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Riassunto del libro "Voci dai secoli oscuri" di Stefano Gasparri, Sintesi del corso di Storia Medievale

Riassunto del libro "Voci dai secoli oscuri" di Stefano Gasparri

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

Caricato il 11/12/2021

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Scarica Riassunto del libro "Voci dai secoli oscuri" di Stefano Gasparri e più Sintesi del corso in PDF di Storia Medievale solo su Docsity! Voci dei Secoli Oscuri Capitolo | - Paolo Diacono Biografia Nacque circa nel 720 a Cividale e morì nel 799 a Montecassino. Era friulano. Suo trisavolo era Leupchis, che arrivò dalla Pannonia insieme ad Alboino e si stanziò a Cividale. Il suo bisnonno Lopichis fu deportato in Pannonia dagli Avari e fece ritorno a Cividale solo da adulto, dove ricostruì la sua vecchia casa. Suo nonno era Arechi, suo padre Warnefrit e sua madre Teodelinda. Passò alcuni anni alla corte di Ratchis a Pavia. Diventa maestro di Adelperga, figlia di Desiderio. A lei dedica la Historia Romana. Rimase anche parecchi anni alla corte di Carlo Magno a partire dal 781 per cercare di intercedere per il fratello Arechi dopo la sconfitta subita con la rivolta del Friuli guidata da Rotgaudo, rivolta nata a causa della conquista di buona parte dell’Italia da parte di Carlo Magno nel 774. Da qui andò via nel 786 per recarsi nel monastero di Montecassino. Probabilmente la Historia Longobarda fu scritta per Adelperga, tra il 780 e la sua morte. Alboino e l’Italia Alboino riuscì ad entrare senza ostacoli nei confini di Venezia, nei territori del castello di Cividale decise di affidare la provincia appena conquistata a Gisulfo, suo nipote scudiero. Gisulfo accettò solo dopo che il re gli assegnò le migliori fare longobarde affinchè vivessero con lui. Queste sono garanzie per potersi difendere dagli Avari essendo Cividale la prima provincia dopo il confine. Riceve il titolo di Duca. Alboino, intanto, discese fino al Piave dove incontrò il vescovo di Treviso, Felice. Alboino, però, con un decreto, gli permise di tenere tutti i beni della chiesa. Conquistò anche Milano e Pavia, che diventerà la capitale del regno. Alboino verrà assassinato dalla moglie Rosmunda e da Elmichi. Paolo Diacono e Secondo di Non Elmichi e Rosmunda, col tesoro del re, fuggirono a Ravenna dal bizantino Longino, che in breve tempo li fece uccidere entrambi. Clefi, successore di Alboino, fu assassinato solo dopo due anni. Seguì un interregno durato 10 anni (574-584) in cui furono i duchi a governare che si sparsero per il Nord e Centro Italia senza organizzazione. Nel 584 venne eletto re il figlio di Clefi, Autari. | duchi gli cedettero metà di tutti i loro beni per poter costituire un patrimonio regio. Per la storia più antica del regno, Paolo si basava su una “historiola” scritta da un certo Secondo di Non. Altre fonti che usò furono una cronaca anonima e l'"Origine del Popolo Longobardo”. Tornando a Clefi, essi aveva fatto uccidere numerosi romani per reazione al complotto bizantino contro Alboino. La maggior parte della popolazione era stata resa tributaria e doveva pagare un terzo dei frutti della terra, le cosiddette hospitalitas. Non si parla affatto di totale asservimento della popolazione italica da parte dei Longobardi. Autari usò l’appellattivo “Flavio” per porsi come legittimo successore dell’autorià imperiale e non solo come capo dei militari occupanti. Paolo scrive che in questo periodo non ci furono oppressione e violenza. Le altre fonti di Paolo “Per opera di questi duchi, nel settimo anno dall'arrivo di Alboino e di tutta la sua gente, l'Italia fu per la massima parte presa e soggiogata dai Longobardi, dopo aver spogliato le chiese, ucciso i sacerdoti, rovinato