse e passato il momento iniziale cruento della conquista, fece sì che il successore di Gengis Khan, Ogodei (1229‐41), si ponesse il problema di organizzare un qualche embrione di apparato amministrativo e sentisse la necessità di dotarsi di una capitale. Questa fu Qaraqorum, al centro della Mongolia: è interessante notare che essa consisteva in poche strutture fisse, circondate dalle tende dei nobili e del popolo. Dal 1236 partì la vera e propria invasione dell’Europa, un corpo di spedizione arrivò fino in Polonia, Slesia, Moravia, un secondo fino in Ungheria, Austria, ai confini del Friuli e in Dalmazia. L’impatto sull’Occidente dell’invasione mongola fu fortissimo e provocò un sentimento di terrore, acuito anche dalla scarsa conoscenza che gli europei avevano dell’Asia centro‐settentrionale, oggetto solamente di qualche racconto leggendario che narrava la presenza di esseri mitologici. Furono i domenicani ungheresi i primi a spingersi verso Oriente: nel 1235 frate Giuliano d’Ungheria si addentrò nella pianura russa e raccolse notizie di quelli che definì Tartari, nome con il quale l’Occidente sempre indicò i mongoli. Innocenzo IV per raccogliere informazioni sui Mongoli affidò a domenicani e francescani i compito di viaggiare verso quelle terre lontane. Di grande importanza per la conoscenza del mondo mongolo furono le missioni dei due francescani Giovanni di Pian di Carpine e Guglielmo di Rubruck. Il primo giunse fino a Qaraqorum e ritornato scrisse la relazione del suo viaggio, la Historia Mongalorum. Lo stesso fece Guglielmo di Rubruck ,il quale a Qaraqorum fu ricevuto diverse volte dal khan Mongke, e scrisse una relazione ancora più ricca di osservazioni su costumi e credenze mongole. Mongke (1251‐1259)lanciò l’ultima offensiva contro l’Occidente, fino in Polonia, conquistò Baghdad e la Siria, fermato verso il Mediterraneo dai Mamelucchi d’Egitto. Il suo successore Qubilai (1260‐1294), comandante delle truppe in Cina, spostò qui la sua capitale. Qaraqorum perse così d’importanza, diventando un centro di provincia e la Mongolia cessò di essere il cuore dell’impero. La nuova capitale in Cina fu Ta‐tu, in turco Khan Baliq, ossia Cambaluc, l’odierna Pechino. Odorico da Pordenone ci descrive le sue peregrinazioni durate dal 1318 al 1330. Tanti viaggiatori ecclesiastici visitarono e descrissero la Cina. Tra Due e Trecento il quadro andò ampliandosi dall’Asia settentrionale e centrale a quella meridionale, parallelamente alla penetrazione in quelle terre dell’influenza mongola. Una messe notevole di La Cina Con Qubilai, che trasferì la capitale nel 1260 a Cambaluc, il cuore dell’impero divenne la Cina, il Catai. Su di essa sappiamo molto per la diretta testimonianza di Marco Polo che vi soggiornò a lungo. La pac mongolica aveva permesso nella seconda metà del secolo XIII l’infittirsi dei collegamenti e degli scambi commerciali tra Occidente e Oriente. Delle sue peregrinazioni e del suo soggiorno cinese Marco Polo ci ha lasciato un ricordo nella sua famosa opera Il Milione. Nella sua descrizione traspare sempre la sua mentalità di mercante, la sua attenzione si rivolge quindi all’impianto economico dei luoghi visitati, sui prodotti tipici, sulla loro qualità e quantità e sui sistemi di produzione. Polo ci ha fornito così un quadro di estremo interesse degli aspetti più salienti della civiltà mongolo‐cinese. Un primo dato che emerge leggendo Il Milione è la contrapposizione tra la civiltà mongolo‐ cinese, appunto, e le antiche consuetudini di vita dei Tartari, che continuavano a permanere nei domini occidentali dell’impero e nella Mongolia. Una conferma ci viene dal viaggiatore arabo Ibn Battuta che fra il 1332 e il 1334 incontrò la corte del khan Ozbek nelle pianure tra Mar Nero, Mar d’Azov e Mar Caspio. Si trattava di una corte itinerante, pur avendo il khanato