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Riassunto del libro: Viva l'Italia, Sintesi del corso di Storia Delle Dottrine Politiche

riassunto dettagliato dei vari capitoli

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019
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Caricato il 25/05/2019

lorenzo_puglielli
lorenzo_puglielli 🇮🇹

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Scarica Riassunto del libro: Viva l'Italia e più Sintesi del corso in PDF di Storia Delle Dottrine Politiche solo su Docsity! Capitolo 1: Contraddizioni del miracolo economico e il Sessantotto Mentre il Paese iniziava a toccare con mano gli effetti del boom economico, a Genova si formava un piccolo circuito di giovani autori musicali: Tenco, Bindi, Paoli, De André. Questa prima generazione di cantautori fu attenta osservatrice del cambiamento del Paese e seppe denunciare le contraddizioni del miracolo economico. La canzone d’autore cercava di dare voce a quella parte della società critica dei cambiamenti socioculturali apportati dal miracolo e, dunque, politicamente contraria agli accordi di centrosinistra. Attraverso l’analisi di questi testi è possibile cogliere come l’affermazione degli effetti del boom portasse da una parte della cultura giovanile ad elaborare una risposta etico-politica a quanto stava accadendo nella società italiana: tale risposta passava attraverso una rivalutazione dei critici e degli esclusi dal miracolo, presi a modello di quella parte della società che non intendeva piegarsi di fronte alla logica capitalistica dell’arricchimento e del benessere ad ogni costo. Si cominciarono a percepire segnali di insofferenza verso il primato dell’arrivismo e della continua ricerca del profitto. Quest’ultimi furono evidenziati da due canzoni: una di Tenco e una di Ciampi e successivamente anche altri cantautori mostravano la medesima sensibilità; l’anarchico Guccini con “L’antisociale” nel quale si stigmatizzavano tutte le icone del boom economico. Una polemica meno connotata politicamente, ma di taglio essenzialmente generazionale, contro i miti dell’estate si ritrova in una celebre canzone di Guccini, Dio è morto, nella quale si invitavano i giovani a costruire un nuovo mondo ripudiando gli orrori della guerra, il totalitarismo e gli inganni della società del benessere. Un altro tema al centro dell’attenzione d’autore era un fenomeno tipico dell’Italia degli anni 60: l’emigrazione. A questo argomento i primi cantautori avrebbero dedicato testi via via più significativi. Nel gennaio del 1967 Tenco aveva dato l’ultimo commiato al suo pubblico presentando al Festival di Sanremo un brano che, dietro le sembianze di una canzone d’amore, celava un testo denso di riferimenti allo sradicamento dal mondo rurale e all’alienazione della vita cittadina: “Ciao Amore Ciao”. La critica delle contraddizioni del miracolo doveva, però, realizzarsi soprattutto attraverso l’accorata denuncia dell’ipocrisia della borghesia, lanciata da un lato in una spregiudicata corsa all’arricchimento, ma ferma dall’altro su di un’etica arcaica e sorda ai cambiamenti e al progresso sociale. Archetipo di questa canzone può essere considerato un brano di Tenco del principio del decennio, nel quale si anticipava la critica del concetto di autorità tipica della contestazione del Sessantotto, “Cara Maestra”: in questo testo si demolivano ad uno ad uno i tre pilastri dell’edificio sociale, scuola, chiesa, istituzioni pubbliche. Con la Democrazia Cristiana perno degli equilibri politici, era naturale che la canzone d’autore non mancasse di evidenziare anche l’influenza della chiesa cattolica sulla politica nazionale. Ciò accadeva all’indomani della chiusura del Concilio Vaticano II. Un evidente riferimento a questo evento era contenuto in una canzone di Gaber: “La Chiesa si rinnova”, nella quale si ironizzava sui modesti risultati dell’incontro conciliare. Che la canzone colta stesse fornendo una lettura a tutto campo dei cambiamenti in corso nelle abitudini e nei modelli comportamentali degli italiani è confermato dall’insistenza di molti cantautori su temi e problemi legati all’etica privata e pubblica. L’avvio della contestazione ed il ritorno in auge della canzone politica dovevano costituire un serio banco di prova per la prima generazione di cantautori, la quale vide improvvisamente minacciata la propria capacità di appeal sulle masse giovanili. Nell’immaginario giovanile la categoria del pubblico stava prendendo il sopravvento su quella del privato e la canzone politica si dimostrava molto più attrezzata di quella d’autore nel dare voce a tale cambio di prospettiva. I cantautori che avevano scelto