le città e decimato le popolazioni che erano cresciute come messi sui campi.” Quando Paolo scrive ciò non segue più Secondo di Non, ma Gregorio di Tours e papa Gregorio Magno, ma le testimonianze del primo non possono essere precise perché lui stanziava molto lontano dall'Italia, mentre quelle del secondo hanno più carattere apocalittico che storico. Effettivamente, però, il periodo ducale fu un periodo di guerra e violenza. In quel periodo dal Nord la conquista longobarda si estese a sud degli Appennini: Toscana, Spoleto e Benevento le conquiste più importanti. Invece, i Longobardi furono respinti dai Franchi quando tentarono di conquistare la Gallia. L'espansione riprese con Agilulfo nel 590. Conclusioni: no all’interpretazione catastrofica I disastri della guerra nei primi anni della conquista longobarda, e in particolare nel decennio ducale, furono durissimi, certo, ma non rappresentarono una catastrofe immane. Infatti, Agilulfo fu convinto da papa Gregorio Magno, ad abbandonare l'assedio che stava per scagliare su Roma. Nel 600 stipularono una pace. Capitolo 2 - Arezzo contro Siena Le inchieste di re Liutprando Si sono conservati tre documenti di tipo giudiziario ordinati da re Liutprando tra 714 e 715: il primo è la “notitia”, la registrazione di un giudizio pronunciato nel 714 dal suo maggiordomo Ambrogio. Il maggiordomo era un collaboratore del re. Amministrava la casa del re. Nel secondo il notaio Gunteram compie una complicata inchiesta sulla vicenda precedente. Nel terzo documento vengono riportate le conclusioni di questa vicenda. La contesa riguardava una giurisdizione su delle parrocchie che si contendevano le diocesi di Siena e Arezzo. Questa vicenda era già in corso da tempo e proseguì ancora per almeno due secoli. Questi documenti possono essere d'aiuto per comprendere il funzionamento concreto della società longobarda. territoriale che condizionava l'identità della popolazione, esisteva un forte attaccamento a punti di riferimento identitari e religiosi, che poteva portare a scontri come quelli tra Arezzo e Siena. Quindi, questi documenti ci permettono di conoscere molto di più della società longobarda e dicono molto di più di quello che c'è scritto sopra. Un documento eccezionale: il Rotolo n. 3 Tranne l'inchiesta di Gunteram, gli altri documenti riguardanti questa disputa sono conservati nel Rotolo n.3 dell'Archivio Storico diocesano di Arezzo. Questo rotolo è scritto sia sul fronte che sul retro ed è formato da cinque pergamene, cucite insieme sul lato corto. La sua lunghezza totale arriva a 2,19 metri. È stato confezionato tra IX-XI secolo. L'autore fu il notaio aretino Gezone. Potrebbe essere stato preparato per il concilio lateranense del 1059, per confermare il possesso dei territori da parte di Arezzo. Capitolo 3 - Storie di schiavi, servi e contadini La vicenda di Lucio Tra il 724 e il 729 fu pronunciato un giudizio contro un certo Lucio. Il ricordo viene da ventidue carte provenienti dalla Lombardi tra il 721 e l'877 riferibili ad un gruppo familiare di Campione d'Italia, il cui principale esponente era un certo Totone Il. Una di queste carte è quella relativa a Lucio. Il suo padrone era Totone I, già morto nel 744. Il giudizio riguarda la rivendicazione della propria libertà, a causa delle violenze inferte da Totone. Il documento ci permette di comprendere come funzionasse la servitù in epoca longobarda e la liberazione di questi schiavi. Nell’Editto di Rotari del 643 vengono presentate le diverse condizioni di liberazione: “fulcfree”, pienamente libero, “haamund”, totalmente indipendente dal padrone, “aldius”, semi-libertà. Il processo per liberare uno schiavo era molto complesso e richiedeva il passaggio di esso tra le mani di quattro uomini liberi. | servi