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Riassunto del manuale "Geografia e Antropocene" per l'esame di Geografia Umana (p), Appunti di Geografia

Si tratta del riassunto di uno dei tre manuali da preparare per l'esame, in caso fossi uno studente o una studentessa non frequentante le lezioni. Composto di tutti i capitoli originari, il documento prevede già sottolineature e parole in neretto, di modo che i concetti / le nozioni più importanti siano già in vista a chi ne fruisca.

Tipologia: Appunti

2020/2021

In vendita dal 02/01/2023

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giovanni-pasquali 🇮🇹

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Scarica Riassunto del manuale "Geografia e Antropocene" per l'esame di Geografia Umana (p) e più Appunti in PDF di Geografia solo su Docsity! Geografia e Antropocene PARTE PRIMA: Antropocene, geografia, educazione geografica Introduzione L’uomo come forza geologica Il concetto di Antropocene è stato proposto per la prima volta negli anni Ottanta del Novecento da Stoermer. Esso marca l’intensità e la pervasività che l’attività umana aveva nei confronti dei processi biologici terrestri, i quali caratterizzano il pianeta come essere vivente, tale che si ha bisogno di marcare l’ingresso in una nuova era geologica, caratterizzata dall’attività geo-ctonica geogenitica dell’umanità. L’Antropocene è l’era geologica successiva all’Olocene. Il processo di ufficializzazione da un’era a un'altra richiede il vaglio di una serie di istituzioni scientifiche efferenti (che spettano) alla geologia. La datazione di questa nuova era geologica porta i ricercatori a esprimere un’interpretazione situata e non neutrale dell’interazione tra specie umana, ambiente globale e modo di produzione capitalistico. Le quattro ipotesi tenute in considerazione sono: 1) Crutzen e Stoermer, i quali identificano le rivoluzioni industriali tra Settecento e Ottocento come fondamentali per la possibilità da parte dell’uomo di connaturare la vita della Terra, individuando come momento fondamentale l’invenzione della macchina a vapore di Watt nel 1784; 2) L’incipit di processi su lungo periodo come l’esordio dell’agricoltura e dell’allevamento, che fornirono le basi primordiali di questa modalità di interpretazione tra vita dell’uomo e vita della Terra; 3) La tesi di Antropocene working group, quella che fa risalire le origini di questa era geologica alla prima espansione della bomba atomica avvenuta nel Nuovo Messico nel 1945; 4) Simon e Maslin, che individuano nel 1610 l’anno in cui una serie di trasformazioni, a partire dalla scoperta dell’America – rivoluzioni scientifiche, botaniche, cartografiche, agronomiche e chimiche –, arrivano ad un punto di svolta. L’Antropocene genera un punto di incontro tra scienze della natura e scienze umane, non solo la geografia, che ha nelle sue corde epistemologiche lo studio delle relazioni tra natura e cultura, ma anche l’antropologia, la sociologia (studiando la produzione di conoscenza scientifica e il suo impatto sulla società), hanno tratto particolare vigore dagli studi sulle controversie ambientali. In relativamente poco tempo i settori disciplinari che si occupano dei fenomeni di globalizzazione e le scienze del cambiamento climatico si trovano a leggere i lavori reciproci. Il termine “Antropocene”, in primo luogo, ha affermato l’umanità come forza naturale. Ciò significa minare la differenza all’origine della scienza moderna, che divide il conoscibile, tra ciò che è naturale e ciò che è culturale. Il mondo della natura è conoscibile e prevedibile attraverso il metodo delle scienze moderne, i suoi soggetti e i suoi oggetti, i quali appaiono con contorni ben definiti. Il mondo della cultura, invece, è caratterizzato da soggetti poco definiti, che sfuggono e cambiano a seconda della contingenza storica che ci troviamo a descrivere e degli oggetti che appaiono come eternamente malleabili, permeabili e mutevoli. Dall’antropocene