una cifra espressiva dichiaratamente “impegnata” riuscivano a restare al “passo con i tempi” e a fornire il proprio originale contributo di riflessione su temi e immagini della contestazione. Tra i cantautori della prima generazione erano in particolare De André e Gaber a fornire una lettura del Sessantotto italiano. Nei cantautori impegnati della prima generazione sembrava serpeggiare una visione fortemente critica degli esiti della contestazione; quali agenti di senso comune storico i brani dei cantautori cominciavano a veicolare una lettura secondo la quale alla fase della purezza erano presto subentrati il cinismo e la spregiudicatezza di quanti avevano sfruttato a propri fini il coraggio speranzoso e candido dei giovani italiani. Ad esempio, Gaber dopo aver cantato la purezza del sogno collettivista dei primi movimenti passò poi a descrivere la frustrazione di chi si rendeva conto che la purezza ed il candore nono erano serviti a nulla. Simili giudizi si trovano anche nei testi di alcuni cantautori “disimpegnati” e dei cantautori “impegnati” di seconda generazione; Venditti descriveva con amarezza la facilità con la quale gli agitatori di destra e di sinistra mettevano da parte l’ideologia quando si trattava di frequentare le feste ed i salotti. De Gregori invece stigmatizzava i risultati rivoluzionari raggiunti dai movimenti. Con gli anni la visione dell’eredità della contestazione veicolata dai cantautori andava ulteriormente radicalizzandosi in senso negativo. Il livore (astio-rancore) di Gaber va letto alla luce della degenerazione che i movimenti avevano avuto nel 1977 ed inserito nel quadro dell’attacco terrorista al cuore dello Stato culminato con il rapimento di Moro. Negli anni successivi l’acredine (disprezzo, rancore) cantautorale contro le degenerazioni del Sessantotto andava via via attenuandosi e si tramutava in una visione nostalgica di un’età dell’innocenza che non aveva dato i frutti sperati ma che, dal punto di vista sentimentale, restava irripetibile. Nella lettura cantautorale la visione progressivamente più negativa della contestazione si era col tempo tramutata nella narrazione di un grande sogno incapace di generare costruttivi risultati, non si smussavano invece i toni della stigmatizzazione delle contraddizioni del boom economico. Per i cantautori “disimpegnati” queste si traducevano nella narrazione di una transizione violenta e scomposta da un passato rassicurante ad un futuro caotico e inquietante. I cantautori “impegnati”, invece, leggevano le contraddizioni del boom economico attraverso i mali atavici della società capitalista incarnati dalla precarietà della condizione operaia, fatta di fatica sottopagata e di emigrazione. In tal senso i cantautori meridionali riprendevano il tema dell’emigrazione, saldandolo a quello della povertà e dell’arretratezza del Mezzogiorno: Bennato, Pino Daniele, Rino Gaetano; la medesima narrazione assumeva contorni maggiormente politicizzati in autori settentrionali come Dalla e Jannacci. Nella lettura cantautorale la narrazione delle contraddizioni del miracolo economico andava sostanziandosi in una più generale critica del sistema capitalistico; questa tendenza appare palese in due album di Bennato e De Gregori. Il primo descriveva la società capitalistica come una moderna torre di Babele, il frutto avvelenato di un progresso fondato sull’imperialismo, letto all’indomani dello shock energetico come aggressione e sfruttamento dei Paesi produttori di petrolio e sulla guerra. Lo scintillante mondo occidentale veniva cosi descritto come un gigantesco paese dei balocchi basato su una falsa libertà. La società capitalistica di Bennato era perfettamente rappresentata dall’immagine di un autobus impazzito, lanciato verso il precipizio, ma sul quale l’umanità obnubilata (offuscata) continuava a fare festa. In modo del tutto simile De Gregori utilizzava la metafora del naufragio del Titanic per descrivere la società capitalista come un transatlantico spinto da uno smisurato ottimismo verso un inevitabile impatto contro l’iceberg delle proprie contraddizioni. Capitolo 2: I movimenti giovanili e la lotta armata Affievolitasi la prima fiammata della contestazione, al principio degli anni Settanta i cantautori “impegnati”, fossero essi di prima o di seconda generazione, vedevano crescere il proprio successo, proponendo canzoni che affrontavano diversi temi rivelatisi centrali nella cultura e nell’immaginario dei giovani contestatori: la partecipazione ai movimenti collettivi, il concetto di autorità e il ruolo della violenza. Se la contestazione aveva posto come centrale il nodo del rifiuto del concetto di autorità, insistendo