non disponevano di guidrigildo, ossia il prezzo da pagare per riscattare un omicidio ed evitare la faida con i parenti dell’ucciso. Avevano il mundio, cioè il prezzo della propria persona. Lucio fu liberato in chiesa, pratica che era ritenuta valida dalle leggi di Liutprando. Ciò, però, valeva solo dal 721, cioè dopo la liberazione di Lucio da parte dei genitori di Totone e questo fu contestato dal giudice dichiarando che Lucio poteva al massimo essere considerato come aldio. Il giudice chiese a Lucio cosa avesse fatto per lui o per i suoi genitori. Lui rispose che aveva fatto delle corvèes come uomo libero e non servo. Però, non seppe indicare uomini a conoscenza della sua libertà al giudice, che ordinò quindi che Lucio che avrebbe dovuto continuare a fare ciò che aveva fatto nei trent'anni precedenti, senza che Totone potesse affidargli incarichi che non aveva mai svolto prima. Ciò mette in mostra che, nonostante spesso i più potenti avessero sentenze favorevoli, esisteva un sistema legale che dava sostegno anche ai più deboli. Il regno longobardo si reggeva quindi sul diritto pubblico garantito dal re e dai suoi ufficiali e non sul dominio privato dei potenti. Una famiglia toscana Esistono tre carte provenienti dalla Toscana che ci aiutano a capire meglio il ruolo e la natura della schiavitù nell'Italia dell'VIII secolo. Le tre carte provengono da Chiusi. Nella prima, del maggio 763, Candido, dotato di buona disponibilità economica, vende a due fratelli una donna insieme al figlio non ancora battezzato. Essi diventeranno ancella e servo dei nuovi padroni. Il prezzo fu di ventuno solidi. Successivamente un fratello fa una donazione ai due figli dell'altro, ormai morto, di tutte le sue proprietà, dopo la sua morte. La donazione verrà divisa se, ne frattempo, il donatore avesse dei figli. Dal documento si evince come la madre dei due figli fosse proprio la schiava che avevano comprato, migliorando così il proprio status. In epoca longobarda, era usanza dare un contro-dono di valore simbolico quando si riceveva una donazione di modo che non si creassero situazioni di superiorità. Nel documento non è chiara la condizione dei riceventi la donazione, poiché questo contro-dono è dato da un'altra figura a cui “non spetta altro che la vostra persona”. Questo documento mette in luce il complesso sistema di schiavitù e successioni dell’epoca longobarda. In un documento successivo, i due fratelli stipuleranno una sorta di contratto con Sabatino, abate di San Salvatore al Monte Amiata, trentanove anni dopo il precedente documento. In questo documento i fratelli vengono presentati come liberi, migliorando quindi il proprio status sociale che li vedeva come “non liberi”, con l'obbligo di risiedere in quella terra, esteso anche ai loro figli e ai figli dei figli. Inoltre, si impegneranno a fornire serivizio armato all'abate quando necessario. I servi di Santa Maria in Organo La vicenda riguarda un gruppo di servi che che si sottraggono ai lavori che devono svolgere nella contea di Trento, costringendo l'abate Audiberto, abate del monastero di Santa Maria a Verona, che possiede tali uomini, a rivolgersi a re Ludovico. Ludovico manda il giudice di palazzo Garipaldo a Trento dove, a palazzo ducale, incontra il messo del duca Liutfredo e un folto collegio giudicante. Il placito in epoca longobarda indicava sia il resoconto scritto della controversia, sia la riunione del collegio giudicante. In queste riunioni, almeno sulla carta, non si facevano differenze tra deboli (pauperes) e potenti (potentes), ma, in realtà, fra i placiti pervenutici, pochissimi vedevano la vittoria dei primi. A Trento, l'abate e il suo avvocato Anscauso, si confrontano con diversi contadini: tutti gli dicono che le corvèes fatte