il suo centro nella capitale Sarai. In Cina il popolo vincitore era dovuto venire a patti con una antica civiltà agraria e sedentaria. La differenziazione dei materiali costruttivi per l’edilizia alta e quella popolare, legno per quest’ultima e pitre e laterizio per la prima, doveva caratterizzare, come altre città descritte da Polo, anche Cambaluc. Essa aveva un perimetro di 24 miglia e una regolare pianta quadrata. Le mura di terra, erano spesse 10 passi e alte 20, verso l’alto si stringevano fino a 3 passi, merlate e bianche. Su di esse si aprivano 10/12 porte su ognuna delle quali vi era un grande palazzo e su ciascun lato vi erano grandi palazzi sedi di guarnigioni militari a difesa della città. L’impianto quadrato era così regolare che le vie erano tanto dritte, che da una porta era possibile vedere l’altra. Al suo interno si distribuivano i palazzi dei nobili, quello con la campana che per tre volte suonava alla sera il coprifuoco, il palazzo reale, quello dell’erede al trono e quello con molte sale e camere dal quale i “12 baroni grandissimi” che amministravano le province dell’impero esercitavano la loro autorità. La capitale era così popolosa he al di fuori delle mura, in corrispondenza delle porte, si erano sviluppati dodici borghi, molto estesi e popolati. Nel palazzo reale il Gran Khan risiedeva nei mesi invernali, a marzo si dirigeva verso l’Oceano Pacifico e si fermava a soggiornare presso Tarcar Mondun per cacciare fino a Pasqua; in seguito ritornava a Cmbaluc per poco tempo e si dirigeva verso Giandu, in Mongolia, sua residenza estiva. Si trattava di una corte itinerante, segno che le antiche abitudini non erano state del tutto abbandonate. Tra i palazzi reali quello di Cambaluc è il più imporante, di impianto regolare quadrato come la città. Era costruito all’interno di due cinte murarie, di forma quadrata di un miglio per lato, e su ciascuna di esse vi erano otto palazzi, contenenti tuto ciò che serve per la guerra, sul lato di mezzogiorno, antica usanza rispettata, vi erano 5 porte, la più grande delle quali era solo per il passaggio del khan, cinque altre porte sul lato sud, e una sola sui lati rimanenti. Tra le due cinte murarie vi erano giardini con animali selvatici. In mezzo alla cinta muraria in posizione sopraelevata vi era il palazzo imperiale dagli alti soffitti. Nella grande sala si tenevano i banchetti solenni, il sovrano sedeva su una tavola più in alto rispetto alle altre. La residenza estiva di Giandu costituiva per il sovrano il punto di incontro tra le antiche consuetudini abitative e le nuove, fra l’accampamento di Tarcar Mondun e il palazzo reale di Cambaluc. Il palazzo di marmo era per le occasioni ufficiali, quello di legno, che doveva essere una tenda in realtà, per la vita quotidiana e veniva montato solo in occasione della visita del khan. A lungo parla della Cina anche Odorico da Pordenone nella sua Relatio. Era arrivato in Cina verso il 1323‐24. La sua opera un trattato geografico‐commerciale, libro etnografico, apologia del francescanesimo missionario, ci parla della Cina dopo la morte di Qubilai, sotto il khna Yesun Timur (1323‐28), proseguendo potremmo dire il racconto di Marco Polo. L’immagine della Cina che Odorico ci fornisce è positiva. Il terriorio cinese era in gran parte densamente popolato, man mano che ci si avvicina alla Mongolia il popolamento invece diminuiva e cambiavano le modalità di insediamento. Così la città di Cosan, nella Mongolia interna, che Odorica indica come la capitale delle terre del prete Gianni, era meno abitata, mentre la zona del Kukunor, al confine con la Mongolia era popolata da gente che abitava in tende di feltro nero. Il mondo cinese è descritto in maniera positivo, mentre fuori dalla Cina è presentato come un mondo fiabescamente irreale, pieno di mostri e di situazioni