sulla critica ad istituzioni che rappresentavano l’autorità per il mondo giovanile. La famiglia, oggetto degli strali della canzone d’autore negli anni Sessanta, non veniva dunque posta indistintamente sul “banco degli imputati” dai cantautori del decennio successivo. Altri ancora agli albori del nuovo decennio, avrebbero descritto il difficile rapporto tra padri e figli nella società postindustriale attraverso le parole rivolte da un Del leader socialista la canzone d’autore stigmatizzava principalmente lo “stile”, emblema dell’assoluta discontinuità del “nuovo” PSI con la tradizione della sinistra italiana; il dinamismo, la spregiudicatezza e l’ottimismo craxiano, dunque, cominciavano ad entrare nei testi dei cantautori. L’affermazione del craxismo stava progressivamente portando i cantautori a modificare la propria visione della società italiana; negli anni precedenti, infatti, essi avevano elaborato una narrazione nella quale alla latitanza della politica e all’arroganza dei potentati economici faceva riscontro un corpo sociale ancora sano e saldo nei suoi valori fondanti: il lavoro, la solidarietà, l’antifascismo. Era questa, in particolare, la visione che era stata veicolata, sul finire del decennio precedente, da De Gregori con “Viva l’Italia”. De Gregori ha saputo cogliere i primi sintomi della tempesta che si sarebbe abbattuta sul sistema politico con la stagione di Tangentopoli ed articolava la propria narrazione sulla descrizione di uno scenario politico contraddistinto da una totale assenza di progettualità da parte della coalizione di governo unita ad una crescente e dilagante immoralità nella gestione della cosa pubblica. In una fase nella quale i cantautori si interrogavano sull’evoluzione del quadro politico del Paese e sul ridefinirsi dei suoi valori e del suo immaginario collettivo, gli avvenimenti internazionali del 1989 dovevano repentinamente catalizzare la loro attenzione; in particolare la riflessione della canzone d’autore si orientava sul crollo dei sistemi comunisti e sui dilemmi posti all’Italia dai nuovi equilibri mondiali da questo crollo originati. Fabrizio De André nel 1990 pubblicava una canzone, “La Domenica delle salme”, nella quale si descriveva il collasso del comunismo e, insieme a questo, quello della democrazia italiana. Nella visione dell’artista genovese, mentre la parte sana del Paese protestava invano per la crisi irreversibile delle istituzioni repubblicane, il mondo subiva l’assestamento di una “pace terrificante”, basata sul nuovo equilibrio monopolare, nel quale il presidente statunitense George Bush senior veniva rappresentato come “scimmia” del Quarto Reich. Su di una linea simile si poneva Venditti in un brano dedicato a Berlinguer,” Dolce Enrico”, il cantautore rilevava come l’assestamento del monopolarismo mondiale avesse sanzionato il trionfo dell’ingiustizia capitalista, e nel piccolo del nostro Paese, l’incancrenirsi di una situazione di immobilismo, immoralità e di oscure pratiche del potere, simboleggiate dal mancato accertamento della verità sulla strage di Ustica. Di segno diametralmente opposto era la lettura di Dalla; all’interno del suo album appariva “comunista”, nella quale il cantautore bolognese leggeva i recenti avvenimenti dell’Europa orientale proclamando di voler cantare la sofferenza degli ultimi non in nome di un’ideologia, ma in virtù della propria pietà cristiana. Nello stesso anno, l’anticomunista Bennato leggeva, invece, la fine del comunismo internazionale in una chiave tutta polemica verso i comunisti italiani, ai quali rimproverava di aver finto per anni di non vedere quanto il totalitarismo sovietico avesse sistematicamente oppresso la libertà, i sentimenti e la creatività dell’individuo. Capitolo 4: Il crollo della “Prima Repubblica” e il tramonto delle culture politiche Gli avvenimenti nazionali ed internazionali avevano dato nuova linfa ai processi creativi dei cantautori, materializzandosi in tre temi che si sarebbero rivelati centrali nella produzione dei primi anni Novanta. Il primo di questi era quello dei nuovi flussi migratori che stavano per investire il Paese con il crollo della “cortina di ferro”, tema che soppiantava quello delle migrazioni interne che aveva dominato nella canzone d’autore negli anni Sessanta e quello delle migrazioni transoceaniche e dell’emigrazione verso i Paesi europei nel secondo dopoguerra. Dalla metà degli anni Ottanta l’emigrazione cominciava ad essere declinata in una chiave totalmente diversa; i cantautori “impegnati” coglievano con lucidità quanto il ridefinirsi degli equilibri mondiali stesse rendendo sempre più permeabile la nostra frontiera mediterranea. Nel 