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Il Medioevo: Potere Politico e Società, Sintesi del corso di Storia Medievale

La trasformazione del potere politico in Europa durante il Medioevo, con l'ascesa delle donne al governo, la riforma statale, l'arrivo delle popolazioni barbariche e la disgregazione del potere pubblico. Vengono trattati temi come la collaborazione tra Chiesa e potere politico, la difesa del territorio e la ricostruzione del potere pubblico.

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

Caricato il 03/09/2021

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Scarica Il Medioevo: Potere Politico e Società e più Sintesi del corso in PDF di Storia Medievale solo su Docsity! STORIA MEDIEVALE Cap. 1 Medioevo sono termini comunemente usati come un'accezione negativa, che deriva non dalla realtà dell’epoca, ma da una gamma di pregiudizi costruiti dagli intellettuali dei secoli successivi. La caduta dell'Impero Romano d'Occidente e l'avvento dei regni barbarici coincisero con un peggioramento delle condizioni sanitarie e con una serie di devastanti ondate di peste che causarono un calo demografico in Europa dai 50 milioni del III secolo d.C. ai 30 del VI e ai 22-23 del VII. In età carolingia le grandi epidemie scomparvero e un diffuso miglioramento delle condizioni di vita permise una modesta ripresa della popolazione che però fu frenata dall'insicurezza generale in epoca post-carolingia. Dopo l’anno Mille, l'Occidente conobbe una vivacissima crescita demografica verso la fine del Duecento quando il fenomeno rallentò. Le donne erano escluse dagli spazi del potere: non potevano essere elette o nominate a cariche pubbliche o di responsabilità, né nel mondo laico, né in quello ecclesiastico. Il loro ruolo principale era in seno alla famiglia. Ai livelli superiori della società, esse potevano subentrare ai mariti anche nell'esercizio dei poteri pubblici e le cronache abbondano delle gesta di regine, principesse e duchesse che seppero governare con grande abilità anche in assenza dei loro uomini: certo, in questo caso veniva richiesto loro di assumere comportamenti tipicamente maschili, sicché il modello di successo nel Medioevo rimase quello della donna “virile”. Anche fra le mogli dei lavoratori, la vedovanza poteva aprire prospettive inaspettate: in molte città italiane ed europee subentrando al marito defunto nella conduzione delle botteghe, le mogli degli artigiani ne ereditavano anche le prerogative . Un'altra possibilità di autonomia offerta alle donne era quella di consacrare a Dio il proprio stato di castità ed entrare in un ordine religioso o intraprendere un percorso autonomo di penitenza e vita spirituale. Schiavitù era diffusa soprattutto nelle città mediterranee del basso Medioevo e riguardante prigionieri non cristiani: questi non potevano possedere nulla ed erano totalmente dipendenti dal loro padrone. In Europa, comunque, tale fenomeno rimase limitato a poche centinaia di persone, soprattutto donne e ragazze utilizzate per i lavori domestici mentre nei paesi islamici la schiavitù era assai diffusa e poteva coinvolgere decine di migliaia di uomini per lo più africani di colore. La religione cristiana rappresentava un efficace mezzo per garantire la stabilità per questa convivenza. Il latino creò un'identità culturale e comune a tutto l'Occidente post-romano. La sopravvivenza della lingua latina portò con sé quella della cultura latina classica. Cap. 2 L'Impero Romano classico visse un drammatico periodo nel corso del III secolo a causa della grave instabilità politica e della crisi economica. Lo Stato venne riformato a cavallo tra III e IV secolo da parte di Diocleziano e Costantino, le cui innovazioni garantirono altri 150 anni di vita all'Impero d'Occidente cambiandone però radicalmente le basi. La cristianizzazione della società, la crisi dell'economia schiavistica, il nuovo volto sacrale della figura imperiale, la divisione tra Oriente e Occidente e i minuti cambiamenti nella vita quotidiana delle persone segnarono un mutamento che aprì la strada alla nuova Europa medievale. Tradizionalmente, gli studiosi hanno considerato i secoli III, IV, V come quelli della decadenza dell'Impero Romano che preludeva necessariamente alla sua caduta. Negli ultimi decenni si è affermata una nuova lettura 1 di questo periodo, durante il quale la civiltà classica non sarebbe entrata in crisi ma cambiata dando origine ad una nuova cultura e a nuove forme di organizzazione politica e sociale. Questo arco di tempo è denominato “epoca tardo antica” o il “tardo antico” (III-VII/VIII secolo D.C.). Ad ogni modo, l'Impero presentava gravi debolezze che ne rendevano complessa la gestione. La più grave era rappresentata dalle stesse dimensioni della dominazione imperiale che rendevano difficilissimo esercitare con efficacia il potere centrale. Il problema era particolarmente acuto sul piano militare. | romani non si diedero mai una norma precisa per regolare le modalità della successione imperiale. Eredità dinastica, elezione e adozione erano considerate tutte criteri validi e si alternavano tra loro e con i sempre frequenti colpi di stato. Ad un certo punto, il sistema sembrò andare fuori controllo. Il periodo compreso fra la morte di Settimio Severo e l'ascesa al trono di Diocleziano è nota come la crisi del III secolo. Si trattò di un'epoca di gravissima instabilità politica. In poco più di settant'anni si ebbero ben venticinque imperatori - talvolta eletti contemporaneamente. Nel caos, l'impero rischiò la disgregazione, dato che l’esercito, impegnato prevalentemente nelle guerre civili, non garantiva più la sicurezza delle zone periferiche. Quest’ultime talvolta decisero di provvedervi autonomamente: si ebbero dunque le effimere, ma importanti, esperienze del Regno di Palmira nella Siria orientale durato dal 262 al 270 e del quasi coevo impero gallico in Occidente fra il 260 e il 274. I motivi della crisi furono molteplici. Il meccanismo che garanti per quattrocento anni la prosperità di Roma e della sua élite senatoria si inceppò nel corso del | secolo D.C. quando vennero a mancare obiettivi appetibili. A sud, il territorio imperiale confinava ormai con l'immensa mole desertica del Sahara e a nord con le foreste della Germania, all'interno delle quali non si trovavano ricchezza sufficienti a giustificare le spese di una conquista. In Medio Oriente si era affermata una nuova potenza. Sotto la dinastia dei Sasanidi, si era ricostituito l'impero persiano. Il sistema politico imperiale minacciò seriamente di collassare sotto il peso delle guerre civili. La fine delle grandi campagne di conquista aveva reso inquieto l’esercito. La crisi del III secolo dimostrò che era necessaria una drastica riforma dell'impero per garantirne la sopravvivenza. Fu questo l'impegno assunto da Diocleziano che prese il potere con le armi nell'autunno del 284. Egli riscrisse le regole della successione imperiale e il modo di governare lo Stato. Il territorio venne diviso in due parti - l'Occidente latino e l'Occidente greco - ognuna delle quali avrebbe avuto un proprio imperatore con il titolo di “augusto”. I due augusti avrebbero a loro volta designato due vice-imperatori, i “cesari”, destinati ad affiancarli al governo. Ogni vent'anni, gli augusti si sarebbero dimessi, i cesari sarebbero diventati augusti e avrebbero a loro volta nominato dei nuovi cesari. Il meccanismo era assai complicato e per questo non funzionò mai. Costantino si sbarazzò degli altri tre colleghi riunificando il potere nelle sue mani nel 324. Egli effettuò ulteriori riforme che si aggiunsero a quelle dioclezianee, dando vita ad un impero rinnovato, destinato ad un altro secolo e mezzo di vita in Occidente e a undici in Oriente. Un aspetto importante delle riforme di Diocleziano fu che le sedi dei due imperatori vennero poste a Nicomedia in Oriente e a Milano in Occidente, abbandonando Roma, troppo lontana dai confini. Era la constatazione definitiva della marginalizzazione politica dell’Urbe. Nel 212 Caracalla aveva emanato un editto col quale aveva esteso a tutti i liberi dell'impero la cittadinanza romana. Essa rimase la sede del Senato, un'assemblea prestigiosa la cui importanza era però sempre più ridotta, dato che la maggior parte delle decisioni era ormai presa autonomamente alla corte imperiale. Nel nuovo Stato assunse ancora più importanza il ruolo dell'imperatore e della sua corte. Il primo era ormai una figura divinizzata, pari agli dei o direttamente scelto da Dio. Tutto ciò che riguardava era sacro e la sua esistenza si svolgeva separata da quella dei comuni mortali. Soltanto un piccolo gruppo di alti funzionari, il cosiddetto concistoro, poteva avvicinarlo e conferire con lui. la corte divenne il centro di tutte le decisioni importanti e da essa dipendeva il funzionamento dell'impero. Soprattutto in Occidente, non esisteva più una vera e propria capitale, ma una serie di sedi privilegiate nelle quali il principe soggiornava più frequentemente. La corte era diventata l'unica vera sede del potere e gli uomini venivano chiamati a farne parte con criteri arbitrari che soppiantavano il tradizionale cursus 2 politico o religioso. Cambiarono anche molti aspetti della vita quotidiana. Un mutamento ancor più radicale nella vita delle famiglie fu il nuovo status assunto dalle donne. Furono probabilmente le città a risentire in maniera più pesante dei mutamenti del basso impero. Le poche risorse pubbliche disponibili venivano a loro volta concentrate sulla costruzione e la manutenzione di un elemento che a partire dalla crisi del III secolo si era fatto sempre più indispensabile: la cinta muraria. Gli archeologi parlano dei secoli IV e V come dei “secoli delle ville”. | ricchi cittadini non si erano impoveriti ma avevano spostato i loro investimenti fuori dai centri urbani. Fu nelle campagne che sorsero grand palazzi residenziali. Cominciarono a diffondersi le prime chiese rurali. La concentrazione degli insediamenti fu frutto anche della crescente insicurezza, sicché fecero la loro comparsa anche le fortificazioni rurali, rese necessarie dal fatto che l’esercito faceva sempre più fatica a controllare le frontiere e a reprimere i frequenti episodi di banditismo o di ribellione. Questi primi castelli si diffusero in tutto l'Occidente. Cap.3 Tradizionalmente si attribuisce la fine dell'Impero Romano d'Occidente alle “invasioni barbariche”. Questa lettura è troppo semplicistica mostrando come i popoli barbarici che tra la fine del IV secolo e gli inizi del V secolo si spostarono entro i confini dell'impero fossero tutt'altro che estranei al mondo latino, con cui interagivano e per cui combattevano da decenni. Fu una commistione di conflitti civili, minacce esterne e crisi economica e fiscale a causare il collasso dell'Impero d'Occidente. Barbaro è una parola greca, fatta propria dai romani. Essa indicava lo straniero, l’estraneo, colui che non era in grado di esprimersi in una lingua comprensibile e che quindi balbettava suoni incoerenti. Con tale termine, si indicavano indifferentemente tutti coloro che vivevano fuori dai confini imperiali. Tutti costoro erano egualmente estranei e vivevano in un mondo minaccioso e ostile, definito come il barbaricum. Per gli aristocratici romani e greci la razionalità si esprimeva nel perfetto controllo delle rispettive lingue, sicché gli uomini che non le parlavano non erano dotati di ragione, ma venivano guidati solo dagli istinti. Fra l'impero, sede dell'unica vera civiltà razionale, e il barbaricum popolato di genti estranee doveva esserci un confine definito e invalicabile. | letterati romani osservavano il mondo barbarico - quell'insieme di popoli stanziati oltre il Reno che essi chiamavano unitariamente e un po’ arbitrariamente (“germani”) - attraverso le spesse lenti del pregiudizio e ce ne restituiscono un'immagine stereotipata e pressoché statica e immutabile. Quando il confine imperiale si stabilizzò lungo il Reno e il Danubio, tra il I e il Il secolo D.C., la società barbarica appariva molto semplice: si trattava di popoli nomadi, costituiti prevalentemente da allevatori, che praticavano un'agricoltura di sussistenza, privi di insediamenti stabili, di moneta e di luoghi ufficiali di culto, organizzati in piccole tribù che riunivano qualche centinaio di individui. Gli scavi ci mostrano una società molto semplice e molto povera, priva di specializzazioni produttive e di una vera e propria aristocrazia dominante. Nel corso del Ill secolo e ancor più nel IV possiamo constatare alcuni cambiamenti importanti. i barbari iniziarono a diventare sedentari e a praticare un'agricoltura più sofisticata che generava una migliore disponibilità di cibo. Questo permise un deciso aumento della popolazione, che si raccoglieva in insediamenti sempre più grandi e stabili. Si svilupparono così anche produzioni artigianali meno rudimentali. In questa società più ricca cominciò a delinearsi un’aristocrazia di guerrieri, la cui prosperità ci è illustrata dalle loro tombe, ricche di armi, di vasellame e di oggetti d’argento. Queste tribù più grandi e prospere cominciarono a unirsi tra loro, ponendosi agli ordini di capi comuni, detti reges. Essi disponevano di seguiti armati composti da qualche centinaio di guerrieri ben equipaggiati chiamati comitati. | loro membri vivevano al seguito dei re, dai quali erano alloggiati e nutriti. | risvolti politici di questa nuova situazione sono evidenti. Se i capi-tribù barbarici del I secolo D.C. guidavano poche centinaia di persone che conducevano una vita seminomade, i re del IV secolo ne 5 governavano molte migliaia, ormai stanziati e dotate di un territorio più o meno preciso di riferimento. Questi gruppi potevano a loro volta confederarsi fra loro ed eleggere un unico leader, che si trovava in tal modo a capeggiare raggruppamenti molto vasti, che presero nomi nuovi, fino a quel momento mai riportati dagli scrittori romani, come alamanni, franchi, burgundi e sassoni. Il fatto apparentemente paradossale è che la causa principale di tale mutamento furono proprio i romani. È opportuno considerare l’esistenza di un vasto mondo romano, articolato in un centro e in una periferia > le popolazioni barbariche stanziate lungo i confini che con l'impero stabilito rapporti consolidati, u romani interferivano pesantemente i rapporti fra le tribù e tentavano di condizionarne la politica ponendovi a capo uomini a loro alleati. Anche le relazioni economiche erano intense: i romani vendevano ai barbari prodotti artigianali di lusso, armi e vino e versavano oltre frontiera grandi quantità di monete d'argento. In cambio dall'Europa centrale arrivavano legname, ambra, pellicce e schiavi. La merce più preziosa erano i guerrieri. Il servizio militare rappresentava il principale mezzo attraverso il quale i barbari potevano entrare in contatto con i romani. Nel corso del IV secolo, il numero di queste ultime crebbe progressivamente, trasformando profondamente l’esercito imperiale. Esse portarono nuovi stili di cambiamento, estranei alla tradizione latina. Nell’aspetto, i soldati assunsero costumi sempre più estranei alla tradizione. Anche le armi delle forze imperiali divennero abbastanza simili a quelle dei loro avversari, come la spada lunga di origine centroeuropea, la lancia e lo scudo tondo. | romani trattavano con una certa prudenza le truppe barbariche. Per evitare ogni rischio di diserzione o di ribellione, esse venivano stanziate a grande distanza dalle zone di origine. L'esercito era un potente vettore di integrazione: chi sopravvive ai lunghi anni di servizio otteneva la cittadinanza romana e poteva stanziarsi liberamente all’interno dell'impero. Una parte significativa degli alti ufficiali dell'esercito romano fra il IV e il V secolo era di origine barbarica, anche se talvolta si trattava di immigrati di seconda generazione, nati romani da genitori barbari che avevano acquisito la cittadinanza. Alcuni, giunti al massimo grado del servizio, furono anche ammessi in Senato e nella cerchia dei più stretti consiglieri imperiali. La crescente importanza dei barbari in seno all'esercito romano ebbe un'altra conseguenza sulla storia dei barbari stessi. Grazie alle ricchezze così acquisite, questi personaggi di successo riuscirono a raccogliere attorno a sé una quantità sempre crescente della popolazione. Essi assunsero dunque il titolo di re e crearono gruppi di seguaci più stretti. Fu insomma il denaro dei romani a causare quei processi di raggruppamento di più tribù e di crescente articolazione sociale. Questi nuovi grossi nuclei col passare del tempo si diedero un'identità peculiare che li distingueva dai vicini. Con un processo che gli studiosi moderni chiamano “etnogenesi”, essi diventarono popoli, adottando un nome collettivo e definendosi soprattutto tramite un sistema di miti comuni tra cui vi era un racconto che narrava l'origine fantastica del popolo stesso. Tale processo fu lungo e richiese decenni, se non secoli. Nella maggior parte dei casi non si realizzò prima che i barbari entrassero nell'impero, ottenendo territori precisi su cui insediarsi e collegando la loro identità proprio alla residenza in regioni particolari. Paradossalmente, i popoli barbarici a cui tradizionalmente si attribuisce l'invasione del mondo romano, presero una forma definita soltanto quando si trovavano già all’interno di quel mondo. Il mondo barbarico e quello romano erano strettamente collegati e, a partire dalla fine del III secolo fino a quella del V, vi fu un flusso quasi ininterrotto di popolazione dal primo verso il secondo. Per oltre cento, anni il processo fu prevalentemente tranquillo e consensuale e le due parti ne trassero vantaggi reciproci. A imporre un drammatico mutamento a questi rapporti furono i cambiamenti avvenuti nel corso del IV secolo nell'Europa orientale. | barbari insediati ai confini dell'impero, benché assai poveri agli occhi dei romani, erano molto più ricchi dei popoli che vivevano nell'Europa settentrionale e orientale. Dunque, erano a loro volta oggetto di attacchi e incursioni da parte di chi voleva impossessarsi dei loro modesti beni. Particolarmente temibile, negli anni Settanta del IV secolo, fu lo spostamento verso Occidente degli unni, una popolazione nomade, prima stanziata ai confini dell'impero cinese. Essi dall'Asia centrale si mossero verso le pianure del Mar Nero e del Danubio. Le tribù barbariche ivi stanziate, che i romani denominavano collettivamente come “goti”, furono sconfitte militarmente e si divisero in due: quelle residenti 6 a Oriente accettarono il dominio degli unni, mentre quelle più occidentali chiesero aiuto all'impero. Le tribù in fuga davanti agli unni nel 376 si presentarono sulle sponde del Danubio e domandarono all'imperatore dell'Oriente Valente di potersi stabilire in Tracia con il compito di difendere la regione. In tale veste, i goti avrebbero avuto diritto a essere nutriti ed equipaggiati dallo Stato. | patti non furono però mantenuti sicché i barbari si ribellarono e cominciarono a saccheggiare le campagne. Nell'estate del 378, l'imperatore Valente marciò contro di loro alla testa di un grande esercito e il 24 agosto i goti e i romani si fronteggiarono nella pianura presso la città di Adrianopoli. Ad Adrianopoli, l’esercito di Valente conobbe una tremenda sconfitta. Lo stesso imperatore rimase ucciso. Apparentemente Teodosio, il successore di Valente, riuscì a porre rimedio al disastro. Nel 382, essi conclusero un trattato di pace e fu loro permesso di insediarsi nel territorio che corrisponde all’attuale Croazia. Per loro fu creata una nuova posizione, quella di federati dell'impero. | goti accettarono di allearsi con i romani e di proteggere, al posto dell'esercito imperiale, la provincia nella quale vennero stanziati. In cambio del servizio militare ottennero la distribuzione di terre pubbliche e, almeno alcuni, la corresponsione di rifornimenti ed equipaggiamenti. Essi però restarono per la maggior parte autonomi, continuarono a obbedire agli ordini dei loro capi e non divennero cittadini romani: pur se al momento non ostili, i goti rappresentavano un corpo estraneo all’interno dei confini dell'impero. Le conseguenze della sconfitta di Adrianopoli furono molto gravi. L'esercito imperiale non riuscì mai a riprendersi del tutto dalla distruzione di alcune delle sue più solide ed esperte unità. Per ripianare le perdite, fu necessario procedere a ulteriori e frettolosi arruolamenti di contingenti barbarici, questa volta senza poter prendere le precauzioni del caso. Le truppe assoldate furono lasciate in zone vicine a quelle di origine, non vennero inquadrate in reparti regolari e il controllo esercitato su di loro dagli ufficiali e dai funzionari imperiali fu molto labile. | risultati non tardarono a manifestarsi. Dopo la morte di Teodosio, gli imperatori d'Occidente non ebbero più alcun potere effettivo. La guida politica e militare dello Stato passò nelle mani dei comandanti supremi dell'esercito come Stilicone. Fu in particolare il nuovo comandante supremo dell'esercito d'Occidente, Stilicone, figlio di un capo vandalo, a simboleggiare il ruolo sempre crescente dei barbari in seno all'esercito. | sospetti attorno al generale dal sangue vandalo si fecero sempre più forti. Agli inizi del V secolo, il nuovo apparato difensivo imperiale, soprattutto in Occidente, si rivelò inadeguato ad affrontare le nuove sfide. | barbari ripresero a premere insistentemente sulle frontiere, forse in conseguenza di un nuovo movimento degli unni verso l'Europa centrale e la Pannonia. Per difendere l’Italia, Stilicone dovette richiamare truppe dalle altre regioni occidentali, lasciando sguarnito il confine del Reno. Ne approfittarono altri popoli barbarici in movimento: si trattava di vandali, alani e svevi che nel dicembre 406 riuscirono a oltrepassare il limes e dilagarono in Gallia senza trovare opposizione. Dopo aver attraversato e saccheggiato tutta la regione, i vandali, gli alani e gli svevi si spostarono in Spagna, mentre i burgundi si stabilirono a cavallo del Reno. Accusato di non aver saputo difendere l'impero, Stilicone fu assassinato nel 408 assieme alla sua famiglia e ai capi dell'esercito a lui fedeli. Le tribù gotiche, che nel 382 erano state stanziate nei Balcani, erano progressivamente fuse in un raggruppamento più ampio che aveva preso il nome di visigoti e nel 395 aveva eletto un re unitario, di nome Alarico. Questi nei primi anni del V secolo aveva cercato in più occasioni di penetrare in armi in Italia, ma Stilicone era sempre riuscito a sconfiggerlo e a obbligarlo alla ritirata. Non si trattava di veri e propri tentativi di invasione: Alarico voleva piuttosto convincere gli imperatori a riconoscere il suo potere, a dargli qualche ruolo di responsabilità a corte e a consentire ai suoi uomini di stanziarsi in territori migliori. Alla morte di Stilicone, Alarico entrò di nuovo nella penisola, questa volta senza che nessuno lo fermasse. Alarico, nell'agosto del 410 marciò su Roma, facendola saccheggiare dalle sue truppe. Roma non era più la capitale imperiale, ma era comunque ancora la più grande città del Mediterraneo, cuore della cristianità latina e delle grandi memorie dell'impero. La sua caduta del 410 fece grande impressione sull’opinione pubblica contemporanea, messa per la prima volta di fronte ad un'imprevista vulnerabilità: l’Urbe cedeva davanti ad Alarico. Ancora una volta, 7 venne infine sconvolto dalla riconquista imperiale dell'Africa e dell’Italia condotta durante l'impero di Giustiniano. La fine dell'Impero Romano d'Occidente non fu percepita come un evento traumatico. Essa apparve come una delle tante deposizioni di imperatori da parte dell'uomo forte di turno. La popolazione italiana, al contrario, accolse con indifferenza, se non con sollievo, la deposizione di Romolo Augusto. Odoacre agli occhi dei romani non doveva sembrare molto più barbaro di Oreste - il padre dell'ultimo imperatore. Soddisfatte le sue truppe con la distribuzione di terre fiscali, Odoacre conservò l'amministrazione civile romana, ebbe buoni rapporti con il Senato e con l’imperatore d'Oriente, che gli conferì il titolo di patrizio dando così legittimità al suo potere. La tranquillità con cui fu accolto il dominio di Odoacre nel cuore stesso dell'impero invita a sdrammatizzare l’idea di un'invasione germanica. Numerosi gruppi di origine barbarica nel corso del V secolo furono accolti entro i confini imperiali come “federati”. A loro veniva riconosciuto un territorio che potevano governare in modo praticamente autonomo, in cambio della prestazione del servizio militare per l'impero. Questi eserciti avevano il diritto alla cosiddetta ospitalità (hospitalitas), ossia godevano dei redditi di un terzo delle terre presenti in provincia. In questo modo i germani si trasformarono a loro volta in proprietari fondiari, un passo che contribuì in modo decisivo ad avvicinarli ai loro omologhi latini. Non era raro che la fine della dominazione imperiali coincidesse con un netto alleggerimento delle imposte fondiarie, dato che di norma i nuovi poteri avevano meno esigenze di spendere per l'amministrazione e per l’esercito. Non si può sapere se nel corso del V secolo in più occasioni gli abitanti più umili delle città e delle campagne si fossero spinti ad aiutare in diversi modi i barbari, se non addirittura a combattere al loro fianco. | grandi proprietari romani si avvidero rapidamente dell'utilità di dialogare con i nuovi poteri costituiti dai barbari. Nell'arco di qualche decennio, a cavallo della metà del V secolo, anche i più tenaci fautori della tradizione imperiale si dovettero rassegnare e cercare qualche accordo con i nuovi potenti. Insomma, con l'eccezione della Britannia, le strutture sociali dell'Impero Romano non cambiarono gran che in seguito all'arrivo dei barbari, dato che il potere politico ed economico locale restò saldamente nelle mani dei grandi proprietari terrieri. Anche fra i meno abbienti la convivenza si svolse senza particolari problemi. Anzi, furono probabilmente i gruppi medi e bassi della popolazione i primi a stringere matrimoni e legami di parentela con i germani. Sin dal III e dal IV secolo i contatti tra le culture furono sempre più stretti: sotto l'influenza barbarica, i romani avevano modificato il loro modo di vestire. Lo stesso avvenne per le armi. Imitando i nuovi venuti, infatti, gli aristocratici romani adottarono uno stile di vita ispirato a quello militare, tanto che nel V secolo era normale che alcuni senatori si presentassero alle sedute con il cinturone e la spada al fianco. Il campo in cui fu più evidente la progressiva integrazione tra i latini e i popoli germanici fu quello del consumo alimentare. La convivenza tra le popolazioni amalgamò anche le diete. | prodotti mediterranei andarono anche alla conquista di territori esterni all'impero, sulla scia della cristianizzazione delle popolazioni settentrionali e orientali: il pane e il vino erano indispensabili per la liturgia domenicale, così come l'oro era necessario per le unzioni sacre. L'esempio più chiaro dell’acculturazione dei barbari è sicuramente dato dal ruolo assegnato al latino. In nessun caso, infatti, essi tentarono di imporre il loro modo di parlare alle popolazioni sottomesse, ma conservarono il latino come lingua ufficiale dell’amministrazione, oltre che del culto cristiano. Le élite barbariche erano già latinizzate o lo divennero rapidamente, si circondarono di letterati, giuristi e poeti romani e fecero scrivere le storie dei loro popoli, le leggende e le leggi. Confinarono quindi i loro idiomi originari nel mondo dell’oralità, condannandoli nella maggior parte dei casi ad una scomparsa precoce. Regni romano-barbarici> le formazioni politiche nate entro i confini dell'impero d'Occidente nel corso del V secolo e dominate da alcune popolazioni barbariche. | principali furono il regno dei franchi in Gallia, quello degli ostrogoti in Itali, quello dei vandali in Africa e quello dei visigoti in Spagna, anche se inizialmente vi fu anche un gran numero di entità politiche minori, destinate a essere assorbite dai quattro regni più grandi. Nel territorio dell'Impero Romano d'Occidente vi fu una grande eccezione al sistema dei regni romano-barbarici: le 10 isole britanniche. Dopo che l'impero ebbe evacuato le proprie truppe dalla Britannia per spostarle in Gallia, le popolazioni locali rimasero esposte alle incursioni dei pitti, che abitavano la Scozia. Chiamarono allora come mercenari dal continente gli angli e i sassoni, che però, ribellatisi, imposero il loro dominio sulla parte orientale dell’isola fondando una molteplicità di piccoli regni. Questi raggruppamenti politici nulla avevano ereditato dai romani e si basavano su rapporti molto semplici, di matrice tribale. | britanni e i latini si ritirarono nell'attuale Galles e abbandonarono anch'essi il complesso e costoso sistema dell'amministrazione imperiale, ormai improponibile nella nuova situazione. Le aree occupate dai germani tornarono pagane e anche l'uso della lingua latina si perse rapidamente, soppiantato dai dialetti celtici nell’ovest e da quelli sassoni a est. La caratteristica comune dei regni romano-barbarici insediatisi sul continente europeo e in Africa fu invece il tentativo di conservare le strutture amministrative, sociali ed economiche dello Stato romano, reindirizzandone però il funzionamento a favore dei popoli barbarici insediatisi nel territorio e non più dell’imperatore e della sua corte. I barbari non volevano distruggere l'impero, ma sfruttarlo. Essi dovettero mutare i loro stessi comportamenti per adattarli e romanizzarsi a loro volta. Alcuni studiosi prediligono la definizione di regni “post-romani” nei quali non vi furono cambiamenti traumatici nei rapporti sociali, nello stile di vita e nei modi di governo. | germini insediatisi nell'impero d'Occidente ebbero due vantaggi: in primo luogo essi erano in numero abbastanza ridotto; in secondo luogo, le riforme amministrative di Diocleziano e Costantino, che avevano sancito la separazione fra la carriera militare e quella civile, avevano preparato la strada alla forma istituzionale dei regni romano-barbarici, nei quali alla componente barbarica fu affidata la difesa dello Stato e a quella latina la gestione dell’amministrazione economica e fiscale. Lo spostamento entro i confini imperiali comportò per la maggior parte dei barbari l'abbandono della loro religione tradizionale. Soltanto i franchi restarono a lungo pagani, mentre i goti erano cristiani ma di osservanza ariana. Anche vandali e burgundi aderirono all’arianesimo, mentre i latini erano ormai tutti di confessione cattolica. La maggior parte della popolazione non si interessava granché delle diverse interpretazioni cristologiche e di fatto, nella prassi quotidiana e nei riti domenicali, le due dottrine erano pressoché indistinguibili. Le élite barbariche sfruttarono però la fede come elemento identitario, sia nei confronti della popolazione soggetto sia per rivendicare autonomia rispetto all'impero d'Oriente che si presentava come il protettore universale dei cristiani. Finché risiedevano al di fuori dai confini imperiali, le tribù barbariche non avevano un vero e proprio territorio con confini precisi. Il potere del capo o del re si estendeva su tutti i membri del gruppo, prescindendo dalla loro residenza. L'ingresso sul suolo imperiale, rigidamente organizzato in municipi e province, li obbligò a mutare approccio e a riorganizzare la loro concezione del potere. Frutto di questo adattamento fu l'introduzione della cosiddetta “personalità di diritto” in base alla quale nel territorio di uno stesso regno convivevano legislazioni diverse. | latini continuavano a seguire le leggi imperiali, spesso in una versione semplificata > Breviario di Alarico. Ogni gruppo di barbari, invece, aveva un proprio corpo di norme più o meno tradizionali. Quasi tutti i sovrani barbarici emanarono nuove leggi, queste sì territoriali, che valevano per tutti i sudditi, quale che fosse l'origine etnica. In campo penale, si erano affermati ovunque i nuovi principi portati dai barbari, basati sul cosiddetto “guidrigildo” in base al quale le offese personali venivano punite con multe proporzionate all'entità dell’offesa e allo status della vittima. Tutte queste entità territoriali sono definite come “regni”. Per i popoli barbari tutto ciò non era affatto banale: non era ovvio che tutte le tribù dovessero obbedire a un unico re, non era ovvio che questo re avesse pieni poteri in ogni campo della vita pubblica, non era ovvio che la carica fosse ereditaria e non elettiva. In ogni regno, fu necessario costruire un'ideologia della regalità che giustificasse il potere del sovrano, miscelando elementi della memoria barbarica, del cerimoniale imperiale e della tradizione biblica. Il risultato variò di volta in volta, con esiti anche drammaticamente differenti rispetto alla stabilità dei regni stessi. I due regni romano-barbarici costituitisi entro i confini dell'impero furono quello dei vandali in Africa e quello dei visigoti tra la Gallia meridionale e la Spagna. La diversa origine dei due regni ne condizionò profondamente 11 le vicende, dato che i vandali non riuscirono mai a ottenere dall'impero uno status che consentisse loro di legittimare il proprio dominio nei confronti della popolazione romana e della Chiesa. | vandali si limitarono a impadronirsi delle terre che preferivano. Nonostante il loro insediamento fosse avvenuto in modo cruenti, i vandali non erano per nulla estranei alla cultura dei romani, di cui anzi, adottarono rapidamente lo stile di vita. Essi si insediarono nelle grandi ville. | maggiorenti barbari parlavano il latino e mantennero con efficacia le tasse. Continuarono a favorire le esportazioni di grano e di manufatti. A differenza dei goti, però, i vandali non riuscirono a costruire un dialogo o almeno un’accettabile convivenza con i vescovi locali e con la massa della popolazione a loro fedele. La Chiesa continuò a opporsi al nuovo dominio e il conflitto sfociò tra il 477 e il 484 in vere e proprie persecuzioni dei cattolici. | visigoti avevano cominciato ad organizzare come un vero potentato autonomo i loro in Aquitania sin dalla metà del V secolo scegliendo come capitale Tolosa e stringendo una collaborazione con la popolazione gallo-romana. Negli stessi anni fu occupata una buona parte della Spagna, che era stata abbandonata dai vandali. Sconfitti dai franchi nella battaglia di Vouillé, nel 507, i visigoti si spostarono a sud dei Pirenei, dove fondarono un regno destinato a prosperare per i due secoli successivi. Inizialmente, il dominio visigoto sulla Spagna fu piuttosto precario: fino al 526 essi rimasero di fatto sotto il governo di Teoderico, re gli ostrogoti d’Italia, che si era posto come garante dell’indipendenza del regno nei confronti della minaccia franca. | visigoti non riuscirono a rendere ereditaria la carica regia, sicché vi furono ripetuti conflitti in seno all’aristocrazia del regno. La debolezza del potere centrale permise ad alcune aree del Settentrione di distaccarsi e organizzarsi con