spaventose. L’India e le isole dell’Oceano Indiano Odorico da Pordenone aveva toccato le coste indiane nel suo viaggio verso la Cina. Era sbarcato in India nel porto di Tana, vicino a Bombay verso il 1321. Aveva proseguito il viaggio toccando le coste del Malabar, il porto di Quilon, l’isola di Ceylon, Sumatra, Giav, la costa indocinese, per raggiungere infine la Cina. L’india rimane il paese dove si alternano mostruosità di segno negativo ma anche positivo. La contrapposizione con il mondo cinese è netta, il disordine dell’itinerario corrisponde alla mancanza etico e politico dei paesi attraversati. Purtroppo sono scarse ell’opera di Odorico le informazioni sulle modalità di popolamento nella penisola indiana. Anche i racconti di Marco Polo, che tocca i luoghi dell’Oceano Indiano in maniera fuggevole, sono occasione di racconti fantastici. Ma a fianco degli elementi di pura fantasia il veneziano recupera elementi di accorte considerazioni sulle concrete condizioni di vita in quella terra e sulle sue ricchezze. Elenca le innumerevoli risorse economiche e naturali: sono le isole delle spezie, dei legni pregiati, come il verzino e il sandalo. Si trattava di isole coperto da un fitto manto boschivo, che rappresentava forse la loro risorsa economica primaria, con pochi insediamenti, in genere scali portuali frequentati dai mercanti mussulmani, cinesi, indigeni: città li chiamava il veneziano. Al di fuori tutto era selvatico, nulla aveva più a che fare con la civiltà. Ma chi molte isole dell’Oceano Indiano e la stessa India ha visitato in prima persona e ci ha fornito importanti testimonianze di molti aspetti della vita quotidiana di quei paesi è stato Abu ‘Abdallah ibn Battuta (1304‐ 1368/69), il gran viaggiatore per eccellenza in terra d’Islam. Era arrivato via terra in India, dove era rimasto per dieci anni, dal 1333 al 1343; prima come ambasciatore della corte di Delhi e poi per conto proprio, aveva deciso di visitare la Cina e vi si era diretto via mare, toccando durante il suo viaggio isole e scali commerciali. Le prime isole raggiunte furono le Maldive, dove aveva soggiornato per due anni. Esse erano abitate da una popolazione dedita alla pesca e ai commerci marittimi, convertita all’islam verso la metà del XII secolo. Ibn Battuta ci informa che non c’erano città vere e proprie; l’unico insediamento vero e proprio e degno di nota e ra sull’isola di Male; dove vi era il palazzo della regina Khadija. Le isole erano unite sotto una monarchia ereditaria. Si trattava di una costruzione interamente in legno, con il tetto di paglia, come a maggior parte delle abitazioni. Meglio organizzata apparve l’isola di Ceylon. L’estrema semplicità costruttiva delle abitazioni delle isole è confermata anche da un altro viaggiatore, il mercante veneto Nicolò di Conti, che indica le case dell’isola di Sumatra come molto basse per ripararsi dall’ardore del sole. Sulla stessa linea è Ludovico di Varthema, italiano. Nell’isola di Sumatra ricca di legname pregiato, su cui si sofferma a lungo ci dice che le casesono murate in pietra e non sono molto alte, e gran parte di esse sono coperte di scorze di tartaruga di mare. Quindi caratteristica comune delle case isolane era quella di essere molto basse e sviluppate a pianterreno. Solo le città, gli insediamenti maggiori sono valutati in primo luogo per la loro capacità demica e per le loro potenzialità da Nicolò. Ludovico di Varthema agli inizi del Cinquecento è più concreto nella descrizione degli insediamenti che visita in India. Un città emerge su tutte: Calicut, sulla costa del Malabar, dove nel 1498 era sbarcato l’ammiraglio portoghese Vasco de Gama. É definita una grandissima città e ne fornisce una descrizione urbanistica e abitativa. Calicut è in terra ferma, non vi è un porto, ma un fiume la collega al mare, non ha mura intorno