deriva la concettualizzazione dell’uomo come specie. Affermare che siamo entrati nell’Antropocene equivale a dire che vi sono azioni che l’uomo in quanto specie ha perpetrato per arrivare a tanto? Se così fosse, allora, potremmo dire che si tratta di un problema simile a quello che si manifesta nelle conferenze che hanno tentato di governare il cambiamento climatico, un problema al quale si è ovviato con la nozione di responsabilità comuni ma differenti. Critica di Moore nei confronti dell’Antropocene: “Indichiamo l’uomo in quanto tale come caratterizzante di questa era geologica, quando è il regime ecologico capitalista, con i suoi ampliamenti in scala, che ci porta dove siamo.” Viene considerata l’Antropocene come una definizione troppo umana. Per indicare un’era geologica caratterizzata da biologie multi specie del “divenire con”. Haraway ha introdotto allora delle altre definizioni: - Plantationocene: paradigmatica degli schemi logici e geometrici a cui sono costretti umani e non umani; - Chthulucene: ritornare a considerare la Terra come ctonia, con le sue entità cosmiche composte di assemblaggi multispecie passati. Proprio perché NON vi è un’azione razionale, il cambiamento climatico ha effetti dissimili a seconda della geografia degli eventi: è necessario sperimentare pratiche, alleanze e cartografie che compongano progressivamente un mondo comune. Capitolocene Jason W. Moore sostiene che gran parte della crisi ambientale dell ’Antropocene è risultato dei modelli di produzione e consumo basati sul capitale. Il concetto è chiaramente neomarxista. Moore è molto sottile nell’affermare che il suo è soprattutto un tentativo di pensare la crisi ecologica e di dare maggiore risalto alla dialettica fra natura e società piuttosto che quella fra natura e uomo. L’impressione dell’autore è che tende a normalizzare le potenzialità euristiche del concetto di Antropocene, come se si trattasse solo di un nuovo modo di indicare processi già noti, e trascuri la possibilità di cogliere le implicazioni che vanno oltre la geologia ma anche oltre la critica del capitalismo. Clima La storia dell’umanità è stata influenzata dal clima , con il quale le comunità umane hanno dovuto fare i conti sviluppando adattamenti culturali e tecnologie in grado di migliorare la propria esistenza. La giusta decostruzione del determinismo insieme alla separazione accademica della geografia fisica, ha quasi estromesso il clima dalla narrazione geografica. L’Antropocene ha ricordato a tutti che a connotare l’Olocene è stato soprattutto il clima, grazie a una fase interglaciale così stabile e tranquilla da sviluppare condizioni molto favorevoli alla specie umana. L’Olocene inizia 11.700 anni fa e contiene la fase di addomesticazione delle piante e animali, l’invenzione della città, l’esplosione demografica e lo sfruttamento dei combustibili fossili per produrre energia. Il clima sia sta rivelandosi uno dei fattori più mutevoli, ma anche uno dei più impattanti sui processi di territorializzazione. Inoltre, sembra, da fattore naturale, possa essere considerato sempre più come un elemento legato agli esiti delle azioni umane. Le conseguenze dell’inclusione dell’uomo tra i fattori del clima sono ancora tutte da esplorare. Conflitti Stranamente gli effetti sull’Antropocene, anche quando parlano di politica, trascurano la geopolitica e la geografia politica, concentrandosi su aspetti biopolitici. Eppure sembra davvero poter essere un buon campo per i geografi, soprattutto se i conflitti e le relazioni geopolitiche , saranno legate più che altro nel passato al cambiamento ambientale, al contrario delle risorse naturali, dei movimenti di popolazione e delle popolazioni stesse, nel momento in cui dovesse dare inizio a rivolte e rivoluzioni causate da processi centrali dell’Antropocene. Controllo L’Antropocene tocca in tanti modi il tema del controllo, del potere e quindi del limite da un punto di vista ecologico. S embra affermare che l’uomo