governi autonomi, mentre la parte sud-orientale della penisola del 552 venne conquistata da un corpo di spedizione dell'impero d'Oriente che vi rifondò l'antica provincia della Betica. La Spagna si impoverì. Soltanto con il regno di Leovigildo la corona riuscì a trovare una certa stabilità. Egli rafforzò il potere centrale, insediandosi in una nuova capitale, Toledo. Sconfisse militarmente i suoi avversari politici e i potentati autonomi del Nord e sequestrò le loro terre, facendole confluire nel demanio regio: ottenne così una grande quantità di risorse economiche da redistribuire fra i nobili a lui vicini per consolidarne la fedeltà. Infine, riuscì a nominare suo erede il figlio Reccaredo che ne proseguì l’azione riformatrice. Questi superò l'ormai anacronistica suddivisione tra visigoti e latini, convertendosi al cattolicesimo, permettendo i matrimoni misti ed emanando leggi valide su tutto il territorio a prescindere dall’etnia. In tal modo, egli poté coinvolgere appieno la Chiesa nel governo del regno, aumentando così la capacità del re di coordinare attorno a sé la rete dei poteri locali. Di fronte all'avanzata unna, i goti si erano divisi in due gruppi: una parte si era spostata entro i confini dell'impero romano, mentre gli altri accettarono il dominio degli invasori e si misero al loro servizio. Questi ostrogoti riconquistarono la loro autonomia dopo la morte di Attila. Erano una federazione di tribù diverse che riconoscevano un capo comune al fine di essere meglio guidati e coordinati in guerra. Il polo attorno al quale si raggruppò questo nuovo popolo fu il clan degli Amali, che aveva guidato la ribellione contro gli unni. Dal 471 si erano riuniti sotto la guida di un esponente degli Amali, di nome Teoderico. Nel 489, l’imperatore d'Oriente Zenone decise di inviare gli ostrogoti in Italia, perché combattessero contro Odoacre, accusato di essere un usurpatore. Quest'ultimo riuscì a resistere per quattro anni, ma nel 493 fu sconfitto e ucciso. Teoderico e i suoi uomini poterono dunque stabilirsi nella penisola. Gli ostrogoti erano formalmente dei federati dell'impero. Il loro insediamento - concentrato prevalentemente nel centro nord - avvenne secondo le regole dell’hospitalitas con la distribuzione di terre fiscali. Teoderico stesso aveva ricevuto il titolo di patrizio che gli dava l'autorità di comandare anche sulla popolazione latina. L'amministrazione romana fu mantenuta efficiente in campo civile, mentre i goti fornivano le forze dell'esercito. Teoderico contava poi su un nucleo di collaboratori a lui personalmente legati (saioni) che sorvegliavano l’attività degli ufficiali goti e dei funzionari romani. Teoderico, che aveva trascorso la giovinezza a Costantinopoli, conosceva bene la città romana, dei cui benefici voleva approfittare assieme al suo popolo. Non soltanto egli diede ampie garanzie alle grandi famiglie senatoriali che non avrebbe cambiato gli assetti sociali 12 guerra durissima, l’Italia era tornata in mani imperiale. Noi conosciamo la vita e i tempi di Giustiniano soprattutto grazie all'opera di uno storico a lui contemporaneo, Procopio di Cesarea. Questi fu un personaggio curioso: compose infatti una serie di opere ufficiali nelle quali Giustiniano emerge come un personaggio positivo se non eroico e un pamphlet destinato a restare clandestino (Storia segreta) nelle cui pagine l'imperatore è descritto come un uomo vile e corrotto, manipolato a piacere dalla subdola e svergognata moglie. Questo duplice giudizio ha condizionato gli studiosi posteriori: da un lato non si possono negare l'importanza delle sue riforme interne. Dall'altra, visto che parte di queste terre venne persa pochi decenni dopo, Giustiniano è stato accusato di megalomania, di aver dilatato i confini dell'impero al di là delle sua capacità di difesa e, in tal modo, di aver aperto la strada alle future conquiste persiane e arabe. La Betica e l’Italia settentrionale andarono perse quasi subito, l'Africa rimase provincia imperiale per un secolo e mezzo, Puglia e Calabria per mezzo millennio. A minare la solidità della riconquista giustinianea furono probabilmente la grande peste del 542 e la conseguente crisi economica e demografica dell'impero. Cap.5 La conquista giustinianea segnò la fine del mondo antico. Fra la metà del VI secolo e gli inizi del VII il vecchio sistema di governo imperiale venne travolto dalla crisi economica e demografica, aggravata dalle guerre, dagli spostamenti di nuovi popoli dalla difficoltà dei re barbari a tenere in vita la complessa burocrazia richiesta dal sistema fiscale romano. Ne nacque una società più semplice, dal tenore di vita più basso, in cui il potere era fornito non più dalla redistribuzione delle terre. Il prestigio individuale non era più dovuto alla conoscenza della cultura letteraria ma al valore guerriero. L'attenzione per la cultura sopravvisse ma confinata dentro le mura dei monasteri. Non c'è pieno accordo sulla cronologia della crisi economica. Alcuni parlano di un unico e lungo periodo di lento declino dal III all'VIII secolo, altri vedono nella fondazione di Costantinopoli un atto che avrebbe sottratto risorse alle regioni occidentali per reindirizzarle verso la nuova cultura, altri individuano un momento decisivo nella conquista vandala dell’Africa e nella conseguente fine dei trasporti di grano verso Roma sovvenzionati dallo Stato. Anche le indicazioni dell'archeologia sono contraddittorie. Nell'insieme, i più importanti studi recenti indicano comunque negli anni a cavallo della metà del VI secolo il momento in cui l'economia mediterranea conobbe un veloce peggioramento dovuto ad una terribile combinazione di guerre, malattie e problemi climatici. Fra il IV e il VI secolo si ebbe un peggioramento del clima in tutto l'emisfero settentrionale. Nella prima metà del VI secolo il processo fu aggravato dalla colossale eruzione del vulgano Rabaul (Oceano Pacifico) che proiettò nel 536 tonnellate di polveri, le quali velarono il sole e per alcuni anni causarono un'ulteriore diminuzione della temperatura. Gli effetti del cambiamento climatico furono disastrosi soprattutto nell'Europa nord-occidentale dove i campi diventarono meno produttivi. Anche i commerci in area mediterranea risentirono gravemente del mutamento climatico: neve e ghiacci resero molto più difficili i transiti alpini e pirenaici, mentre le tempeste si facevano più frequenti e rendevano pericolosi i trasporti via mare. Già a partire dalla fine del V secolo, la crisi del sistema fiscale e amministrativo dell’Impero Romano ebbe gravi conseguenze sulla salute della popolazione. Si diffuse la malaria e anche la lebbra si propagò in tutta Europa. Il progressivo collasso del sistema delle fognature e della fornitura d'acqua potabile portò ad un generale peggioramento delle condizioni igieniche. Nel 542, si abbatté una devastante epidemia di peste bubbonica proveniente da Oriente e dall'Africa, che decimò la popolazione e colpì in maniera particolare le grandi città costiere, arrestando per un certo tempo i traffici marittimi. La peste accelerò un processo di popolamento delle campagne che era in corso già da un secolo o due. Anche nei territori occidentali dell'impero, nella seconda metà del secolo si riscontrano l'abbandono dei villaggi e la riduzione delle superfici coltivate. Fra il V e il VII secolo praticamente in tutto l'Occidente scomparvero le cosiddette “ville”, ossia le lussuose residenze di campagne. Le sofisticate strutture, che potevano includere impianti termali, cappelle per 15 il culto e saloni per i ricevimenti, furono lasciate decadere. In alcuni casi, esse vennero soppiantate da modesti insediamenti di contadini, in altri furono del tutto abbandonate, in altri ancora trasformate in strutture fortificate. La popolazione delle grandi città mediterranee fu colpita dalla peste ancora più gravemente di quella delle campagne. Alcune città scomparvero e altre si rimpicciolirono. Il legno, la paglia e la terra battuta presero il posto della pietra e dei mattoni nella maggior parte delle nuove costruzioni. Non è da escludere che, almeno in parte, la minor ricchezza degli edifici del V-VI secolo vada addebitata ad un fattore culturale e sia da intendersi come un tributo alla maggiore sobrietà di vita e di costumi propagandata dal cristianesimo, ma è indubbio che le città altomedievali fossero più piccole e povere di quelle romane. La peste e le guerre travolsero ciò che restava del sistema dei commerci sovvenzionati dallo Stato romano. Il Mediterraneo non rappresentava più uno spazio di collegamento su grandi distanze. Rimaneva attiva soltanto una navigazione di piccolo cabotaggio che si svolgeva su brevi tratti. La crisi dei commerci colpì anche la produzione artigianale, che si rivolse sempre di più all'autoconsumo locale e non a vasti mercati, divenendo quindi sempre più semplice ed essenziale. Nel VI secolo, la regione in cui la crisi si manifestò con più evidenza fu l’Italia. Colpite duramente dalla guerra, l'agricoltura e la manifattura stentavano a riprendersi a causa del peso delle tasse imperiali. Su questo panorama già desolato, la peste del 542 si abbatté in modo devastante, spopolando le poche città e zone coltivate che erano riuscite a rimanere indenni o avevano conosciuto una facile ripresa. | longobardi hanno una pessima fama, forse immeritata. Spesso se ne parla come di un popolo particolarmente selvaggio. In realtà, essi erano insediati da diversi decenni in Pannonia, dove si erano stabiliti quali federati dell'Impero d'Oriente, contribuendo a mantenere la sicurezza del confine danubiano. Non è facile ricostruire le forme e le cause della discesa dei longobardi in Italia. La spedizione fu preparata accuratamente dal capo longobardo eletto per l'occasione: il re Alboino + con una guerra durata dal 565 al 567 sottomise con la forza la vicina popolazione dei gepidi, non già per occuparne i territori, ma per arruolarli fra le proprie schiere e radunare un'armata abbastanza forte da garantire la conquista dell’Italia. Si misero in marcia il giorno di Pasqua dell’anno 568. Si trattava di un raggruppamento composito. | longobardi e i loro alleati entrarono dal Friuli e avanzarono rapidamente verso ovest. Le poche forze imperiali rinunciarono a resistere e ripiegarono verso le città della costa, più facili da rifornire e da difendere. Ciò rese le prime fasi della migrazione praticamente incruente. La mancanza di resistenza stupì i contemporanei, tanto che si diffuse la voce che il comandante imperiale Narsete fosse in combutta con i longobardi. Alcuni studiosi ipotizzano addirittura che il trasferimento fosse stato approvato dall'impero stesso in funzione anti-franca, ma non vi sono prove fondate in questa direzione. A lungo la storiografia ha presentato l’arrivo dei longobardi come il momento di frattura nella storia d’Italia, fra una lunga epoca tardo antica e il Medioevo. Oggi l'interpretazione viene sfumata e si afferma che, se frattura vi fu, essa è da attribuirsi molto più alle devastanti conseguenze della guerra greco-gotica e della peste che non a quelle dell'invasione. Non vi sono notizie di collaborazione fra le élite culturali e latine e i primi re longobardi ma questo probabilmente avvenne perché le élite culturali latine erano state in gran parte spazzate via ben prima del 568. L'impossibilità di questa collaborazione ha avuto una conseguenza molto grave: per circa un cinquantennio nell'Italia longobarda non si produsse più documentazione scritta il che ci rende molto difficile conoscere quanto accadde nei territori longobardi a cavallo fra il VI e il VII secolo. Fu invece innegabile la frattura geografica causata dall'invasione longobarda. | barbari avanzarono prevalentemente nelle aree in cui trovarono scarsa opposizione militare, mentre trascurarono Roma e le città costiere, che furono invece difese più tenacemente. Quando gli eserciti imperiali riuscirono a riconquistare Perugia, creando così un corridoio fra Roma e Ravenna, i domini Longobardi si trovarono spezzati in due. Nell’Italia padana e in Toscana si estendeva il regno vero e proprio che si diede come capitale Pavia mentre a sud si formarono i due vasti ducati di Spoleto e Benevento, formalmente soggetti al regno, ma in realtà dotati di amplissima autonomia. 16 Paradossalmente, proprio la debolezza della resistenza delle forze imperiali fu fatale ai primi re imperiali. Senza un nemico credibile, un capo unitario di guerra non aveva infatti più alcuno scopo, sicché Alboino fu assassinato nel 572 e il suo successore Clefi fece la stessa fine due anni dopo. Per dieci anni non vi furono nuovi re e il territorio si spezzettò in una rete di piccole dominazioni rette dai capi locali detti “duchi”. Nel primo periodo dello stanziamento in Itala viveva in piccoli gruppi isolati, costituiti su base tribale. La minaccia di un contrattacco imperiale e di un'invasione franca, però, rese necessaria una migliore coordinazione, per cui nel 584 venne eletto un nuovo re, Autari. Egli e il suo successore Agilulfo furono i veri fondatori del regno longobardo di cui fissarono come capitale Pavia. L'aristocrazia longobarda mantenne sino alla fine del regno la prerogativa di eleggere il re, fatto che impedì la dinastizzazione della carica e costituì un motivo di costante debolezza della monarchia, al quale si tentò di supplire per via femminile: non era raro che un re sposasse la vedova o la figlia del suo predecessore, costituendo così un legame parentale, anche se artificiale. A lungo la storiografia italiana ha raffigurato il regno longobardo come l'esito del dominio di una minoranza straniera sulla maggioranza latina ridotta in schiavitù. In un primo tempo, in effetti, i rapporti non furono facili, dato che gli invasori si stanziarono sul territorio senza seguire le regole dell’hospitalitas romana e sequestrarono ai latini terre e beni. | longobardi si insediarono in piccoli nuclei, nelle città e nelle campagne, costruendovi le loro tradizionali abitazioni di legno e paglia e mischiandosi alla popolazione indigena. Si perse quasi completamente l’uso della scrittura e per oltre 60 anni, dal 568 al 643, non vi è traccia di documenti pubblici. È però probabile che in tempi relativamente brevi le due popolazioni abbiano iniziato ad amalgamarsi. Una parte dei maggiorenti romani venne cooptata nell’aristocrazia longobarda e finì con l’assumerne legge e costumi. Anche le differenze religiose - i longobardi erano ariani - non costituivano un ostacolo all'incontro. La stessa decisione di costituire un regno, con una capitale fissa a Pavia, mostra chiaramente che il governo longobardo si governo longobardo si modellava sugli esempi e sulla tradizione romana. Con Agilulfo, la crescente ispirazione romana del potere divenne evidente: egli era probabilmente cattolico, ebbe importanti consiglieri fra i latini e adottò a corte alcune formule del cerimoniale in vigore a Costantinopoli. Soltanto nel 643, la monarchia longobarda produsse un proprio scritto ufficiale. Composto in occasione di una campagna militare che portò alla conquista della Liguria fino ad allora bizantina, l’editto testimonia in primo luogo i cambiamenti in corso della società longobarda. Rotari, dunque, volle preservare la memora delle leggi del suo popolo, interrogando in proposito i saggi più anziani e mettendone per iscritto le parole. Lo fece però usando la lingua dei conquistati, il latino. L'operazione è un segno evidente che ormai una parte della popolazione longobarda non parlava e non capiva più il linguaggio dei padri. La raccolta delle leggi era però anche una grande operazione politica, volta ad affermare in modo deciso la centralità del potere regio. AI vertice del regno longobardo vi era la corte del re, che aveva sede a Pavia e disponeva di un enorme patrimonio terriero, gestito da funzionari detti gastaldi. Mancando un apparato fiscale, era proprio grazie alla distribuzione delle terre pubbliche che i sovrani potevano ricompensare i propri fedeli, fra cui i principali erano i duchi, gli ufficiali a cui era demandato il governo delle diverse province. Al re faceva poi capo la rete dei tribunali, a cui l’editto consegnava un grande potere. Esso proibiva alla popolazione longobarda di farsi giustizia da sé, con il tradizionale sistema della vendetta privata, detta faida. Le leggi promulgate da Rotari prevedevano un elaborato sistema di versamenti in denaro, che dovevano compensare i danni subiti dalle vittime. Una parte della somma andava versata dalla corte: chi non poteva pagare, si vedeva sequestrare le terre. L'interlocutore politico del re era l'assemblea di uomini liberi, ossia dei guerrieri in grado di portare le armi (detti arimanni). Questi erano organizzati in clan familiari (farae) i cui componenti erano tenuti ad aiutarsi a vicenda. Le donne si trovavano di conseguenza in posizione subordinata e benché tutelate nella loro persona e negli averi da diversi capitoli dell’editto, non avevano personalità giuridica autonoma e dovevano essere soggette alla tutela di un parente o del marito. Essendo destinato essenzialmente ai longobardi, l’editto non ci dice nulla su chi continuava a denominarsi romano e di conseguenza obbediva alle proprie leggi tradizionali. Una parte non trascurabile della penisola italiana era 17 anonimo, la Regula Magistri, venne adottata da un gran numero di comunità diverse, fino a diventare, nel IX secolo, il testo di riferimento per tutto il monachesimo latino. In essa prevaleva il concetto di moderazione: la vita comune dei monaci era organizzata attraverso un'equilibrata distribuzione delle ore della giornata fra la preghiera e il lavoro, nonché il riposo. Un abate, eletto dai monaci, assicurava il corretto governo della comunità e la gestione delle sue proprietà. Nella vita associata aveva un ruolo essenziale la disciplina intesa sia come obbedienza alla Regola, sia come controllo severo delle proprie pulsioni fisiche e mentali per adattarsi ad una sequenza di giornate scandite da riti, preghiere e lavoro. Solo pochi monaci avrebbero potuto lasciare la comunità per dedicarsi alle più ardue e ascetiche esperienze eremitiche. Secondo la Regola di San Benedetto, i monaci dovevano saper leggere e scrivere o imparare al più presto a farlo. La lettura e la meditazione dei testi sacri rappresentavano momenti importanti nella giornata dei religiosi. Tutti i monasteri dovevano possedere una biblioteca e uno scriptorium dove questi codici venivano copiati e riprodotti. Non mancavano in queste biblioteche anche raccolte di testi di autori pagani che si considerava potessero fornire insegnamenti anche per un religioso. Non a caso, furono quasi tutti i monaci i grandi autori latini dei secoli VII-VIII secolo. Da questi centri di cultura uscirono anche personaggi poi chiamati a ricoprire ruoli di rilievo nel governo della Chiesa: papa Gregorio Magno, per esempio, il quale fu uno dei più importanti uomini politici e intellettuali della fine del VI secolo. I monasteri ebbero un ruolo di fondamentale rilievo nelle isole britanniche. L'Irlanda non era stata occupata dai romani e la sua evangelizzazione avvenne a opera di monaci predicatori, fra cui Patrizio. Mancano in Irlanda una rete di città, i vescovi si insediarono nei maggiori monasteri. Questi non furono solo luoghi di preghiera e di meditazione, ma anche sedi del governo religioso di tutta la regione. Uno sviluppo simile si ebbe anche in Britannia. La nuova conversione a cavallo fra il VI e il VII secolo fu attuata da monaci irlandesi e da monaci siriani, inviati da papa Gregorio Magno. | monasteri irlandesi e inglesi furono centri importantissimi, dove a intense esperienze spirituali si affiancò una vita culturale di alto livello, caratterizzata dalla presenza di rilevanti biblioteche di testi cristiani e classici. Parte importante dell'esperienza religiosa dei monaci irlandesi era il viaggio (peregrinatio) inteso come esperienza purificatrice e salvifica. Molti fra loro giunsero sul continente, portandovi la loro esperienza e il loro modo di vita: importante fu l'itinerario del monaco Colombano. Cap. 6 L'impero d'Oriente, nel corso del VII secolo, visse momenti drammatici che lo obbligarono a cambiare radicalmente la sua struttura interna, fino a trasformarlo in qualcosa di profondamente diverso dall'antico Stato romano. Il motivo principale fu l'avvento di una nuova religione, l'islam, che ebbe la capacità di unificare le popolazioni della penisola arabica e di motivarle in una serie di grandi campagne di conquista che cambiarono il volto del Mediterraneo e dell'Asia Minore fino ai nostri giorni. Durante il regno di Giustiniano, mentre la maggior parte delle forze dell'impero d'Oriente era impegnata in Italia, la frontiera del Danubio, pacifica da quando gli ostrogoti erano stati allontanati nel 489, tornò turbolenta a causa dell’affacciarsi di un folto gruppo di tribù dalle origini sconosciute che i contemporanei designarono con il nome collettivo di slavi. Non è possibile stabilire le regioni di provenienza di queste genti. Agli inizi del VI secolo, gli slavi partirono da qualche luogo situato nelle pianure dell'Europa orientale e si mossero verso ovest, approfittando degli spazi lasciati dai gruppi di guerrieri barbarici, a loro volta spostatisi entro i confini imperiali. Esprimevano una società piuttosto semplice, poco stratificata. Proprio grazie a questa semplicità, però, si dimostrarono in grado di assimilare rapidamente gli abitanti delle regioni in cui si spostavano e di fondersi con loro, raggiungendo rapidamente un peso demografico consistente e arrivando a rappresentare una minacciosa forza militare. In pochi decenni, si espansero così dal Baltico al Danubio, anche se ogni tribù rimase autonoma. Gli slavi erano totalmente estranei alla cultura romana. Gli imperatori d'Oriente non fecero alcuno sforzo per 20 inserirli nel loro gioco diplomatico, limitandosi a cercare di impedire che si creassero raggruppamenti politici troppo fori. Nella seconda metà del VI secolo, nell'area a nord del Danubio giunse anche una popolazione nomade, proveniente dall'Asia centrale, gli avari. Questi riuscirono a unificare la maggior parte delle tribù slave della regione, creando una forza politica e militare decisamente minacciosa. Nel 582, le fortificazioni imperiali sul Danubio furono espugnate e da allora i Balcani e la Grecia divennero teatro di considerevoli spostamenti di genti slave. La crisi imperiale sul confine danubiano e la perdita di gran parte dell’Italia a opera dei longobardi minarono gravemente il prestigio dell'autorità imperiale e implicarono una continua crescita delle spese militari. Le province precipitarono in uno stato di conflittualità con il potere centrale percepito come avido e inefficiente. Il dissenso delle periferie espresse soprattutto in termini religiosi, con l'adesione di massa delle popolazioni al cosiddetto monofisismo+ interpretazione della figura di Cristo che negava la duplice natura umana e divina riconoscendone solo l'aspetto divino. Il problema cristologico mascherava però una questione politica: le ricche regioni del Medio Oriente e l'Egitto volevano conquistare maggiori margini di autonomia, sotto la guida delle autorità religiose che si facevano interpreti delle esigenze della popolazione. La crescente ostilità della periferia sud-orientale verso Costantinopoli divenne evidente in maniera drammatica quando agli inizi del VII secolo l'impero d'Oriente visse la sua più grave crisi politica e militare. Essa iniziò sul confine balcanico che da tempo era minacciato dalla confederazione avaro-slava. Nel novembre del 602, nei pressi del Danubio l'imperatore Maurizio fu deposto dai suoi soldati. Lo scià di Persia, Cosroe II approfittò della situazione per attaccare i territori asiatici dell'impero. L'esercito di Costantinopoli, indebolito dai conflitti interni e dallo scarso appoggio da parte delle popolazioni indigene, fu travolto. Nel 607, le forze persiane occupavano la Siria e raggiungevano il Mediterraneo, nel 608 entravano in Anatolia e affacciavano sullo stretto del Bosforo. Foca fu a sua volta deposto nel 610 e il potere venne assunto da Eraclio, già esarca di Cartagine. L'impero era esausto, privo di risorse finanziarie e con un esercito al collasso. Eraclio non poté che assistere alla travolgente avanzata dei persiani. Eraclio non si arrese: chiamò la popolazione alla guerra santa contro gli invasori della cristianità e con l’aiuto propagandistico e finanziario della Chiesa si diede ad una paziente opera di ricostruzione del morale e dell'esercito, mentre i nemici sospendevano l'offensiva per preparare il colpo definitivo contro Costantinopoli. Nel 626 Eraclio compì il suo capolavoro. | persiani in collaborazione con gli avari sottoposero a un duro assedio la capitale imperiale. Eraclio ne affidò con successo la difesa ad una piccola guarnigione, alla flotta e alla popolazione. Poté così approfittare dell'assenza della maggior parte delle forze persiane per entrare di sorpresa con il grosso dell'esercito nella valle dell'Eufrate. Per due anni, gli uomini di Eraclio saccheggiarono e devastarono il cuore dello Stato sasanide, finché i persiani, stremati, chiesero un accordo. Nel 628, fu conclusa una pace che ricostruiva i confini del 602. Benché vittorioso, l'impero d'Oriente usciva sfinito dalla lotta. Le perdite umane e finanziarie erano state pesantissime. Soltanto l’Italia e l'Africa occidentale scamparono alla guerra. Peggio ancora era andata all'impero sasanide, che, in seguito alla sconfitta, dovette affrontare una lunga guerra civile per la successione a Cosroe II. Un colossale vuoto di potere si era aperto in Medio Oriente. Ne avrebbero approfittato gli arabi. Gli arabi avevano da tempo intense relazioni con i due imperi. La popolazione araba tradizionalmente si divideva in gruppi sedentari, stanziati nel Sud e nel Nord della penisola arabica, e beduini nomadi che vivevano nel deserto al centro della penisola stessa. Nel VI secolo, i sedentari del Nord erano in buona parte cristiani e si raggruppavano in due regni che rientravano rispettivamente nelle sfere di influenza di Costantinopoli e della Persia. | beduini erano organizzati in tribù, che vivevano di allevamento, commercio e guerra, con periodiche razzie ai danni dei sedentari. Nel cuore della penisola, dove prevaleva il nomadismo, esisteva un'eccezione: la città della Mecca, dove sorgeva il santuario detto “della pietra nera”, oggetto di culto per tutte le tribù politeiste della regione. La Mecca era un importante snodo mercantile, un ambiente urbano vivace e culturalmente dinamico, dove i culti tradizionali arabi convivevano con importanti comunità ebraiche e cristiane. Vi dominava la potente e numerosa tribù di Quraysh, i cui esponenti controllavano la nomina delle 21 principali cariche politiche e religiose. Di questo ambiente era figlio Muhammad (Maometto). All'età di quarant'anni - verso l'anno 610 - Maometto annunciò che, tramite un angelo, Dio lo aveva scelto come messaggero per trasmettere al mondo il suo verbo> opera di proselitismo. La maggior parte del gruppo dirigente meccano però fu ostile al messaggio e la crescente opposizione che li circondava indusse Maometto e i suoi seguaci a lasciare la Mecca per rifugiarsi nell'oasi di Medina, dove furono accolti calorosamente quali saggi e giudici. Fu la cosiddetta egira, avvenuta nel luglio del 622, un atto che fu poi considerato fondante per la storia islamica, tanto che il calendario musulmano ha assunto proprio il 622 come anno zero. A Medina il gruppo dei credenti si fece sempre più numeroso, tanto che Maometto dettò qui le prime norme per regolare la convivenza fra i suoi seguaci e i non musulmani. Si elaborò anche la teoria del jihad, un termine che stava a indicare sia lo sforzo di miglioramento individuale del buon musulmano, secondo la parola di Allah, sia l'aggressione in armi contro gli infedeli, volta alla loro sottomissione e conversione. Su questa base iniziò una lunga lotta contro i clan della Mecca, una guerra che si protrasse con alti e bassi per otto anni, mentre il messaggio di Maometto si diffondeva a macchia d'olio fra le altre tribù d’Arabia, fino a ridurre a netta minoranza la tenace resistenza dei Quraysh. Tradizionalmente, si vuole che qui sia stato composto il Corano. Il Dio annunciato a Maometto è rigorosamente unico e nessuno può essergli affiancato nella venerazione. Egli ama gli uomini, ai quali vuole indicare la via della salvezza, per percorrere la quale è necessaria una totale sottomissione al suo volere: proprio la parola sottomissione venne a indicare la nuova religione. Furono definiti anche i cosiddetti cinque pilastri del comportamento del buon musulmano: credere in Allah pregare cinque volte al giorno, fare l'elemosina ai poveri, digiunare durante il mese sacro del Ramadm ed effettuare un pellegrinaggio alla Mecca almeno una volta nella vita. Agli inizi del 630, i fedeli di Allah erano ormai parecchie migliaia, tanti da poter dare l'assalto alla Mecca. La città capitolò e i suoi abitanti, a loro volta, si convertirono. L'unificazione religiosa della penisola arabica coincise così con quella politica: la Mecca ne rimase il principale centro commerciale e religioso. Medina divenne la sede del potere terreno, residenza privilegiata di Maometto e dei suoi successori. Il Profeta non fu solo la guida spirituale del mondo arabo-islamico ma anche il capo politico. Guidò anche le prime grandi incursioni militari a nord, contro l'Impero Romano d'Oriente, finché la morte non lo colse a Medina, l'8 giugno 632. Alla morte di Maometto, si pose il problema di scegliere un nuovo capo politico e religioso per la umma, la comunità islamica. Il gruppo dei primi seguaci del Profeta si riunì e scelse quale suo successore il più vecchio amico e discepolo di Maometto, Abu Bakr. Egli morì dopo meno di due anni + Abu Bakr designò quale nuova guida un altro dei primi compagni di fede, Omar. Omar adottò il titolo di “comandante dei credenti” (emiro) e il decennio fu segnato da grandiosi successi militari. Essi furono dovuti sia alla debolezza degli avversari sia alla capacità diplomatica dei musulmani. Essi presentarono alle popolazioni conquistate un volto estremamente tollerante: concludevano trattati di sottomissione che si arrendevano loro, garantendo la libertà di culto e la salvaguardia dei beni e delle persone. Si sarebbero limitati a riscuotere dei tributi. Le incursioni arabe in Medio Oriente erano iniziate attorno al 630 probabilmente come semplici razzie ma la limitatissima capacità di resistenza delle forze imperiali nell'area fece sì che rapidamente gli arabi comprendessero l'opportunità di conquista che si proponeva loro. Nel 634, un grande esercito entrò nella regione. Le truppe di Costantinopoli in Siria erano poche e poco pagate. La popolazione era ostile a Eraclio. Il collasso del dominio imperiale fu questione di pochi anni. In poco più di otto anni, l'impero d'Oriente aveva perso alcune delle sue province più ricche, ma fu comunque in grado di fermare l'avanzata araba verso Costantinopoli e garantire la propria sopravvivenza. AI contrario, l'impero persiano, provato dalla sconfitta subita dieci anni prima a opera di Eraclio, non riuscì a opporre una resistenza efficace agli invasori. La maggior parte della Persia fu occupata dalle tribù di Medina fra il 633 e il 642 e nel 651 con la morte dell'ultimo shah (imperatore) il lungo dominio dei Sasanidi ebbe ufficialmente termine. Omar morì assassinato da uno schiavo nel 644 e gli succedette un altro dei compagni del Profeta, Othmar, che 22 Cap.7 Nei primi decenni dell'VIII secolo l'espansione araba verso l'Europa fu arrestata dai bizantini a Oriente e dai franchi a Occidente. Ne seguì un generale processo di riequilibrio dei poteri nell'area euro-mediterranea che vide l'avvento del nuovo califfato islamico abbasside le cui attenzioni erano rivolte più all’Asia che al Mediterraneo e che conobbe di conseguenza la separazione di fatto delle sue ragioni più occidentali ossia la Spagna e il Maghreb. L'impero d'Oriente, dopo essersi assicurato la sopravvivenza, conobbe un periodo di lotte religiose interne (l'iconoclastia) che lo separò ulteriormente dal mondo latino. Qui emerse come potenza egemone il regno dei franchi di cui si impadronì Pipino il Breve, creando un nuovo e privilegiato legame con il papato. Di fronte alla crisi economica che aveva colpito i territori latini e greci nel corso del VII secolo, il califfato di Damasco godeva di una situazione favorevole. La sopravvivenza del complesso apparato fiscale tardo-romano e di quello persiano, conservati dai nuovi governanti arabi a loro vantaggio, permetteva di convogliare verso le capitali regionali e quella califfale grandi quantità di ricchezze che poi venivano reinvestite nelle paghe per l'esercito e per gli amministratori, nella costruzione di edifici e di infrastrutture e nell'acquisto di beni di lusso per la corte di Damasco. Le città rimasero ricche e vitali e divennero snodi di un commercio a largo raggio, rivolto verso la Cina e l'India. Il prezzo però fu una forte oppressione fiscale che gravava soprattutto sulle campagne e che finì col causare malcontento e rivolte. Sotto gli Omayyadi l'espansione araba riprese con un certo dinamismo. Le conquiste più importanti si svolsero nel Mediterraneo, verso i territori dell'antico Impero Romano d'Occidente. Fra il 680 e il 698 una serie di campagne militari portò alla sottomissione dell’esarcato di Cartagine e di tutto il territorio nordafricano fino all’Atlantico. Nel 711 un gruppo di arabi e di berberi valicò lo stretto di Gibilterra per un'incursione in Spagna. La reazione dei visigoti, minati al loro interno da contrasti profondi, fu talmente debole e disorganizzata che la spedizione di saccheggio si trasformò rapidamente in un'operazione di conquista. In due anni la maggior parte della penisola fu assoggettata e i visigoti superstiti si ritirarono sulla costa atlantica settentrionale. Il resto del territorio divenne una provincia del califfato, chiamata AI Andalus, con Cordova come capoluogo. Negli stessi anni le forze arabe effettuarono importanti conquiste anche in India e nelle pianure a nord dell'Afghanistan. | grandi successi convinsero nell'estate del 717 il califfo Sulayman appena salito al potere a tentare la presa di Costantinopoli. Le difese cittadine resistettero all'impatto, mentre le navi bizantine, dotate di un micidiale ordigno incendiario detto “fuoco greco”, riuscirono a tenere a bada quelle arabe. Dopo un anno, decimato dal freddo, dalla fame e dai combattimenti contro i bulgari, alleati degli imperiali, il corpo di spedizione omayyade dovette ritirarsi: era la più grande sconfitta mai subita dagli arabi dall'avvento di Maometto. Le ambizioni di espansione verso l'Europa subirono un secondo rovescio quindici anni dopo quando un esercito arabo e berbero si mosse dalla Spagna verso la Francia meridionale per una grande spedizione di razzia e saccheggio. Queste forze si spinsero molto a nord, fino alla cittadina di Poitiers, dove furono intercettate e disastrosamente