in passato non erano state svolte poiché loro erano servi, ma avevano una relazione clientelare con il monastero come uomini liberi. La corte concede agli accusati di trovarsi dei testimoni. Uno solo di loro ne troverà. La disputa finisce, in pratica, con un nulla di fatto: viene confermato il possesso delle terre al monastero, che però non era mai stato messo in dubbio. | contadini dovettero riniziare a svolgere le corvèes, che mai avevano negato di dover svolgere. Il nucleo della contesa era nella volontà del monastero di far riconoscere, attraverso le corvèes, la condizione servile di tali contadini. Questo tentativo fallisce e le corvèes riprendono poiché i contadini possiedono terre nelle proprietà del monastero. Questo placito mette in mostra la condizione migliorata dei contadini, non erano più poveri, anche se non erano ancora completamente liberi. La schiavitù di corpo e la signoria Era presente il commercio di uomini: Totone | di Campione d'Italia, acquista da Ermetruda, con il consenso del padre, uno schiavo, Satrelano; per dodici solidi, un prezzo piuttosto alto. Il commercio di schiavi proseguì per diversi secoli. Non ci sono pervenuti però molte fonti a riguardo per cui icile ricavarne una storia completa. Lo storico Marc Bloch denota una differenza tra servo e schiavo. Il primo è di epoca medievale, mentre il secondo risale all'antica Roma. Per loro però, non esisteva questa differenza poiché i mutamenti avvenivano così lentamente da essere quasi impercettibili. Non esisteva un unico tipo di schiavitù. Essa era caratteristica del mondo contadino, a causa del progressivo sviluppo di potere dei proprietari, le cosiddette “signorie”. La dipendenza divenne un tratto diffuso delle campagne, soprattutto dopo l'eta carolingia. In un capitolare dell'808 Carlo Magno afferma che esistono solo liberi o servi, ma in realtà non era così, c'erano molte gradazioni di libertà, e più del suo stato giuridico, pesava la realtà economica. Capitolo 4 - Salvarsi l’anima Le donazioni per la salvezza dell'anima Spesso, venivano fatte donazioni “pro anima”, fatte a chiese e monasteri per assicurare la salvezza dell'anima del donatore e dei parenti. Non venivano redatti in punto di morte. Oltre agli scopi spirituali, queste donazioni venivano fatte anche per assicuarsi la protezione di un potente. Solitamente queste donazioni scattavano dopo la morte del donatore, che in vita poteva godere ancora di ciò che avrebbe poi donato. I documenti riguardanti le donazioni non compaiono prima del secolo VIII, poiché sono state rese legali da Liutprando nel 713. La nascita delle donazioni “pro anima” coincide con l'avvio della conservazione della documentazione longobarda. Segue il documento della donazione “pro anima” di Rottopert, che dispone anche la costruzione di uno xenodochio, un ricovero per viandanti. Dispone anche la donazione del suo oro e del suo argento e dei suoi vestiti. Questi vengono detti “mobilia”, cioè gli oggetti mobili di proprietà familiare. Questi oggetti in precedenza venivano sepolti con il defunto, in moda da confermarne il suo stato sociale fino all'ultimo. Inoltre, alla morte, lascerà un importante usufrutto alla moglie Ratruda, a patto che ella non si risposi. Già nel 643 con le leggi di Rotari vengono messi per iscritto i diritti ereditari e con la legalizzazione delle donazioni agli enti ecclesiastici, i mobilia non vengono più sepolti ma donati ai poveri. Siamo tra VII e VIII secolo. Il documento dimostra che una donna poteva avere i mezzi per sopravvivere nello stesso rango che occupava il capofamiglia e avevano la possibilità di avere un ruolo dinamico nella gestione della ricchezza. Totone Il e Milano Un altro esempio viene da Milano, precisamente l’8 settembre del 777 e