ha perso il controllo della natura, o meglio ha perso la credenza di poter controllare i suoi processi a proprio vantaggio. Allo stesso tempo, però, immagina che le azioni umane possono essere capaci, attraverso il progresso tecnologico e il cambiamento delle conoscenze delle discipline politiche, di porre rimedio ai danni generati , il che equivale a ritornare alla fiducia nella possibilità di controllare la natura, stavolta attraverso la sua sempre più profonda umanizzazione. Educazione L’educazione geografica guarda da tempo con attenzione allo sviluppo sostenibile, alla diversità culturale e ai temi della disuguaglianze e dell’inclusione. L’Antropocene va oltre la globalizzazione e l’educazione geografica ci può mostrare cosa accade nelle diverse regioni e come tutto questo genera flussi, reti e interazioni; orienta al futuro inteso come progetto per abitare il pianeta, si rivolge alle nuove generazioni lasciando la porta aperta alla speranza. Energia L’energia è stata soprattutto la fonte da ottenere in abbondanza e a un buon mercato per sviluppare l’industria e le attività umane in un mondo in competizione che ne richiedeva sempre di più. I l problema dell’accaparramento delle fonti energetiche si collegava a problemi geopolitici, commerciali e di possibile inserimento di risorse. Solo in alcuni casi comparivano nella narrazione le questioni ecologiche, legate all’inquinamento, e quelle sociali, legate alla qualità della vita o alla relazione con la produzione di ricchezze e disuguaglianza. L’Antropocene stimola a rivedere il ruolo dell’energia nella storia della Terra e del rapporto uomo/ambiente, perché è da questa interazione che si può capire cosa sta accadendo oggi al clima, come risultato di processi geologici e antropici. Tutta la vita sul pianeta è legata a processi di trasformazione dell’energia. È a questo punto che entra in gioco la specie umana che addomestica il fuoco, impara ad ottenere più energia attraverso l’agricoltura, gli animali, gli schiavi, ecc. O gni forma di territorializzazione d el pianeta è legata a questi modi di aumentare l’energia. Oggi la liberazione di energia accumulata nei combustibili fossili è anche la causa del cambiamento del clima, un processo che a sua volta sta generando profondi impatti nell’ambiente, nella società e nell’economia, nella politica e nella cultura. Dato il fatto che ci sono stati diversi processi sociali, di adattamento culturali, nelle città o nell’agricoltura estensiva meccanizzata, non si può non vedere che tutto accade e dipende dalla trasformazione dell’energia. È importante non dimenticare che, se il problema è globale, la produzione di energia è sempre locale ed esprime un rapporto con il territorio e con i modi in cui esso è organizzato. Estensione di massa - biodiversità L’Antropocene non è solo una discussione su come possiamo raccontare il mondo e le relazioni fra uomo e natura, è anche una questione ecologica che raccoglie tutte le emergenze che nascono dall’impatto sulla biodiversità , causato non solo dall’azione umana ma anche dalle conseguenze, prima di tutto il cambiamento climatico. La pressione antropica sugli ambienti terrestri spinge molti ricercatori ad annunciare che siamo, o stiamo entrando, in una fase di grande estinzione di massa di specie viventi. Fino a ieri abbiamo considerato l’estinzione degli animali un evento da museo di storia naturale, un tema da paleontologia. Il tema dell’estinzione delle specie viventi esce dall’ambito delle scienze naturali e dalla scienza della vita, divenendo un nodo centrale del rapporto uomo ambiente e coinvolgendo il suo posto, la diversità, come un binomio concettuale fondamentale. La scomparsa delle specie ci interroga allo stesso tempo sulla genesi, sul ruolo e sull’importanza della diversità umana nello spazio geografico come espressione di processi locali e globali di interazione e trasformazione tra la specie umana e l’ambiente terrestre. Foreste George Perkins Marsh