sconfitte dall'esercito del regno franco, guidato dal maestro di palazzo di Carlo Metello. Le perdite degli incursori furono tali che le fonti arabe posteriori definirono la giornata “campo dei martiri”. Se è vero che in seguito vi furono ancora razzie a nord dei Pirenei, nessuna ebbe più le dimensioni di quella del 732 e ogni velleità di estendere ulteriormente il dominio islamico in Europa venne abbandonata. L’islam si trovò ad affrontare un problema imprevisto, quello delle conversioni sempre più frequenti delle popolazioni assoggettate. Verso la fine del VII secolo, parti sempre più consistenti della popolazione si convertirono alla religione del gruppo dominante: il processo fu particolarmente imponente in Persia e in Africa occidentale. Questo causò un grave problema: i numerosi convertiti non erano arabi, ma una volta diventati musulmani in teoria avrebbe avuto la possibilità di accedere agli stessi privilegi dei conquistatori. In particolare, avrebbero 25 dovuto essere esentati dal pagamento delle tasse sulla proprietà fondiaria e anzi, se arruolati nell'esercito, ricevere a loro volta un compenso. Per i califfi, il vantaggio di acquisire amministratori molto preparati e validi guerrieri veniva così annullato dal fatto che le entrate fiscali minacciavano di crollare. Gli Omayyadi reagirono negando ai convertiti la pienezza dei diritti che spettavano agli arabi e obbligandoli a pagare le stesse tasse che versavano in precedenza. Questi provvedimenti suscitarono però violente opposizioni, che si trasformarono in aperte rivolte. Nel 740-741 i berberi si ribellarono, protestando contro le discriminazioni compiute dagli arabi. Questi ultimi tentarono di reprimere l'insurrezione con le armi, ma furono ripetutamente sconfitti. | rivoltosi riuscirono così a costituire uno Stato, di fatto indipendente, sul territorio dell’attuale Marocco, anche se, nominalmente, continuarono a riconoscere l'autorità califfale. Il successo dei berberi aprì la strada a un'altra, più grande rivolta nella parte orientale del califfato, nei territori dell’antico impero persiano. Qui si creò un'alleanza fra gli arabi insediati nella zona - che si sentivano discriminati rispetto ai loro conterranei che vivevano in Siria - i persiani convertiti all’islam e gli sciiti. Nel 747, i coalizzati si mossero dall’altopiano iranico e nel 750 travolsero in una battaglia sul fiume Tigri l’esercito omayyade. Marciarono poi su Damasco dove prese il potere il nuovo califfo Abu Abbas fondatore della dinastia degli Abbassidi. Nel nuovo califfato abbasside prevaleva l'influenza persiana, tanto che una delle prime decisioni fu quella di abbandonare Damasco e fondare una nuova capitale a Baghdad. Sul fiume Tigri, nelle vicinanze dell'antica capitale sasanide, la grande città fu costruita il nuovo radicamento orientale del califfato. Il governo degli Abbassidi cercò di risolvere i gravi problemi che avevano afflitto i suoi predecessori. Pur ribadendo la loro ortodossia sunnita, i califfi assunsero un atteggiamento meno rigido nei confronti degli sciiti che furono poi tollerati. Le discriminazioni nei confronti dei convertiti vennero abolite e si decise di assoggettare tutti ad un'unica imposta, basata sull’estensione delle proprietà terriere, così da salvaguardare gli introiti fiscali dello Stato, ridistribuendoli meglio su tutta la popolazione musulmana. Militarmente, essi concentrarono le loro forze a Oriente e giunsero a sconfiggere l'impero cinese, guadagnando il pieno controllo delle vie carovaniere che attraversavano l’Asia centrale. Durante queste campagne militari catturarono anche numerosi artigiani specializzati, grazie ai quali fu possibile potenziare la produzione della seta e di impiantare quella della carta. Il governo abbasside concentrò ulteriormente il suo potere con la creazione dell'ufficio del visir, anch'esso di derivazione persiana, un primo ministro che doveva coadiuvare il califfo nell'’amministrazione e sorvegliare l'operato degli ufficiali locali. Ciò però ebbe un prezzo, dato che Baghdad perse progressivamente il controllo delle parti più occidentali del territorio. Alla semi-dipendenza del Marocco berbero si aggiunse quella della Spagna, dove riuscì a rifugiarsi Abd al Rahman, l’unico superstite della famiglia degli Omayyadi. Nel 756, egli vi fondò un emirato che non riconosceva neanche formalmente la superiorità dei califfi di Baghdad : l’unità politica del mondo islamico era andata perduta e non sarebbe mai più ricostituita. Il fallito assedio arabo del 717 rappresentò un deciso punto di svolta. Fu un grande successo per l’imperatore eletto pochi mesi prima, Leone III l’Isaurico. Eliminata la minaccia diretta sulla capitale, Leone poté rinforzare l'esercito e integrare il sistema tematico con la creazione di una riserva strategica di cavalleria. Nel 740, gli fu così possibile infliggere agli arabi una nuova sconfitta a Akroimos, che permise agli imperiali di riconquistare tutta l’Anatolia e poi di avanzare, sotto l'erede di Leone, Costantino V, fino alla Siria e all’Armenia. Alle vittorie militari contro i nemici esterni, però, corrispose l'esplosione di un durissimo conflitto all'interno dell'impero, la cosiddetta crisi iconoclasta, che prende il nome dalle parole greche icona “immagine sacra” e klao “distruggo”. È necessaria una premessa: nella tradizione della Chiesa greco-ortodossa, le raffigurazioni di Dio, della Madonna o dei santi hanno un'importanza assai superiore rispetto alla cultura latina e cattolica: esse devono essere realizzate da uomini religiosi e sono oggetti sacri. Negli anni in cui Costantinopoli era minacciata dai persiani prima e dagli arabi poi, si era sviluppato un vero culto delle icone, considerate non più solo l'immagine di una potenza superiore, ma esse stesse in grado di compiere autonomamente miracoli. Era una tendenza opposta a quanto avveniva nel mondo arabo, dove si era affermata l’idea che Dio e il divino non 26 erano raffigurabili in forma umana o naturale. Verso il 690, il califfo di Damasco Al-Malik accusò i cristiani di idolatria e ordinò la distruzione delle immagini sacre nelle chiese poste entro i confini del suo dominio. La campagna di Al-Malik si esaurì piuttosto rapidamente, ma l’identificazione fra la devozione alle immagini sacre e l’idolatria fu ripresa pochi decenni dopo dall'imperatore bizantino Leone III, con l'intento di eliminare quella che egli considerava una degenerazione superstiziosa della fede. Nel 730, Leone III emanò un editto nel quale si condannava il culto delle icone. Gli scopi erano molteplici: Leone intendeva assicurare il favore divino sul suo Stato purificando l'immagine del Creatore da un'eccessiva mondanità. Leone riaffermava anche la centralità del proprio potere, rivendicava la possibilità di agire autonomamente in materia di fede e colpiva gli enti monastici, che a differenza del clero secolare erano praticamente indipendenti dall’autorità del sovrano. Nelle chiese le immagini furono sostituite dalla raffigurazione della croce. Durante le processioni, al posto delle icone vennero mostrate le raffigurazioni dell’imperatore stesso. La condanna del culto delle immagini fu ribadita e ampliata dal figlio di Leone, Costantino V, che nel 754 convocò un grande sinodo dei vescovi, affinché l’iconoclastia fosse proclamata dottrina ufficiale. L'iconoclastia era stata imposta dai vertici imperiali e trovò un forte seguito nell'esercito, dato che i ripetuti successi militari contro gli arabi degli anni 740-750 furono attribuiti al ritrovato favore divino. Fra la popolazione, però, il culto delle immagini restava radicato e l'opposizione alle decisioni di Leone III e di Costantino V fu molto forte. Anche numerosi intellettuali si scagliarono contro i due sovrani, accusati di comportarsi come giudei o saraceni. Lo stesso papa fu ostile alla distruzione delle immagini, argomentando soprattutto che nel mondo latino esse non erano oggetto di culto, ma semplici strumenti utili a illustrare agli illetterati le virtù divine. Dopo la morte dell'imperatore, il partito iconoclasta si indebolì. Le posizioni favorevoli al culto delle immagini furono sostenute da Irene, che aveva sposato il figlio ed erede di Costantino V, Leone IV. Morto anche quest’ultimo, Irene, che regnava come reggente per il piccolo Costantino VI, fece riunire nel 787 un conciliò che annullò le decisioni del 754. Le due idee si combatterono ancora agli inizi del IX secolo finché nell'843 l'iconoclastia non fu definitivamente condannata e essa al bando. L'impero, concentrato ormai quasi esclusivamente sulla lotta contro gli arabi e poi impegolato nel conflitto iconoclasta, aveva cessato di essere una presenza attiva in Italia. Il rego dei franchi era scosso dai conflitti interni e minacciato a sud dagli arabi insediatisi in Spagna. Anche al suo interno, il regno dei longobardi visse una stagione di stabilità e prosperità. A cavallo fra il VII e l'VIII secolo giunse a pieno compimento quel processo di fusione fra gli invasori e i romani: ormai il termine longobardo indicava tutti i sudditi del regno, a prescindere dalle origini etniche, mentre con la parola romano si intendevano esclusivamente i sudditi dell'impero d'Oriente. Tutti parlavano ormai la stessa lingua - un latino assai semplificato - e professavano la religione cattolica. Anche la vita economica era in piena rifioritura: le città si ripopolavano e venivano costruiti nuovi edifici, soprattutto religiosi, mentre lungo i grandi fiumi sono attestate vivaci attività commerciali. Il regno coniava una piccola moneta d’oro, detta tremisse, che sembra circolasse in abbondanza: si ritiene infatti che i ricchi longobardi possedessero grandi quantità di beni fondiari e di denaro. Le compravendite di terre e di merci venivano nuovamente registrate per iscritto e divenne sempre più importante il ruolo di un gruppo di letterati, i notai pubblici. Quest'epoca di fioritura coincise in gran parte con il regno di Liutprando. Liutprando si propose soprattutto come re-legislatore, aggiungendo una serie di nuove leggi a quelle raccolte da Rotari. Queste venivano di solito emanate in occasione di una grande riunione dei potenti laici ed ecclesiastici del regno. Durante queste assemblee, che servivano a sottolineare lo stretto dialogo esistente fra il re e i sudditi, Liutprando fungeva anche da giudice, pronunciando sentenze che dovevano rappresentare esempi e precedenti per tutti i tribunali del regno. Leggi e sentenze non avevano carattere etnico ma territoriale e avevano valore per tutti gli abitanti dell’Italia longobarda. Il re esercitava la sua autorità sul territorio grazia ad una fitta rete di funzionari, la cui fedeltà alla corona era ricompensata con l'attribuzione di terre. Il regno era diviso in circoscrizioni, ognuna facente capo ad una città e governata da duchi o gastaldi. Questi amministravano la giustizia, garantivano 27 Cap.8 Dopo l'incoronazione di Pipino il Breve a re dei franchi, le due vittoriose spedizioni militari contro i longobardi di re Astolfo stabilirono la piena superiorità del regno franco sull'Europa latina. Quando nel 757 Astolfo morì, Fu probabilmente Pipino a condizionare la nomina del nuovo re longobardo, Desiderio. Questi si affrettò a concludere un'alleanza con l'ingombrante vicino dando in moglie una sua figlia a Carlo, uno degli eredi al trono di Pipino. Anche i ducati periferici del regno franco, che prima avevano difeso una certa indipendenza proprio contando sull'appoggio longobardo, furono rapidamente ricondotti all'’obbedienza. Nel mondo latino, soltanto le popolazioni delle isole britanniche non riconoscevano la superiorità politica e militare dei franchi. Pipino morì nel 768 e spartì il duo regno tra i due figli, Carlomanno e Carlo. Il primo morì tre anni dopo, lasciando Carlo solo dominatore di un vasto territorio che si estendeva dai Pirenei alla Baviera. Carlo sapeva che il modo migliore per garantirsi la fedeltà delle grandi famiglie franche era proseguirne la politica di espansione. Per ottenere il controllo dell'esercito, uno dei primi provvedimenti da lui presi fu lo scioglimento dei reparti armati privati, imponendo a tutti i guerrieri a cavalo di giurare obbedienza soltanto al re. In cambio essi avrebbero ricevuto in concessione terre pubbliche a sufficienza perché potessero mantenersi ed equipaggiarsi. Carlo giunse a disporre di uno strumento militare affidabile e efficiente, con il quale poté condurre grandi campagne di conquista che gli valsero il soprannome di Magno. Dopo la morte di Pipino, Desiderio allora si era mosso sfruttando la rivalità fra i due eredi franchi e aveva tentato di prendere sotto il suo controllo Roma, facendo eleggere un pontefice a lui favorevole. La precoce scomparsa di Carlomanno, nel 771 lascò Desiderio solo a fronteggiare Carlo. Egli tentò una mossa drastica marciando in armi nel Lazio: ottenne il solo risultato di indurre papa Adriano | a chiamare i franchi in suo soccorso nel 773. Ben addestrata e bene armata la cavalleria pesante carolingia superò le fortificazioni longobarde delle Alpi occidentali e pose Pavia sotto assedio. Nell'estate del 774 Desiderio si arrese e fu fatto prigioniero. Carlo assunse il potere, facendosi proclamare “re dei franchi e dei longobardi”: l’Italia centrosettentrionale veniva unita al regno franco, ma mantenne una sua individualità sicché Carlo poté affidare all’aristocrazia longobarda una parte della responsabilità di governo. Dal 781, il figlio di Carlo, Pipino, ottenne la corona del nuovo regno d’Italia, che vide così consolidata la propria autonomia. Anche a sud dei Pirenei si delinearono condizioni favorevoli per un intervento militare di Carlo Magno. Gli ultimi superstiti della dinastia araba degli Omayyadi avevano fondato un emirato autonomo a Cordova, nel 756. Non tutti i musulmani di Spagna accettarono però il nuovo governo. Nel 778, Carlo tentò di intervenire a sostegno di una rivolta scoppiata nel Nord della penisola, ma la spedizione fu fallimentare e va ricordata soltanto perché la distruzione della retroguardia franca a Roncisvalle. Nei Pirenei occidentali, diede origine a uno dei più celebri poemi cavallereschi del Medioevo: la Chanson de Roland. Andò meglio fra il 796 e l'801, quando nuove rivolte permisero una seconda campagna militare carolingia, che portò alla conquista di Barcellona e alla creazione della cosiddetta “marcia di Spagna” annessa al regno dei franchi ma la maggior parte delle cariche di governo fu affidata agli esponenti dell'antica aristocrazia visigota. Le guerre mediterranee di Carlo Magno avevano un grande valore ideologico, dato che gli permettevano di presentarsi come protettore del papa, in Italia, e nemico degli infedeli, in Spagna. Il vero cuore degli interessi franchi era nell'Europa centrale e fu qui che Carlo effettuò la maggior parte delle sue campagne militari. Lo sforzo maggiore fu prodotto contro i sassoni, che abitavano nell'attuale Germania settentrionale. | sassoni erano pagani e avevano spesso aggredito e saccheggiato le regioni orientali del territorio franco: la loro sottomissione era necessaria per la sicurezza del regno. La guerra si prolungò per quasi trent'anni. In un primo momento, Carlo agì con grande durezza, obbligando chi si sottometteva a farsi battezzare e sterminando chi si rifiutava. L'atteggiamento del re cambiò: dal 793, si ricercò la collaborazione con l'aristocrazia sassone e le conversioni non furono più imposte con la forza. Nell'803, la guerra finì: i sassoni accettarono la soggezione a Carlo, ma ottennero di mantenere le nostre leggi e di essere 30 governati dai propri nobili, nel frattempo diventati cristiani. Pipino e Carlo Magno condivisero l'idea che una stretta collaborazione con la Chiesa fosse indispensabile all’efficace governo del regno e la salvezza delle anime dei sudditi fosse il compito principale di un buon re. La morte del vescovo Bonifacio non arrestò il processo di riforma e riorganizzazione dell'episcopato franco. Il mantenimento del clero era assicurato tramite le decime, ossia l'obbligo da parte dei proprietari fondiari di versare alle chiese un decimo dei prodotti dei campi e dell'allevamento. La liturgia venne resa omogenea, con l'imposizione dei riti utilizzati a Roma. La Chiesa franca si mise a sua volta a servizio del regno: il re aveva il diritto di nominare vescovi e arcivescovi. La stretta collaborazione fra il clero e la corona è ben dimostrata dal fatto che con Pipino e Carlo Magno la cancelleria regia fu affidata a chierici, che assicuravano un livello culturale superiore ai laici a cui l’incarico era affidato durante l’età merovingia. Dopo le sconfitte inflitte da Pipino e da Carlo Magno ai longobardi, i papi avevano sperato di potersi sostituire a questi ultimi come effettivi governanti dell’Italia: a tal fine verso il 760 a Roma fu redatto un famoso documento, rivelatosi poi un falso, la cosiddetta Donazione di Costantino, secondo il quale il grande imperatore romano avrebbe affidato ai successori di San Pietro il governo della parte occidentale del suo impero. Dopo il 774, però papa Adriano | dovette rassegnarsi al fatto che l’esuberante potenza militare carolingia non lasciava spazio a poteri rivali e che di fatto il re dei franchi aveva preso sotto la sua protezione la sede pontificia. Nel 779, alcuni nobili romani tentarono di deporre papa Leone III, che scappò oltralpe e chiese l’aiuto di Carlo, dando così a quest’ultimo l'occasione di entrare in armi nell’Urbe e di reinsediarvi il pontefice. Il 25 dicembre dell’anno 800, durante la messa di Natale, Carlo Magno fu incoronato imperatore d'Occidente da Leone III e acclamato come tale dal popolo di Roma e dai guerrieri franchi. L'incoronazione non giunse di sorpresa, dato che già da alcuni anni Carlo e la sua corte stavano preparandosi a fare questo importante passo. Nonostante ciò, pare che non tutto sia andato secondo i desideri di Carlo Magno. La cerimonia allestita da papa Leone III non corrispondeva a quella in uso a Costantinopoli, dove il nuovo imperatore veniva prima proclamato tale dall'esercito e dal popolo e poi benedetto dal patriarca: a Roma, invece, dapprima Leone Ill incoronò e unse Carlo, il quale fu poi acclamato dal clero e infine dai nobili franchi del suo seguito. Il papa era riuscito a ritagliarsi nella cerimonia un ruolo completamente nuovo e che lo metteva in una posizione determinante, dato che era stato il suo atto di porre la corona sul capo dell'imperatore a dare il via al rito. In tal modo, la corona dell'impero d'Occidente veniva legata in maniera indissolubile alla città di Roma e al suo vescovo > ebbe conseguenze fortissime. Per il momento, dato che Carlo controllava in modo molto stretto le azioni del papa, l'atto di Leone III era stato solo un piccolo fastidio. La corona imperiale sottolineava che, sebbene non dominasse direttamente su tutta l'Europa latina, Carlo Magno ne rappresentava senza dubbio la figura di riferimento. Furono pessime le relazioni con l'impero d'Oriente che considerava l'incoronazione dell'800 un'usurpazione dei suoi diritti sull'Occidente. Soltanto nell'812, dopo vari tentativi diplomatici e una guerra si giunse ad un compromesso: Carlo avrebbe potuto portare il titolo generico di “imperatore”, ma non di imperatore “imperatore romano”, che restava prerogativa di Costantinopoli. Era concepito come un’ecclesia, un'assemblea di fedeli, il cui scopo era prima di tutto la salvezza materiale e spirituale dei sudditi. Questi ultimi non potevano che essere cristiani, per cui era necessario convertire tutte le terre pagane conquistate: il battesimo era la condizione necessaria per essere membri della società, civile e religiosa. L'onesta gestione del governo e il corretto svolgimento del culto erano responsabilità dell’imperatore. Sotto la guida di quest’ultimo, coadiuvato dal papa, gli ufficiali laici e le gerarchie ecclesiastiche dovevano dunque armonicamente collaborare. Se i primi garantivano sicurezza terrena grazie ai tribunali e all'esercito, le seconde provvedevano a quella spirituale, tramite la correzione dei costumi, la celebrazione degli indispensabili riti sacri e l'intermediazione con Dio garantita dalle incessanti preghiere dei monaci. Il modello era biblico: i cristiani latini rappresentavano il nuovo popolo eletto, riunito sotto la guida di Carlo, novello di re Davide. Il capo della Chiesa era l'imperatore stesso: egli nominava gli arcivescovi e i vescovi, o quantomeno ne approvava l'elezione da 31 parte del clero locale, adunava le assemblee ecclesiastiche e ne condizionava le decisioni. Le riforme già iniziate nell'VIII secolo vennero proseguite e intensificate. Si promosse l'unificazione della liturgia, con la diffusione in tutto il territorio dell'impero del messale romano, del calendario liturgico e anche delle norme di comportamento. Ludovico il Pio impose a tutti di adottare la Regola di San Benedetto. Gli intellettuali alla corte di Carlo Magno tentarono poi di standardizzare i testi sacri e di imporre un'unica traduzione della Bibbia, curata da Alcuino di York. Carlo Magno operava anche nel campo più strettamente religioso in maniera totalmente autonoma rispetto al papa, al quale potevano venire imposte anche conclusioni non gradite. Carlo Magno non avrebbe mai potuto conquistare il suo impero senza la stretta collaborazione con l'aristocrazia franca prima e con una parte di quella dei territori conquistati dopo. Per formalizzare e governare questi rapporti, Carlo fece largo uso del legame vassallatico. Vassallaggio > deriva da un'antica parola celtica passata con la quale si indicava un uomo che ne serviva un altro. Sotto Pipino e Carlo, vassus indicò persone di un livello sociale più elevato, che prestavano giuramento di fedeltà al re, o a uno dei suoi ufficiali locali, entrando così a far parte della sua clientela e ricevendo dunque protezione. Questo scambio astratto poi si concretizzava nel fatto che il vassallo prestava un servizio al re, come ufficiale pubblico, come amministratore, come domestico o come guerriero, a seconda del suo stato sociale. In cambio riceveva un beneficium, ossia dei beni fondiari in grado di garantirgli un reddito. Nella maggior parte dei casi si trattava di terre. Carlo Magno ai suoi vassalli rafforzava il controllo del sovrano sui sottoposti. Carlo non tentò mai di riesumare il sistema fiscale romano. Non si riscuotevano le imposte dirette, ma solo i pedaggi imposti sulle merci che si muovevano su distanze sovraregionali. Si trattava di cifre piuttosto ridotte, sicché il governo carolingio non poté mai disporre di una fonte sicura e regolare di moneta. In questa prospettiva il legame vassallatico, che era revocabile, rappresentava uno strumento più duttile rispetto alle donazioni utilizzate dai predecessori di Carlo Magno. Tutti gli uomini che lavoravano per il re erano scelti nel gruppo dei vassalli regi. L'assenza di un apparato fiscale non deve far pensare che l'impero carolingio fosse privo di un forte governo centrale dotato di una sua precisa progettualità. Carlo Magno ebbe una grande attenzione verso la produzione legislativa. Ogni regione soggetta all'impero doveva avere una propria legge locale, applicata a tutti gli abitanti del luogo. Il governo imperiale produceva a sua volta delle norme che integravano o modificavano quelle delle raccolte regionali. Ogni anno si svolgeva l'assemblea solenne dei grandi dell'impero, detta placito generale, durante la quale venivano emanate delle leggi, chiamate capitolari. | capitolari potevano riguardare casi specifici o essere testi generali, validi per tutto il territorio carolingio. In quest’ultimo caso, vi erano appositi ufficiali, detti missi dominici, che dovevano recarsi in tutte le sedi dei conti e dei marchesi e portarvi il testo delle nuove norme da far applicare. Il cuore dell'impero era rappresentato dall'imperatore stesso e dalla corte dei suoi più stretti collaboratori. Non esisteva una capitale fissa: Carlo e i suoi successori si spostavano regolarmente fra i diversi palazzi regi che esistevano in tutto il territorio 3 Acquisgrana aveva sede il più grande e prestigioso. | trasferimenti del sovrano servivano soprattutto a mostrare la sua vicinanza a tutte le popolazioni soggette, senza legarlo in maniera prevalente a una località determinata. Assieme all'imperatore si muovevano alcuni personaggi di fiducia > il conte palatino, che esaminava le cause di chi si appellava alla corte, il camerario, che custodiva le casse del tesoro, il siniscalco, che sovraintendeva alla gestione delle terre della corona e pochi altri. L'ufficio più importante era la cancelleria dove si producevano gli atti scritti che permettevano di mettere in comunicazione il sovrano con i suoi sudditi. Gli addetti alla cancelleria erano tutti chierici e appartenevano al più ampio gruppo dei cappellani di palazzo, che celebravano le funzioni religiose. Il territorio imperiale era diviso in circoscrizioni, dette contee, della dimensione di un'attuale provincia. Ogni contea era governata da un conte. | conti erano funzionari pubblici e, sebbene la loro carica non avesse una scadenza prestabilita, potevano essere rimossi o spostati a piacere del re. Nelle zone di confine, esistevano circoscrizioni più grandi e dotate di maggiori risorse militari, che presero il nome di marche, a loro volta amministrate da marchesi. Conti e marchesi avevano due compiti fondamentali, ossia amministrare 32 nuova scrittura minuscola, particolarmente chiara e leggibile, nota come scrittura carolina. Si noti che era talmente bella e nitida che i primi stampatori italiani di libri del XV e del XVI secolo la adottarono come carattere standard. La carolina è in tal modo giunta fino a noi e con pochi mutamenti compare sulle stesse pagine del volume. Cap.9 Caratteristica peculiare dei secoli centrali del Medioevo europeo fu la disgregazione del potere pubblico e la sua appropriazione da parte dei privati (“signori”) che si impadronirono di molte prerogative statali come se fossero parte del loro patrimonio. Nell’806, Carlo decise di spartire i suoi territori fra i tre figli di primo letto - Pipino, Carlo e Ludovico - e soltanto la precoce scomparsa dei fratelli lasciò a quest'ultimo l’intero regno e la carica di imperatore. Il governo di Ludovico si pose in forte continuità con quello del padre, accogliendone in particolare la forte tensione spirituale e il forte legame con la Chiesa, della quale Ludovico proseguì l'opera di riforma, meritando il soprannome di “Pio”. Egli tenne le redini del potere, riuscendo a mantenere il controllo sugli ufficiali pubblici e a respingere le minacce esterne. Non mancavano però elementi di debolezza. La fase dell'espansione territoriale franca poteva considerarsi terminata: a sud arabi e bizantini erano avversari troppo forti, mentre a est, il frammentato mondo delle tribù slave non offriva obiettivi che potessero ripagare la spesa della mobilitazione di un esercito. | confini imperiali restarono immobili. Questo creò forte insoddisfazione all’aristocrazia militare franca, per la quale guerra e bottini erano un fattore imprescindibile di guadagna e benessere. Le tensioni che durante il regno di Carlo Magno avevano trovato sfogo all'esterno dell'impero, con Ludovico deflagrarono al suo interno, anche a causa delle divisioni in seno alla stessa famiglia regnante. Ludovico + aveva tre eredi, tentò di modificare la tradizione franca per mantenere unita la corona imperiale e nell’817 decise di attribuirla al suo primogenito Lotario. | suoi fratelli avrebbero avuto il titolo di re, ma sarebbero stati politicamente sottomessi a Lotario. Ne nacque una lunga serie di ribellioni e di conflitti interni che indebolì il potere imperiale e pose le premesse per la sua successiva crisi. Ludovico credeva nella realizzazione di un impero cristiano e provvidenziale e intendeva collaborare strettamente con la Chiesa per realizzarlo. Nell’816 andò a Roma per farsi incoronare da papa Stefano II, consolidando così il ruolo dei pontefici nella nomina dei nuovi imperatori. Nel difficile contesto delle guerre civili, la Chiesa riuscì a ritagliarsi uno spazio autonomo di manovra e a esercitare una grande influenza sul potere imperiale, tanto da condizionarne l’azione. | rapporti di forza tra impero e Chiesa esistenti all'epoca di Carlo Magno furono ribaltati. Nell'822, un concilio dei vescovi franchi impose a Ludovico di fare pubblica penitenza per aver ecceduto nella repressione di una rivolta scoppiata in Italia facendone accecare il capo. Alla morte di Ludovico il Pio, nell'840, Lotario ereditò come previsto la corona imperiale, ma i suoi fratelli - Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico - scesero immediatamente in guerra contro di lui. Dopo alcune sanguinose battaglie, nell'843 si giunse ad un compromesso, concluso nella cittadina francese di Verdun: l'impero venne diviso in tre fasce. Carlo ebbe quella occidentale, corrispondente più o meno all'attuale Francia e Ludovico quella orientale, ossia una parte dell’attuale Germania e l’Austria. Lotario conservava il titolo di imperatore, l’Italia, la Provenza e una striscia di territorio - detta Lotaringia - che risaliva dalle Alpi al Mare del Nord. Lotario controllava il cuore simbolico dell'impero, con le città di Roma e di Aquisgrana, ma i territori di Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico erano del tutto indipendenti da lui. Restava comunque l’idea di un'unità dei territori post-carolingi, tanto che i tre fratelli si riunivano periodicamente per trovare soluzioni comuni ai problemi che si presentavano. Il tratto di Verdun non fu in grado di offrire un assetto stabile ai territori carolingi. Il dominio di Lotario dopo la sua morte si spezzò in due: la parte a nord della Alpi fu conquistata e divisa tra Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico nell'870, mentre il figlio di Lotario, Lodovico II, rimase imperatore e regnò sulla sola Italia 35 centro-settentrionale. Da quel momento, il titolo imperiale rimase legato alla corona d'Italia. | discendenti di Carlo Magno, impegnati in continue lotte fratricide e stremati dalle incursioni di normanni, ungari e saraceni erano incapaci di imporsi sulle aristocrazie locali. Nell'877, con il celebre capitolare di Quierzy, Carlo riconobbe il diritto dei figli dei suoi conti e dei suoi vassalli maggiori a succedere ai padri e diede così sanzione esplicita ad una prassi probabilmente già invalsa da qualche decennio. Molti fra i più stretti seguaci del re, nel frattempo, riunivano nelle loro mani il governo di più contee, creando dei veri principati all’interno del’ territorio. Fra l’880 e l'884, uno dei figli di Ludovico il Germanico, Carlo il Grosso, riuscì a riunire per via ereditaria nelle sue mani tutto l'impero. Alla sua morte, però, i tre regni di Francia, Germania e Italia tornarono a separarsi. In tutti l'aristocrazia locale scelse come re uno dei propri esponenti. In Italia non si trovò un accordo: Berengario, marchese del Friuli, e Guido, duca di Spoleto, iniziarono una dura lotta per la supremazia. Fra il IX e il X secolo, l'Europa latina fu colpita da una violenta serie di attacchi da parte delle popolazioni del Nord, dell'Est e del Sud, attacchi che non miravano a conquistare territori, ma a saccheggiare e rapinare. | conflitti civili fra gli eredi del trono avevano indebolito l’esercito e le sue capacità di difesa. Gli stessi sovrani e potenti locali assunsero atteggiamenti altalenanti verso gli invasori, talvolta combattendoli e talvolta cercando di farseli alleati per utilizzarli contro i loro rivali. Negli anni Trenta del IX secolo, le coste della Frisia (attuale Olanda) furono soggette a numerose incursioni da parte dei normanni. | normanni erano originari della Scandinavia e di norma fra loro si distinguono le popolazioni dell'ovest - i vichinghi - e quelle dell’est, i variaghi, svedesi, che si mossero verso le pianure dell’attuale Russia. Alla base dei loro successi vi fu un'importante novità tecnica: nel corso dell'VIII secolo, essi avevano elaborato delle innovative imbarcazioni, i famosi drakkar, che erano in grado di navigare nell'oceano, ma anche di risalire i fiumi, consentendo ai normanni di penetrare anche nell'entroterra. Essi approfittarono della crisi dei regni post-carolingi e di quella parallela del regno di Mercia, in Inghilterra, che permise loro di operare senza trovare resistenza organizzata su larga scala. Nell'885 giunsero anche ad assediare Parigi, che risparmiarono soltanto in seguito al pagamento di un forte riscatto da parte dell’imperatore Carlo il Grosso. Le razzie normanne misero in ginocchio la Francia settentrionale, l'Inghilterra e l'Irlanda, ma giunsero anche sulle coste spagnole e perfino su quelle italiane. A partire dalla metà del IX secolo, i mormanni cominciarono a stabilirsi sulle coste francesi e britanniche, creandovi campi fortificati. Progressivamente, questi accampamenti si trasformarono in insediamenti stabili, il più celebre dei quali è Dublino. Nel corso del X secolo essi colonizzarono l'Islanda, le coste della Groenlandia e si spinsero a creare alcuni piccoli insediamenti nell'America settentrionale. L'espansione più significativa si ebbe nelle pianure dell'Europa orientale, dove i normanni di Svezia (variaghi) intrapresero lunghi viaggi sfruttando il corso dei fiumi russi: navigando il Volga e il Don essi giunsero fino a Costantinopoli e presero contatto con gli arabi di Baghdad. La ricchezza di questi traffici era tale che lungo l'itinerario sorsero importanti insediamenti mercantili come Kiev. Quest'ultima divenne il centro di un importante principato nato dalla fusione fra le élite normanne immigrate e quelle slave della regione. Le basi dei normanni furono numerose nella Francia nord-occidentale dove almeno dall’'876 aveva stabilito il suo potere il capo normanno Rollone. Nel 911, il re di Francia Carlo il Semplice decise di approvare e legalizzare l'insediamento e cedette anche formalmente ai normanni la regione della Normandia. Rollone in cambio giurò fedeltà a Carlo, si convertì al cristianesimo e si impegnò a difendere la Francia contro gli scandinavi. La conversione facilitò una rapida integrazione con la popolazione locale: dopo pochi decenni i normanni parlavano francese, si erano legati in matrimonio con gli indigeni e ne erano diventati indistinguibili. Sulle coste latine del Mediterraneo, la minaccia maggiore era rappresentata dalla flotta islamica, che dominava incontrastata la regione. Dagli inizi del IX secolo, si era costituito nell'attuale Tunisia l’emirato aglabide, che, pur riconoscendo formalmente l'autorità dei califfi di Baghdad, era di fatto indipendente. Aglabidi d'Africa e Omayyadi di Spagna - collettivamente designati dalle fonti latine col termine saraceni - predarono sistematicamente le coste italiane e provenzali. Gli islamici d'Africa e di Sicilia seppero inserirsi abilmente nelle lotte politiche che dilaniavano l’Italia meridionale, dove carolingi, longobardi e bizantini, 36 nonché le città praticamente autonome della costa campana, lottavano per il predominio. Da queste