riguarda Totone, di una famiglia già nominata in precedenza. Totone decide che alla sua morte, la casa debba diventare uno xenodochio dotandolo di tutti i suoi beni. Stabilisce anche, donando duecento libbre d'olio all'oratorio di San Zeno ed altre chiese in minore quantità, che giorno e notte debba esserci almeno un lume acceso, siccome il buio in una chiesa faceva riferimento alla dannazione eterna. Con questa donazione a largo raggio data la distanza tra le chiese, Totone vuole avvicinarsi ai nuovi dominatori franchi. Il patto di Lotario dell’840 definisce più particolarmente i rapporti tra i mercanti del regno e quelli veneziani. Nel capitolo 17 Lotario estende gli stessi obblighi dei mercanti longobardi a quelli veneziani e che sia permesso che i veneziani possanno navigare dove vorranno e viceversa. Queste regole non impedirono però che si sviluppassero dei conflitti negli anni seguenti. Parallelamente allo sviluppo del commercio padano, lentamente Venezia stava prendendo il sopravvento su Comacchio. La loro presenza nel regno longobardo viene accentuata quando cominciano a coniare i “denarii” sul modello carolingio, nonostante loro facciano parte dell’area bizantina, almeno formalmente. Questi “denarii” favorivano l’azione dei mercanti all'interno del regno italico. | diritti del regno e quelli della Chiesa Torniamo per l'ultima volta al placito. La Chiesa cremonese, lo si capisce dal risultato del dibattimento, era subentrata da tempo ai funzionari pubblici nel riscuotere i dazi sul commercio fluviale, pretendendo i tributi in nome del patto tra Liutprando e i Comacchiesi, confermato da Carlo Magno, che era anche l'artefice del passaggio di consegne per quanto riguarda la riscossione dei tributi. Nel placito, la parte pubblica non ha niente da opporre contro la Chiesa, né documenti né testimoni. Questa lotta non è solo di tipo economico, ma riguarda anche il controllo cittadino. Ritirandosi il potere imperiale in favore della Chiesa locale, si alza la contestazione dei mercanti che sono un nucleo forte della comunità di Cremona. Da qui inizieranno una serie di dispute tra Chiesa e mercanti che si protrarranno per lungo tempo. Capitolo 6 - Le origini di Venezia e il “primo doge” Il mito Venezia non nasce nell'antichità, ma nell’alto medioevo. Ciò però, porta ad una mancanza di fonti, anche per l'impossibilità di compiere scavi archeologici. Venezia, a mano a mano che cresceva, creava anche il suo mito delle origini. Il mito parte del testo del “Chronicon Altinate” della fine XI secolo per passare dalla “Chronica extensa” scritta da Andrea Dandolo a metà Trecento, per arrivare alle opere di Bernardo Giustinian e Giovanni Giacomo Caroldo. Il mito narra che Venezia sarebbe nata a seguito della fuga delle popolazioni del Veneto, che scapparono nella laguna vedendo le devastazioni barbare. La laguna era inaccessibile agli invasori, incapaci di navigare. Il ruolo principale tra i barbari lo ebbe Attila. Così, gli abitanti delle varie città avrebbero popolato ciascuna isole diverse. Da questo mito se ne innestarono di altri. Precedentemente a questo troviamo la figura di Antenore, primo a popolare il Veneto Orientale. Un'altra leggenda racconta che furono i consoli padovani a fondare Rialto, la futura Venezia, il 25 marzo 421. Il primo doge fu eletto nel 696 o 697. Si chiamava Paulicio o Paolino Anafesto. Il doge era l’anima e il simbolo di Venezia. Secondo gli autori veneziani, Carlo Magno provò a conquistare le lagune. Tutti questi miti servono a esaltare l'origine libera di Venezia. | dati più antichi Nel 537 o 538 Cassiodoro, ministro del re goto Vitige scrive una lettera indirizzata ai “tribuni marittimi” ordinando loro di trasportare con le navi olio e vino dall’Istria a Ravenna. Nella