è il primo ad osservare che i disboscamenti cambiano il clima e la meteorologia locale, alterando il comportamento delle altre specie, anche di quelle coltivate. Se la distruzione dei boschi fu la prima conquista geografica dell’uomo, la loro distruzione definitiva ci appare come quella che potrebbe anche essere l’ultima di queste conquiste. Come spiega Zanolin, passare per il concetto di ibrido ci aiuta a capire che le foreste non sono altro che uno dei tanti modi in cui l’interazione dell’uomo con l’ambiente h a prodotto la superficie della T erra come la si vede oggi. L’ambiente NON è più una cosa naturale che ci circonda, ma il risultato di interazioni con l’uomo ed i cambiamenti, generati da questa interazione, stanno diventando ogni giorno più evidenti. L’Antropocene, quindi, rappresenta scientificamente il punto di intersezione fra la storia della Terra e la storia dell’uomo, cambiando non solo la narrazione delle scienze, ma le basi stesse della loro costruzione moderna. Ibrido La parola “ibrido” è una delle parole chiave sulle quali la geografia deve interrogarsi. Frank Raes identifica gli ibridi in quelle cose che intrecciano natura e uomo in modo inestricabile, per cui non sono naturali né artificiali, né scientifiche, né politiche. O meglio, non sono tutte queste cose insieme: se queste cose non fossero insieme non sarebbero più niente. Egli spiega bene perché è superficiale pensare di poter in qualche modo eliminare l’intervento umano, tornando a un immaginario stato naturale, e come questo tentativo sarebbe allo stesso tempo stabilizante ed ecologicamente negativo. I tentativi di ritornare alla semplificazione moderna tra uomo e natura non fanno che rendere visibile proprio il danno causato dalla visione dualistica. “Nell’Antropocene non possiamo più autoescluderci dagli ecosistemi che presupponiamo essere naturali ma che alla prova dei fatti si rivelano sempre ibridi“. L’idea che non sia possibile osservare un fenomeno senza influenzarne il cambiamento ci viene dalla fisica. “Ogni misurazione, presuppone la possibilità di entrare in contatto con il mondo, sia che questo contatto avvenga direttamente o attraverso i nostri strumenti“. Anche la geografia è stata in parte una scienza di misurazioni: distanza, quantità, distribuzione, ad esempio, sono misurazioni attraverso le quali tentiamo di comprendere e descrivere rapporti, relazioni, ordini e strutture territoriali. Questo contatto con il mondo che cambia il modo di interpretarlo, ma anche lo stesso, è da tempo oggetto della riflessione geografica. L’osservatore interferisce con il mondo e costruisce la sua trasformazione. Il contributo dei geografi consiste nel cercare le tracce dell’Antropocene, le sue conseguenze, non solo nelle alterazioni antropogeniche dei cicli geologici o chimici del pianeta, ma anche nel cambiamento del modo con cui osserviamo e rappresentiamo la Terra. Superata l’idea che gli oggetti geografici siano stabili se non addirittura immutabili, la geografia, infatti, è essenzialmente una scienza delle variazioni sulla superficie terrestre. Lo spostamento del pensiero geografico verso la carne ha coinciso con una divaricazione fra geografia fisica e umana, come se per arrivare al cambiamento, a scapito delle cose eterne, fosse necessario staccarsi dall’ambiente naturale, concentrando la ricerca in gran parte sulle attività umane e recuperando l’ambiente solo quando assumeva il ruolo di risorse economiche , condizione per la quale fosse necessario adottare le attività umane. Il concetto di Antropocene ci chiede di cambiare il modo in cui consideriamo la nostra posizione di osservatori. Lo fa rivelandoci non solo la natura dinamica, in perenne cambiamento, ma anche che questo cambiamento non è più completamente separabile dall’azione umana; che i cambiamenti che osserviamo sono il risultato di una evoluzione , di una relazione reciproca ; e che in questa relazione l’osservatore è parte attiva, perché attraverso