località i saraceni condussero grandi spedizioni di saccheggio verso l'entroterra francese e italiano, risalirono il Rodano a nord e raggiunsero l'Adriatico a est. L'impresa maggiore compiuta dagli Aglabidi fu la conquista della Sicilia, ancora in mani bizantine. L'impero d'Oriente era allora concentrato nella difesa dell'Anatolia e dei Balcani, sicché non reagì all’attaccò e non inviò alcun rinforzo. La resistenza delle forze locali fu tenace ed esse furono vinte soltanto nel 902. Determinò un mutamento nella geografia politica della regione: fin dall'antichità Siracusa era stata il centro indiscusso del potere, ma dato che questa città rimase in mano bizantina fino al'878 gli arabi dovettero darsi un capoluogo e scelsero Palermo. Alla fine del IX secolo, sui confini orientali dell'impero si stanziò un popolo nomade, originario delle steppe euroasiatiche. Gli ungari occuparono l'antica regione romana della Pannonia, rimasta semiabbandonata e priva di un governo stabile dopo che Carlo Magno vi era sconfitto gli avari. Gli ungari sottomisero le popolazioni slave dei dintorni e cominciarono a sferrare profonde incursioni volte al saccheggio della Germani e dell’Italia settentrionale. La minaccia ungara mise in allarme l’intera Europa, ma per un arco di tempo abbastanza breve: i re di Germania nell'arco di pochi decenni riuscirono ad organizzare una valida resistenza e infine a infliggere agli aggressori una disfatta definitiva nel 955. È importante la distinzione tra due sfere di competenza, quella del pubblico e quella del privato. Nell’Europa post-carolingia si riteneva che alcune prerogative fossero sì di natura pubblica ma che potessero essere gestite da enti o famiglie, del cui patrimonio entravano a far parte, venendo di fatto trattate come beni privati. Le persone che detenevano diritti di origine pubblica erano detti signori e le località o le regioni dove essi esercitavano questi diritti si chiamavano signorie. La patrimonializzazione o meglio, la privatizzazione dei poteri pubblici fu l'esito della crisi della regalità carolingia e dell’affermazione di potentati locali (laici ed ecclesiastici) tra la fine del IX e quella del X secolo. Il capitolare di Quierzy (877, Carlo il Calvo) riconobbe il fatto che i governatori delle diverse province dell'impero potevano di fatto considerare ereditari i loro titoli. Agli inizi del X secolo la capacità dei sovrani di controllare le nomine degli ufficiali era praticamente scomparsa, con la parziale eccezione del regno di Germania. Il fatto che i conti e i marchesi fossero anche vassalli dell'imperatore causò progressivamente una confusione dei due ruoli. A partire da Ludovico il Pio e con frequenza sempre maggiore sotto i suoi successori, gli uffici pubblici divennero cariche da distribuire ai vassalli in cambio della loro fedeltà: insomma, la carica pubblica stessa divenne un beneficio. Nel corso del X secolo, come gli altri benefici, essa entrò nel patrimonio di famiglia e cominciò ad essere divisa fra gli eredi o addirittura venduta conte, duca o marchese assunsero il valore che attribuiamo noi oggi a due parole, ossia di titoli legati ad una famiglia e trasmessi all'interno di essa, non più nomi di uffici pubbli Il controllo ereditario delle cariche pubbliche finì col mutare profondamente la natura dell'aristocrazia post- carolingia. Dalla fine del IX secolo, i regni divennero assai più piccoli e non era più necessario il consenso del sovrano per ottenere un titolo pubblico, che giungeva invece in eredità. Le grandi famiglie si spezzarono così in rami diversi, ognuno radicato in una singola regione, attorno ad una contea o ad una marca che erano entrate fra i loro possedimenti dinastici. In queste stesse regioni finirono col concentrarsi, anche attraverso la fondazione di monasteri e chiese. Un fenomeno comune alla Francia e all'Italia fu l'espansione delle grandi proprietà fondiarie, laiche ed ecclesiastiche. Nel clima di insicurezza generale, molti piccoli proprietari preferirono cedere le proprie terre ad un latifondista per riceverle indietro in affitto, solitamente di durata perpetua. In cambio, essi ottenevano la protezione del potente. Perdendo il possesso sulle terre, questi individui perdevano anche il pieno status di uomini liberi, in particolare la possibilità di prestare il servizio militare, ancora strettamente riservata ai proprietari fondiari. Andò così smarrito quel legame diretto fra la massa della popolazione e il sovrano che aveva rappresentato la base della monarchia franca e di quella longobarda. Dal X secolo, le cancellerie degli ultimi carolingi e dei loro successori non emanarono più leggi - che si rivolgevano alla totalità dei sudditi - ma diplomi, ossia privilegi particolari riservati a quei potenti che 37 Pamplona e successivamente di Aragona. Fu invece assai differente la sorte della parte orientale dell'impero carolingio, ossia il regno Teutonico o di Germania. A differenza di Francia e del regno d’Italia, quello di Germania non era l'erede di un precedente regno pre- carolingio, ma di una serie di entità politiche dalla storia e dalla tradizione assai differente. Queste rappresentavano realtà semi-autonome nell’ambito del regno e si chiamavano ducati: i principali erano quelli di Baviera, di Alamannia, di Franconia e di Sassonia. Quando nel 919 il duca di Sassonia Enrico, fu eletto re di Germania dovette trovare un modo di convivere con gli altri duchi che non desse spazio a tentazioni autonomistiche. Enrico fu abile nel presentarsi come un primo fra i pari e non come un dominatore, tanto che rinunciò alla cerimonia dell’unzione regia, per dimostrare ai duchi che non rivendicava un potere superiore al loro. Egli condusse poi una serie di campagne vittoriose contro gli slavi e gli ungari che gli diedero fama di abile condottiero e gli procurarono terre e ricchezze da distribuire fra i suoi seguaci. Quando Enrico morì, nel 936, il suo potere era ormai consolidato e il figlio ed erede Ottone poté fece incoronare con una grande cerimonia nella cappella di Aquisgrana, costruita da Carlo Magno, per rivendicare alla nuova dinastia sassone la piena continuità con la precedente tradizione carolingia. La solidità dei grandi ducati in cui era diviso il regno di Germania limitò la frammentazione dei poteri che stava invece caratterizzando il resto dell'Occidente l'autonomia di cui ognuno di essi godeva non permise al re di avere alcun potere presso di loro. Per esercitare un minimo controllo Ottone attuò due diverse strategie. Puntò sulla propria famiglia, nominando suoi consanguinei o suoi parenti acquisiti a capo di quasi tutti i grandi ducati in cui era diviso il regno. Egli sviluppò un legame privilegiato con la chiesa e mantenne uno stretto controllo sulla nomina delle principali cariche ecclesiastiche del regno. Gli arcivescovi, i vescovi e gli abati scelti dal re governavano importanti città o territori ed erano in grado di fornire al sovrano appoggio politico e militare. Il terzo pilastro del potere sassone fu l'esercito: Enrico | e Ottone I, avendo conservato il controllo sulla rete degli ufficiali pubblici, avevano ancora la capacità di mobilitare in tutto il territorio regio migliaia di cavalieri pesanti. Ottone basò il passo successivo della sua ascesa proprio sulla forza militare, che lo portò a impadronirsi della corona imperiale. Le grandi capacità belliche conservate dal regno di Germania furono alla base del successo sovralocale della dinastia sassone e della rinascita dell'impero sotto il suo controllo. Il 10 agosto 955, nella valle del fiume Lech, Ottone diede battaglia a un consistente gruppo di incursioni ungari e lo annientò quasi completamente. La vittoria segnò la fine delle grandi spedizioni magiare in Occidente e diede a Ottone un enorme prestigio: la propaganda di corte si affrettò a presentare il re come un nuovo Carlo Martello, che aveva salvato l'Europa centrale dalla minaccia dei pagani. A questo punto Ottone poteva progettare la sua spedizione più ambiziosa, che lo avrebbe portato a conquistare il regno d’Italia. Nel settembre del 961, procuratosi il sostegno di papa Giovanni XII e di molti nobili italiani, Ottone scese nella penisola alla testa di un grande esercito, al quale il debole re locale, Berengario d'Ivrea, non poté opporre alcuna resistenza significativa. Ottone era già a Roma dove con la moglie Adelaide ricevette la corona imperiale. Da quel momento Adelaide divenne di fatto la responsabile del governo del regno d’Italia. L'atto più importante compiuto da Ottone dopo l'incoronazione fu la redazione del cosiddetto privilegio di Ottone un diploma con cui il sovrano confermava alla chiesa romana grandi donazioni in tutta l'Italia centrale, ma in cambio imponeva che l'elezione dei nuovi papi avvenisse alla presenza e con l'assenso di delegati imperiali. Ottone assumeva in tal modo il pieno controllo sul papato. Conquistato il titolo imperiale, Ottone | fece in modo che potesse essere trasmesso ai suoi discendenti senza opposizioni. Egli si associò al trono di figlio Ottone II per il quale organizzò anche un matrimonio di grande prestigio, con Teofano, una nipote dell’imperatore d'Oriente Giovanni Zimisce. Ottone Il succedete al padre alla sua morte nel 973, ma il suo regno fu breve e segnato dalla disastrosa sconfitta inflittagli dagli arabi di Sicilia nel 982 in Calabria. Ottone Il morì nel 983 e lasciò come erede un bambino di soli tre anni, Ottone III. La dinastia fu salvata dall'energia di due donne: la madre Teofano e la nonna Adelaide riuscirono ad assumere la reggenza e a governare con l'autorità l'impero fino al 996, quando il re bambino raggiunse la maggiore età. Ottone III aveva 40 un programma politico molto chiaro, che si riassunse nel motto da lui adottato “rinnovamento dell'impero Romano”. Erede della tradizione latina per parte di padre e di quella greca per parte di madre, Ottone voleva riprendere il meglio della storia romana classica e di quella carolingia: da un lato si circondò di intellettuali di grande prestigio, facendo della sua corte un grande polo culturale, dall'altro rivitalizzò l'aspirazione carolingia a costituire un regno profondamente morale e cristiano. La sintesi delle due tendenze fu la nomina a papa di uno dei più grandi intellettuali latini dell'epoca, Gerberto d’Aurillac, che prese il nome di Silvestro I, il papa che battezzò Costantino. Ottone però morì a Roma nel gennaio del 1002: non lasciò eredi. Il trono passò al cugino Enrico Il che, a differenza del suo predecessore, si dedicò soprattutto a consolidare il potere in Germania, interrompendo bruscamente l'ambizioso progetto politico e intellettuale di Ottone III. La Baghdad del IX e del X secolo era una città grande dall’intensissima vita culturale. Qui la tradizione islamica si incontrò con la filosofia greca, la sapienza persiana e il pensiero dell'Asia centrale. Abbastanza presto però, a questa vivacità economica e intellettuale fece da contraltare una grave instabilità politica, dovuta soprattutto alle ripetute guerre di successione che si scatenavano in seno alla dinastia abbasside. Paradossalmente, la stessa vivacità culturale di Baghdad aggravò la situazione > nell’islam non esiste una gerarchia sacerdotale, perciò il dibattito teologico è affidato ad un gruppo di dotti, gli ulema, il cui parere non è vincolante. Definire quale fosse la corretta interpretazione del Corano, l'ortodossia, era compito del califfo. In questo modo, la religione diventava uno strumento della lotta politica fra i diversi pretendenti al trono. Questo generò una diffusa insicurezza. A cavallo tra il IX e il X secolo, la crisi politica del califfato abbasside divenne sempre più evidente. A Baghdad si accrebbe sempre più il ruolo dei vizir, ufficiali di corte che collaboravano con i califfi nell'esercizio del governo ma che progressivamente si impadronirono delle leve del potere. | vizir stessi dovettero confrontarsi con la crescente influenza de comandanti turchi dell'esercito i quali rivendicavano un peso sempre maggiore nelle scelte della corte. Quest'ultima ormai esercitava un effettivo controllo sotto su una parte del territorio dominato. Nel 936, al termine di una lunga stagione di conflitti interni, il comandante dell'esercito turco di Baghdad assunse i pieni poteri e ridusse di fatto il califfo ad una semplice figura simbolica. Le difficoltà del califfato di Baghdad diedero spazio alla nascita di nuovi poteri rivali. Dopo la presa di potere degli Abbassidi, nel 756 fu fondato in Spagna un emirato autonomo, guidato dagli ultimi superstiti della famiglia omayyade. | primi decenni di vita del potentato furono difficili. Nel corso del X secolo, gli emiri riuscirono ad acquisire un controllo sempre più forte sulla parte restante del territorio, istituendo un apparato fiscale molto efficiente e dando il via a grandi opere pubbliche volte a bonificare e irrigare le terre. La Spagna centro- meridionale divenne una delle aree più ricche del Mediterraneo. Nel 929, il governatore della città, l'emiro Abd al Rahman si proclamò califfo dando origine ad un secondo califfato islamico detto appunto di Cordova che si contrappose con pari peso ideologico a quello di Baghdad, contestando esplicitamente la pretesa degli Abbassidi di rappresentare la suprema autorità politica e religiosa dell'islam. Nelle province occidentali il califfato d Baghdad non era più in grado di esercitare il potere in maniera efficace. Alla fine del IX secolo, nei territori africani del Nord, estesi tra le attuali Algeria e Tunisia, si diffuse tra i berberi la dottrina sciita a opera di un predicatore siriano d nome di AI Mahdi. Questo prese il titolo di imam ossia di “guida suprema” ad un tempo politica e religiosa e si mise a capo di un movimento armato che nel 909 conquistò la provincia d'Africa. Al Mahdi e i suo assunsero il nome di Fatimidi, che rimandava a Fatima, figlia di Maometto e moglie di Alì, il fondatore del partito sciita. Nel 969, i Fatimidi riuscirono a conquistare l’Egitto fondarono Il Cairo d proclamarono la nascita di un califfato autonomo. Dall'Egitto, essi si mossero ancora verso ovest sottomettendo via via la Palestina, parte della Siria e la parte occidentale della penisola arabica, incluse La Mecca e Medina. Per la prima volta, all'interno del mondo islamico, si determinò una frattura non soltanto politica ma anche religiosa. Ai califfati di Cordova e Baghdad se ne aggiungeva un terzo, sciita, ostile agli altri due e intenzionato a soppiantarli, per affermare in tutto l'Islam la propria interpretazione del Corano e dell'eredità di Maometto. 41 Delle crescenti difficoltà del califfato di Baghdad seppe approfittare l'impero d'Oriente che fra la metà del IX e gli inizi dell'XI secolo visse una lunga stagione di ripresa politica, economica e militare. Protagonisti di quest'epoca furono i cosiddetti imperatori militari che provenivano da famiglie originarie delle regioni orientali, che conoscevano per esperienza diretta la guerra contro gli arabi e furono in grado prima di mettere in sicurezza e poi dalla metà del X secolo di condurre grandi campagne di conquista + un netto rinnovamento del gruppo dirigente imperiale e un ridimensionamento del potere delle vecchie stirpi senatoriali insediate a Costantinopoli. Erano presenti molto personaggi molto acculturati, abili nell'uso della scrittura e della retorica. Benché il titolo imperiale non fosse ereditario, di fatto per quasi due secoli, dalla fine del IX secolo alla metà dell'XI i sovrani bizantini provennero da una stessa stirpe, detta macedone, dal suo capostipite, Basilio | il Macedone. L'impero bizantino visse la sua stagione più prospera, conoscendo una vivace crescita economica, una forte espansione militare e un aumento del prestigio politico. La stabilizzazione del vertice e la sicurezza militare diedero un nuovo impulso all'economia imperiale. Costantinopoli tornò ad ingrandirsi e tornò ad essere un'importante destinazione delle grandi vie carovaniere che qui arrivavano dalla Cina attraverso la Persia. Le province dell'impero divennero vivaci luoghi di scambi e commerci e rinacquero molti centri urbani. Anche l'agricoltura conobbe una netta crescita di produttività, grazie alla diffusione degli impianti di irrigazione, dei mulini e ad una miglior selezione delle sementi. Si diffuse l'allevamento ovino. La ricchezza crescente dell'impero veniva in parte intercettata da un apparato fiscale rinnovato e potenziato. A partire dal regno di Niceforo |, si riprese a riscuotere le imposte, seppure in maniera ridotta, e a pagare almeno una parte dell'esercito in denaro. Nel corso del IX secolo, la tassazione fondiaria fu progressivamente ripristinata. La ripresa dei commerci fornì inoltre grandi quantità di denaro alle casse pubbliche. Tutto ciò procurava agli imperatori d'Oriente una disponibilità finanziaria eccezionale, di gran lunga superiore a quella dei loro omologhi occidentali e anche dei tre califfi. La grande disponibilità di denaro nelle casse pubbliche si tradusse in maggiori capacità militari e nella possibilità di arruolare forze sempre più professionali e meglio equipaggiate. Nella seconda metà del X secolo, gli eserciti imperiali ottennero importanti vittorie contro quelli islamici, riconquistando l’intera Anatolia, sottomettendo l'Armenia e spingendosi fino alla Siria settentrionale. Gran parte dei potenti arabi della regione accettarono di pagare un tributo, sottomettendosi formalmente all'autorità di Costantinopoli. La liberazione di Gerusalemme sembrava vicina, ma i bizantini non osarono procedere. L'espansione militare di Costantinopoli si volse invece verso nord, dove l’imperatore Basilio Il fra il 990 e il 1018 riuscì a sottomettere i bulgari e a riportare i confini settentrionali dell'impero sul Danubio. Anche le coste della Crimea, sul Mar Nero, vennero conquistate e colonizzate: divenne così possibile importare grandi quantità di grano dalle pianure dell'Ucraina per sostenere la rinascita demografica. Le conquiste terrestri vennero affiancate da grandi offensive sul mare. Già fra l'870 e l'880 la flotta imperiale aveva eliminato l'effimero emirato arabo di Taranto. Le forze imperiali riconquistarono la Basilicata e la Puglia settentrionale, obbligando i principati longobardi di Benevento e di Salerno a riconoscere almeno formalmente la sovranità di Costantinopoli. Ancora più importanti furono i successi ottenuti nel mar Egeo dove vennero riconquistate le isole di Creta e di Cipro. Costantinopoli era tornata padrona delle acque del Mediterraneo orientale, che tornò ad essere un bacino relativamente sicuro per le navi cristiane. Il rinnovato prestigio culturale e politico della corte di Costantinopoli produsse una vera e propria offensiva missionaria verso le popolazioni stanziatesi nei Balcani. Nella seconda metà del IX secolo due religiosi (Cirillo e Metodio) iniziarono a predicare presso gli slavi. Il loro messaggio ebbe successo anche presso i bulgari. Nei territori delle attuali Ucraina, Bielorussia e Russia occidentale, si erano insediate forti comunità di normanni provenienti dalla Svezia che animavano un fitto traffico commerciale di pellicce, gioielli e schiavi, diretto dal mar Baltico verso il Mar Nero, che faceva capo a Costantinopoli e ai grandi mercati della Persia e dell'Asia centrale. Verso la metà del X secolo, un discendente dei primi coloni normanni era riuscito a crearsi un forte seguito fra l'aristocrazia slava della regione, con l'appoggio della quale aveva costruito un potentato che 42 sarebbero stati avviati alla carriera ecclesiastica o avrebbero ricevuto solo il minimo necessario per costituire una dota e sposarsi o acquistare un equipaggiamento militare con cui mantenersi combattendo. La memoria dinastica e il culto delle glorie degli avi divenne un elemento importante dell'identità famigliare: per facilitare l’identificazione di una discendenza vennero introdotti i cognomi e gli stemmi araldici. Di norma alla base della crescita agricola dell'XI e del XII secolo si indicano alcune innovazioni tecniche. Queste erano già disponibili durante l'età carolingia, ma si diffusero davvero soltanto dopo il 1000. La prima fu la rotazione triennale> era impossibile coltivare ogni anno lo stesso campo, dato che le colture ne impoverivano il suolo, ogni pianta consuma alcune tipologie specifiche di nutrimenti. Era dunque necessario lasciare a riposo le terre sulle quali si erano raccolti i cereali l'anno precedente, magari destinandole al pascolo del bestiame, affinché il letame da questo prodotto le nutrisse e ne accelerasse il recupero. Questa pratica era chiamata maggese. A partire dal IX secolo si introdusse una rotazione più complessa, che prevedeva di seminare su un terzo dei terreni cereali autunnali su un terzo cereali primaverili o legumi e lasciare a riposo il terzo restante. Altra importante innovazione, fu l'adozione dell’aratro pesante, che dissodava il terreno più in profondità e portando in superficie gli strati più profondi e ricchi di elementi nutritivi della terra. Per muovere questi grossi aratri, si diffuse l’uso dei cavalli come animali da tiro, al posto dei buoi. Queste innovazioni permisero un aumento della resa dei campi. L'incremento delle coltivazioni di cereali da pane portò con sé la diffusione dei mulini ad acqua. La loro costruzione richiedeva una certa competenza tecnica. Dalla metà del XII secolo, l'energia idraulica venne utilizzata sempre più spesso anche per le produzioni manifatturiere. La crescente familiarità con cui gli europei padroneggiavano l’acqua si tradusse anche nel moltiplicarsi dei canali di irrigazione, con tecniche in parte elaborate sul posto, in parte mutuate dal mondo arabo. Tutti i miglioramenti appena ricordati permisero di valorizzare meglio le terre e di renderle più produttive e redditizie, ma da soli non potevano consentire una crescita della produzione tale da sostenere una popolazione che aumentava esponenzialmente. L'aumento della produzione dipese dunque in gran parte dalla conquista di nuove terre coltivabili, ottenuta riducendo le superfici incolte tramite dissodamenti e disboscamenti. Si trattò di piccole iniziative individuali, compiute autonomamente dai contadini che allargavano i confini dei loro campi verso i boschi. In altri casi, invece, l'iniziativa fu presa dai signori o dai grandi proprietari, laici ed ecclesiastici. Spesso, in questi casi venivano anche creati nuovi villaggi nel centro delle regioni dissodate dove i coloni potevano andare a risiedere per dedicarsi alla coltivazione dei campi così ricavati. Un’attestazione immediata delle dimensioni del fenomeno è data dall'analisi della toponomastica. In ogni regione d’Italia si trova infatti un gran numero di abitati che sin dal nome dimostra di essere stato fondato dal nulla, di solito in età medievale: si tratta dei centri chiamati “Villanova/Villanuova” o “Borgonovo/Borgonuovo”. Vi era anche un lato negativo nell’ampiamento indiscriminato dei coltivi. Il disboscamento metteva a disposizione dei contadini nuovi campi e nuove vigne, ma al prezzo di altre risorse. Le foreste non costituivano spazi inutili ma erano sfruttate per la caccia, per l'allevamento di maiali e capre, per la raccolta di frutti selvatici e per il taglio del legname. Gli uomini dell’epoca riuscirono a trovare soluzioni pratiche per questi problemi, soprattutto grazie alla diffusione dei cosiddetti boschi cedui nei quali le piante venivano tagliate, lasciando il ceppo nella terra, da dove poi era in grado di ricrescere rapidamente tramite l'emissione di polloni. L'espansione dei coltivi avvenne anche tramite la colonizzazione di aree del continente ancora poco popolate e caratterizzate dalla prevalenza di foreste o di incolti. Con tempi e modi diversi in tutta l'Europa occidentale il sistema di gestione dei grandi patrimoni fondiari attraverso le curtes caratteristico dell'età carolingia fu abbandonato in quanto la diffusione della moneta permise forme più efficaci di sfruttamento. Le terre furono lottizzate e date in affitto, mentre le prestazioni di lavoro da parte dei massari vennero convertite in versamenti di denaro. | proprietari diedero la preferenza a canoni in moneta, che poi potevano a loro volta utilizzare per accedere ai sempre più forniti e attraenti mercati delle città. La nuova vitalità delle campagne si tradusse in un miglioramento del tenore di vita dei contadini. La maggior qualità costruttiva delle case nei villaggi e nei borghi e le dotazioni più ricche 45 nell'arredamento e nelle attrezzature da lavoro. In questi insediamenti più accentrati, spesso i contadini seppero darsi un’organizzazione comune, con una diversificazione di competenze. Laddove vi era un signore a esercitare la propria giurisdizione sul villaggio, i comuni rurali potevano contrattare condizioni migliori attraverso propri delegati: spesso queste trattative sfociavano nella messa per iscritto dei diritti e dei doveri reciproci, limitando così le possibilità di azione arbitraria da parte dei proprietari delle terre o dei castelli. Questo nuovo protagonismo delle comunità delle campagne era frutto anche della crescente integrazione fra l'economia rurale e quella urbana. Una buona parte dei contadini, fossero essi piccoli proprietari o affittuari, almeno nelle annate migliori era in grado di disporre di surplus produttivi da vendere sul mercato. Spesso, le loro mogli realizzavano tessuti o altri prodotti artigianali, non solo per l'autoconsumo familiare. La vita economica delle campagne era vivace e articolata: anche al di fuori delle città circolava una grande quantità di moneta e che esisteva una fitta rete di mercati. Le comunità rurali più grandi presentavano un'articolazione sociale assai complessa, nella quale ai coltivatori si affiancavano artigiani specializzati, piccoli imprenditori, mercanti e notai. Furono soprattutto questi strati sociali superiori del mondo contadino a guardare con interesse alle città e a trasferirvisi con tutte le loro famiglie. Le città imposero come centri di produzione artigianale e come mercati, attirando una parte della popolazione delle campagne. L'immigrazione accrebbe enormemente le dimensioni dei centri abitati. Ma oltre ai grandi centri, vi fu un fiorire diffuso di città piccole e medie. La crescita della popolazione coincise con l'espansione fisica delle città, che divennero sempre più grandi. Tutti i principali centri europei fra il XII e XIII secolo dovettero allargare la propria cinta muraria. Tale crescita fu legata soprattutto all’afflusso di nuovi residenti, immigrati delle campagne. L'immigrazione accrebbe enormemente le dimensioni dei centri abitati. Ma oltre ai grandi centri, vi fu un fiorire diffuso di città piccole e medie. La crescita della popolazione coincise con l'espansione fisica delle città, che divennero sempre più grandi. Tutti i principali centri europei fra il XII e il XIII secolo dovettero allargare la propria cinta muraria. Tale crescita fu legata soprattutto all’afflusso di nuovi residenti, immigrati dalle campagne, che cercavano in città opportunità di lavoro e di arricchimento. Meno frequenti di quanto vuole la tradizione, ma non rari, furono anche i casi di persone di condizione servile che si trasferirono entro la cinta urbana per ottenere la libertà personale e la condizione di cittadini. Le città cominciarono ad emergere come centri manufatturieri, che rifornivano sia i residenti locali, sia le campagne circostanti. Si raggiungeva poi una concentrazione di clienti tale da rendere economicamente vantaggiose le produzioni più specializzate e sofisticate. Molto importante era l'edilizia. Nelle città più grandi il livello di specializzazione era altissimo. La principale attività manufatturiera dell'Europa medievale fu però quella tessile, che sosteneva l'economia di intere regioni e dava da lavorare a decine di migliaia di persone. Il principale centro di questa produzione furono le Fiandre dove veniva lavorata l'eccellente lama inglese ricavandone drappi di alta e di media qualità, che venivano poi rivenduti in tutta l'Europa. | prodotti di queste tre regioni ottennero un grande successo di esportazione: erano molto ricercati anche nel mondo arabo e venivano venduti con successo in tutto il Mediterranei. La principale unità produttiva del Medioevo europeo era la bottega, ossia una piccola azienda solitamente a conduzione famigliare, dove un maestro artigiano lavorava affiancato dai parenti, dagli apprendisti e da qualche garzone o operaio salariato. Spesso i maestri che praticavano la stessa attività si riunivano in corporazioni (dette arti o paratici in Italia e gilde nell'Europa settentrionale): queste associazioni regolavano le condizioni di lavoro, dettavano gli standard produttivi minimi e controllavano i prezzi per evitare fenomeni di concorrenza sleale. Non si trattava però di pure entità economiche: esse garantivano l’aiuto reciproco fra gli aderenti, l'assistenza alle famiglie dei defunti; spesso si legavano ad una chiesa o ad una cappella e promuovevano anche pratiche religiose comuni. In molte città italiane assunsero anche un importante ruolo politico. Ogni bottega operava autonomamente, acquistando le materie prime e rivendendo i prodotti finiti. Faceva eccezione il settore dei tessuti di alta qualità, la cui lavorazione richiedeva fasi diverse e complesse. Il grande commercio internazionale era un'attività che 46 richiedeva importanti capitali e permetteva altrettanto importanti arricchimenti, ma la maggior parte dei traffici si svolgeva su scala regionale, attraverso una fitta rete di mercati, della quale le città rappresentavano i punti nodali. In questi mercati gli uomini delle campagne circostanti vendevano cereali, vino, frutta, verdura e formaggi destinati all’alimentazione della popolazione cittadina. Era richiestissimo il legname, utilizzato per l'edilizia, la falegnameria, la cottura e il riscaldamento. Rifornendo le città, i contadini e i proprietari di terre ricavavano somma di denaro con le quali a loro volta acquistavano pezze di tessuto, capi d'abbigliamento, attrezzi da lavoro e altri oggetti d'artigianato. Fra XI e XII secolo le città europee furono anche sede di un eccezionale sviluppo culturale. Esse erano sedi di scuole presso le cattedrali, ma le esigenze e gli stimoli forniti dalla vivace crescita economica e culturale portarono anche molti laici ad alfabetizzarsi e ad acquisire conoscenze sempre più ampie. Le grandi transazioni commerciali richiedevano l'intervento di notai in grado di metterle per iscritto. L'amministrazione della giustizia doveva essere affidata a persone con una formazione specifica e con una conoscenza approfondita del diritto umano e non solo delle consuetudini locali. Con le merci, circolavano anche idee e testi. La città di Salerno fiorì tra XI e XIII secolo. A Bologna negli anni Cinquanta del XII secolo e a Parigi un ventennio più tardi nacquero le prime università, centri di istruzione superiore, una grande innovazione medievale che divenne una caratteristica peculiare dell'Occidente latino. Gli altissimi costi di trasporto fecero sì che il grande commercio internazionale fosse riservato in prevalenza a prodotti di grande valore, che potessero garantire ampi margini di guadagno anche se commerciati in quantità relativamente modeste. Le spezie ebbero un ruolo preponderante. Esse provenivano prevalentemente dall'India e dalle regioni circostanti e venivano trasportate via nave fino all'Egitto o fino alla Persia e poi via terra, rispettivamente verso Alessandria d'Egitto nel primo caso o Costantinopoli e i porti della costa siro- palestinese nel secondo. Qui venivano acquistate, imbarcate verso l’Italia, da dove sarebbero state riesportate in tutta Europa. Sugli stessi itinerari, viaggiavano anche altre merci preziose, come i drappi di seta cinese o persiana, alcune ceramiche cinesi o oggetti di oreficeria. A loro volta gli europei esportavano verso l'Africa settentrionale e il Medio Oriente una grande quantità di stoffe ma anche materie prime, come il legname. Quando le merci orientali raggiungevano l’Egitto, la Siria o Costantinopoli venivano acquistate dai mercanti italiani, che negli anni a cavallo fra l'XI e il XII secolo avevano conquistato un monopolio quasi totale sui traffici marittimi mediterranei. Nel Mediterraneo si affermarono le marine di Genova e di Pisa, che si affiancarono a quella di Venezia. Esse, con le loro navi da guerra, diedero un contributo indispensabile alla buona riuscita delle conquiste dei crociati in Siria e in Palestina e ottennero in cambio la concessione di interi quartieri e i diritti di libero commercio nei porti dell’area. Grazie a tali basi, le flotte di questa città ottennero una supremazia militare e commerciale pressoché totali nel Mediterraneo. La conquista dei mercati mediterranei da parte dei commercianti italiani passò anche attraverso l'elaborazione di appositi strumenti contrattuali, che permisero anche a chi non vi operava in prima persona di investire nel settore. Né il diritto romano, né tantomeno quelli barbarici prevedevano però atti di questo genere, che furono una novità creata dai giuristi e dai notai della penisola. Queste formulazioni ebbero poi un grande successo e furono adottate prima dagli altri paesi del Mediterraneo latino e poi in tutta Europa. Le più note furono la commenda e la società. La prima prevedeva che un socio fornisse il capitale e un altro effettuasse il viaggio e le compravendite di merci; i guadagni sarebbero stati assegnati in proporzione di % al primo e % al secondo. | finanziatori potevano anche essere più di uno e si sarebbero spartiti la quota a loro spettante. Nella società, invece, anche il mercante viaggiatore partecipava all'investimento iniziale, fornendone 1/3. Alla grande fioritura dei commerci mediterranei e delle città italiane corrispose, in Europa, quella delle Fiandre, collegate con il Mare del Nord e il Baltico. In Inghilterra si era sviluppato su larga scala l'allevamento di pecore, la cui ottima lana veniva esportata verso le città fiamminghe. In queste, che divennero grandi centri manufatturieri, la lana veniva tessuta per produrre dei drappi di alta qualità, ricercati in tutta Europa e nei paesi arabi del Mediterraneo. Per regolare e rendere sicuri questi flussi commerciali sullo scorcio del XII secolo i 47 portò alla conquista di Toledo nel 1085. A loro volta preoccupati, gli emiri delle taifas chiesero aiuto ai cosiddetti Almoravidi, ossia gli esponenti di un movimento islamico rigorista berbero, che negli anni precedenti avevano assoggettato la costa dell'Africa occidentale. Gli Almoravidi passarono in Spagna e fermarono l'avanzata di Alfonso VI, anche se non riuscirono a riprendere Toledo. Sottomisero le taifas e fondarono un grande sultanato che includeva la metà meridionale della penisola iberica e buona parte del Maghreb in Africa. L'arrivo degli Almoravidi riequilibrò le forze fra Spagna islamica e Spagna cristiana per oltre un secolo, durante il quale le due parti si combatterono aspramente. Fra XI e XII secolo, la Spagna divenne teatro di uno scontro fra cristianità e