lettera esalta le capacità di navigazioni dei suoi interlocutori. Descrive poi le loro navi e le loro abitazioni e ci mette al corrente che per loro, la ricchezza è data dal sale. I suoi interlocutori sono i tribuni dell'esercito provenienti dalla provincia di Venezia e Istria. Cassiodoro li esorta a fare in fretta a riparare le loro navi. La fretta è data dal fatto che in quegli anni si stava svolgendo la guerra greco-gotica tra i bizantini e i goti. Questa lettera ci dà testimonianza della presenza di una popolazione stabile dedita alla pesca e al commercio del sale. Due secoli dopo, Paolo Diacono scriverà che Alboino prese Vicenza, Verona e le altre città della Venezia, ma che il territorio della Venezia era molto più esteso. È una testimonianza della profonda trasformazione che la Venezia subì nell’alto medioevo. Prima della conquista di Alboino, oltre alla Venezia e l’Istria l’altra grande provincia dell’Italia settentrionale era la Liguria. Tra il 553 e il 569, la Venezia era governata da funzionari bizantini, era quindi dipendente dall'Impero d'Oriente. Con la conquista longobarda nel 569 però, la Venezia si restrinse progressivamente verso la costa adriatica. Con la conquista di Oderzo ad opera di Rotari nel 639 e in seconda battuta di Grimoaldo nel 669 le autorità bizantine si ridussero alla laguna conservando il centro di Cittanova-Eraclea. Le autorità erano diventate militari come le altre regioni italiante ancora bizantine. Era diventata un ducato di tipo militare con a capo il duca, o magister militum. Un'epigrafe conservata all'interno della Chiesa di Santa Maria di Torcello, edificio del XII secolo, situata in un'isola nella parte settentrionale ci mette a conoscenza della fondazione di questa Chiesa, databile settembre-ottobre 639 su volere di Isacio e costruita dal magister militum Maurizio. In questo periodo, non esisteva ancora Venezia città. Cercarne le origini è un lavoro che va fatto sulle fonti scritte e non su quelle archeologiche. Troviamo sei documenti veneziani provenienti dal IX secolo e la più antica cronaca locale risale all'anno Mille, opera di Giovanni Diacono. Il racconto dell’imperatore L'imperatore bizantino Costantino VII Porfirogenito nel capitolo 20 della sua opera più famosa, il “De administrando imperio” della metà del secolo X scrive che l'origine di Venezia deriva dalla fuga dei Franchi di Aquileia dagli Unni di Attila. | Franchi giungono a Venezia e cominciano a costruire capanne per finire a insediarsi stabilmente lì. Quattro secoli dopo giunse a Venezia Pipino con il suo esercito che a quel tempo già regnava su Pavia. Dopo un'estenuante battaglia durata sei mesi, i Veneziani accettarono la pace con Pipino, pagandogli un tributo ogni anno. Questa versione è confermata anche dagli “Annali del regno dei Franchi” dell'810. Pipino però, dovette abbandonare la laguna a causa della reazione bizantina. Pipino morirà nell'810, momento dal quale in poi cessarono gli attacchi alla laguna. Nell'812 ci fu la pace di Aquisgrana tra Franchi e Bizantini e Venezia rimase sotto la sfera di influenza bizantina. È interessante notare come Costantino, più di un secolo dopo, parlasse di una vittoria veneziana, che era altamente improbabile visti i due eserciti in guerra. Nacque lo stesso però il mito dell’intangibilità veneziana di fronte ai barbari, che diventerà un caposaldo dell'identità veneziana. Costantino scrive anche dell’elezione del primo duca quando arrivarono a Venezia. Dapprima risiedeva a Cittanova, vicina alla terraferma, poi si spostò a Rialto. Ovviamente questa elezione è un mito, poiché da secoli esistevano autorità militari bizantine nella laguna e da esse si svilupperà la figura del “doge”. Giovanni Diacono e il duca Paulicio L'elezione del primo