l’osservazione e la successiva rappresentazione di ciò che ha osservato agisce anche come trasformatore della relazione in atto, nella quale egli è poi una parte di una parte, vale a dire un aspetto di come l’uomo vede la Terra, la controlla e la trasforma traverso i simboli e le opere. Realtà/ fiction Quanto è autentico l’Antropocene? - Per alcuni l’Antropocene è un dato di fatto: il sistema Terra è oggi completamente alterato dall’azione umana, con conseguenze su tutti i suoi cicli geologici, chimici, climatici e biologici. Ne consegue un approccio scientifico operativo che mira a studiare i processi e a individuare le possibili azioni umane in grado di diminuire gli effetti negativi, al fine di garantire un futuro migliore della specie umana e al pianeta, e la consapevolezza che il destino dell’uno dipenda ormai dai comportamenti dell’altro. - Per altri Antropocene è una fiction, un azzeccato storytelling che connette fatti e situazioni disparate e attive, individuando un attore principe (uomo) e un insieme di scenari globali e locali, nei quali ambientare la sua affascinante vicenda. L’ecocriticismo sembra capace di navigare per questi estremi, sfuggendo alla letteratura come strumento per costruire una nuova coscienza ecologica. Non basta dire che l’uomo è l’agente maggiormente implicato nel cambiamento, bisogna scendere nei dettagli dell’abitare il pianeta, vale a dire come pensiamo la natura, quali sono i nostri sistemi di valore, quali tecnologie utilizziamo, quanto ci riproduciamo e popoliamo il pianeta, come prendiamo decisioni per regolare la vita della comunità e come utilizziamo le risorse materiali , simboliche , per realizzare progetti di vita individuali e sociali. L’approccio letterario è di forte tentazione, ma c’è il rischio di spostare troppo l’attenzione sulla narrazione e sui suoi meccanismi, mettendo in secondo piano il fatto che intanto le foreste stanno bruciando, i ghiacciai si sciolgono, la barriera corallina muore e i mari si stanno riempiendo di microplastica. I geografi sono tra gli studiosi più attrezzati per orientarsi fra queste due visioni ovvero: la realtà e la fiction. Essi, inoltre, sviluppano una sintesi efficace tra approcci scientifici e culturali. L’Antropocene certamente è anche una metafora, una denominazione della territorializzazione che dà una rappresentazione alla carta geografica. In un certo senso fa parte anche dell’immaginazione geografica. Territorio/territorializzazione Problemi diversi legano uomini e ambienti a scale differenti sul pianeta. Proprio qui la geografia fornisce al dibattito sull’Antropocene due categorie indispensabili: quella di luogo e quella di sistema territoriale. Il pianeta NON è affatto omogeneo, e l’ibridazione uomo – ambiente cambia da un posto all’altro, al cambiare dalle dotazioni ambientali delle società e delle culture. L’Antropocene ha una dimensione globale, ma si differenzia in migliaia di diversi contesti locali. L’adattamento è un concetto che per la geografia diventerà ancora più importante a causa della velocità con cui i paesaggi, le economie e le culture stanno cambiando. Si dovrà cercare di spostare l’attenzione dagli adattamenti del passato ai processi di adattamento in atto nel presente, che ci possono aiutare a immaginare e progettare il futuro. Occorre territorialializzare l’Antropocene, cioè imparare a spiegare come le grandi questioni dell’Antropocene vengano e si diversifichino in luoghi e sistemi territoriali. Solo se pensiamo e rappresentiamo il mondo attraverso questa chiave concettuale possiamo, poi, trasformarlo in modo più sostenibile e coerente con l’obiettivo di migliorarlo. Se non possiamo più distinguere completamente l’ambiente dall’uomo, allora non possiamo cambiare il mondo, se non agendo all’interno delle strutture con cui le società umane lo hanno modificato e cercano di controllarlo attraverso l’economia, politica, società e la cultura: i territori. Uomo-ambiente Dobbiamo cominciare a