le case sono separate l’una dall’altra per prevenire gli incendi, i muri sono alti quanto un uomo a cavallo, sono coperte di foglie e non hanno più piani, questo perché appena si scava si trova acqua, e quindi non è possibile fare fondamenta tali da sorreggere grossi muri. Nella città vi era anche il palazzo del re, pieno di ricchezze, dalle mura molto basse, lungo circa un miglio, con tramezzi alle camere bellissimi e di legname intagliati da rilievi, il piano della casa è imbrattato con sterco di vacche per onorificenza. Vi erano molte stanze e camere, e molti lumi. Oltre alle pietre preziose e alle ricchezze a colpire l’italiano è l’abbondanza delle luci che di notte illuminavano la sala delle udienze, considerata simbolo di lusso e di sfarzo. Ibn Battuta è arrivato in India via terra e ci ha lasciato importanti notazioni sulla parte continentale del paese. Della capitale Delhi, Ibn Battuta ce ne fornisce due immagini discordanti: in una parte della Rihla la descrive come una vasta e grandiosa città, in un’altra parte come vuota e spopolata. La contraddizione dovevariflettere la fondazione della nuova capitale Daulatabad. La prima Delhi mussulmana era solo un campo fortificato all’interno della vecchia città indù; qui fu costruita la moschea pubblica e un complesso di mausolei, oltre a una grande torre in blocchi di arenaria. Questo materiale da costruzione dominava negli edifici pubblici, civili e religiosi, attorno ai quali si ammassavano le abitazioni, intersecate da stretti vicoli. Ibn Battuta ci descrive anche Daulatabad, nel periodo in cui era già decaduta dal ruolo di capitale, anche qui l’arenaria dominava negli edifici pubblici. Questa città era composta di due parti: una cittadella fortificata, Deogir, ubicata sulla sommità di un’altura di granito con pareti a strapiombo e la città vera e propria, che si estendeva a sud e a est del castello ed era circondata da una cinta muraria di quattro chilometri. L’area islamica Nel Trecento, il pensatore tunisino Abd az‐Rahman ibn Khaldun (1332‐1406), scrivendo i Prolegomeni, utilizzando come materia principale delle osservazioni le vicende della sua patria, devastata a più riprese dai nomadi beduini, elaborò una visione del divenire storico avente come tema centrale il ciclico scontro del mondo nomade e del mondo sedentario. I contatti tra nomadi‐pastori del deserto e delle steppe e le società stanziali da tempi lontanissimi si erano sviluppati all’insegna di un atteggiamento pacifico o all’insegna di una minaccia dei primi nei confronti delle seconde. Dal XVIII secolo a.C. e anche prima, ivasori nomadi si riversarono sugli insediamenti agricoli, saccheggiando città, devastando territori. L’ultimo grande movimento nomade si verificò nel XIII secolo d.C., con i Mongoli e i loro alleati turchi, che mossero dall’Asia centrale e, dopo aver conquistato Cina, Russia e gran parte del Medio Oriente, crearono un estesissimo impero. L’espansione araba verso il Medio Oriente portò i cavalieri del deserto a contatto con due grandi stati in crisi, l’impero bizantino e quello sassanide. Antiche città furono conquistate e abitate, nuovi centri urbani vennero fondati: all’inizio semplici campi militari, poi vere città. Tra VIII e XI secolo il mondo mussulmano fu teatro di un prodigioso rigoglio urbano. Da Samarcanda a Cordova la civiltà musulmana è una civiltà urbana notevolmente unita. Il mondo mussulmano ha quindi l’aspetto di una serie di piccole isole urbane collegate tra loro da linee commerciali. Dall’XI al XVI secolo si assistette a una continua espansione dell’Islam, come fede religiosa e come modello coerente di civilizzazione. Oltre al perdurare dei tradizioni di vita nomadica che continuarono a persistere, quello che colpiva nel corso del Trecento i viaggiatori occidentali nel mondo ormai del tutto mussulmano, è