islam una serie di guerre che divennero poi note con il termine unitario e molto ideologico di Riconquista. Se inizialmente si trattò di contese locali fra potentati, in cui le alleanze potevano anche venir concluse trasversalmente tra membri dei due diversi schieramenti, progressivamente si affermò una lettura ideologica del conflitto, interpretato in chiave religiosa. Fu fondamentale la valorizzazione del santuario dell'apostolo san Giacomo a Compostela e del relativo itinerario di pellegrinaggio. La Reconquista non rappresentava più una semplice operazione politico-militare, ma assumeva un valore sacro, dato che si trattava di liberare la terra scelta da san Giacomo per il suo estremo riposo > per questo chi combatteva contro i “mori” (gli islamici spagnoli), nel corso del XII secolo si vide riconoscere uno status uguale a quello di un crociato che prendeva la via della Terrasanta con i relativi benefici spirituali. La concessione di questi privilegi attirò verso sud molti nobili e cavalieri della Francia meridionale. Specularmente, l'affermazione a sud del regime degli Almoravidi, rese compatto e coeso il fronte musulmano e promosse la Spagna come meta privilegiata per i volontari della guerra santa> jihad. Tra i fattori che causarono la crisi del califfato di Baghdad vi fu la progressiva ascesa politica dei turchi: popoli delle steppe asiatiche, convertiti all'islam che rappresentavano la spina dorsale dell'esercito califfale, ma che non erano né di etnia, né di cultura araba. Fra i turchi, agli inizi dell'XI secolo, si assistette all'affermazione di una tribù che discendeva da un capo di nome Salgiuq da cui i componenti presero il nome di selgiudichi. Questi sottomisero con la forza prima i grandi centri carovanieri dell'Asia centrale, poi conquistarono la Persia e infine, nel 1055, entrarono a Baghdad. Il loro capo però si accontentò di assumere il titolo di sultano e lasciò in carica il califfo abbasside, pur privato di poteri effettivi. | selgiudichi poterono assumere il titolo di protettori dell'ortodossia sunnita e del suo califfo. Così essi procedettero verso i nemici dell'islam sunnita in Medio Oriente, rivolgendosi sia contro i cristiani, sia contro gli sciiti fatimidi. Nel 1067, i turchi si impadronirono dell'Armenia, poi dilagarono verso sud, strappando ai Fatimidi Gerusalemme e Damasco nel 1076. Fu però contro l'impero d'Oriente che essi colsero i successi più importanti. | turchi trovarono un avversario assai indebolito dal fatto che nel corso del X secolo il sistema difensivo dei temi era stato smantellato per costituire un esercito di professionisti in gran parte mercenari. Inoltre, con la morte di Basilio II, nel 1025, si era estinta la dinastia macedone e nei decenni successivi diversi personaggi si erano alternati sul trono senza riuscire a costruire un dominio duraturo. Nel 1069, era al potere Romano Diogene ma nel 1071 a Manzikert, il suo esercito fu assalito e annientato da quello turco guidato dal sultano Alp Arslan. Romano Diogene fu però preso prigioniero e in sua assenza scoppiò in seno all'impero bizantino una guerra civile che impedì l'organizzazione di qualsiasi difesa: anzi, furono i diversi pretendenti al trono a chiamare tribù turche in loro aiuto. In pochi anni i selgiudichi occuparono tutta la penisola anatolica, giungendo fino alla città di Niceo. Negli stessi anni, l'impero era aggredito anche da Occidente e aveva perso i suoi possedimenti in Italia per opera dei normanni. Nel 1081, le forze di Roberto il Guiscardo erano sbarcate in Albania e eventualmente avanzare su Costantinopoli. A nord del Danubio, un’altra popolazione nomade delle steppe, i peceneghi, minacciava i confini. Proprio nel 1081, nel momento di maggior difficoltà, fu eletto imperatore Alessio Comneno, un abile comandante militare e un eccellente diplomatico che in pochi anni riuscì a trattare una tregua con i turchi a sconfiggere militarmente i Peceneghi e a isolare politicamente i normanni obbligandoli a ritirarsi. Con i Comneni, si affermò definitivamente la dinastizzazione della carica imperiale. Per garantire la sopravvivenza del suo stato, Alessio 50 Comneno dovette attuare un clamoroso cambio di politica. L'impero d'Oriente fino a quel momento aveva avuto pochissimo interesse verso il mondo latino. Nel 1082, per ottenere l'appoggio della flotta veneziana contro i normanni, Alessio Comneno aveva dovuto concedere ai mercanti di quella città ampi privilegi ed esenzioni dalle tasse a Costantinopoli e in tutto il territorio imperiale. Nel 1085, finanziò | suo omologo occidentale Enrico IV perché minacciasse i territori normanni e li obbligasse ad abbandonare l'Albania e l’Epiro. In seguito, forti contingenti di normanni furono arruolati da Alessio per rimpinguare le file dell'esausto esercito imperiale: ormai l'Occidente era una partner di cui i Comneni non avrebbero più potuto fare a meno. Prima crociata (1095-1099) nel 1092, l'ultimo sultano selgiuchide morì e i suoi domini caddero preda di una guerra civile, frantumandosi. In Anatolia sopravvisse un vasto principato territoriale, detto di Rum mentre in Siria, Palestina e Iraq settentrionale i governatori delle diverse città si resero di fatto indipendenti. Per l'imperatore Alessio Comneno era un'eccellente occasione per contrattaccare e riconquistare le terre perdute vent'anni prima. L'esercito andava prima rinforzato e a tal fine Alessio inviò alcuni ambasciatori in Occidente, presso il papa, per ottenere aiuti militari. Papa Urbano Il li ricevette a Piacenza nel 1095, ma stravolse completamente la richiesta: i pontefici e gli imperatori d'Occidente erano impegnati in un aspro conflitto per la supremazia noto come lotta per le investiture. L'occasione politica era ghiotta: se Urbano Il fosse riuscito ad organizzare autonomamente una grande campagna militare in Oriente, avrebbe dimostrato la totale autonomia della Chiesa, che non aveva bisogno dell'appoggio dei sovrani neppure per la difesa armata della cristianità. Il 27 novembre 1095, durante un concilio di vescovi francesi riunito nella città di Clermont, papa Urbano Il lanciò un accorato appello affinché i nobili e i cavalieri europei accorressero in soccorso dei loro confratelli orientali, minacciati da un popolo di barbari ossia i turchi. Chi avesse risposto all'appello prendendo le armi per salvare i cristiani d'Oriente e liberare Gerusalemme avrebbe avuto la garanzia che, nel caso fosse morto durante la spedizione, tutti i peccati gli sarebbero stati immediatamente rimessi e gli sarebbe così stata aperta la via del paradiso. La predicazione di Urbano Il ebbe un successo forse inaspettato e molti nobili decisero di aderire all'appello e partire la Terrasanta. La semplice richiesta di contingenti mercenari effettuata da Alessio Comneno era stata tramutata in qualcosa di completamente nuovo ed era nata la crociata. Una parte del discorso di Urbano Il a Clermont invitava i potenti cristiani a dedicarsi alla guerra contro gli infedeli e non a quelle interne. | conflitti tra i signori di castello erano assai frequenti e alimentati dalla popolazione dei figli cadetti dei nobili che, avviati alla carriera delle armi e allontanati dalla casa paterna, si davano al mercenariato o alla rapina per guadagnarsi da vivere. Anche a loro si rivolsero i propagandisti della spedizione. Gli studi più recenti valutano abbastanza concordemente il totale dei crociati in 50-60.000 uomini. Non mancava anche un buon numero di donne. A Costantinopoli, i crociati raggiunsero un accorso con Alessio Comneno, che in cambio di appoggio logistico e denaro avrebbe riottenuto tutte le terre che appartenevano all'impero prima della battaglia di Manzikert. Per due anni essi combatterono aprendosi la strada, prima contro i turchi, poi contro i Fatimidi. Nel luglio del 1099, dopo un breve assedio, riuscirono a impadronirsi di Gerusalemme. La presa di Gerusalemme però non era sufficiente a garantire ai cristiani il possesso della Terrasanta. Le terre conquistate dovevano ora essere presidiate, difese ed amministrate: era necessario dotarle di un governo. | vincitori decisero di eleggere un principe, nella persona di Goffredo di Buglione che però rifiutò il titolo regio, accontentandosi di quello di protettore del Santo Sepolcro. Meno di un anno dopo Goffredo morì il 25 dicembre dl 1100 e i nobili della regione incoronarono re il fratello di Goffredo, Baldovino di Boulogne. Il regno di Gerusalemme era il più meridionale e il più vasto degli stati crociati. Teoricamente vassalli del regno di Gerusalemme erano poi i tre grandi stati franchi posti a settentrione, che però, di fatto, erano quasi indipendenti, ossia la contea di Edessa, | principato di Antiochia e la contea di Tripoli. Questi territori vennero a loro volta divisi in feudi, affidati ai diversi comandati minori della crociata. Gli stati crociati seppero inserirsi nei complessi giochi politici mediorientali. Essi sfruttavano la contrapposizione fra cristianità e islam per ottenere 51 aiuti e rinforzi dall’Occidente, ma in realtà praticavano un'intelligente Realpolitik che prevedeva un fitto dialogo con i potentati musulmani confinanti. A loro volta questi ultimi non esitavano ad allearsi con loro quanto fosse risultato utile. | primi anni del dominio crociato in Terrasanta furono dedicati alla conquista della supremazia marittima. Questo ebbe un'importanza fondamentale per la storia dell’oltremare latino. Genova, Venezia e Pisa ottennero infatti quale ricompensa del loro aiuto la concessione di enclave commerciali all’interno dei centri costieri, che divennero il cuore di una vivacissima attività commerciale con l'Oriente. Il totale dominio del mare da parte dei latini ebbe un peso militare decisivo per la sopravvivenza della presenza cristiana in Medio Oriente nei due secoli che seguirono dato che esso garantiva un afflusso costante di rinforzi e di rifornimenti e forniva un indispensabile supporto economico, garantito dai dazi sugli imponenti flussi commerciali che si svolgevano fra i porti e le grandi vie carovaniere di Siria e di Giordania. Le necessità militari di quello che in Europa si cominciava a chiamare l'Oltremare portarono la Chiesa a favorire un afflusso costante di combattenti da Occidente. La crociata divenne così un'istituzione permanente, gestita e finanziata dai papi. Fu istituito il voto di crociata. Le guerre dovevano anche essere finanziate, sicché dagli ultimi decenni del XII secolo fu istituita la cosiddetta decima della crociata. Collette, donazioni volontarie e lasciti testamentari fornivano poi altre risorse: monaci e frati predicavano per tutta l'Europa la necessità di combattere per liberare Gerusalemme. Di quando in quando, si ritenevano necessarie spedizioni militari più massicce e organizzate; in questo caso, il papa emanava una bolla con cui indiceva una grande campagna che coinvolgesse i principi e i sovrani europei: sono queste le crociate tradizionalmente numerate dalla storiografia. Un'altra grande novità fu rappresentata dai cosiddetti ordini monastico-cavallereschi. Essi nacquero in Terrasanta, furono ufficializzati nei primi decenni del XII secolo ed erano composti da religiosi che, oltre a pregare e condurre vita comunitaria come gli altri monaci, combattevano contro gli infedeli. | primi due ordini fondati con tale peculiare vocazione furono quelli dei templari e degli ospitalieri. Gli ordini divennero rapidamente un elemento fondamentale per la difesa degli stati crociati e ricevettero in custodia molti dei castelli posti a protezione dei principali snodi strategici del regno. Da tempo gli studiosi delle crociate discutono su cosa esattamente siano state queste spedizioni militari. Gli storici di area anglosassone tendono a definirle guerre sante, calcando sul ruolo dei pontefici nella loro proclamazione e organizzazione e sui benefici spirituali che erano accordati ai partecipanti. Italiani e francesi affermano che si trattava di campagne con un obiettivo limitato e ben preciso, ossia portare in mano cristiana Gerusalemme e gli altri luoghi santi, non si ripromettevano né di convertire né tantomeno di eliminare i musulmani: per questo preferiscono parlare di pellegrinaggi armati. Probabilmente, una definizione precisa è impossibile, dato che le stesse crociate mutarono con il passare del tempo. La necessità di rendere la crociata permanente richiese un più ampio sforzo di definizione: bisognava precisare chi poteva o doveva partecipare, quali benefici spirituali e quali garanzie temporali avrebbe avuto, quali erano i tempi e i luoghi in cui combattere. | crociati divennero una categoria precisa e ben individuata. Per tutto il XII secolo, il legame con la conquista o la difesa di Gerusalemme rimase saldo. Nel corso del Duecento, questo legame venne meno e la crociata si tramutò progressivamente in uno strumento militare a disposizione dei papi contro i loro nemici. Cap. 13 Nel corso dell’XI secolo, la Chiesa cattolica fu protagonista di un profondo rivolgimento, un processo irreversibile di importanza fondamentale per la storia di tutto l'Occidente. Sotto l'impulso di molteplici fattori i rapporti fra Chiesa e impero cambiarono drasticamente e se fino a quel momento la prima era stata sostanzialmente dipendente dal secondo nella seconda metà dell'XI secolo il potere spirituale si distaccò da quello temporale dando vita all’organizzazione ecclesiastica, incentrata attorno al potere indiscusso del papa. La separazione fra potere temporale e potere spirituale ebbe poi un'influenza decisiva sulla successiva evoluzione delle altre istituzioni in Europa. 52 semplici: perché la Chiesa possa essere riformata, è necessario in primo luogo sottrarla all'influenza dei poteri laici e sottoporla al controllo e alla disciplina del papa. Si ribadisce la superiorità gerarchica del papa su tutti gli altri vescovi cattolici. Questa superiorità non aveva bisogno della presenza fisica del pontefice per esprimersi. In particolare, Gregorio sottolineava la sua piena autorità nella nomina dei vescovi che così venivano sottratti al controllo imperiale. Con un'operazione azzardata dall’autonomia della Chiesa rispetto al potere imperiale e dall’indiscussa autorità del papa nell’ambito della Chiesa stessa, si faceva derivare la superiorità del pontefice nei confronti dello stesso imperatore. Questa superiorità si concretizzava nella possibilità di deporre il sovrano, nel caso che questi si fosse dimostrato del suo ruolo. Nel Dictatus papae disegnò il primo progetto della monarchia papale trasformando la superiorità morale e spirituale riconosciuta fino a quel momento alla sede di Roma in un reale potere di governo della chiesa, che si espletava nella possibilità di nominare e rimuovere i vescovi e di metterne in discussione le decisioni e nel ruolo di tribunale di appello nei confronti di tutte le sentenze emesse localmente dai tribunali ecclesiastici. La strada era tracciata e i successori di Gregorio la proseguirono, costruendo e ampliando pian piano tutti gli uffici necessari, anche i cambiamenti nella liturgia marcarono la nuova centralità del papa > così il messale romano soppiantò nei decenni a cavallo tra XI e XII secolo i riti locali in Spagna e in Inghilterra. La Chiesa romana affermava un suo nuovo ruolo che andava a discapito sia delle tradizionali prerogative dei vescovi e degli arcivescovi locali, sia dei re e dei principi degli stati dell'Europa latina. Il Dictatus pape costruiva uno strettissimo legame fra l'obbedienza dovuta a Roma e la totale autonomia dei vescovi dalle influenze dei poteri laici. Si vietava qualsiasi intervento dei re o dell'imperatore nella cosiddetta investitura, ossia l'attribuzione ai prelati appena eletti dei diritti di natura temporale che spettavano alle sedi episcopali. L'investitura si traduceva di fatto nella nomina diretta dei vescovi da parte dei sovrani. In Francia, in Spagna e in Inghilterra questi provvedimenti pontifici incontrarono l'opposizione dei monarchi, che si sentivano defraudati di un loro diritto ma fu possibile ovunque trovare accordi che salvaguardassero la dignità e gli interessi di entrambe le parti, di solito separando il momento dell'elezione, in cui venivano affidate al vescovo le prerogative religiose da quello dell'investitura. Con l'impero, invece, si aprì una dura lotta, destinata a durare quasi mezzo secolo. Gli imperatori dell'XI secolo non avevano rinunciato all'idea che fosse loro dovere proteggere e sorvegliare l'operato degli ecclesiastici a partire dagli stessi papi. Anzi, il governo del regno di Germania si basava anche sullo stretto controllo delle maggiori cariche episcopali e abbaziali. Le intenzioni di Gregorio VII, insomma, costituivano una minaccia non solo per la dignità del sovrano, ma anche per la stabilità dell'impero stesso. Enrico IV agli inizi del 1076 accusò Gregorio VII di tradimento e lo dichiarò deposto. Il papa scomunicò e depose a sua volta Enrico, sciogliendo i suoi sudditi da qualsiasi giuramento di fedeltà. Molti nobili tedeschi ne approfittarono e si ribellarono. Indebolito e minacciato, Enrico fu obbligato a scendere in Italia e chiedere perdono e assoluzione al papa. La cerimonia - che prevedeva l'umiliazione dell'imperatore - si svolse nel gennaio 1077, nel castello appenninico di Canossa, dove Gregorio VII si era rifugiato per sicurezza. Canossa rappresentò un trionfo morale e propagandistico per il papa, ma anche Enrico aveva ottenuto ciò che desiderava: l’espressione clamorosa e apparentemente sincera del suo pentimento aveva fatto sì che il papa non potesse evitare di revocare la scomunica e tutte le altre condanne. L'imperatore tornò nella pienezza della sua autorità e fu in grado di sedare l'opposizione nobiliare in Germania. Consolidate la sua posizione, Enrico riprese la guerra contro il papato: una nuova scomunica, nel 1080, non ebbe effetto e nel 1082, le truppe tedesche invasero Roma, imponendovi un antipapa, Clemente III. Gregorio VII fuggì con l’aiuto dei normanni e finì i suoi giorni tre anni dopo, esule a Salerno. | successori di Gregorio dovettero fronteggiare sia i ripetuti attacchi militari di Enrico, sia l'ostilità di molti vescovi. Nel 1105 Enrico IV fu deposto dal figlio Enrico V. Si presentò poi la possibilità di aprire delle trattative per trovare un compromesso. Nel 1111, papa Pasquale Il ed Enrico V stipularono il cosiddetto compromesso di Sutri, sulla base del quale i vescovi avrebbero rinunciato a esercitare il potere temporale, limitandosi a quello spirituale, ottenendo in cambio la totale astensione 55 dell’imperatore dalla loro nomina. La vigorosa opposizione dell’episcopato tedesco, che non voleva perdere i poteri connessi all'esercizio delle giurisdizioni pubbliche, obbligò Enrico V a rimangiarsi l'accordo. Pasquale Il fu a sua volta contestato dai cardinali romani e accusato di aver accettato un patto che nuoceva alla libertas Ecclesiae. Egli rifiutò di essere processato dal collegio, affermando la totale superiorità della sua carica su qualsiasi altra e il fatto di non dover riconoscere alcun giudice terreno al di sopra di lui. L'accordo definitivo fu trovato solo nel 1122 con il cosiddetto concordato di Worms concluso fra Enrico V e papa Callisto Il che in effetti consentì ai vescovi tedeschi di mantenere nelle proprie mani le prerogative spirituali e anche quelle temporali. La versione rimasta nelle mani del papa non concorda completamente con la copia destinata all'imperatore. Si separavano il momento in cui il vescovo riceveva (dal pontefice o dal clero locale) i simboli del potere spirituale, anello e pastorale, e quello in cui otteneva (dall'imperatore) i poteri pubblici tramite la consegna di una spada. Questo obbligava papa e imperatore a essere d'accordo sulle nomine anche se con molta pragmaticità si prevedeva che i vescovi del regno di Germania sarebbero stati scelti dal sovrano e confermati dai pontefici, mentre per quelli del regno d’Italia la procedura sarebbe stata opposta. Si trattava di un compromesso abbastanza fragile, che lasciava insoluti alcuni problemi, destinati a ripresentarsi nei decenni successivi dato che, per esempio, non prevedeva cosa si dovesse fare nel caso in cui una delle due autorità si fosse rifiutata di sottoscrivere le scelte dell'altra. La lotta per le investiture rappresentò un momento determinante nella storia dell'Europa latina, non soltanto perché portò alla nascita dell’organizzazione ancor oggi vigente per la Chiesa cattolica, incentrata attorno all'assoluto primato della sede romana. Il vivace dibattito polemico produsse una grande quantità di opere (note come i libelli sulla lite) attraverso i quali gli intellettuali dei due campi si scambiavano accuse e insulti, ma anche proposte di mediazione e di compromesso. La redazione di questi testi e le trattative attorno ai compromessi di Sutri e di Worms fecero emergere la necessità di separare in modo più chiaro e definito le competenze di ordine più strettamente religioso e spirituale da quelle del governo temporale del territorio. Non tutti gli studiosi concordano sulla precisa cronologia, ma non vi è dubbio che nella prima metà del secolo XII fu compiuto un passo enorme nella cultura politica occidentale: la Chiesa era passata dal governo dell’imperatore a quello del papa e, a fianco a essa e concettualmente da essa separato, stava nascendo lo Stato. Cap. 14 Nel corso del XII secolo, il quadro politico europeo e mediterraneo cambiò radicalmente. L'impero vide ridimensionarsi il suo ruolo universale, mentre in Francia, in Inghilterra e nella penisola iberica i sovrani locali svilupparono il loro potere cercando di coordinare attorno a sé la molteplicità dei potentati esistenti sul territorio. Anche nel bacino orientale del Mediterraneo si assistette ad un significativo rinnovamento, con l'affermazione del potere dei Comneni sull'impero d'Oriente e la crescita dell'importanza dell'Egitto di Saladino nel mondo islamico. Fra gli inizi dell'XI secolo e gli inizi del XII secolo diverse regioni della Francia occidentale e della Catalogna videro il moltiplicarsi dei castelli nei loro territori. Questo fenomeno permise l'insediarsi di molte piccole signorie autonome, che su tali fortezze basavano il proprio potere. Ciò ha indotto alcuni a parlare di rivoluzione feudale o di rivoluzione signorile, un rivolgimento che nell'arco di pochi decenni avrebbe scardinato quanto restava delle strutture del potere pubblico e stabilito un dominio oppressivo ai danni dei contadini. | signori erano spesso membri dell’entourage militare degli aristocratici maggiori, resisi sempre più autonomi dalla loro autorità. Sia che le cose fossero cambiate radicalmente nel corso dell'XI secolo, sia che le radici di tale situazione fossero più antiche, è comunque sicuro che, stretti fra pochi grandi signori regionali e una molteplicità di piccoli castellani locali, i re di Francia all’epoca non riuscivano a esercitare alcuna autorità fuori delle terre che appartenevano alla loro famiglia. In questo contesto, caratterizzato dall'assenza di un efficace 56 potere regio, si cercò di formulare una teoria sociale che prescindesse dalla figura centrale del sovrano. Nella prima metà dell'XI secolo, due vescovi della Francia settentrionale, in forme differenti, ma con esiti sostanzialmente simili, formularono la cosiddetta teoria della tripartizione funzionale del mondo, che divideva gli uomini fra coloro che pregavano, che combattevano e che lavoravano: la collaborazione armonica fra i tre gruppi avrebbe assicurato il benessere collettivo. Benché fossero tutte ugualmente necessarie, però, le categorie erano organizzate gerarchicamente: gli uomini di chiesa avevano il ruolo più importante e guidavano spiritualmente i guerrieri, che a loro volta esercitavano il potere su chi lavorava. Nonostante questa interpretazione del mondo, essa non monopolizzò il pensiero politico medievale. La teoria della tripartizione rappresentava un passo avanti rispetto alle precedenti letture ecclesiastiche della società che di norma veniva suddivisa semplicemente tra religiosi e laici. Le aristocrazie si erano andate progressivamente militarizzando e avevano trovato nella propria capacità di difendere i sottoposti la giustificazione ideologica del loro potere. In questo senso la cavalleria, che riuniva tutti gli uomini in grado di acquistare un cavallo da guerra e il relativo equipaggiamento di armi e di armature, divenne un importante elemento di identificazione per i diversi detentori laici di diritti pubblici: i grandi nobili, che discendevano dalle famiglie dell’aristocrazia funzionariale carolingia e ne conservavano i titoli, così come i piccoli signori di castello locali. Essi non tardavano a darsi anche un sistema di valori condiviso, ossia il codice cavalleresco, e a elaborare un rituale, quello dell’addobbamento, che consisteva nella solenne consegna della spada attraverso la quale si veniva ammessi a far parte della categoria dei cavalieri. Il fenomeno ebbe dimensioni europee, ma si diffuse maggiormente in Francia. La diffusione dei castelli e delle signorie locali e la crescente importanza dei seguiti armati degli aristocratici portarono a una situazione generalizzata di disordine, caratterizzata da frequenti guerre e guerricciole fra i diversi signori. Si cercarono strumenti in grado di limitare gli scontri o di moderare le conseguenze. Si diffusero le cosiddette paci di Dio, grandi assemblee regionali promosse dai vescovi durante le quali i combattenti promettevano di non affrontarsi durante le feste religiose e di limitare l’uso della violenza ai nemici in armi, risparmiando i religiosi, le donne e i contadini. L'esigenza di ordine sociale si tradusse in una richiesta di definire più precisamente la gerarchia e i doveri impliciti nei legami di fedeltà. AI vertice di questa società veniva posto da tutti il re di Francia. | re di Francia, detti Capetingi, nell'XI secolo esercitavano un'autorità effettiva soltanto in una regione ristretta, compresa fra la Loira e la Senna. A differenziarli dagli altri nobili restava loro soltanto l’aura di sacralità che circondava l'incoronazione voluta da Dio e il controllo di Parigi, antica sede regia merovingia e dotata di una secolare tradizione monarchica. Proprio la rapida crescita di questa città come centro intellettuale e commerciale, nel corso del XII secolo mise a disposizione di Luigi VII risorse sufficienti per tentare una politica più ambiziosa. La partecipazione alla seconda Crociata rafforzò l'immagine di Luigi come sovrano cristiano. Egli poté iniziare un lento processo di aggregazione dei poteri locali attorno alla corona. Piccoli signori gli si sottomisero grazie al meccanismo detto del feudo oblato: essi donavano i loro beni al re, ne diventavano vassalli e li ricevevano indietro sotto forma di beneficio. Anche le città, che cercavano di svincolarsi dall'autorità dei nobili rurali, potevano sottomettersi al re, che dava loro delle carte di libertà e le governava tramite un suo rappresentante, il baiulo o balivo. In questo modo, dopo il 1150, Luigi VII riuscì ad allargare la propria sfera di influenza. Nella Francia occidentale, invece, le ambizioni del sovrano capetingio dovettero arrestarsi di fronte alla presenza del re d'Inghilterra. Fra X e XI secolo, la storia dell’Inghilterra è segnata dal conflitto per il controllo del territorio tra i sassoni e i normanni. La lotta sembrò premiare questi ultimi fra il 1013 e il 1040, quando re Svein di Danimarca e suo figlio Canuto il Grande riuscirono a creare un vasto dominio che includeva Danimarca, Norvegia e Inghilterra e prese il nome di Danelw. Nonostante il nome comune, però, i tre regni restarono amministrativamente separati e senza strutture di governo condivise, sicché alla morte di Canuto essi tornarono a dividersi. L'Inghilterra cadde in una lunga stagione di disordini e di conflitti, fra gli eredi di Canuto e i nobili sassoni. Il trono venne rivendicato anche da altri principi normanni tra cui Guglielmo, duca di Normandia. Alla fine, fu quest’ultimo a 57 capeggiata dal suo stesso figlio che prese il potere con il titolo di Enrico V. Questi dovette a sua volta fronteggiare durissime opposizioni e, dopo aver concluso la lotta per le investiture con il concordato di Worms, morì nel 1125 senza lasciare eredi legittimi. Le difficoltà di Enrico IV e di Enrico V portarono i nobili tedeschi ad assumere un ruolo sempre più importante nella guida del regno. L'importanza dei nobili crebbe ulteriormente durante la lunga guerra civile nella quale le casate di Svevia e si Sassonia-Baviera si contesero il potere con esiti alterni. Anche i duchi, i vescovi e gli aristocratici minori consolidarono ulteriormente la propria autonomia, costruendo castelli sui propri territori. Stanchi della guerra, i duchi e gli arcivescovi riuniti nell'assemblea di Francoforte elessero un candidato di compromesso, Federico di Svevia, discendente di uno Staufer e di una bavarese. Federico, con il soprannome di Barbarossa, promosse una politica di pace e di accordo, riconobbe i poteri dei duchi e degli altri nobili, ma li legò a sé più strettamente con vincoli feudali e garantì una certa stabilità al regno di Germania. Egli poté così concentrare i suoi sforzi sul regno d'Italia. L'imperatore d'Oriente Alessio Comneno non aveva chiesto al papa l’organizzazione della prima Crociata, ma solo l'invio di contingenti mercenari. Ciò nonostante, riuscì ad approfittare della spedizione latina e delle sue vittorie contro i turchi lasciando a sua volta una serie di offensive che portarono alla riconquista di quasi tutta la costa anatolica. Alessio consolidò il proprio potere affidando la maggior parte degli incarichi di governo ai suoi parenti più stretti. Nel 1118 Alessio lasciò al figlio Giovanni Il un dominio stabile, dove nessuno metteva in discussione il ruolo della famiglia dei Comneni. Giovanni rafforzò ulteriormente le conquiste paterne con una serie di campagne vittoriose contro i turchi e gli arabi e riuscì anche ad ottenere la sottomissione formale della contea crociata di Antiochia. Nel 1143 morì e il figlio Manuele ereditò un impero in grado di proporsi nuovamente come protagonista della politica mediterranea. A partire dal VII secolo, gli imperatori d'Oriente avevano sostanzialmente ignorato il mondo latino, considerato una periferia priva di interesse. Nel XII secolo, la crescente forza economica e militare dell'Europa occidentale costrinsero gli imperatori a riconsiderare i propri vicini. Manuele rivolse dunque grande attenzione ai rapporti con gli occidentali. Dedicò grandi attenzioni al controllo dell’Adriatico, sottomettendo con una serie di campagne vittoriose quasi tutta la costa dalmata e tentando senza successo nel 1155-1556 la riconquista della Puglia. Sentendosi minacciato da Barbarossa, il Comneno diede sostegno ai suoi avversari diretti, fornendo aiuti economici e militari al papa e ai comuni italiani. A somiglianza dell'Europa occidentale, i Balcani e l'Egeo fra XI e XII secolo vissuta una stagione di crescita economica e demografica, ulteriormente favorita dalla lunga stagione di pace. La popolazione crebbe anche nelle campagne. Costantinopoli e le principali città greche erano sede di importanti produzioni di lusso esportate in Occidente. | mercanti italiani si erano impadroniti di una buona parte di questi commerci, ma quelli imperiali mantenevano il monopolio dei traffici nel Mar Nero, essenziali per il rifornimento della capitale. I grandi successi ottenuti nei primi anni di regno indussero Manuele Comneno a impegnarsi in campagne militari talvolta superiori alle capacità belliche e finanziarie dell'impero come un tentativo di invasione dell'Egitto. Nel 1176, egli tentò di riconquistare l'altopiano anatolico, ma il suo esercito fu battuto dai turchi nella battaglia di Miriocefalo, il che segnò la fine definitiva delle ambizioni di espansione dell'impero. La sconfitta non mise in pericolo i confini, ma minò profondamente il prestigio di Manuele e di tutta la dinastia dei Comneni. La morte dell'imperatore, nel 1180. Fu seguita da un periodo di gravi disordini, durante i quali i diversi rami della famiglia si batterono tra loro per la conquista del trono. L'impero ne fu gravemente indebolito: nel 1183, la Serbia proclamò la propria indipendenza, due anni dopo i bulgari insorsero e ricostruirono a loro volta il khanato in Tracia, nel 1191, i crociati si impadronirono di Cipro e ne fecero un regno indipendente sotto la dinastia dei Lusignano. Ritiratasi l'ondata della seconda Crociata (1147-1148), la vita in Medio Oriente aveva ripreso il suo corso. Gli stati crociati si erano inseriti perfettamente nel gioco diplomatico mediorientale. Essi dialogavano fruttuosamente con gli stati islamici confinanti, con i quali condividevano l'interesse a impedire l'ascesa di una qualche minacciosa potenza sovraregionale. In più, i latini contribuivano alla prosperità economica di tutta la 60 regione. Le colonie di mercanti italiano attiravano dalla Persia e dall'India carovane di merci pregiate, destinate ad essere riesportate in tutto l'Occidente. Chi era uscito sconfitto dalla nuova situazione politica era invece l'Egitto. La situazione militare collassò nel 1153, quando l’ultima base militare fatimide sulla costa asiatica, Ascalona, fu conquistata dai crociati. Le ripetute sconfitte militari avevano minato la reputazione dei califfi, già invisi, in quanto sciiti, alla maggioranza sunnita della popolazione egiziana. La debolezza del regime attirò le mire delle principali potenze regionali, ossia il regno crociato di Gerusalemme il sultanato turco di Mosul. Tra il 1164 e il 1169, si combatté una dura lotta per la supremazia sul delta del Nilo, al termine della quale i crociati decisero di rinunciare alle loro ambizioni di espansione e Norandino inviò al Cairo un forte contingente di truppe comandate da Salah-al-Din, un ufficiale curdo che l'Occidente conobbe come Saladino. L’ambiziosissimo Saladino non tardò a impadronirsi del potere. Nel 1171, alla morte dell'ultimo califfo fatimide, egli si proclamò governatore dell'Egitto e annunciò il ritorno all'ortodossia sunnita. Riformò drasticamente l’esercito. Gli incarichi di comando furono tolti agli egiziani e attribuiti ai suoi fedelissimi ufficiali curdi. In pochi anni. Riuscì a conquistare la Cirenaica, la Tripolitania e lo Yemen. Alla morte di Norandino, nel 1174, avanzò verso nord e si impadronì di Damasco. Per la prima volta da un secolo, un unico e potente Stato islamico si estendeva dall’Africa al Medio Oriente. La posizione di Saladino era però ancora precaria, dato che sia in Egitto sia in Siria egli era in sostanza un usurpatore. Per legittimare le sue conquiste e ottenere il favore popolare egli si fece alfiere della guerra santa (Jihad) contro i crociati e della liberazione di Gerusalemme. Nel 1186, dopo diversi tentativi falliti, Saladino scatenò l'offensiva finale. Dopo aver sconfitto l’esercito crociato guidato da re Guido da Lusignano. Egli avanzò verso le città crociate e Gerusalemme, che, dopo un breve assedio, si arrese nell'ottobre 1187. Secondo le leggi di