vedere, a interpretare e a rappresentare la Terra come un inestricabile complessità di uomo-ambiente, la prima conseguenza è che NON possiamo più spiegare la natura e la società da sole, come se fossero dotate di autonomia. Distinguere ciò che è naturale e artificiale risulta sempre più difficile. Il cambiamento – ci suggerisce l’Antropocene – è il prodotto ibrido di un ambiente che comprende l’uomo e di un uomo che agisce in base alle conseguenze dell’ambiente. In fondo, la posta in gioco dell’Antropocene sembra essere non solo il riavvicinamento fra geografia fisica e geografia umana, ma anche quello fra geografia alla ricerca dell’oggettività quantitativa e geografia alla ricerca della soggettività percettiva e fenomenologia, fra narrazione scientifica e reazione emozionale: cioè fra quelle opposte prospettive della ricerca geografica. CAPITOLO 2 – Il passaggio geografico nell’Antropocene Paesaggi geogenetici e paesaggi antropogenici Occuparsi del rapporto tra paesaggio e Antropocene significa accettare implicitamente come vero il presupposto che individua nel paesaggio un indicatore sufficientemente attendibile delle trasformazioni innescate negli ecosistemi terrestri dalle pratiche di produzioni tipiche del capitalismo più avanzato. Il paesaggio dell’Antropocene o il paesaggio nell’Antropocene alludono alla nascita ex novo di specifici paesaggi che recherebbero in sé i segni della capacità dell’umanità di rivaleggiare ormai con i fenomeni climatici e geologici la biosfera terrestre e i suoi processi, grazie alla messa a punto di una serie di strumenti e tecnologie. Il risultato sarebbe la produzione di nuovi paesaggi diversi da tutti gli altri, perché dotati di proprietà non riconoscibili in nessun altro momento della storia, sia di quella naturale che di quella umana. Partiamo dall’idea che tra le conseguenze dell’Antropocene vi siano anche ricadute di tipo paesaggistico. Quindi, noi stiamo guardando il paesaggio non tanto per scoprire le qualità intrinseche, quanto per cercarvi i segni, le tracce e in generale interferenza nei processi economici e sociali che non hanno immediatamente una natura paesaggistica. Ciò che chiediamo al paesaggio e di darci una testimonianza visibilmente esemplare di un cambiamento storico epocale: quello pesantemente contrassegnato dall’uso intensivo di fertilizzanti di sintesi e di combustibili fossili, dalla deforestazione e dalla diffusione della plastica, dall’urbanizzazione sempre più frenetica del mondo, dal consumo razionale dell’acqua petrolio, dall’aumento rapido dei gas effetto serra, dalla cedimento azione degli oceani e dallo scioglimento degli acciai e così via. È evidente che da qui può esserci data prova parzialmente o indirettamente del paesaggio naturale, ossia attraverso la costruzione di tipi descrittivi dati sui fattori di carattere fisico (clima, vegetazione, idrografia, morfologia), attraverso le unità elementari della biosfera identificate attraverso le loro caratteristiche vegetali e climatiche. L’equivalente paesaggistico di questa concezione sarebbe infatti l’Urlandschaft , il paesaggio terrestre primordiale, pre-umano, bioscape o wildscape, non modificabile dall’intervento dell’uomo, quadro visivo di un ambiente naturale fuori dalla storia, incontaminato ed omogeneo, che possiamo incontrare nelle foreste boreali del Canada ecc.. I geografi non sono i primi a trattare di Antropocene e, anzi, arrivano con un certo ritardo a prendere posizione sull’argomento. Questa consapevolezza porta con sé un corollario: discutere di Antropocene oggi significa confrontarsi con un universo di opinioni e di riflessioni di natura multidisciplinare che ne hanno già esplorato ampiamente i principali limiti e potenzialità. Il risultato di un tale dibattito è che il concetto di Antropocene costituisce perlopiù una parola chiave, dai caratteri vasti e necessariamente indefiniti, sotto il quale trovano spazio molte diverse letture del complesso rapporto