doge rimane un problema per la storiografia veneziana. Fu Giovanni Diacono a creare il mito legato al primo doge, di cui riporta anche il nome, che però si è rivelato sbagliato. Per Giovanni, i barbari che fecero fuggire le popolazioni nella laguna non furono gli Unni di Attila, ma i Longobardi. In questo si ispirò a Paolo Diacono. In realtà, non ci fu nessuna fuga catastrofica delle popolazioni di terraferma verso la laguna, come non ci furono da altre parti. Il mito racconta ciò perché si vuole accreditare ai veneziani un’indipendenza originaria. Invece, successe che ci fu un progressivo arretramento delle autorità romane, prima, e bizantine, poi, verso le zone più protette della laguna. Il ritiro durò molti decenni, nei quali la popolazione lagunare aumentava. Nel mito di Giovanni, la popolazione che si stabilì nella provincia fu sottoposta per centocinquant’anni ai tribuni. Successivamente, stabilirono che fosse più onorevole essere sottoposti ai duchi (dogi). Venne eletto un uomo di nome Paulicio che diventò duca di Eraclea. Strinse un patto di pace con Liutprando e insieme stabilirono il territorio di Terranova. “Tribuno” era un grado del comando militare nella gerarchia della Venezia bizantina. Era di grado inferiori ai duchi o magistri militum. Il racconto dell'elezione del primo doge non può essere completamente inventato da Giovanni, egli deve aver preso spunto da qualcosa di antecendente. Nell'840 l'imperatore franco Lotario emana un documento in cui venivano messe per la prima volta per iscritto le clausole dei rapporti tra impero franco e ducato di Venezia, dipendente da Bisanzio. In due capitoli di questo documento viene nominato il duca Paulicio. Giovanni doveva conoscere questo documento essendo stato partecipe ad un'ambasceria inviata da Venezia a Cittanova per farsi confermare i confini. Da questi due capitoli, fraintendendoli, Giovanni ricavò le notizie sul primo doge. Giovanni sicuramente sapeva, da Paolo Diacono, che tra il 726 e il 727 l’Italia bizantina si era sollevata contro papa Leone III, che voleva portare in terra italiana la dottrina iconoclastica, che vietava il culto delle immagini sacre. Gli eserciti di Ravenna e Venezia si ribellarono, insieme a quello della Pentapoli. | rivoltosi, per difendere il papa, elessero dei duchi. Giovanni, trovando nominato il duca Paulicio, appartenente a questo periodo, aveva anche trovato il suo primo doge. Ma questo ragionamento è del tutto sbagliato. Giovanni fraintende il capitolo 26 dove si parla dello stabilimento di un confine tra un regno e un ducato, coincidente con Cittanova-Eraclea, avvenuto al tempo di Liutprando, ma non ad opera sua. Coloro che stabilirono materialmente il confine furono le autorità locali delle parti in causa: il magister militum Marcello, comandante bizantino del ducato, e il duca Paulicio, rappresentante del regno longobardo. Ma il fraintendimento di Giovanni ebbe successo, perché tutta la storiografia veneziana successiva confermò questa versione. Inoltre, per mantenere in piedi la sua ricostruzione, Giovanni dovette inventarsi la storia dei tribuni che governavano prima dei duchi. Dal capitolo 28 che tratta di problemi legati ai pascoli intravediamo un'immagine di una Venezia antica non ancora legata quasi esclusivamente ai commerci. rappresentanto come un re pagano e malvagio. In realtà, Astolfo era cristiano, generoso nel donare chiese e fu collaboratore di papa Stefano II. Da lì, iniziò l'avvicinamento tra il papa e i Franchi, a partire dal pontificato di Stefano II. Stefano compì un viaggio nel regno dei Franchi. Prima della conquista dell’Esarcato nel 751, Stefano aveva invocato invano l'intervento dell'imperatore Costantino V. L'esito negativo lo convinse a rivolgersi ai Franchi di