guerra, Saladino risparmiò gli abitanti dei centri che capitolarono, mentre coloro che scelsero di combattere, una volta sconfitti, vennero in parte uccisi sul posto, in parte venduti come schiavi. | cristiani di Gerusalemme ebbero salva la vita, ma furono obbligati ad andarsene e sostituiti con musulmani ed ebrei, mentre le chiese vennero convertite in moschee e scuole islamiche. La caduta di Gerusalemme non poteva rimanere senza eco in Occidente. Il 29 ottobre 1187, papa Gregorio VIII emanò una bolla chiamando tutti i principi europei alla riscossa. Si mossero l’imperatore Federico | Barbarossa, il re di Francia Filippo Augusto e quello d'Inghilterra Riccardo Cuor di Leone. In tre anni di guerra, i crociati riuscirono a riconquistare tutte le città costiere del regno e diverse fortezze nell'entroterra, ma non a riprendere Gerusalemme. La presenza latina in Terrasanta sarebbe stata assicurata ancora per un secolo, ma la città santa, l’obiettivo della prima grande spedizione del 1096-1099, era perduta. Cap. 15 In Italia, le protagoniste della vita politica fra la fine dell'XI e il XIII secolo furono le città. Queste si organizzarono in comuni, entità politiche largamente autonome, solo nominalmente soggette all'autorità imperiale, alla quale si opposero con le armi e caratterizzate dalla partecipazione collettiva della cittadinanza alla vita pubblica, dalla quale gli organi dirigenti traevano la propria legittimazione. Anche in Italia, religiosi e giuristi svolsero una riflessione che portò a teorizzare un sistema sociale verticistico. Al livello superiore, stavano marchesi, duchi, conti e vescovi, che detenevano cariche pubbliche ed erano quindi in diretto rapporto con l’imperatore. Da costoro dipendeva una schiera di seguaci e collaboratori, per lo più cavalieri, che si distinguevano in capitani, o vassalli di primo ordine - che di norma erano signori di uno o più villaggi o castelli, e conservavano il diritto ereditario sui loro beni e possedimenti - e vassalli di secondo ordine o valvassori. Questi ultimi erano uomini in armi al seguito dei nobili, che erano stati ricompensati con l'assegnazione di appezzamenti di terra dati in solo usufrutto. Un diffuso malcontento serpeggiava tra i vassalli di secondo ordine, tanto che nel 1035 essi si sollevarono contro i nobili in tutta l’Italia settentrionale con una rivolta che due anni dopo indusse l’imperatore Corrado Il a emanare l’editto dei benefici, più noto come 61 costituzione dei feudi, una norma con la quale concedeva anche ai valvassori il pieno diritto a lasciare i benefici ai propri discendenti. La rivolta dei vassalli e l'emanazione della Constitutio de feudis aprirono un periodo di profondi cambiamenti nella società e nella politica dell’Italia centro-settentrionale. Entro le mura urbane i vescovi rimasero gli unici titolari di un potere formalmente riconosciuto nel quadro dell'impero, mentre le famiglie dei conti e dei marchesi non furono in grado di mantenere le loro basi di potere in città e preferirono creare delle signorie nelle campagne. | vescovi non governavano da signori, ma come ufficiali regi, e di conseguenza non esercitavano un dominio personale sui cittadini, che continuarono a considerarsi uomini liberi e politicamente attivi. Il potere imperiale in Italia non poteva contare su reali strutture di governo, ma si basava su labili legami di fedeltà personali tra la corona, i grandi signori e i vescovi. Per rinsaldare e rinnovare questi legami il sovrano avrebbe dovuto recarsi personalmente e soggiornare periodicamente con il suo seguito armato nelle varie zone dell'impero. Tale presenza in Italia si fece invece più rara. Senza il controllo dei titolari, quanto restava dell’organizzazione del regno d'Italia finì per scomparire. Nelle città italiane il potere pubblico era essenzialmente in mano ai vescovi. Da un lato rappresentavano l’imperatore, dall'altro essendo eletti dal clero locale erano espressione delle grandi famiglie urbane. I vescovi governavano le città a nome dell’imperatore ma come cittadini fra i cittadini: erano titolari di un potere pubblico in quanto eletti e non in quanto signori ereditari. Questo stato di cose funzionò per gran parte dell'XI secolo ma venne messo in crisi dalla lotta per le investiture. Per quasi mezzo secolo, i vescovi italiani dovettero scegliere tra la fedeltà al papa e quella all'imperatore, mettendo a rischio la loro credibilità verso i cittadini che avevano scelto lo schieramento opposto. Non mancarono elezioni contestate o cattedre contese fra due candidati. In tale contesto di incertezza, la maggior parte delle comunità urbane del regno d’Italia decise di farsi carico in prima persona della responsabilità di amministrare la città, designando alcuni fra i propri membri affinché affiancassero o sostituissero i vescovi. Nasceva così il primo nucleo dell’autogoverno civico, che nel XII secolo avrebbe preso il nome di comune, un governo che traeva la sua legittimità non dalla dipendenza da un potere superiore ma dal consenso espresso dalla collettività dei cittadini. Nel quarantennio a cavallo dell’anno 1100 troviamo per la prima volta menzione dell'attività politica delle assemblee civiche e dell’esistenza di nuovi ufficiali, chiamati consoli, che gestivano al posto o a fianco dei vescovi il governo urbano e l'’amministrazione della giustizia. La transizione del potere dalle curie episcopali ai consoli espressi direttamente dalla cittadinanza fu graduale e pacifica; per questo, spesso, nelle fonti non v'è traccia dell'effettiva nascita delle nuove istituzioni. Soltanto tra il 1120 e il 1130 la carica consolare divenne quasi ovunque permanente e si svincolò dalla stretta dipendenza dalla curia episcopale. La popolazione era divisa in due gruppi: i membri dell’élite sociale e politica e il resto degli abitanti. | primi erano denominati maggiori o cavalieri, i secondi minori o fanti, ma anche plebe. | cavalieri esprimevano il gruppo dirigente comunale, dato che dal loro gruppo provenivano i vescovi, i consoli, i canonici della cattedrale e i giudici. Essi erano accumunati dal fatto di potersi permettere un cavallo e l’equipaggiamento da guerra, il che denotava una certa ricchezza, ma per il resto non erano un insieme omogeneo. La composizione della popolazione urbana variava molto da città a città, ma ovunque presentava aspetti comuni: in primo luogo, i cavalieri, i maggior, erano cittadini come gli altri davanti alla legge e ai tribunali comunali e formalmente non avevano alcun privilegio rispetto ai minori. Inoltre, i due gruppi non erano chiusi: un minore che avesse avuto successo negli affari e si fosse arricchito a sufficienza per acquistare un destriero, sarebbe subito passato tra i cavalieri. Nel vivace mondo urbano del XII secolo, il numero di persone in grado di ascendere la scala sociale era assai numeroso e nei comuni italiani non furono rari i casi di artigiani in grado di accedere alle cariche di governo> Ottone di Frisinga presentò ai lettori tedeschi ed europei il mondo assai particolare dei comuni italiani. Ottone individuò le caratteristiche innovatrici dell'esperienza comunale italiana: i governanti erano eletti dalla popolazione e non nominati, il loro mandato era a termine e a non a vita, erano scelti fra tutti i gruppi sociali e non solo fra gli aristocratici. Grazie al coinvolgimento di una buona parte della popolazione 62 anno al termine del quale l’azione del magistrato era valutata da una commissione: solo se non si riscontravano malversazioni o eccessi, veniva versata la paga concordata. Il podestà deteneva quelli che chiameremmo il potere esecutivo e quello giudiziario, per esercitare i quali era affiancato da un gruppo di collaboratori, detto famiglia, che comprendeva uno o più giudici, dei notai e un uomo d'armi. Si venne così a creare un gruppo di veri e propri professionisti della politica: molti ufficiali ricoprivano diversi mandati successivi, spostandosi da un comune all’altro, e fecero di tale attività un'importante fonte di reddito. Il movimento dei podestà e dei loro collaboratori nelle diverse città favorì anche la trasmissione di modelli amministrativi da un centro all’altro, sicché i modi di governo divennero sostanzialmente omogenei in tutta l’Italia centro-settentrionale. Il podestà non aveva poteri assoluti o dittatoriali. La sua attività era condizionata dal dialogo con il consiglio comunale che doveva approvare le decisioni prese dai magistrati. | consigli composti da qualche decina o qualche centinaio di membri rappresentavano la volontà della città e dalla fine del XII secolo avevano sostituito le assemblee collettive, sempre più difficili da celebrare, anche a causa della progressiva crescita della popolazione urbana. Essi avevano anche il potere legislativo ossia di formulare le norme - dette statuti. Anche gli esponenti del popolo, ossia i non aristocratici, richiesero di esservi rappresentati e nella maggior parte della città ottennero che fosse loro assicurata una percentuale fissa di consiglieri. Tra la fine del XII secolo e i primi decenni del XIII secolo il vasto gruppo dei cittadini che non erano cavalieri si organizzò quasi ovunque per rivendicare il diritto ad un peso superiore nelle grandi decisioni politiche popolo cittadino. | gruppi popolari si organizzarono autonomamente al fine di far sentire la propria voce creando le cosiddette società di popolo > dovevano raggrupparsi fra loro per poter avere peso politico appoggiandosi reciprocamente. Nacquero così associazioni di solidarietà - anche armata - su base territoriale o su base professionale. Queste associazioni intendevano condizionare la vita pubblica cittadina, dialogando direttamente con il podestà, rivendicando rappresentanza nei consigli e cercando di imporre scelte favorevoli ai loro detenenti. | comuni allargarono progressivamente il raggio delle loro competenze. Le città, sempre più grandi e popolate, avevano bisogno di un afflusso sicuro e regolare di generi alimentari: fu imposta una politica annonaria, che prevedeva versamenti coatti di grano da parte delle comunità del contado, il controllo del governo sull'attività dei mugnai, la sorveglianza dei mercati. Anche la costruzione di infrastrutture ebbe un'importanza crescente: l'allargamento della città richiedeva la realizzazione di nuove cinte murarie, ma anche le attività produttive esigevano l'edificazione e la manutenzione di strade, ponti e canali. Per fare tutto ciò, i comuni avevano bisogno di entrate sempre maggiori e regolari. La maggior parte di queste era rappresentata dai dazi e dai pedaggi. Per coprire le spese eccezionali, si sviluppò la fiscalità diretta, che chiedeva ai cittadini tasse proporzionali alla loro richiesta, chiamate fodro, taglia o colletta. Per valutare l’imponibile dei contribuenti furono redatti dettagliati inventari (detti estimi o libre) delle proprietà immobiliari, dei beni mobili e anche dei debiti e dei crediti di tutti gli abitanti della città e del contado. La gestione delle finanze urbane divenne una delle maggiori preoccupazioni del governo comunale e l'oggetto di accanite lotte politiche. | mutamenti politici e istituzionali della prima metà del Duecento accrebbero il ruolo della documentazione scritta che divenne fondamentale per l’amministrazione del comune. | podestà, giungendo dall'esterno, avevano bisogno di apprendere leggi e consuetudini locali. A tal fine, furono redatti dei testi - detti libri degli statuti. Esistevano anche i libri dei diritti nei quali venivano trascritti tutti i documenti ritenuti di grande rilievo per la storia e l'amministrazione del comune. Alla fine di ogni mandato, il podestà presentava per iscritto il resoconto delle sue azioni, di tutte le sentenze emanate dai suoi uffici e di tutte le spese effettuate. Nel corso del secolo, l'abitudine a registrare per iscritto aspetti anche minuti della vita pubblica cittadina si affermò a tal punto che i comuni più grandi diedero lavoro a decine di notai, addetti alla compilazione e alla conservazione di una mole impressionante di materiale. Queste scritture avevano anche un valore politico, dato che consentivano un controllo sempre più capillare da parte del governo urbano sulla città e sui cittadini. Dopo la pace di Costanza, molti governi cittadini dell’Italia settentrionale decisero di ricostruire o costruire ex novo un pubblico quale loro sede. Spesso, infatti, le prime case dei consoli erano sorte su terreni 65 forniti dal vescovo fatto non più accettabile. I nuovi palazzi noti anche come broletti furono costruiti dunque su terreni acquistati dal comune. Presentavano aspetti comuni in tutte le città: si trattava di costruzioni a due piani, dei quali quello inferiore era aperto o porticato e rivolto verso una piazza. L'edificio inviava due messaggi: i loggiati erano caratteristici dei palazzi imperiali, dei quali si riproponeva il modello a sottolineare il potere pubblico esercitato da comune; dall'altro, il porticato aperto liberamente frequentabile dai cittadini mostrava la natura partecipativa del governo civico, all’azione del quale tutti erano chiamati ad assistere e collaborare. Cap. 16 La religiosità popolare, in un contesto di crescita economica e culturale delle città, subì profondi mutamenti. | laici reclamarono forme peculiari di partecipazione alla vita spirituale e portarono nuove istanze, arrivando a rifiutare alcuni dogmi o abbracciando posizioni decisamente eretiche. La sintesi tra la nuova aspirazione e l’ortodossia romana si ebbe agli inizi del Duecento, con la nascita degli ordini mendicanti dei minori e dei predicatori. L'epoca della Riforma gregoriana della Chiesa fu caratterizzata dal diffondersi di una nuova spiritualità, frutto anche dei mutamenti sociali in atto. Nel dinamico mondo urbano, i laici assumevano responsabilità sempre maggiori. Se fino alla metà dell'XI secolo era rimasta indiscussa l’idea che i più perfetti tra i cristiani fossero i monaci, in particolare i cluniacensi, nei decenni successivi i laici rivendicarono in maniera sempre più convinta che vi fossero altre strade per vivere in comunione con Cristo e che la principale fosse seguire il modello della vita evangelica, anche senza prendere i voti. Dato che la brama di ricchezza da parte degli ecclesiastici era stata alla radice del peccato di simonia, uno dei grandi obiettivi polemici della riforma, si diffuse anche l'idea che la modestia e la sobrietà dei costumi fossero necessarie per una sana vita spirituale e che dovessero essere adottate, soprattutto dai religiosi. La prima risposta giunse da un nuovo ordine monastico, quello dei cistercensi. | monaci si diedero una regola di vita austera, che prevedeva, in polemica con Cluny, il ritorno all'esercito del lavoro manuale, nei campi, una liturgia sobria, un’edilizia monastica essenziale e priva di decorazioni e ricchezze e uno stile di vita frugale negli abiti e nell’alimentazione. Per le loro vesti, divennero noti anche come i monaci bianchi. Una della prime fu Clairvaux (Chiaravalle). Diversamente dalla struttura rigidamente verticistica di Cluny, i cistercensi ebbero un'organizzazione egualitaria: ogni monastero aveva un proprio abate e tutti gli abati si riunivano una volta all'anno a Citeaux, al cosiddetto capitolo generale, durante il quale venivano deliberate e sottoposte al voto di tutti le decisioni più importanti per la vita comune. I monaci bianchi prestarono attenzione alla richiesta di partecipazione dei laici e istituirono le figure dei conversi, uomini e donne che, senza pronunciare i voti monastici, abbracciavano uno stile di vita religioso, collaboravano con i cistercensi e venivano associati ai monaci veri e propri nella ricerca della salvezza ultraterrena. | cistercensi ebbero un grande successo, ma la scelta di farsi conversi e vivere presso un'abbazia non poteva che riguardare una minoranza della popolazione. Insoddisfatti del ruolo esclusivamente passivo che la liturgia riservava loro, molti uomini e donne laici, soprattutto nelle città, cercarono altri modi per vivere la propria spiritualità. La volontà di agire in prima persona per dimostrare devozione e guadagnarsi la salvezza eterna si concretizzò per esempio nel grande successo dei pellegrinaggi. Nelle città e nei principali insediamenti delle campagne nacquero le cosiddette confraternite, associazioni di laici che si riunivano per pregare, assistere in alcune funzioni il clero parrocchiale e offrirsi solidarietà reciproca e dedicarsi a opere di misericordia e di aiuto verso il prossimo. Il cuore della spiritualità laica fra XII e XIII secolo fu l'esercizio della carità. Si ebbe una rivoluzione nell’atteggiamento verso i poveri, i malati e i deboli: aiutarli rappresentava un modo di entrare in comunione con Cristo stesso > in tutta Europa vi fu una fioritura di ospedali. Il povero non era solo chi non aveva denaro, ma anche chi restava abbandonato a sé stesso. Alcuni enti si specializzarono nell’esistenza ai disabili> particolare importanza 66 assunsero i lebbrosari. Gli ospedali potevano essere gestiti da confraternite religiose oppure da gruppi di laici devoti. Spesso in queste attività uomini e donne operavano fianco a fianco. L'esaltazione della sobrietà e della povertà da parte delle comunità di laici devoti andava però spesso a cozzare contro lo stile di vita degli strati superiori del clero. Gli uomini della curia romana conducevano uno stile di vita estremamente dispendioso. In alcuni casi, il fervore dei movimenti pauperisti si tradusse in una dura contestazione della ricchezza dei vertici ecclesiastici+ Arnaldo da Brescia. I movimenti pauperistici ed evangelici, pur contestando la ricchezza della curia romana e di molti sacerdoti, non avevano messo davvero in discussione i dogmi della fede cristiana elaborati dalla Chiesa cattolica. AI contrario, verso il 1140, apparve in Occidente una nuova dottrina, forse proveniente dai Balcani, a cui fu dato il nome di catarismo che propone una lettura differente della teologia e del mondo. | catari affermavano l’esistenza di due principi opposti e equipollenti: Dio, la potenza del bene, creatore del mondo spirituale e Satana, la potenza del male, autore del mondo materiale. Per assicurarsi la salvezza dell'anima, quest'ultimo andava dunque rifiutatoù. Un'ascesi rigorosa era richiesta soltanto ad una minoranza - i perfetti - mentre ai semplici fedeli sarebbe bastato condurre una vita onesta e morigerata e ricevere, prima della morte, il cosiddetto consolamento, una benedizione che permetteva di strappare l’anima alla materia. Il messaggio cataro ebbe un grande successo nell'Italia comunale e nella Francia sud-occidentale. Non sempre era così facile tracciare una netta linea distintiva fra i movimenti che restarono nell’ortodossia e quelli ereticali. Un aspetto molto problematico era quello della predicazione, dato che spesso i membri delle confraternite e degli altri gruppi religiosi volevano fare proselitismo ed esortare la popolazione a comportarsi conformemente alla parola di Dio, esercitando però in tal modo una prerogativa fino a quel momento riservata ai religiosi. Alla fine del XII secolo, il papato assunse un atteggiamento di totale chiusura nei confronti di tali comportamenti, colpendo i responsabili con l'accusa di eresia. Si giunse a risultati paradossali come nel caso degli umiliati. Gli umiliati avevano fra i loro scopi il contrasto alla diffusione dell’eresia catara e a tal fine predicavano con fervore i contenuti della dottrina cattolica. Proprio per questo, però, vennero a loro volta condannati come eretici nel 1184 da papa Lucio III. | vescovi lombardi che apprezzavano il comportamento degli umiliati ignorarono il pronunciamento papale e continuarono ad appoggiare la diffusione del movimento finché papa Innocenzo III riuscì a risolvere la complessa situazione. In parte simile, ma con un esito finale opposto, fu la vicenda del movimento dei poveri di Lione noti come valdesi. Negli anni settanta del XII secolo a Lione, in Francia, un cittadino di nome Valdesio intraprese una vita di povertà e penitenza. Attorno a lui si radunarono altri laici, che volevano annunciare il messaggio evangelico al popolo, polemizzando contro i sacerdoti i quali non erano in grado di fare altrettanto. Essi domandavano anche di poter leggere autonomamente i testi sacri. Essi furono scomunicati nel 1184 ma i valdesi radicalizzarono sempre di più le loro posizioni, contestando apertamente lo stile di vita dei vertici ecclesiastici e rendendo impossibile una riconciliazione con Roma. Il loro messaggio ebbe un certo seguito in Francia e nell'Italia settentrionale, ed essi si radicarono in alcune comunità della Alpi occidentali, dove resistettero sino al XVI secolo, quando aderirono alla Riforma protestante. Dopo la conclusione del concordato di Worms i papi cercarono di rendere sempre più concreto il potere di governo sulla chiesa che era stato loro attribuito dal Dictatus papae di Gregorio VII. Verso il 1140, un monaco giurista, Graziano, compose la Concordanza dei canoni discordanti, un'opera ambiziosa, più nota come “Decreto” nella quale egli raccolse tutti i canoni, ossia i decreti con valore giuridico emanati dai pontefici nei secoli precedenti e li armonizzò in un insieme organico. La legislazione ecclesiastica trovò così una sistemazione formale, che offriva alla curia romana le basi normative per governare l'insieme della Chiesa cattolica. Era nato il diritto canonico. Alessandro III aveva obbligato i vescovi italiani ad allinearsi politicamente al suo volere e, con la pace di Venezia del 1177, aveva almeno formalmente dimostrato la propria superiorità sull’imperatore. Fu però grazie a papa Innocenzo III, che occupò il soglio pontificio a cavallo fra XII e XIII secolo, che Roma divenne veramente il centro unico di governo della Chiesa occidentale. Il titolo di vicario di Cristo sostituì vicario di 67 Il successo solo parziale della terza Crociata fece sì che nel 1202 venisse organizzata una nuova spedizione che avrebbe dovuto restituire la città santa al dominio cristiano. Promossa da papa Innocenzo III, essa non trovò però l'appoggio di nessun sovrano latino, ma solo di alcuni nobili locali. Privi delle risorse finanziarie necessarie a pagare il viaggio, essi raggiunsero un accordo con il doge di Venezia impegnandosi a conquistare la città di Zara, in Dalmazia, in cambio del trasporto via mare fino alla Terrasanta. Essi avanzarono lungo la costa e giunsero a Costantinopoli, dove era in corso un aspro conflitto dinastico fra tre diversi pretendenti al trono. | crociati diedero l'assalto a Costantinopoli e il 13 aprile la conquistarono, sottoponendola a un saccheggio spietato. La presa della capitale imperiale fu inaspettata e non pianificata. Spinti dal doge di Venezia Enrico Dandolo, i crociati si impadronirono del potere e proclamarono la nascita di un nuovo impero, latino e cattolico, sul cui trono fu posto Baldovino di Fiandra mentre a Bonifacio di Monferrato fu assegnata la Grecia settentrionale e altri principati furono creati e assegnati ad altri principi crociati nell'Attica e nel Peloponneso. Chi però trasse i maggiori benefici dalla nuova situazione fu Venezia, che si fece attribuire libertà di commercio in tutto il Mar Nero e si impadronì di alcune isole strategiche cosa che le garantì il controllo pressoché totale dei commerci fra il mare Adriatico e l'Egeo. La sottomissione di Costantinopoli e delle isole egee non significò però la conquista dell'intero territorio imperiale. La maggior parte della popolazione era ostile ai crociati e appoggiò la costituzione di potentati che si proclamarono legittimi eredi del potere imperiale, sotto il dominio di grandi famiglie costantinopolitane fuggite dalla città. | discendenti dei Comneni fondarono l'impero di Trebisonda, sul Mar Nero, gli angeli crearono il despotato di Epiro e i Lascaris proclamarono l'impero di Nicea, nell’Anatolia occidentale. Quest'ultimo riuscì ad affermarsi quale vero erede dell'impero d'Oriente. Dato che i turchi erano occupati sulle loro frontiere orientali, dove si stava affacciando la minaccia mongola, i sovrani di Nicea poterono concentrare le loro forze contro l'impero latino, al quale, con una serie di campagne militari, riuscirono a strappare quasi tutti i territori asiatici. Nel 1259, salì al trono di Nicea l’abile generale Michele VIII, dell'antica famiglia dei Paleologi. Dopo aver sconfitto militarmente i rivali del despotato di Epiro, egli rimase l’unico vero pretendente al trono imperiale, ma comprese che per tornare padrone di Costantinopoli avrebbe avuto bisogno di sostegno in Occidente. In primo luogo, cercò di ottenere l'appoggio del papa. Nel marzo 1261, concluse nella località di Ninfeo un trattato di alleanza con Genova, approfittando del fatto che la città ligure voleva scalzare Venezia dal controllo dei commerci con l’Egeo e il Mar Nero. L'esercito del Paleologo entrò di sorpresa a Costantinopoli, dove i crociati, impegnati a reprimere altrove continue rivolte, avevano lasciato una guarnigione ridotta al minimo. Sconfitti i pochi militi latini presenti, le forze nicene diedero alle fiamme tutte le proprietà dei veneziani. Michele VIII rientrava trionfante nella città e proclamava la piena restaurazione dell'impero d'Oriente. Fra le tribù nomadi mongoli e truche che popolavano le pianure dell'Asia centrale. Un capotribù di nome Temujin con un insieme di accordi politici, guerre, tradimenti e matrimoni diplomatici riuscì a portare sotto il suo comando la maggior parte di queste popolazioni e nel 1206 prese il titolo onorifico di Chingiss Qu'an (fiero capo) e Gengis Khan. | mongoli erano un popolo di guerrieri a cavallo e una volta riuniti in un unico gruppo si rivelarono una potenza militare inarrestabile. Si lanciò così in una serie di grandi campagne di conquista. Egli attaccò la Cina, approfittando del fatto che essa era divisa tra tre dinastie in guerra fra loro. Fra il 1219 e il 1221 aveva attaccato anche il sultanato islamico della Corasmia, nell'Asia centrale, le cui floride città mercantili gli opposero una durissima resistenza. Qui i mongoli si conquistarono una meritata fama di ferocia, dato che per teorizzare i nemici rasero al suolo tutti centri che non aprirono loro le porte e ne massacrarono gli abitanti, riducendo in schiavitù i pochi superstiti. Quando Gengis Khan morì, nel 1227, era padrone di un impero che andava dal Mar del Giappone al Mar Caspio. Il figlio maggiore di Gengis Khan, Ogodei, ne ereditò il titolo e ne proseguì la politica di conquiste: negli anni trenta sottomise la dinastia Jin, completando l'occupazione della Cina settentrionale, e attaccò la Persia. Nel 1237, i mongoli piombarono sul principato russo di Kiev e in tre anni di guerra spietata lo sottomisero completamente. Fra il 1241 e il 1242 essi sconfissero i polacchi e gli ungheresi, 70 conquistando e distruggendo Buda e Pest. Nell'estate del 1242, però, si ritirarono, forse per motivi politici, forse per cause militari. I mongoli non seguivano regole precise per la successione del gran khan, sicché i conflitti fra gli eredi di Gengis portarono verso la metà del Duecento ad una divisione del territorio fra i quattro principali rami della discendenza. A est, un khanato includeva la Cina e la Mongolia. La sorte di questi territori fu molto diversa. In Persia e in Cina, i mongoli abbandonarono il loro stile di vita tradizionale e si sedentarizzarono, adottando molti dei costumi delle civiltà sottomesse. In Russia e in Asia centrale, i mongoli proseguirono una vita nomade, limitandosi a imporre tributi alle terre conquistate, come i principati russi. | mongoli erano spietati in guerra e le loro conquiste si lasciarono dietro una scia di massacri. Le terre dell'Asia centrale, fino a quel momento ricchissime e culturalmente assai vivaci, non si riprese mai del tutto dai danni causati dall'invasione. Con chi si sottometteva pacificamente, però, essi erano piuttosto tolleranti. Nei territori assoggettati mantennero saldamente le leve del comando, ma affidarono uffici di responsabilità anche a turchi, cinesi e persiani. Favorirono gli scambi culturali ed economici fra mondo islamico ed Estremo Oriente, grazie alla cosiddetta pace dei mongoli assicurava la possibilità di viaggiare senza troppi problemi dal Mar Nero al Mar del Giappone. Sebbene fossero spesso in competizione fra loro, i khan mongoli favorirono l'apertura o la rivitalizzazione delle vie commerciali che univano il Medio Oriente e l’area mediterranea con la Cina. Consapevoli che il commercio era una fonte di prosperità e di ricchezza, essi praticarono politiche di appoggio ai mercanti, locali e stranieri, garantendo la sicurezza dei trasporti, costruendo infrastrutture e riscuotendo dazi e pedaggi bassi. Importante fu l'apertura di contatti diretti fra l'Occidente latino e l'Oriente. La crisi dell'impero d'Oriente aveva permesso ai genovesi e ai veneziani di ottenere il controllo dei commerci sul Mar Nero, che divenne il cuore dei rapporti con i mongoli. | genovesi fondarono una ricca colonia a Caffa che fungeva da porto terminale per le vie carovaniere che attraversavano i territori dell'Orda d'Oro e giungevano in Cina. Questi commercianti a loro volta si spinsero nell'entroterra e raggiunsero in buon numero la Cina per acquistarvi tessuti di seta, spezie e ceramiche, che potevano comprare a buon prezzo pagando in argento, un metallo che in Oriente scarseggiava ed era molto richiesto. Marco Polo fu il più celebre tra questi viaggiatori. Si accrebbe poi anche l’importanza della via d’acqua che collegava l'India all'Egitto attraverso il Mar Rosso. Furono pochi, però, i viaggiatori europei che percorsero questa rotta, sulla quale esercitava un saldo controllo una corporazione di mercanti islamici e indiani. | veneziani e, in misura minore, i genovesi e i catalani, si insediarono in gran numero ad Alessandria, dove entrarono in contato con le loro controparti asiatiche dalle quali acquistavano, per poi esportarli in Occidente, spezie e altri materiali pregiati provenienti dall'India e dall’Indocina. Sul finire del Duecento, l'integrazione economica europea conobbe un ulteriore balzo in avanti grazie all'apertura di una rotta commerciale dal Mediterraneo all’Atlantico. Fino ad allora i due mari erano rimasti praticamente separati, perché lo stretto di Gibilterra era percorso da insidiose correnti e le sue coste erano in mani islamiche. Nella seconda metà del Duecento, però, nei cantieri italiani cominciarono a essere costruite galee più grosse e robuste, che conservavano le capacità di combattimento di quelle normali, ma erano in grado di affrontare con più sicurezza il mare aperto. La rotta atlantica permise di abbassare i costi di trasporto rispetto alla vita di terra. Fra XII e XIII secolo, il mondo latino entrò con piena dignità in questi circuiti mercantili. Ciò avvenne soprattutto grazie al grande sviluppo delle manifatture tessili> Fiandre. Altre produzioni, meno prestigiose, ma comunque di successo, si svilupparono nell’Italia centro-settentrionale e nella Francia meridionale. Nell’Italia del Nord, si realizzavano fustagni - ossia panni misti di cotone di lino - erano richiestissimi per l'esportazione e venivano venduti in un'area assai vasta. Inoltre, i paesi musulmani importavano anche materie prime, come il legno, e un buon numero di schiavi asiatici. Il successo dei prodotti italiani e fiamminghi presso i consumatori islamici accrebbe la vivacità e la rapidità della crescita economica in Europa. L’afflusso di ricchezze fu tale che nel 1252 Firenze e Genova decisero di coniare una moneta aurea. Fu Firenze ad avere maggiore successo e il fiorino, che valeva venti soldi d’argento, si diffuse rapidamente in tutto il continente e divenne oggetto di un'enorme 71 quantità di imitazioni: l'economia europea ormai era in grande crescita e richiedeva mezzi di pagamento di maggior valore rispetto ai vecchi conii carolingi. Il successo del fiorino non si spiega senza considerare l'evoluzione complessiva dell'economia europea. Firenze non si affacciava sul mare e dunque non era una grande città mercantile come Genova o Venezia, e non rappresentava nemmeno un importante centro produttivo. | fiorentini seppero ritagliarsi un ruolo sempre più rilevante come banchieri. La raccolta di queste somme venne sempre più spesso affidata a banchieri italiani, che di solito le anticipavano di tasca propria e riscuotevano in seguito le somme dovute dagli enti ecclesiastici periferici, ricavandone cospicui guadagni. L'attività bancaria degli italiani permise un ulteriore sviluppo dell'economia europea, sostenendo con iniezioni di denaro liquido gli investimenti. Fra i nuovi strumenti, vale la pena di ricordare la lettera di cambio, che permetteva a un mercante di versare una somma a un banchiere in una città e riceverne una lettera che gli permetteva di riscuotere la stessa cifra in un’altra località: in tal modo era possibile spostare ingenti quantità di denaro da una piazza all'altra, senza bisogno di trasferire fisicamente sacchi pieni di monete d'argento e d'oro, che correvano il rischio di essere smarrite o rubate. Nella seconda metà del Duecento cominciarono a distinguersi alcune società finanziarie toscane, che erano riuscite a sviluppare legami privilegiati con la curia romana e a ottenere gli appalti migliori per la riscossione delle contribuzioni. Queste grandi compagnie erano composte in primo luogo dai membri di un gruppo famigliare, che dava il nome, ma potevano accogliere anche soci esterni. | loro dirigenti non si muovevano più dalla sede centrale ma avevano propri rappresentanti in tutte le principali piazze finanziarie e nelle grandi capitali d'Europa e del Mediterraneo. Fra i loro clienti vi erano anche i sovrani europei che avevano bisogno di grandi somme di denaro per sostenere le loro ambizioni politiche. Non in tutti i casi le fortune di queste famiglie si dimostrarono solide: un cambio di orientamento politico o il mancato rimborso di un prestito potevano causare clamorosi fallimenti. Il ruolo crescente delle città portò ad un uso sempre più frequente e diffuso della scrittura, indispensabile per conservare la memoria degli atti amministrativi e delle sentenze giudiziarie, delle registrazioni di entrata e uscita. Degli elenchi fiscali, degli inventari dei magazzini di viveri o delle scorte di armi. Le comunicazioni fra i governanti europei e i loro funzionari locali nonché fra i governanti stessi furono sempre più spesso affidate all'uso di lettere. Gli archivi pubblici divennero sempre più importanti e meglio organizzati. La diffusione della scrittura non riguardava soltanto le amministrazioni pubbliche: anche i mercanti si scambiavano lungo lettere con ordini e consigli e tenevano accurate registrazioni di spese e profitti, tanto che elaborarono una propria scrittura, detta mercantesca, più veloce e agile, anche se meno elegante di quella usata da scribi e notai. Nei paesi mediterranei divennero una categoria indispensabile: qualsiasi affare di una certa consistenza veniva concluso davanti ad un notaio che redigeva un apposito atto e ne