1987, un brano di De Gregori,” Nero”, inaugurava questo filone, descrivendo causticamente l’accoglienza riservata ai primi immigrati africani nel nostro Paese. La caduta del muro di Berlino, poi, aveva spinto la canzone d’autore ad interrogarsi in particolare sui flussi di immigrazione provenienti dall’Est europeo; già all’alba del decennio, con l’Unione Sovietica ancora esistente e la guerra in Jugoslavia non ancora scoppiata, De André stigmatizzava lo sfruttamento che l’Occidente opulento faceva dell’appena liberato Est europeo, giustapponendo l’immagine degli spregiudicai affaristi occidentali a quella dei nuovi immigrati che popolavano le nostre strade. Un altro tema che entrava di prepotenza nella produzione cantautorale del principio del decennio era quello della sempre maggiore pervasività delle associazioni malavitose nella vita politica ed economica del Paese. Ad aprire la strada era De Gregori, il quale in un già menzionato brano del 1989 lanciava un’invettiva a tutto campo contro la classe politica al potere e pronosticava provocatoriamente che ini un futuro non lontano il legame mafia-politica potesse a tutti gli effetti istituzionalizzarsi. L’anno successivo De André descriveva lo sfacelo della società italiana, stretta in un tale clima di immoralità e di illegalità da spingere un rappresentante delle istituzioni a cercare aiuto in uno dei principali nemici di quelle istituzioni medesime. Protagonista della canzone, “don Raffaè”, era un agente di polizia penitenziaria di Napoli. Il don Raffaè in questioni altri non era che Raffaele Cutolo, il fondatore della nuova camorra organizzata, descritto alla metà degli anni Ottanta, durante il maxiprocesso alla camorra. All’indomani degli attentati del 1992 contro i giudici Falcone e Borsellino, l’attenzione di tutte le arti popolari si indirizzava repentinamente verso il tema dell’attacco mafioso al cuore dello Stato; in questo drammatico passaggio della storia nazionale i cantautori “impegnati” preferivano centrare l’attenzione sugli “ultimi” e leggere il trauma delle stragi mafiose attraverso la cartina al tornasole delle “piccole” storie individuali. Agli agenti di scorta degli uomini dello Stato impegnati nella lotta alle grandi organizzazioni malavitose erano dedicate anche “Signor tenente” di Giorgio Faletti e “Eroi minori” di Antonello Venditti. Un altro tema posto al centro dell’analisi era l’irreversibile crisi del sistema politico avviatasi con l’inizio della drammatica stagione di Tangentopoli. Di fronte alla tempesta giudiziaria che si stava abbattendo sui partiti e sui loro leader, i cantautori veicolavano due diverse narrazioni: una incline a giudicare tutta la classe politica come una indiscriminata accolita di malfattori ed un’altra orientata a mettere sul “banco degli imputati” solo i rappresentanti dei partiti di governo. Era il 1995 e lo straordinario successo elettorale della coalizione di centro destra stava generando una personalizzazione nel dibattito politico-culturale e con essa una profonda frattura etico-politica tra berlusconiani ed antiberlusconiani; in un tale contesto, i cantautori “impegnati” avrebbero presto smarrito passione politica ed ispirazione artistica. Tale smarrimento doveva in parte essere imputato alla crisi generazionale causata dall’inesorabile passaggio del tempo; “veleggiando” orma tra i quarantacinque e i sessant’anni di età, infatti, i cantautori “impegnati” dovevano porsi il problema del rapporto con il proprio pubblico e, in particolare, interrogarsi sulla propria capacità di appeal sulle nuove generazioni. In un mercato musicale sempre più spettacolarizzato, nel quale la musica aveva perso di centralità a favore dell’immagine, in effetti, il cantautore appariva ormai inevitabilmente vecchio e paludato se paragonato ai nuovi divi del pop e del rock. Con il suo globalizzarsi, l’hip-hop tenderà a perdere il suo originario carattere di musica di protesta, ma nella specifica realtà dell’Italia della metà degli anni Novanta “una generazione post-politica rispondeva con la musica al collasso dei linguaggi della politica” ed elaborava nuove narrazioni della storia repubblicana. Il crollo del comunismo internazionale aveva sancito lo sgretolamento del sistema dei partiti italiano in quanto oltre a colpire la cultura, l’immaginario e le prospettive strategiche del PCI, aveva portato un colpo decisivo anche al partito cardine del sistema italiano. La funzione storica di catalizzatore dell’anticomunismo svolta quasi per mezzo secolo dalla DC era venuta meno e la necessità dell’unità politica dei cattolici italiani. Dopo il crollo del muro di Berlino e dopo Tangentopoli tutti i