sempre stata la presenza si grandi, popolose e ricche città, come lungo il corso del Nilo, tra Alessandria e il Cairo. Nel territorio che prima della conquista araba faceva parte dell’impero sassanide fu fondata ad opera del secondo califfo abbaside al‐Mansur, a partire dal 762 Baghdad, sullo sbocco nel Tigri del canale navigabile che lo collegava all’Eufrate. Il centro urbano è a pianta rotonda, raccolto intorno al palazzo principale, formato da una serie di cinte concentriche, tra le quali furono costruite le abitazioni dei familiari del principe e dei privati, racchiuso entro un bastione murario munito di 360 torri, quattro porte d’accesso e un fossato, intersecato da quattro grandi strade. L’estensione della città alla fine del X secolo raggiungeva i 10 km per 9. Nel XII secolo, l’ebreo Beniamino di Tudela, visitò Baghdad e ne rimase impressionato, la descrive come una “magna urbs”, con all’interno il palazzo del califfo che si estendeva per tre miglia, con un parco delimitato da mura contenente svariati generi di alberi e animali e un lago formato dal fiume Tigri. Altre città della Mesopotamia erano state edificate tenendo conto della rete fluviale. Il principale materiale da costruzione non poteva che essere l’argilla dei terreni alluvionali, che veniva seccata al sole in forme prestabilite o cotta nel forno. Il legno era raro; bisognava importarlo dall’Armenia, dalla Siria e anche dalla lontana India. Le zone ricche di selve erano molto ristrette nel mondo mussulmano, che aveva un gran bisogno di legname non solo per le attività edificatorie e decorative, ma anche per quelle industriali, per le irrigazioni, per costruire le navi. Cosi il prezzo del legname era molto alto. Anche la pietra era poco utilizzata. Le mura delle abitazioni erano solitamente di mattoni, ricoperti internamente di rivestimenti di gesso scolpito e dipinto o più frequentemente di piastrelle di maiolica decorata. L’argilla dominava non solo per i mattoni, ma anche per la terra cotta verniciata e smaltata dei rivestimenti murali, delle ceramiche, del vasellame. Se Baghdad fu la capitale degli Abbasidi, Damasco lo fu precedentemente per la dinastia omayyade. Nel XII secolo Beniamino di Tudela ne parlava come di una “urbs maxima”, circondata da mura, fitta di orti e giardini, piena di botteghe e attiva negli scambi. Il prete tedesco Ludolph von Suchem, che vi soggiornò nel 1340 la ricordava come una città nobile, gloriosa e bella, ricca di merci, cibo e spezie, circondata da giardini e frutteti, alimentata da acque, fiumi, ruscelli e fontane, incredibilmente popolosa. Poco dopo il frate Niccolò da Poggibonsi vi aggiunse interessanti notazioni: Damasco è tutta in piano, le strade illuminate da lampade, le case altissime, fate di legname, ma non sembra perché dentro sono colorate di azzurro e sotto lavorate a mosaico. Ai piedi della città c’è un grande castello circondato da alte mura. Nessun signore e nessun povero cuoce in casa, questo avveniva per la carestia di legname, nelle piazze vi erano moltissimi cuochi che cuocevano per tutti. Nei territori ex bizantini ebbero notevole sviluppo in Egitto i due centri di Alessandria e del Cairo. Il Cairo era grandissima, 32 miglia. Non era circondata da mura. Le grandi dimensioni erano dovute al fatto che oltre a essere nel Trecento la capitale del regno mamelucco e residenza di quasi tutta la classe dominante turca, era il punto d’incrocio delle vie commerciali e di traffico dal Mar Rosso al Nilo, dal Maghreb e dall’Africa. Nella città vi era il castello del sultano, con alte mura e torri spesse, chiese e moschee, piazze, mercati, abitazioni di cui si ricorda soprattutto l’altezza, e al di la del Nilo i cosiddetti “granai del faraone”, le piramidi. Per le opere pubbliche gli architetti
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