conservava copia in volumi detti imbreviature. Cominciarono a comparire le prime biblioteche private laiche. Il consolidarsi degli apparati di governo statali e regionali ebbe conseguenze anche sulla diffusione della cultura giuridica. Gli uomini a cui sempre più spesso i sovrani europei affidavano il governo delle loro terre cominciarono a distinguersi come un gruppo particolare, composto da esponenti della piccola nobiltà o da cittadini, a cui si chiedevano sostanzialmente una forte fedeltà alla corona e una cultura sufficiente per consentire loro di essere dei buoni amministratori. | funzionari locali erano di frequente giudii o chierici. Per gli uffici delle corti regie o signorili, delle curie episcopali e dei governi cittadini, però, era necessaria una vera preparazione giuridica. Un percorso di formazione specifico in diritto romano, canonico o in entrambi era dunque sempre più indispensabile per fare carriera nell’amministrazione centrale. Per l'Europa del basso Medioevo non si può ovviamente parlare di un'alfabetizzazione di massa, dato che la maggior parte della popolazione rimase illetterata. La minoranza di chi sapeva leggere e scrivere si fece sempre più ampia e, soprattutto nelle città, giunse a comprendere una quota significativa degli abitanti. Le scuole si moltiplicarono. La diffusione della cultura scritta fu facilitata dall'abbandono dell'uso esclusivo del latino nell’ambito della produzione libraria. Oltre alle merci, sulle grandi direttici commerciali aperte nel Mediterraneo e in Asia, circolavano anche libri e idee. In particolare, gli studi 72 che cominciarono una progressiva e inarrestabile espansione verso sud. Re Giacomo | di Aragona, regnante sulla parte orientale della penisola iberica, riuscì a trarre i maggiori vantaggi dalla nuova situazione. Con una serie di spedizioni, fra il 1229 e il 1235 strappò ai musulmani il controllo delle isole Baleari, rendendo così più sicura la navigazione nel Mediterraneo nord-occidentale ponendo le premesse per il futuro sviluppo del porto di Barcellona. Nel 1238, conquistò Valencia e l'entroterra > cuore economico del regno. Giacomo si distinse anche per la tolleranza dimostrata nei confronti delle popolazioni islamiche sottomesse. Anche il regno di Castiglia conobbe una rapida espansione nei decenni successivi alla battaglia di Las Navas de Tolosa, quando vennero occupate Cordova, Siviglia e la maggior parte dell'Andalusia. La dominazione islamica sopravvisse solo nel piccolo emirato di Granada. | castigliani non riproposero la politica di tolleranza attuata dai re di Aragona e la maggior parte dei musulmani fuggì davanti alla loro avanzata. Alfonso X fece un grande sforzo per aumentare i poteri della corona, accrescendo il prelievo fiscale, al quale sottopose anche nobili ed ecclesiastici, imponendo sindaci alla guida delle città e creando una rete di giudici di corte. Alfonso ebbe l'ambizione di creare un unico corpo di leggi organiche e applicate in tutta la Castiglia, superando il particolarismo legislativo delle singole regioni o centri urbani. L'opposizione degli aristocratici e delle comunità cittadini ridimensionò molti dei risultati ottenuti. A partire dall'XI secolo, si affermarono quali nuove protagoniste le città. A cavallo fra XI e XII secolo, si ebbero i primi esperimenti di autogoverno cittadino nella Francia settentrionale e nella valle del Reno. Gli abitanti si rivoltarono contro il potere dei vescovi che, a differenza dei loro omologhi italiani, esercitavano dei veri poteri signorili sopra i centri urbani. Dopo duri scontri, queste città si videro riconoscere un diritto parziale all'autogoverno e all'amministrazione della giustizia, grazie all'intervento del re di Francia Luigi VI e dell’imperatore Enrico V. Fra XII e XIII secolo, i sovrani occidentali intrapresero una politica di dialogo con le realtà cittadine, volta anche a indebolire i poteri dei signori locali. In Francia molti centri urbani si videro riconoscere delle carte di franchigia, che le sottraevano al controllo dei vescovi o dei nobili e le ponevano sotto il diretto controllo del re: costui nominava un suo rappresentante, il balivo, che le governava in stretta collaborazione con un collegio di ufficiali municipali, detti scabini. Molti comuni tedeschi si videro riconoscere lo status di città imperiali, liberate dalla giurisdizione dei marchesi, dei duchi o dei vescovi. In Inghilterra, in Castiglia e in Catalogna le comunità urbane furono riconosciute come una parte di fondamentale importanza delle istituzioni statali e ricevettero privilegi e garanzie giuridiche. Nell’Italia meridionale normanna esse godettero di una discreta autonomia. Di fronte al progressivo rafforzarsi dei poteri monarchici, molti comuni si allearono fra loro per difendere le proprie prerogative, anche contro gli stessi sovrani. Queste esperienze di autogoverno urbano in Europa erano profondamente diverse da quanto era avvenuto fra XII e XIII secolo nell'Italia centro-settentrionale. Mentre in Italia i comuni si ribellarono al potere imperiale, quelli europei nacquero di norma in contrapposizione, se non in aperta ostilità, nei confronti dei potenti signori locali. Mentre i gruppi dirigenti delle città italiane integrarono senza problemi nei loro ranghi i vassalli episcopali e i potenti delle campagne, in Francia e in Germania questi restarono fedeli ai loro signori, da cui invece i cittadini volevano rendersi autonomi. L'autorità comunale raramente riusciva a estendersi al di là delle mura urbane, oltre le quali i nobili conservavano il proprio potere e le proprie giurisdizioni. Infine, nei centri francesi e tedeschi, l'esclusione dei nobili e dei vassalli indebolì notevolmente le capacità militari delle comunità che dovevano dipendere dall’appoggio militare regio. Vi furono comunque delle eccezioni a questo quadro, di cui la più significativa è rappresentata dalle Fiandre. Al di fuori dell’Italia centro-settentrionale, le città che raggiunsero il maggior grado di autonomia furono quelle della regione delle Fiandre. | grandi centri di produzione laniera riuscirono a conquistare un’ampia autonomia rispetto ai conti delle Fiandre e al re di Francia, contro i quali condussero una serie di guerre, a partire dai primi decenni del XII secolo per giungere alla grande vittoria conseguita dalle loro fanterie contro la cavalleria francese di Filippo IV il Bello nel 1302. Tra la fine del Duecento e gli inizi del Trecento, le maggiori città 75 fiamminghe riuscirono anche ad affermare la loro autorità anche sulle campagne circostanti e il loro dominio venne confermato ufficialmente nel 1343 quanto tutta la regione delle Fiandre venne divisa in tre distretti che erano praticamente autonomi anche se formalmente continuavano a dipendere dai conti delle Fiandre. La riconciliazione con il regno normanno di Sicilia giunse nel 1186, quando il figlio di Federico, Enrico VI, già designato quale suo erede al trono, sposò Costanza di Altavilla, figlia di Ruggero Il e zia di re Guglielmo Il di Sicilia. Il matrimonio non prometteva però un'unione fra i due regni: Guglielmo Il era ancora giovane e avrebbe potuto generare diversi eredi al trono. Il re di Sicilia spirò senza figli nel 1189 e Costanza rimase l’unico esponente in vita della famiglia. Nel 1190 morì anche Federico | e Enrico Vi poté utilizzare le risorse dell'impero per reprimere l'opposizione della nobiltà normanna e farsi incoronare re di Sicilia nel 1194. Enrico e Costanza diedero alla luce un figlio, Federico Ruggero di Svevia. Costanza morì a sua volta nel 1198 e Federico, che non aveva ancora quattro anni, divenne una pedina nelle mani della nobiltà siciliana. Fu papa Innocenzo III, a cui la madre lo aveva affidato, a permettergli di assumere effettivamente il potere. Innocenzo era assai ambizioso e intendeva influenzare tutta la vita politica europea, ne promosse anche l'elezione a imperatore nel 1212, per contrastare Ottone IV di Brunswick. Federico si trovò a governare tre territori assai differenti. Altrettanto differenti furono le politiche che condusse in ognuno di essi. Ottenuta la corona imperiale, Federico si dedicò a consolidare il proprio controllo sull'Italia meridionale. Uno dei problemi che egli dovette risolvere fu quello della forte minoranza musulmana che ancora popolava la Sicilia occidentale e che mal sopportava il dominio sempre più pesante dei cristiani. Dal 1222 al 1225 egli condusse una spietata repressione delle rivolte islamiche e alla fine deportò tutti i superstiti in Puglia. Qui venne loro assegnata la città di Lucera, un'enclave nella quale avrebbero potuto praticare liberamente il loro culto, a patto di servire militarmente il re. Assorbito dalle necessità del regno di Sicilia, Federico non mantenne l'impegno che aveva assunto con Innocenzo III di prendere la croce e andare a combattere in Oriente subito dopo l'incoronazione imperiale. Egli si rifiutò di partecipare alla quinta Crociata (1218-1221) e rimandò ancora la partenza finché, nel 1228, venne scomunicato in quanto spergiuro. Solo a questo punto si decise a muoversi verso Oriente per una crociata paradossale: condotta da un re colpito da anatema, fu combattuta contro altri cristiani e non contro gli islamici: approfittando di una guerra civile che divideva l'Egitto, l’imperatore trovò un accordo diplomatico col sultano Al-Kamil e ottenne una tregua decennale, durante la quale Gerusalemme sarebbe stata affidata ai crociati, a patto che restasse priva di forze armate e di difese. La scomunica del 1228 segnò un momento di svolta nei rapporti tra Federico e il papato. Favorendo l'elezione dello svevo a imperatore, Innocenzo III aveva distrutto uno dei cardini della politica pontificia del secolo e mezzo precedente, ossia usare a proprio vantaggio la rivalità tra impero e regno di Sicilia, in maniera da poter trovare appoggio alternativamente nell’uno o nell'altro. sotto Onorio III, successore di Innocenzo, Federico si ritagliò margini di autonomia sempre maggiori e cominciarono le prime frizioni con Roma. Nel 1227, salì al soglio pontificio l'energico Gregorio IX, che intendeva ricondurre all’obbedienza il riottoso imperatore e lo scomunicò per non essere partito per la crociata; nel 1229, il papa mise in atto addirittura un tentativo di invasione del regno di Sicilia, che però si risolse in un fallimento. Di lì in poi fu un lungo succedersi di scontri e riconciliazioni, che culminò nell’alleanza tra il papa e i comuni avversi all'imperatore e in una nuova scomunica nel 1239. Federico, rientrato dalla crociata, intraprese una profonda riforma del regno di Sicilia. Nel 1231, nella città di Melfi venne emanato un ampio corpo di leggi> Costituzioni Melfitane o Liber Augustalis® riorganizzare tutto il regno, accrescendo significativamente il controllo del sovrano sulla vita pubblica. Federico espose chiaramente il suo progetto politico: solo un forte potere monarchico avrebbe potuto garantire la pace fra i sudditi. Le Costituzioni Melfitane rafforzavano i poteri degli ufficiali regi, detti giustizieri, ai quali era affidato il controllo sulla nobiltà feudale e ai cui tribunali potevano rivolgersi i sudditi per appellarsi contro le sentenze emanate dai signori. Alle comunità urbane veniva proibito di eleggere i propri governanti. Una serie di disposizioni collaterali riguardava il controllo del sovrano sulla vita economica, attribuendo alla corona il monopolio sulla produzione e la vendita 76 di manufatti metallici, della seta e del sale, nonché la possibilità di permettere o vietare l'esportazione di grano. Le ricche entrate fiscali garantite da queste riforme permisero a Federico di coniare una bella moneta d’oro, l'augustale, la cui circolazione rimase abbastanza limitata. Le Costituzioni Melfitane vennero emanate da Federico in qualità di re di Sicilia e non avevano valore nell'impero. In Germania, la politica dello svevo fu profondamente diversa: egli riconobbe l'autonomia dei grandi principati territoriali e alleggerì i loro doveri nei confronti della corona. La sua attenzione era in effetti concentrata sull'Italia e alla Germania egli chiedeva solo di restare pacifica e di inviargli periodicamente contingenti di cavalleria per alimentare la guerra contro le città comunali della penisola. A tale scopo, egli lasciò come suo vicario oltralpe il figlio, Corrado, ma dopo il 1235 non si recò mai di persona in territorio tedesco. Nel 1236, Federico lanciò una grande offensiva militare contro i comuni dell’Italia centro-settentrionale capeggiati da Milano, che egli considerava ribelli e che voleva ricondurre sotto il diretto controllo dell'impero. Federico Il poteva contare anche sull'appoggio di alcuni nobili italiani e di diverse città che volevano contrastare l'egemonia milanese. Nei primi due anni di guerra egli conseguì importanti successi, che culminarono nella battaglia di Cortenuova, nel novembre del 1237, durante la quale sconfisse un grande esercito formato in gran parte da milanesi. Non fu però una vittoria decisiva: Milano riuscì a resistere e a riprendersi, ottenendo anche l'appoggio incondizionato di papa Gregorio IX. Il conflitto si impantanò in una serie di campagne locali tanto inconcludenti. Sia Federico Il sia i pontefici fecero forti pressioni sull’opinione pubblica delle città per condizionarla a proprio favore: questo causò la nascita di due fazioni, la parte dell'impero e la parte della Chiesa + guelfi e ghibellini. Gregorio IX morì nel 1241 e gli succedette Sinibaldo Fieschi Innocenzo IV. Dopo alcuni tentativi di trattativa con la corte imperiale, presto falliti a causa delle reciproche posizioni ormai molto distanti, egli proseguì la politica del suo predecessore e si contrappose aspramente a Federico. Costretto a fuggire dall'Italia, nel 1245 si rifugiò a Lione dove indisse un grande concilio durante il quale Federico Il venne deposto. Si trattava del primo provvedimento di questo genere nei confronti di un imperatore in carica e i suoi effetti vennero aggravati dalla situazione di difficoltà in cui si trovava lo svevo. Nel 1246, il malumore diffuso e la preoccupazione per la deposizione produssero una congiura. La trama fu scoperta e la repressione estremamente crudele. Federico divenne sospettoso e sostituì molti dei suoi funzionari con membri della propria famiglia. Questi però non sempre si rivelarono all'altezza delle aspettative e portarono gli eserciti imperiali a una serie di pesanti disfatte: nel 1248 con il fallimento dell'assedio di Parma, le forze dello svevo furono travolte da un'improvvisa sortita degli assediati. In seguito a queste sconfitte, nonostante alcuni successi conseguiti su fronti secondari, tutto lo schieramento imperiale stava collassando quando improvvisamente Federico si ammalò e morì, in Puglia, il 13 dicembre 1250. Dopo la morte di Federico II, il titolo imperiale rimase vacante per oltre sessant'anni, fino al 1312, quando entrò in carica Enrico VII di Lussemburgo. Ci furono dei re di Germania, ossia degli aspiranti imperatori, ma nessuno di loro riuscì a organizzare una discesa a Roma per ottenere, come era necessario, la corona dal papa. Essi furono figure piuttosto deboli. Nel 1268, con la morte dell'ultimo erede di Federico II, Corradino, il papato poteva dire di essere uscito vincitore da quarant'anni di guerra con la casa di Svevia. In Italia, questo si tradusse in un forte consolidamento del potere temporale dei papi, che non solo si videro confermare le proprie prerogative di alta sovranità sopra il regno di Sicilia, ma nel 1285 allargarono in maniera consistente i confini dello stato della Chiesa annettendovi Bologna e la Romagna. Ai successi conseguiti in Italia corrispondeva una situazione europea più contraddittoria: le antiche ambizioni di Innocenzo Ill di controllare tutti i principali regni d'Europa furono abbandonate. D'altro canto, però, il controllo di Roma sulle chiese locali si era ulteriormente rafforzato: gli uffici della curia creati da Innocenzo Ill erano sempre più efficaci e la loro influenza ormai pervasiva. Il papa disponeva delle nomine dei vescovi in tutta Europa e poteva revocare tutte le figure che gli si opponevano. Importante fu agli inizi degli anni trenta del Duecento l'istituzione dell’Inquisizione antiereticale affidata di norma ai frati predicatori che 77 pontificie al sud e di affermare la propria autorità sull'Italia centro-settentrionale e sui Balcani. Per fare ciò, mantenne una pressione fiscale piuttosto elevata. Il cambiamento più significativo fu geografico: durante il periodo normanno e svevo la capitale era stata Palermo, mentre Carlo decise di spostarla a Napoli. Le sconfitte sveve di Benevento e Tagliacozzo misero in crisi il fronte ghibellino in tutta l'Italia comunale e in molte città si ebbero improvvisi cambi di regime. Con l'eccezione di Pisa, tutti i comuni toscani aderirono allo schieramento guelfo. Molti scelsero di sottometterglisi direttamente. Carlo dunque creò un proprio apparato di governo, con ufficiali che dovevano rappresentarlo anche nell'Italia centro-settentrionale. La politica dell’Angiò però era molto aggressiva: all'interno delle città egli chiedeva fedeltà assoluta, avvantaggiava i propri sostenitori e colpiva con l'esilio chi gli si opponeva. Appoggiando in maniera intransigente la fazione guelfa, contrastava tutte le iniziative di riconciliazione, giungendo su questo addirittura ad una clamorosa frattura con papa Gregorio X, che invece auspicava la pacificazione tra le parti. | ghibellini trovarono nuovi margini di manovra. Appoggiati dal re di Castiglia Alfonso X, che voleva contrastare la crescente egemonia politica franco-angioina, fra il 1276 e il 1280 gli oppositori di Carlo riuscirono a capovolgere i rapporti di forza in quasi tutta l’Italia settentrionale. La crisi del potere di Carlo nel Settentrione ridiede fiato anche ai suoi oppositori meridionali. Questi si concentravano in Sicilia, soprattutto a causa del fatto che lo spostamento della capitale a Napoli aveva privato l'isola del ruolo centrale ricoperto in epoca normanno-sveva. Nel marzo del 1282, a Palermo scoppiarono dei moti antifrancesi (Vespri siciliani) che portarono alla cacciata degli ufficiali angioini della città. La rivolta si estese rapidamente a tutte le città della Sicilia. Queste chiedevano maggiori margini di autonomia e di autogoverno e sollecitarono l'appoggio del papa, che però glielo negò. Alla ricerca di un sostegno, decisero allora di assoggettarsi al re di Aragona, Pietro III, che avendo sposato la figlia di Manfredi poteva rivendicare diritti sull’isola. La rivolta cittadina si trasformò così in una guerra ventennale per la supremazia mediterranea fra Aragona e Angiò. La guerra del vespro terminò solo nel 1302, quando la Sicilia venne proclamata indipendente col nome di regno di Trinacria e assegnata a Federico III di Aragona, un figlio cadetto di Pietro III. Il Mezzogiorno continentale restò invece al figlio di Carlo I, Carlo Il d'Angiò, con il titolo alquanto paradossale di regno di Sicilia > è più comodo chiamarlo convenzionalmente regno di Napoli. La guerra contro Federico II e i successivi conflitti fra guelfi e ghibellini aprirono una rinnovata stagione di tensioni, a cui i popolari risposero con una strategia del tutto differente: invece di agire in seno alle assemblee e alle istituzioni comunali, dove erano rappresentati anche gli aristocratici, essi preferirono operare all’esterno, creando nuove magistrature - dette di popolo - che dovevano condizionare quelle del comune. Così al podestà venne contrapposto un capitano del popolo e al consiglio cittadino un consiglio del popolo senza il cui consenso nessuna decisione presa dai loro omologhi comunali poteva diventare effettiva. | popolari elaborarono anche una propria ideologia, incentrata sul valore della pace. Fu spesso il popolo ad assumersi in prima persona la responsabilità di mantenere l'ordine pubblico entro le mura. La realizzazione più esemplare del programma politico del popolo si ebbe in alcune città dell’Italia centrale, dove furono emanate le cosiddette leggi antimagnatizie. Si trattava di provvedimenti che individuavano un gruppo più o meno numeroso di famiglia ritenute troppo potenti. | membri di queste stirpi non potevano ricoprire cariche pubbliche e gli atti di violenza da loro compiuti venivano puniti con particolare severità. Il primo esempio si ebbe a Bologna con i cosiddetti ordinamenti sacrati e sacratissimi del 1282. Nel 1293 vennero redatti a Firenze gli ordinamenti di giustizia. Provvedimenti simili, in tempi diversi, furono assunti anche a Perugia, Prato, Lucca e in altri comuni dell’Italia centrale, mentre la loro diffusione fu molto più limitata nel Settentrione. Fra Toscana, Emilia e Umbria si svilupparono anche le più influenti associazioni di mestiere in seno al popolo. L'evoluzione dei comuni di popolo nell'Italia settentrionale fu differente: qui raramente le corporazioni di mestiere assunsero il monopolio del movimento popolare, che rimase di solito nelle mani delle associazioni territoriali. Inoltre, nel Nord molte città erano state sotto il dominio di signori il che aveva generato la consuetudine di affidare il vertice del governo comunale ad una sola persona. Per affermarsi, le organizzazioni di popolo non cercarono di 80 emarginare le famiglie aristocratiche, ma attribuirono poteri speciali a singole persone, con l’incarico di imporre il proprio programma politico, in modo da darsi una leadership che rappresentasse in modo unitario le esigenze dei diversi gruppi sociali cittadini. Questi signori di popolo vennero istituiti quasi ovunque e diedero talvolta origine a vere e proprie dinastie. Anche nel Nord vi furono comuni di popolo che si governavano senza bisogno di un signore, come Padova e Asti. Di fatto, i partiti di popolo non riuscirono a realizzare il loro programma politico-religioso. La piena emarginazione delle grandi famiglie aristocratiche dal governo era impossibile, a causa delle competenze diplomatiche e militari che esse padroneggiavano e che erano indispensabili per la sopravvivenza della città. Inoltre, tra le famiglie dell’aristocrazia urbana e quelle popolari esistevano legami molto forti. Uno degli esiti più importanti della conflittualità politica e sociale nell'Italia del secondo Duecento fu un ripensamento radicale dell'idea di cittadinanza. Se nei primi due secoli di vita del comune chiunque risiedeva in città per un certo periodo poteva dirsi cittadino ed esercitare i propri diritti politici, sullo scorcio del Duecento tali prerogative vennero limitate, escludendo chi professava un'idea politica diversa da quella di chi deteneva il potere. In alcuni comuni si giunse addirittura all'espulsione fisica dalla città di coloro che non erano eticamente degni di risiedervi, come le prostitute, i mendicanti, i giocatori d'azzardo e talvolta gli ebrei. Anche verso gli immigrati, le regole si fecero più dure. Agli inizi del Trecento la piena cittadinanza era quindi diventata un privilegio che le autorità pubbliche potevano attribuire o revocare. Il cambiamento dell’idea di cittadinanza da diritto a privilegio fu il riflesso di un più ampio processo di restrizione delle basi del potere politico che nella prima metà del XIV secolo caratterizzò quasi tutte le città italiane e schematicamente può essere rappresentato in tre forme: nella maggior parte dei casi vi fu l'affermazione di una dinastia signorile con la costituzione di un'oligarchia, in altri ancora si determinò una concentrazione di fatto del potere nelle mani di poche famiglie eminenti, anche se formalmente restavano in vigore gli ordinamenti popolari. Ci sono tre città che possiamo considerare esemplari: Milano, per la signoria, Venezia, per l’oligarchia formale e Firenze per quella informale. Prima, però, va considerata anche un'ultima opzione, quella monarchica che ebbe un certo successo nei primi decenni del XIV secolo, anche se per periodi piuttosto brevi. L'insofferenza degli abitanti diede una certa popolarità all'idea che fosse necessario l'intervento di un sovrano per imporre la pace. Enrico VII di Lussemburgo (Arrigo VII) dopo essere stato eletto imperatore nel 1309, scese in Italia per farsi incoronare e per riportare i comuni sotto la propria autorità. Enrico, che poteva contare anche sull'appoggio di papa Clemente V, fra 1310 e 1311, ottenne facilmente la sottomissione di quasi tutte le città settentrionali. Egli però non aveva le risorse economiche e militari per garantire l'ordine e, dopo un primo apparente successo, gli scontri fazionari ripresero rapidamente. Dopo tre anni di guerre, la morte precoce di Enrico VII pose fine al suo tentativo. Negli anni successivi, anche il re di Napoli, Roberto d'Angiò, e l'imperatore Ludovico il Bavaro cercarono di ottenere la sottomissione di parte dei comuni centro- settentrionali, ma senza mai riuscire a realizzare un'influenza efficace e stabile. Alla morte di Enrico VII, nel 1313, in molte città dell’Italia settentrionale si erano affermate in modo stabile le signorie. Si trattava di attribuzioni di competenze limitate nel tempo. Nel Trecento, i signori riuscirono a imporre l’ereditarietà della carica e la creazione di vere e proprie dinastie, all'interno delle quali il potere si trasmetteva ormai senza alcun intervento da parte degli organismi comunali o popolari. Gli ufficiali civici vennero sostituiti da uomini fedeli ai nuovi dominatori. In molti casi, i signori chiesero la legittimazione del proprio potere all'imperatore o al papa (con la concessione del titolo di vicario), in modo da non dover dipendere più, neppure formalmente, dal consenso della popolazione urbana. Non di rado essi estesero il proprio potere su altri centri confinanti, creando così dominazioni sovracittadine dall’estensione territoriale variabile. Il caso più significativo fu quello dei Visconti di Milano. Essi, dopo aver abbattuto il regime filopopolare dei loro rivali Della Torre, egemonizzarono la vita politica della città negli ultimi due decenni del Duecento. Azzone Visconti riuscì a sottomettere, con la diplomazia o con la forza, anche altre città limitrofe, di ognuna delle quali si fece nominare signore. Nel 1339, egli dominava su Milano, Como, Lodi, Novara, Vercelli, 81 Bergamo, Brescia, Cremona e Piacenza e il primo nucleo di quella che nella seconda metà del secolo sarebbe diventato lo Stato visconteo. La repubblica di Venezia aveva già da tempo costruito un piccolo impero marittimo. Le grandi famiglie veneziane esercitavano la mercatura e contemporaneamente possedevano consistenti appezzamenti di terra nelle regioni colonizzate. Venezia era un importante centro di scambi commerciali e, benché vi fiorisse un vivace artigianato, le produzioni manufatturiere non avevano un'importanza economica particolare. Di conseguenza, le corporazioni di mestiere a Venezia non ebbe mai un rilevante peso politico, mentre tutte le famiglie dell'élite esercitavano in varia misura le attività bancarie e mercantili. Questa relativa assenza di grandi contrapposizioni sociali permise nel 1297 la cosiddetta serrata del maggior consiglio, una legge che permetteva di accedere al consiglio comunale soltanto ai membri di un gruppo ristretto di famiglie che già ne facevano parte ì. Di fatto l'accesso ai vertici delle istituzioni comunali veniva così reso ereditario. La serrata escluse la maggior parte della popolazione veneziana dalla partecipazione attiva alla vita politica. Non è possibile delineare un netto stacco tra la fine dell'esperienza popolare e l'inizio del periodo signorile o oligarchico. Spesso queste forme di governo convivevano, si ibridavano o si alternavano. In molti casi, si creavano situazioni di predominio informale, nell’ambito delle quali alcuni personaggi particolarmente ricchi e potenti riuscivano a condizionare la politica cittadina anche senza ricoprire cariche straordinarie. A cavallo fra XIII e XIV secolo, anche il concetto di popolo si fece più ristretto, e passò a indicare non più tutti i cittadini economicamente attivi che non appartenevano all’aristocrazia, ma solo una ben precisa parte della popolazione, ossia mercanti, imprenditori, banchieri e professionisti in grado di raggiungere determinati standard di reddito. Chi non lavorava in proprio, ma al servizio di altri, venne progressivamente escluso dall'esercizio di diritti politici. A Firenze il popolo era costituito dalle corporazioni per cui i salariati, i manovali e i lavoratori saltuari ne erano esclusi. Le arti esprimevano i cosiddetti priori, ossia i magistrati che prendevano le principali decisioni nel governo della città. Nella politica fiorentina si distinguevano tre componenti: i magnati o grandi, ossia le famiglie più potenti; il cosiddetto popolo grasso, formato dagli esponenti delle professioni più ricche e prestigiose, quali banchieri, mercanti e imprenditori tessili; e il popolo minuto, costituito da artigiani e bottegai. In un complesso gioco di conflitti e di equilibri, queste tre componenti si alleavano o competevano fra di loro per condizionare la politica cittadina. Gli ordinamenti di giustizia di Giano della Bella impedirono ai magnati di partecipare in prima persona alle istituzioni del comune. Due anni dopo, però, Giano fu cacciato da Firenze e i grandi recuperarono un ruolo politico. Proprio la rivalità tra due famiglie magnatizie - i Cerchi e i Donati - fu alla base della frattura della parte guelfa in bianchi e neri. Tra il 1310 e il 1340 prevalse l'alleanza tra grandi e popolo grasso, i quali monopolizzarono il potere, imponendo l'elezione al priorato di uomini a loro favorevoli. Nel 1342-1343 il nobile francese Gualtieri di Brienne ottenne la signoria sulla città. Reo di aver colpito gli interessi economici di mercanti e banchieri per risanare le finanze del comune, Gualtieri fu cacciato e nacque un nuovo governo popolare. A Firenze, nella prima metà del XIV secolo esisteva ancora una vivacità politica e sociale che nella maggior parte dei comuni settentrionali si era ormai spenta. Cap. 20 A inizio Trecento, la forte spinta verso la crescita economica aveva preso il via tre secoli prima e si stava complessivamente affievolendo, con gravi conseguenze anche sul sistema finanziario. L'arrivo improvviso dall’Asia centrale della terribile epidemia di peste del 1348 cambiò drammaticamente il quadro: la forza lavoro, da abbondante, divenne scarsa sicché i salari crebbero e vi fu una migliore redistribuzione della ricchezza. Conobbe invece una crisi profonda il sistema dei traffici internazionali e intercontinentali. Il simbolo di questa crisi è spesso individuato nella gravissima carestia che colpì l’Italia settentrionale fra il 1315 e il 1317, a causa di un'ondata di maltempo. Le interpretazioni delle cause e delle conseguenze di questa crisi 82 ripresa abbastanza rapida dopo che l'epidemia si fu finalmente quietata. La popolazione europea reagì, anche se dovette imparare a convivere con la peste. La malattia, infatti, divenne endemica e si ripresentò periodicamente a partire dal 1361. Il numero degli abitanti del continente non tornò ai livelli di fine Duecento fino al XVIII secolo. Nessuna nuova ondata di peste, però, raggiunse le dimensioni e la letalità di quella del 1347-1350: da un lato, uomini e donne di generazione in generazione svilupparono una certa resistenza al morbo, dall’altro forse la stessa malattia assunse forse meno virulente. Infine, fu approntata una serie di rimedi empirici per affrontarla, quali l'individuazione e l'immediato isolamento dei primi focolai, l'introduzione di controlli sanitari alle porte delle città e la creazione dei lazzaretti. La peste rappresentò un'esperienza devastante per la popolazione europea del Trecento, ma, forse paradossalmente, ebbe conseguenze positive per i superstiti, le cui condizioni di vita migliorarono nettamente. La minore pressione demografica permise una redistribuzione più ottimale delle risorse disponibili, che andò in gran parte a vantaggio degli strati socialmente inferiori della popolazione. Il drastico calo della manodopera disponibile permise ai superstiti di strappare salari molto più elevati. La crescita dei salari si intrecciò con il calo dei prezzi dei generi alimentari, dato che la produzione agricola era ormai sovrabbondante per una popolazione ridotta. Questa combinazione fece sì che una parte consistente della popolazione, dopo aver soddisfatto le esigenze di cibo della propria famiglia, disponesse di somme significative da spendere in altri consumi. In tal modo, nacque un vivace mercato interno di prodotti di media e bassa qualità, che diede nuovo impulso alle manifatture europee, fino a quel momento prevalentemente concentrate sulla realizzazione di merci di lusso destinate ai ricchi o all'esportazione. Ebbe particolare importanza lo sviluppo della cosiddetta industria a domicilio per cui le lavorazioni meno specializzate venivano portate fuori dalle città e affidate a manodopera contadina, che lavorava a prezzi più bassi. Il calo della popolazione e la miglior redistribuzione della ricchezza ebbero un forte impatto sul paesaggio agrario: le vaste proprietà coltivate a cereali utilizzando braccianti entrarono in crisi. La produzione del frumento si concentrò sui terreni migliori e più produttivi, mentre gli altri vennero destinati al pascolo: l'allevamento conobbe una grande diffusione, perché il miglioramento del tenore di vita degli strati inferiori della popolazione permise un aumento del consumo di carne e di latticini, e portò ad una crescente richiesta di cuoio per scarpe, cinture e altri accessori. Si diffuse infine la coltivazione di piante coloranti. Cambiarono anche le forme di conduzione delle terre: i grandi proprietari, nella maggior parte dei casi, preferirono rinunciare alla gestione diretta e lottizzarono le proprie terre, dandole in affitto. Nell’Italia centrale, questo incentivò il cosiddetto appoderamento, ossia la creazione di unità fondiarie costituite da una casa colonica affidata ad una famiglia e posta al centro di un insieme compatto di terreni, dove si trovavano diverse coltivazioni. Gestiti a mezzadria, una forma contrattuale che prevedeva la divisione a metà delle spese e dei raccolti tra il proprietario e il contadino. Le vittime più illustri della crisi del Trecento furono i grandi commerci intercontinentali, che ridussero notevolmente la propria importanza. Anche le attività finanziarie su scala internazionale, dopo il trauma causato dai fallimenti del 1345, conobbero un lungo periodo di eclissi. Quando i toscani ripresero il proprio ruolo di banchieri dell'Europa, a cavallo fra XIV e XV secolo, si organizzarono in compagnie molto più piccole, attente a diversificare gli investimenti e a non esporsi troppo prestando somme eccessive a singoli personaggi. Tali compagnie, sparse in diversi paesi, erano alleate fra loro ma autonome, in maniera che l'eventuale fallimento di una non travolgesse le altre. Di questa esperienza fece tesoro la famiglia fiorentina dei Medici. Ogni sede era organizzata come filiale, ossia aveva un proprio bilancio, del quale rispondeva in autonomia, sicché un'eventuale