re Pipino. Prima si recò a Pavia con i messi di Pipino per condurlo in Francia. La presenza di emissari franchi convinse Astolfo, che non voleva fargli passare le Alpi. Pipino e Stefano si incontrarono a Ponthion nel 754. A palazzo Stefano pregò Pipino di aiutarlo a con la questione dell’Esarcato. Il re promise di soddisfare le sue richieste e di impegnarsi nella restituzione, anche se non è chiaro a chi, se all'impero o a san Pietro. | due si rincontrarono a Quierzy. Qui, Pipino promette al papa di impegnarsi per intervenire in Italia e costringere Astolfo a restituire le conquiste. Pipino interverrà in Italia nel 754 e nel 756 e riuscì a sconfiggere Astolfo costringendolo a cedere le città conquistate. Pipino respinse anche le richieste imperiali che chiedevano la restituzione di Ravenna e delle altre città dell’Esarcato e castelli imperiali. Le città che Pipino riceve da Astolfo, egli le donerà a San Pietro e alla Chiesa di Roma. Furono, oltre a Ravenna, più di venti le città donate alla Chiesa di Roma, più due castelli nell'Esarcato e Narni. La donazione di Carlo Magno Carlo scese in Italia nel 773, dopo che l’ultimo re longobardo Desiderio aveva rifiutato le restituzioni promesse. Carlo sconfisse e depose Desiderio e si prese il titolo di re dei Longobardi, in aggiunta a quello di re dei Franchi, avviandosi verso l'assunzione della dignità imperiale. Mentre ancora stavano assediando l’ultima città che gli aveva opposto resistenza, Pavia, Carlo scese a Roma per la Pasqua del 774. Il motivo reale non era, come scrive il biografo, di visitare le tombe degli apostoli, ma perché si erano presentati alcuni rappresentanti di Spoleto e Rieti e avevano giurato fedeltà alla Chiesa di Roma. Papa Adriano fece duca un uomo di nome Ildeprando. Molti imitarono gli Spoletini: gli abitanti di Fermo, Ancona e Città di Castello. Questo era un fenomeno che Carlo non poteva sopportare e che lo portò a doversi precipitare a Roma. Durante un incontro con papa Adriano, Carlo si fece rileggere la donazione di Pipino e gli piacque così tanto che, di propria volontà, decise di farne anche lui una. Donò molti territori sparsi per tutta Italia del Sud. Ildeprando, fatto duca nel 773 dal papa, nel 779 si era già sottomesso a Carlo Magno. E negli anni successivi alla donazione, i territori donati vennero ampiamente ridimensionati da Carlo. Il patto della donazione fu confermato anche dai re franchi successivi a Carlo. Capitolo 8 - Un matrimonio controverso. Carlo Magno e la pseudo- Ermengarda Un popolo di lebbrosi Uno degli episodi cruciali della conquista france dell’Italia riguarda un matrimonio: quello tra Carlo Magno e una delle figlie di re Desiderio. Questo episodio deve la sua celebrità all’’Adelchl” di Manzoni del 1822. Il matrimonio, se fosse andato a buon fine, avrebbe crato un'alleanza tra Franchi e Longobardi che avrebbe impedito la conquista dell’Italia di Carlo. Esaminando diverse fonti, ci rendiamo conto che esse sono contradditorie, a tal punto da mettere in discussione se il matrimonio sia avvenuto o meno. In una lettera, papa Stefano III si scaglia violentemente contro il matrimonio, arrivando a definire il popolo longobardo come una stirpe di lebbrosi ed esortandoli a non contaminarsi con la gente longobarda. Una donna senza nome In alcune versioni di una lettera troviamo: “desideratam Desiderii regis Italorum filiam” ossia “la desiderata figlia di Desiderio re degli italici”, ma in altre versioni troviamo “desideratam” scritto con la D maiuscola, come se fosse il nome proprio, Desiderata. Ciò, però, è reso improbabile dal fatto che Desiderio e sua moglie Ansa ebbero altre tre figlie con nomi simili tra loro: Anselperga, Liutperga e Adalperga.
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