partiti italiani avrebbero dovuto riconsiderare i propri sistemi ideali ed aggiornarli attraverso l’elaborazione di rinnovate interpretazioni della realtà. Nelle famiglie politiche, invece, si assisteva ad una sorta di rinuncia a costruire nuove identità; in sostanza, nessuna nuova cultura politica emergeva dalle macerie del sistema di valori comunista e democristiano e lo stesso si poteva dire a proposito delle aree liberale e socialista. Le culture politiche si erano formate in un’epoca storica nella quale i cittadini possedevano un sapere basato sul linguaggio e, dunque, sulla capacità di astrazione concettuale: nel corso degli anni Ottanta, invece, era andata progressivamente imponendosi una cultura prevalentemente audio-visiva che avrebbe trovato il suo apogeo in Italia berlusconiana. Di fronte al trionfo dell’immagine sulla parola, i cantautori “impegnati”, che avevano sempre chiesto ai propri ascoltatori di essere anche lettori dei propri testi, entravano in una irrimediabile crisi di identità che metteva in discussione la loro funzione socioculturale di artisti. Alla metà del decennio, dunque, mentre i meno restii a “gettare la spugna” dell’impegno cercavano ancora di cogliere i temi e problemi del grande dibattito politico, uno dei due cantautori “impegnati” che si stava rendendo protagonista di una vera e propria “svolta pop” poteva cantare che “in questa nuova Repubblica non mi somiglia nessuno”. Era una verità amara ma insindacabile: la “Seconda Repubblica” senza partiti tradizionali e senza culture politiche non somigliava più ai cantautori “impegnati” e questi, dal canto loro, somigliavano sempre meno alle nuove generazioni di consumatori di musica. I loro testi stavano, dunque, per uscire dai dischi e per entrare nei saggi accademici e nelle antologie scolastiche, passando così dal rango di prodotto commerciale a quello di patrimonio culturale del Paese. Capitolo 5: Un ultimo spazio di agibilità – la memoria dell’antifascismo Se alla metà degli anni Novanta la crisi generazionale ed il tramonto delle culture politiche stavano decretando la crisi del cantautore “impegnato” e del suo ruolo nella società italiana, l’evoluzione in atto nel quadro politico doveva ancora offrire un residuale terreno di agibilità per la canzone d’autore “impegnata”. Il governo Berlusconi si configurava come primo della storia repubblicana ad essere privo di un legame diretto con l’eredità antifascista, essendo formato da due soggetti lontani dal patrimonio storico dell’antifascismo: Forza Italia e Lega Nord e MSI. Tanti artisti, in questa situazione, si schieravano al fianco di quelle forze politiche decise a difendere le radici antifasciste della Repubblica; allo stesso modo, i cantautori “impegnati” avrebbero riscoperto l’antifascismo, un tema che aveva sempre aleggiato nei loro testi ma che all’alba del nuovo millennio sarebbe divenuto centrale nelle composizioni di alcuni di essi. I canti della Resistenza che nel tempo meglio riuscirono a fissarsi nella memoria e nella cultura popolare furono quelli che erano stati maggiormente capaci di veicolare la visione delle principali aree politico culturali di riferimento per i combattenti partigiani. Relativamente ai canti di area social-comunista gli esempi potrebbero essere tanti: i più celebri sono “Dalle belle città” e “Fischia il vento”. Relativamente alla visione di Giustizia e Libertà può essere utile ricordare la “Badoglieide” che anticipava le tesi sostenute dagli storici di area azionista all’indomani della liberazione; la canzone si presentava come una violenta requisitoria contro l’Italia legale di casa Savoia e del governo Badoglio. Dopo che nel decennio post-liberazione questa eredità era andata consolidandosi negli ambienti della sinistra italiana, soprattutto grazie al partito comunista, tra la fine degli anni Cinquanta e agli inizi degli anni Sessanta, nel clima di maturazione del centrosinistra, nella cultura e nell’immaginario collettivo cominciava ad affermarsi una diversa lettura della guerra partigiana, quella incarnata da “Bella ciao”. Questa canzone rappresentava meglio di altre lo spirito di concordia e unità nazionale attorno ai valori dell’antifascismo e riusciva a diffondersi in molteplici ambienti risultando col tempo gradita anche alle forze armate; tutto ciò le consentiva di accreditarsi come una sorta di “canzone ufficiale” della Resistenza. A reagire polemicamente contro questa tendenza ad una visione unitaria della lotta al nazifascismo erano alcuni intellettuali legati al PCI e alla sinistra socialista i quali davano vita a Canta-cronache, un gruppo che
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