crisi periferica non avrebbe coinvolto il corpo centrale della banca. Non bisogna tuttavia pensare ai decenni successivi alla peste unicamente come a un'epoca di pace e prosperità. Bastava poco a sconvolgere i delicati equilibri sociali e a causare esplosioni violente di malcontento. Protagonisti di queste rivolte furono quei salariati, piccoli artigiani e contadini che stavano conoscendo un certo miglioramento delle condizioni di vita, ma che si rendevano conto della propria fragilità. Anche il 85 consolidamento degli apparati statali, che comportava una crescente richiesta di tasse, contribuiva ad accrescere le tensioni. Le sollevazioni popolari furono dunque numerose. La prima delle grandi rivolte scoppiò in Francia: in un momento di grave crisi politica e militare e prese il nome di jacquerie, dal soprannome Jacques Bonhomme (Giacomo il brav'uomo) con cui erano chiamati i contadini della regione. Era in corso la Guerra dei cent'anni contro gli inglesi e le ripetute sconfitte subite dalla cavalleria francese avevano suscitato molto malcontento fra i contadini, che accusavano i nobili di non riuscire a proteggere il paese dagli attacchi nemici. Cittadini e contadini non riuscirono a mantenere un fronte comune e permisero ai nobili di riorganizzarsi. Agli inizi dell'estate, il figlio del re, il futuro Carlo V, insieme alla sua cavalleria pesante represse nel sangue il moto dei contadini ed entrò a Parigi senza incontrare resistenza. Il tumulto di Ciompi fu la più importante e celebre fra le rivolte urbane del Medioevo. Essa affonda le sue radici nel tentativo dei grandi imprenditori fiorentini di contrastare, tramite il controllo sul potere politico, gli aumenti salariali seguiti alla peste. Il governo fiorentino favorì la svalutazione delle monete d’argento, con le quali venivano pagati i lavoratori. Nel luglio del 1378, gli operai della manifattura tessile si ribellarono, crearono una corporazione e, in alleanza con le arti minori, riuscirono a imporre per alcune settimane il proprio governo sulla città. A fine agosto, la rivolta fu stroncata con la forza e l’arte dei Ciompi fu sciolta. Rimasero però al potere le arti minori, che riuscirono a mettere in atto una serie di provvedimenti volti a migliorare lo stato dei lavoratori dipendenti. Nella grande rivolta dei contadini inglesi del 1381 si sommarono le motivazioni della jacquerie e del tumulto dei Ciompi. Come a Firenze, infatti, i grandi proprietari fondiari inglesi cercavano di frenare la crescita dei salari agricolo con mezzi pubblici. Fra il 1349 e il 1351 era stato emanato il cosiddetto statuto dei lavoratori che congelava le piaghe, imponendo dei massimi stabiliti per legge. L’innesco della rivolta fu però, come in Francia, la Guerra dei cent'anni, che era all’epoca in una fase favorevole ai francesi. Per pagare le spese del conflitto, negli anni Settanta era stata istituita la poll tax, ossia un'imposta che gravava per la stessa cifra su ogni capofamiglia, a prescindere dalla ricchezza. La palese ingiustizia del provvedimento suscitò un vasto malumore. A infiammare la rivolta vi fu altresì la predicazione di alcuni religiosi dissidenti, guidati dal prete John Ball. Anche le donne ebbero un ruolo di rilievo tra gli insorti. | ribelli avevano un preciso manifesto politico e chiedevano la libertà personale, in modo da essere direttamente soggetti al sovrano, senza l’intermediazione dei nobili e degli uomini di corte, che accusavano di essere cattivi consiglieri. Allo stesso modo, volevano salvaguardare la rete delle parrocchie ma abolire i vescovi. Essi indussero Riccardo Il a trattare, ma durante un colloquio il loro leader Wat Tyler fu ucciso a tradimento: l’esercito regio intervenne aggredendo i contadini rimasti senza una guida e riprendendo in breve il controllo della situazione. Le grandi rivolte della seconda metà del Trecento inducono a chiedersi perché il malcontento sociale sia esplose proprio nel momento successivo alla peste, quando in teoria le condizioni di vita dei lavoratori dovevano essere in netto miglioramento. Bisogna osservare che in realtà anche nei secoli precedenti vi furono numerose rivolte. Maggiore importanza ebbe il problema della mobilità sociale: nelle città europee essa era rimasta abbastanza vivace sino alla fine del Duecento, fatto che contribuiva a stemperare le tensioni, dato che i lavoratori poveri potevano sperare che le condizioni di vita dei loro figli sarebbero state migliori. Dopo la peste nera i salari aumentarono, ma in un contesto sociale molto più rigido e gerarchizzato. Le conquiste salariali erano spesso messe in discussione dalla pratica di delocalizzare parte della produzione in campagna. | contadini, a loro volta, si sentivano vittime impotenti di guerre sempre più lunghe e intense e oppressi delle tasse necessarie a pagare i combattenti, per cui il loro malcontento non si rivolgeva più verso il signore locale, ma verso il governo centrale. Bisogna osservare che anche se le grandi rivolte del Trecento furono quasi tutte soffocate nel sangue, nel medio periodo esse conobbero un successo quantomeno parziale, dato che per il timore di nuove sommosse i grandi proprietari, gli imprenditori e i dirigenti politici finirono con l’accogliere almeno una parte delle rivendicazioni dei rivoltosi, sicché le condizioni di chi non fu coinvolto nelle repressioni migliorarono sensibilmente. 86 Cap. 21 Tra la metà del XIV secolo e la metà del XV secolo l'Europa fu sconvolta da due conflitti. Uno, armato, si svolse tra la Francia e l'Inghilterra ed è noto come guerra dei Cent'anni. L'altro, religioso, fu il grande scisma d'Occidente che vide confrontarsi i papi “romani” e quelli “avignonesi”. Questi due scontri segnarono profondamente la storia dell'Europa occidentale ed ebbero come conseguenza l'affermazione di monarchie statali più forti e dotate di maggiori risorse fiscali, nonché l'ascesa della Francia come potenza continentale. Nel frattempo, si delineava la crisi definitiva dell'impero d'Oriente e l'affermazione dei sultanati islamici dei mamelucchi e degli ottomani. | rapporti tra i re di Francia e quelli d'Inghilterra erano rimasti tesi per tutto il Duecento, dato che i primi volevano conquistare la zona di Bordeaux, rimasta ai sovrani d’oltremanica, e i secondi avevano mire sulle Fiandre. La guerra aperta scoppiò nel 1337, ma si vide subito che i due contendenti non erano in grado di raggiungere rapidamente la vittoria, a causa delle limitate risorse finanziarie e delle dimensioni ridotte degli eserciti. Il regno d'Inghilterra aveva un efficace sistema fiscale ma era poco popolato e piuttosto povero. La Francia era più ricca ed estesa, ma al suo interno i duchi e i conti avevano ancora buoni margini di autonomia e i re facevano fatica a mobilitare tutte le risorse disponibili. Per due volte, a Crecy nel 1346 e a Poitiers nel 1356, la cavalleria pesante dei nobili francesi si rivelò inferiore ai cavalieri inglesi. A Poitiers fu catturato dagli inglesi lo stesso re di Francia Giovanni il Buono. Dato che l’esercito avversario non era più in grado di reagire, gli inglesi lanciarono una serie di raid distruttivi contro il cuore della produzione agricola francese il che causò un vasto malcontento popolare che esplose nelle rivolte della jacquerie. La Francia fu obbligata ad arrendersi e nel 1360 fu firmata la pace di Bretigny, che assegnava alla corona britannica vasti territori della Linguadoca. La monarchia francese approfittò della pace per riorganizzarsi. Grazie a nuove risorse Carlo V e suo figlio Carlo VI furono in grado di arruolare numerosi combattenti professionisti con i quali si riappropriarono di buona parte dei territori perduti dall'inizio della guerra. La flotta francese guadagnò la supremazia sulla Manica e poté condurre diverse offensive contro le coste inglesi, causandovi scontento e insicurezza, che contribuirono allo scoppio della grande rivolta contadina del 1381. Sul finire del Trecento, lo status quo fra Inghilterra e Francia sembrava ristabilito. Proprio in quel periodo, però, Carlo VI cominciò a dare segni di squilibrio mentale e la debolezza del re fece sì che il potere effettivo fosse esercitato dai nobili della corte: ne nacque un'aspra contesa tra i sostenitori del fratello del sovrano, Luigi d’Orleans (armagnacchi) e quelli di Giovanni duca di Borgogna (borgognoni). Questi ultimi cercarono l'alleanza del re d'Inghilterra, Enrico V. L'alleanza tra Enrico V e i borgognoni causò la ripresa della guerra. Nel 1415 gli inglesi attaccarono la Francia e inflissero una gravissima sconfitta ai nemici nella battaglia di Azincourt, in seguito alla quale Enrico V entrò a Parigi e con il trattato di Troyes del 1420 fece assegnare a suo figlio, il giovane Enrico VI, la corona di Francia. Coloro che osteggiavano gli inglesi si riunirono attorno a Carlo VII di Orleans, in opposizione a Enrico VI di Inghilterra. La resistenza francese fu animata anche da Giovanna d'Arco. L'idea che il trono di Francia fosse occupato da un re inglese aveva in effetti suscitato contrarietà presso gran parte della popolazione, sicché l'opposizione a Enrico VI si allargò rapidamente. Il sostegno dei nobili, delle città e di molti contadini permise a Carlo VII di riconquistare gran parte del territorio perduto. Nel 1436, egli si riconciliò con i borgognoni e riuscì a riprendere Parigi; fra il 1449 e il 1450 cacciò gli inglesi dalla Bretagna e nel luglio del 1453 inflisse loro una pesante sconfitta a Chatillon, presso Bordeaux, grazie all'uso di un'arma nuova: l'artiglieria da campo. Non vi fu un formale trattato di pace, ma dopo la caduta di Bordeaux i britannici cessarono le ostilità e si ritirarono dal continente, conservandovi solo il piccolo porto di Calais. La guerra dei cent'anni e i suoi effetti si estesero ben oltre i confini di queste due nazioni: esse per esempio sostennero candidati opposti in occasione della guerra di successione al trono di Castiglia combattuta tra il 1366 e il 1369. Le tensioni politiche legate alla guerra dei cent'anni contribuirono anche ad aggravare un 87 civili interne e esterne. Andronico II, figlio di Michele VIII, decise di ridurre considerevolmente l'apparato militare creato dal padre. L'impero non riusciva a trovare stabilità interna: l'idea di una successione per primogenitura era estranea alla tradizione imperiale e, benché i Paleologi fossero riusciti a mantenere il controllo della corona, a ogni passaggio successorio si scatenavano conflitti interni alla famiglia dei quali approfittavano gli stati confinanti per espandere i propri territori e genovesi e veneziani per aumentare la propria influenza all'interno dello Stato. | problemi dell'impero d'Oriente erano ulteriormente aggravati dalla crescente interferenza nei suoi affari interni da parte di Genova e Venezia. Michele VIII aveva dovuto concedere ai genovesi l'usufrutto di un intero quartiere di Costantinopoli dove essi potevano autogovernarsi secondo le leggi della madrepatria. La loro influenza si allargò ancora di più, sotto il dominio di Andronico II. Per contrastare lo strapotere genovese, Andronico III si riavvicinò ai veneziani, ma di fatto ormai Costantinopoli poteva soltanto scegliere se dipendere dall'una o dall'altra città. Le casse pubbliche si trovarono dunque a dipendere sempre di più dai prestiti concessi da Venezia o da Genova, che ebbero la possibilità di condizionare profondamente la politica bizantina. Dopo il 1354, la zecca di Costantinopoli cessò definitivamente di coniare quelle monete d’oro che erano state tra i protagonisti più importanti dei commerci mediterranei: era la definitiva rinuncia a difendere quanto restava del glorioso passato. Nei decenni successivi, l'impero dovette subire imponente la progressiva avanzata di un nuovo nemico, che gli strappò il controllo di gran parte dei territori asiatici europei: i turchi ottomani. Mentre l'impero d'Oriente tentava di reagire alla conquista latina, ai suoi confini asiatici si erano stanziate nuove tribù turche, provenienti dall'Asia centrale che erano fuggite davanti all'avanzata dei mongoli. Fra queste ve ne era una guidata da un principe di nome Osman o Othman. Accogliendo gli altri profughi in fuga, Osman riuscì a organizzare un poderoso apparato militare, con il quale organizzò una serie di offensive che nel 1326 lo portarono a conquistare la città di Bursa, dove i suoi discendenti stabilirono la loro capitale. A questo punto il piccolo sultanato ottomano aveva una base territoriale di una certa consistenza e cominciò ad affermarsi come potenza regionale a spese dell'impero d'Oriente scosso dalle guerre civili. | turchi estromisero definitivamente l'impero d'Oriente dall’Anatolia, riducendolo alla sola parte europea. Inoltre, gli ottomani guardarono sin dal primo momento al Mediterraneo come al loro spazio d'azione privilegiato. Svilupparono presto una piccola, ma agguerrita marina, dedita soprattutto alle azioni di pirateria: per la prima volta dall’inizio delle crociate, una flotta islamica tornava a minacciare la supremazia di quelle cristiane. Dopo oltre un millennio dalla fondazione di Costantinopoli, un potere esterno all'impero d'Oriente riusciva a controllare le due sponde di uno degli accessi che collegavano il Mediterraneo al Mar Nero. Gli ottomani guardavano all'Europa e ai territori imperiali. Essi condussero una serie di campagne volte ad ampliare i loro possessi occidentali e nel 1371 trasferirono la capitale da Bursa a Adrianopoli, in Tracia, dimostrando così esplicitamente la propria volontà di imporre un dominio nei Balcani. Due grandi vittorie militari, nel 1389, in Kosovo contro i serbi, e nel 1396, a Nicopoli, contro un esercito crociato composto da ungheresi e francesi, diedero ai turchi il pieno contro della regione. Gli ottomani ambivano esplicitamente a essere gli eredi islamici dell'impero d'Oriente: a tal fine mancava loro solo il possesso della vera capitale, Costantinopoli. Una minaccia imprevista, proveniente dall'Oriente, li obbligò però a frenare per alcuni decenni le proprie ambizioni. Nel corso del XIV secolo, il grande impero mongolo costruito da Gengis Khan si era completamente dissolto. Alla fine del Trecento, però, un condottiero di nome Timur lo zoppo che vantava una lontana discendenza da Gengis Khan, riuscì ancora una volta a portare sotto il suo dominio l'Asia centrale, ponendo la capitale a Samarcanda. Le sue truppe penetrarono in Persia e in India. Nel 1402, entrarono in Anatolia, sconfissero l’esercito ottomano presso Ankara e conquistarono gran parte della Siria. Solo la morte di Timur, nel 1405, ne arrestò le conquiste. Sotto il suo dominio si era nuovamente affermato un grande impero unitario nell'Asia centrale, destinato però a dissolversi nell'arco di due sole generazioni. Nel mondo islamico, si era delineata anche un'altra grande potenza. Nella prima metà del Duecento, i principi europei avevano fatto grandi progetti per invadere l'Egitto e in due occasioni erano riusciti a impadronirsi della 90 zona costiera anche se in entrambi i casi furono disastrosamente sconfitti quando cercarono di penetrare nell'entroterra. La presenza di questa minaccia fece sì che n Egitto prendesse vita una forma peculiare di organizzazione politica, noti come mamelucchi, ossia schiavi caucasici o centro-asiatici che, dopo essersi convertiti all’islam, venivano arruolati come truppe scelte. Nel 1259, dopo alcuni anni di instabilità politica dovuta ai conflitti fra i diversi pretendenti al trono, i mamelucchi con un colpo di stato si impadronirono del potere. Nel frattempo, nel 1258, i mongoli avevano sconfitto arabi e turchi, ma due anni dopo i mamelucchi inflissero loro una sconfitta ad Ayn Jalut: essi assunsero così il ruolo di salvatori del mondo islamico della minaccia mongola, legittimando il proprio controllo sull’Egitto. Resi sicuri i conflitti orientali, i sultani d'Egitto si volsero contro quanto rimaneva degli stati crociati e con una serie di campagne li eliminarono uno a uno fino a impadronirsi nel 1291 di San Giovanni d’Acri, l’ultima fortezza rimasta in mani cristiane. Tali conquiste misero nelle mani dei mamelucchi importanti porti e il legname delle foreste libanesi, indispensabile per costruire le navi, il che permise all'Egitto di tornare, dopo due secoli, una potenza navale. Agli inizi del Trecento, il sultanato mamelucco era lo Stato islamico più potente e ricco. Le sconfitte inflitte ai mongoli e ai crociati gli assicurarono diversi decenni di pace, durante i quali l'economia egiziana fiorì. I mamelucchi, però, non riuscirono mai a rendere stabile la successione al trono, dato che alla morte di ogni sultano i diversi reparti dell'esercito cercavano di imporre quale erede il proprio comandante. Nella seconda metà del secolo, un susseguirsi di guerre civili minò la stabilità del sultanato e nel 1400 Timur-Tamerlano lo umiliò militarmente conquistando tutta la Siria. Profondamente ridimensionato, l'Egitto restò protagonista della politica mediorientale per tutto il XV secolo, ma non poté competere con l'ascesa degli ottomani, dai quali fu sconfitto e conquistato agli inizi del Cinquecento. Cap. 22 Tra Trecento e Quattrocento il panorama politico italiano cambiò radicalmente. Nell’Italia centro- settentrionale, quasi tutti i comuni autonomi finirono con l'essere assoggettati a poche grandi dominazioni regionali. Questi nuovi equilibri furono sanciti nel 1454 dalla pace di Lodi, che formalizzò una mappa politica dell’Italia destinata a durare con poche varianti, fino a tutto il XVII secolo. Tali stati disponevano di efficaci apparati fiscali e di governo, ma erano basati sull’autorità e non sul consenso e governati da singole dinastie o da ristrette élite. Nella seconda metà del XIV secolo, il processo di accorpamento territoriale attorno ad alcune grandi città proseguì e si estese a tutta l’area centro-settentrionale. Esso portò con sé un aumento drammatico della frequenza e dell'estensione delle guerre tra le potenze italiane. Per sostenere questa escalation militare, le vecchie milizie civiche non erano più sufficienti: si diffuse dunque sempre più l’uso di assumere reparti di combattenti mercenari. Le continue guerre e le violenze compiute anche ai danni della popolazione civile determinarono un clima di insicurezza generalizzato, particolarmente acuto nell'Italia centrale, mentre gli ingaggi sempre più costosi delle unità mercenarie misero a dura prova le capacità finanziarie delle città: al termine di questo periodo difficile si affermarono quali potenze nella penisola i pochi centri che furono in grado di affrontare la sfida proposta, come Milano, Firenze, Venezia, il regno di Napoli e la curia pontificia. Soltanto pochi centri minori riuscirono a conservare la propria autonomia, per merito delle loro capacità finanziarie, come Siena e Lucca, o grazie alla capacità di proporsi come territori cuscinetto tra potenze rivali, come Mantova. Il principale fattore di instabilità nella politica del pieno Trecento furono le ambizioni di conquista dei Visconti di Milano, che in più riprese cercarono di impadronirsi dell’Italia settentrionale e della Toscana. Questo portò alla formazione di numerose leghe a loro ostili. Alla fine, i Visconti riuscirono a controllare un territorio piuttosto vasto che comprendeva quasi tutta l’attuale Lombardia, l'Emilia occidentale e il Piemonte orientale, ma fallirono nei tentativi più ambiziosi di sottomettere Genova, Pisa e Bologna. Il dominio visconteo era 91 piuttosto instabile anche all'interno: i Visconti governavano come una consorteria, ossia un gruppo familiare unitario e articolato, e non avevano mai stabilito una rigida regola di successione familiare secondo il principio di primogenitura. Gian Galeazzo Visconti intraprese una serie di importanti riforme. Cercò di controllare le entrate fiscali delle ricche città a lui soggette affidandone la gestione ai suoi collaboratori: si assicurò le risorse per una vigorosa espansione territoriale che negli ultimi anni del Trecento lo portò a conquistare quasi tutta la terraferma veneta. Egli suggellò questa serie di successi acquistando dall'imperatore Venceslao il titolo di duca di Milano. In questo modo, Gian Galeazzo sanciva la superiorità del suo ramo familiare sugli altri, ai quali il titolo non si estendeva. Inoltre, rendeva il suo potere indipendente dal consenso delle città, dato che ormai esso derivava in toto dall'autorità imperiale, senza più alcuna delega dal basso. | costi di questa politica furono altissimi e alla morte di Gian Galeazzo, nel 1402, i comuni da lui dominati, oppressi dalle tasse, si ribellarono e cercano di riconquistare un'autonomia che la nascita del ducato sembrava aver definitivamente soppresso. Filippo Maria Visconti, il figlio di Gian Galeazzo, fra il 1412 e il 1424, riuscì a riprendere il controllo della Lombardia e dell'Emilia occidentale e negli anni successivi intraprese una nuova serie di campagne di conquista, ma subì pesanti sconfitte a opera dei veneziani e dei fiorentini. Quando nel 1447 Filippo Maria morì senza figli, il ducato tornò a dissolversi e nella stessa Milano si cercò di ripristinare le antiche tradizioni comunali, proclamando un nuovo stato di libertà > repubblica ambrosiana. Le difficoltà al ducato visconteo diedero a Venezia l'opportunità di crearsi un vasto dominio nell'Italia nord-orientale: fra il 1404 e il 1428 i veneziani strapparono ai Visconti Padova, Venezia, Verona, Brescia e Bergamo + nel 1420 fu assoggettato il Friuli. Questo dominio di terra aveva una duplice finalità. Esso rappresentava una cintura di sicurezza, volta a proteggere Venezia stessa dalle minacce che provenivano dall'interno. In più, l'espansione sulla terraferma doveva compensare la progressiva riduzione del dominio di mare> venne sottoposto ad una pressione sempre più forte da parte dei turchi. Venezia era governata da un'élite piuttosto ristretta che si identificava nel Senato, un'assemblea di trecento persone. Fra i senatori veniva eletto il doge, ossia l'ufficiale capo della repubblica, il cui incarica era vitalizio. Questa organizzazione si estese anche alle città soggette, alle quali vennero lasciati ampi margini di autogoverno, benché sotto il controllo di ufficiali veneziani. Nell’Italia centrale, il principale ostacolo alle ambizioni viscontee fu la tenace resistenza di Firenze. | letterati esaltarono anche la contrapposizione ideologica tra la loro città, dove ancora vigevano le istituzioni repubblicane, e Milano, sottoposta alla tirannide viscontea. In realtà, anche Firenze stava costruendosi un dominio regionale ed esercitava sulle città sottomesse un controllo non meno stretto. AI suo interno, Firenze visse una stagione di intensi conflitti tra le diverse componenti del suo ampio gruppo dirigente. Il quadro, però, rimase sempre quello delle istituzionali comunali e popolari definitosi alla fine del Duecento: l’unico tentativo di costruire una vera signoria, compiuto dal nobile francese Gualtieri di Brienne nel 1343, terminò con una sollevazione popolare e la cacciata dell’aspirante dominatore. La conflittualità politica era aggravata dalle crescenti spese per le guerre contro le potenze vicine: proprio motivazioni fiscali ed economiche portarono al grande tumulto dei Ciompi nell'estate del 1378. Alla rivolta dei Ciompi seguì una breve stagione di predominio del popolo minuto, ma a partire dal 1385 si ebbe una nuova, rapida concentrazione del potere nelle mani di un ristretto numero di famiglie dell'élite finanziarie e militare, fra cui cominciarono a emergere le grandi stirpi degli Albizzi e dei Medici. Sullo scorcio del XIV secolo si fecero rapidamente strada i Medici, una famiglia di origini abbastanza recenti, arricchitasi grazie alle attività bancarie, soprattutto al servizio del papa. Essi si fecero forti di una vasta rete di clienti, ossia uomini del popolo che, privi ormai di un'efficace rappresentanza politica autonoma, potevano farsi valere soltanto ricorrendo alla protezione di qualche dinastia potente. Denaro e amicizie permisero di essere via via più influente in seno al governo fiorentino, influenza che si trasformò in assoluto predominio dopo il 1434, quando Cosimo riuscì a cacciare da Firenze i suoi avversari e fece riscrivere le liste elettorali, limitando ai cittadini a lui legati l’eleggibilità alle cariche pubbliche. Pur senza avere alcun titolo ufficiale, egli poté condizionare tutte le scelte del governo fiorentino. Cosimo finanziò poi l'ascesa politica 92 controllo del territorio era frutto di una constante contrattazione con i potentati locali. Spesso il consenso era ottenuto con i privilegi. L'attribuzione di posti a corte, di incarichi militari, di benefici ecclesiastici e di territori in feudo era una pratica diffusa e necessaria per conquistarsi la fedeltà dei personaggi più potenti, in grado a loro volta di orientare le scelte dei seguaci locali. Cap. 23 Per segnalare la fine del Medioevo sono state proposte molte date differenti basate su eventi politico-militari, culturali, geografici o tecnologici. La scelta più coerente pare quella di individuare un lungo momento di transizione fra la caduta di Costantinopoli in mano turca nel 1453, momento che segnò la fine dell'espansione del mondo latino verso oriente e la crisi delle vie di scambio continentali verso l’Asia e, come conseguenza di questa crisi, lo sbarco di Cristoforo Colombo in America (1492) e la cirrumnavigazione dell'Africa da parte di Vasco de Gama (1498), che portarono gli europei a esplorare continenti fino a quel momento sconosciuti. Anche il momento di chiusura di quest'epoca non trova gli studiosi concordi. La fine del Medioevo è stata talvolta raffigurata come una stagione di decadenza. Grande importanza ha avuto un celebre libro dello storico olandese Johan Huizinga, intitolato L'autunno del Medioevo. All'estinguersi della cultura cavalleresca medievale nell'Europa centrale avrebbe corrisposto il vivace fiorire del Rinascimento in Italia. Un'altra prospettiva sulla fine del Medioevo è data dagli studiosi delle tecniche. Spesso si afferma che verso la metà del Quattrocento due grandi innovazioni, la polvere da sparo e la stampa, sconvolsero le forme della competizione militare e della trasmissione del sapere, chiudendo di netto un’epoca e aprendone un'altra. In realtà, la polvere da sparo era ben nota in Occidente da oltre un secolo. Nel Quattrocento, si ebbero piuttosto degli affinamenti. Non vi fu però alcuna rivoluzione tecnologica, ma soltanto graduali miglioramenti di un equipaggiamento da tempo disponibile. Ebbe un'importanza assai maggiore l'invenzione della stampa a caratteri mobili, con l'apparizione, nel 1455, della celebre Bibbia realizzata dall’orafo tedesco Johann Gutenberg. In realtà, anche in questo caso vi è un certo grado di arbitrarietà nella scelta dell'apparizione della stampa in Occidente come momento di svolta epocale: essa, per esempio, era stata introdotta secoli prima in Cina e si era diffusa in Corea, dove però non sembra aver cambiato in modo significativo le strutture sociali e culturali; nel mondo persiano e ottomano, addirittura, la stampa, benché nota, venne trascurata in quanto non poteva competere con la bellezza dei libri manoscritti. Insomma, nessun singolo evento, per quanto significativo, sembra davvero poter delimitare in modo preciso il termine del Medioevo. È vero, però, che soprattutto nella seconda metà del XV secolo si accumularono in Europa una serie di cambiamenti politici, culturali e tecnologici che fecero sì che nel Cinquecento il continente fosse in effetti significativamente cambiato rispetto a cent'anni prima. Si può parlare di una lunga fine del Medioevo, compresa fra le due date tradizionalmente prese in considerazione come momenti di svolta simbolica: la caduta di Costantinopoli in mani turche, nel 1453, e lo sbarco in America da parte di Cristoforo Colombo nel 1492. L'impero d'Oriente nel corso del XIV secolo aveva perso la maggior parte dei suoi territori e delle sue capacità militari, riducendosi in sostanza alla sola Costantinopoli con gli immediati dintorni. Gli imperatori tentarono di ottenere l’aiuto militare delle potenze latine giungendo, nel 1438, ad accettare l'unione di Chiesa ortodossa e Chiesa cattolica. Gli stati occidentali, però, non produssero alcuno sforzo militare e la composizione dello scisma fu contrastata dal clero greco al grido, si dice, di meglio il turbante turco della mitria romana. Nel 1453, il giovane e ambizioso sultano ottomano Maometto Il poté attaccare Costantinopoli: il 29 maggio, l'impero d'Oriente cadde definitivamente mentre il suo ultimo sovrano, Costantino XI, moriva in battaglia cercando di difendere le mura. L'eredità ideale di Costantinopoli fu raccolta dai principi di Mosca, considerati i nuovi difensori della religione ortodossa. Ivan Ill sposò la nipote di Costantino XI, Zoe, che portò alla corte russa il cerimoniale e alcuni simboli precedentemente utilizzati dall'impero d'Oriente. Nel corso del XVI secolo, i 95 principi moscoviti rivendicarono ancor più esplicitamente la successione imperiale, facendosi chiamare zar e attribuirono a Mosca il nome di terza Roma. All’affermazione politica del principato corrispose anche una nuova centralità economica, legata al controllo delle vie commerciali che univano il Baltico al Mar Nero e alla massiccia esportazione di pellicce pregiate. Nel 1453, la vittoria francese nella guerra dei cent'anni e quella ottomana contro Costantinopoli suscitarono un vivo allarme in molte potenze europee, che ora dovevano fare i conti con l'ascesa politica e militare della Francia nel continente e dell'impero ottomano nel Mediterraneo. Gli stati italiani replicarono cercando di perseguire la pace interna e creando l'alleanza militare della Lega italica, ma furono i regni spagnoli di Castiglia e di Aragona a reagire nella maniera più efficace unificandosi fra loro. Nel 1469, l'erede al trono castigliano, Isabella, sposò il suo omologo aragonese, Ferdinando. L'unione familiare divenne un'unione politica, che portò alla nascita di un nuovo regno, che comprendeva i territori di Castiglia e di Aragona, anche se le strutture di governo rimasero separate, tanto che si è parlato di una sorta di federazione. Per consolidare l'identità del nuovo Stato, Ferdinando e Isabella decisero di esaltarne la natura cristiana. Nel 1478 fu istituita la cosiddetta inquisizione spagnola che obbediva alla corona castigliana e aveva il compito di reprimere il dissenso politico e religioso. L'unione di Castiglia e Aragona riuscì così a opporre una risposta politica alla crescente potenza della Francia. Il teatro di questa contesa fra le due nuove potenze fu la penisola italiana. Qui la politica dell'equilibrio progettata da Lodi nel 1454-1455 non riuscì a sopravvivere alle tensioni interne ed esterne che percorrevano gli stati regionali. Negli anni settanta, il ducato sforzesco visse una difficile stagione dovuta all'omicidio del duca Galeazzo Maria, nel 1476, e alla sua travagliata successione, finché nel 1480 non si affermò Ludovico il Moro. Anche il potere di Lorenzo il Magnifico su Firenze venne messo a rischio da un tentativo di assassinio da parte di alcuni esponenti della famiglia Pazzi, nel 1478. Lorenzo sopravvisse, ma il suo governo fu sempre più debole, tirannico e malvisto dalla popolazione. Nel Meridione, Alfonso il Magnanimo separò il regno di Napoli dalla corona di Aragona e lo assegnò a suo figlio illegittimo, Ferdinando, noto anche come Ferrante. Re dal 1458, Ferrante si trovò ad affrontare molteplici minacce, quali un tentativo di riconquista angioino fra il 1460 e il 1464, un'incursione ottomano contro Otranto nel 1480 e una vasta rivolta dell’aristocrazia baronale nel 1485. Proprio il suo trono fu oggetto della ambizioni de re di Francia Carlo VIII, che nel 1494 scese nella penisola per conquistarlo e diede così inizio alla lunga stagione delle guerre d'Italia. L'occupazione turca di Costantinopoli aprì un periodo di grande difficoltà nei commerci con l'Asia attraverso il Mediterraneo orientale. Alla presenza turca sugli stretti che portavano al Mar Nero si aggiunse però la disintegrazione dell'impero di Tamerlano, che negli ultimi decenni del Quattrocento si frantumò in una molteplicità di piccoli potentati rivolti tra loro. La conseguente moltiplicazione dei pedaggi, riscossi a ogni frontiera, e l'instabilità dovuta alle ripetute guerre locali resero dunque poco convenienti gli itinerari che collegavano la Cina e l'Europa passando attraverso il Mar Nero e l'Asia Centrale. Gli europei replicarono ricercando nuovi collegamenti marittimi. In questo furono favoriti da alcune innovazioni tecnologiche. Dalla caracca del Quattrocento fu sviluppata la caravella, un piccolo gioiello tecnologico che assicurò agli europei la superiorità sui mari del mondo. Castigliani e portoghesi si contendevano il controllo delle coste dell’Africa occidentale, che consentivano l’accesso diretto alle grandi miniere d'oro e ai floridi mercati di schiavi. A tal fine, i castigliani si procurarono un'importante base operativa conquistando le isole Canarie fra il 1402 e il 1418. Come risposta i portoghesi, su impulso del principe Enrico, detto il Navigatore, affinarono nuove tecniche di navigazione che li portarono a scoprire e colonizzare l'isola di Madera nel 1419 e le Azzorre intorno al 1430. Proprio la disponibilità delle isole Canarie come trampolino di lancio verso l'Atlantico rese plausibile il progetto di Cristoforo Colombo di circumnavigare il globo e raggiungere in tal modo l'Oriente attraverso una rotta occidentale. Alla fine del Quattrocento, essendo disponibili le caravelle, si poté tentare e Colombo fu l’uomo che decise di correre il rischio. La sua spedizione fu finanziata dalla corona spagnola, che desiderava affermare il suo nuovo status di potenza europea. Nessuno però aveva previsto che fra l'oceano Atlantico e quello 96 Pacifico vi fosse un continente intermedio: l'America. Fu qui che il 12 ottobre 1492 Colombo sbarcò, per la precisione sull’isola della Antille da lui battezzato Hispaniola. Decise di sfruttare le risorse del territorio, soprattutto come fonte di manodopera a basso costo. Cominciò così la colonizzazione di quello che venne chiamato il nuovo mondo. | portoghesi guardarono invece a sud per circumnavigare l'Africa. Vasco da Gama sbarcò a Calicut, in India. Dato che Colombo aveva incontrato un ostacolo imprevisto, furono i portoghesi ad aprire la rotta diretta verso l’Estremo Oriente. Cominciava così una storia diversa. Nel lungo millennio medievale la cultura latina e la religione cristiana si erano progressivamente affermate in gran parte dell'Europa, dalla Spagna alla Scandinavia, dall’Irlanda alla Finlandia, creando così un'identità continentale che sarebbe sopravvissuta anche alla frattura religiosa causata dalla Riforma protestante e che è giunta sino ai giorni nostri. Dalla fine del Quattrocento, sulle navi portoghesi e spagnole, quella stessa cultura e quella stessa religione cominciarono ad espandersi verso gran parte del mondo. 97
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