umanità-ambiente. La sfida posta dall’Antropocene si definisce nei termini di una provocazione culturale, al centro dell’attenzione, la domanda fondamentale su cosa significhi abitare un mondo in cui l’u omo partecipa p ienamente a dei processi di trasformazione del pianeta e quali siano le implicazioni etiche, politiche, sociali, economiche e ambientali di tali processi. Il concetto di Antropocene opera nella direzione di provocare un risveglio della coscienza, gettando una luce rinnovata sulle sfide prioritarie che il mondo contemporaneo si trova ad affrontare. Il compito della geografia è quella di formare soggetti consapevoli delle ripercussioni globali e trasversali delle azioni umane e per responsabilizzarli nei confronti del pianeta, in sostanza il compito della geografia è quello di contribuire a educare all’Antropocene. L’Antropocene della carta internazionale dell’educazione geografica La carta internazionale sull’educazione geografica del 2016 è un documento internazionale, promosso dalla commissione sull’educazione geografica dell’unione geografica internazionale, che aggiorna una precedente edizione del 1992. La carta costituisce il più recente documento internazionale di indirizzi sui temi, sui problemi, sulle sfide legate all’educazione geografica del mondo e rappresenta, pertanto, un fondamentale riferimento anche per una riflessione sull’educazione geografica all’Antropocene. Lo studio della geografia aiuta le persone a capire e ad apprezzare come si sono formati i luoghi e i paesaggi, come interagiscono le persone con gli ambienti, quali sono le conseguenze che derivano dalle nostre decisioni quotidiane, le quali riguardano lo spazio e il mosaico delle culture delle società diverse e interconnesse che esistono sulla Terra. L’educazione geografica aiuta ad imparare come vivere in armonia con gli altri specie viventi. Quattro paesaggi chiave, tra loro strettamente collegati, hanno una forte attenzione con l’Antropocene. A. Il riconoscimento dell’unitarietà di società e ambiente, che non rappresentano due sfere distinte e solo interconnesse, ma operano congiuntamente nella trasformazione della Terra. B. Tale azione trasformativa dell’uomo sulla Terra non è omogenea né univoca, ma si esprime in forme e modi tanto diversi quanti sono i luoghi e i paesaggi che l’uomo ha contribuito a costruire e a trasformare sulla superficie terrestre; allo stesso modo, il concetto di Antropocene si definisce localmente sulla base delle specifiche condizioni, azioni e decisioni intraprese a livello locale, che si riverberano in scala globale. C. Le forme e i modi in cui luoghi e paesaggi sulla Terra sono abitati non dipendono soltanto dal rapporto con l’ambiente fisico, ma anche dalle relazioni reciproche tra le diverse società e le diverse culture, similmente alle problematiche sollevate dal concetto di Antropocene, vale a dire come abitare il pianeta in modo sostenibile, riguardano tanto i limiti e l’equilibrio degli ecosistemi terrestri, quanto la convivenza tra società e culture differenti dai sistemi totalitari strettamente connessi. D. Comprendere, capire e apprezzare i modi in cui la Terra è abitata e trasformata costituisce la principale missione educativa della geografia, in particolar modo per quel che riguarda la consapevolezza delle conseguenze delle azioni umane. Il richiamo dell’Antropocene coinvolge direttamente e quotidianamente ciascun individuo e lo responsabilizza soggettivamente nei confronti dei modi e abilità di vivere il pianeta. Un’agenda geografica per educare all’Antropocene Ci sono quattro principi educativi fondamentali: 1. Territorializzare l’Antropocene 2. Personalizzare l’Antropocene 3. Educare al futuro dell’Antropocene 4. Costruire aziono di cittadinanza antropogenica Territorializzare l’Antropocene Sull’Antropocene rischia di rivelarsi inefficiente se inteso solamente in una prospettiva globale e generale, priva di riferimenti spaziali e contestuali che siano in grado di esemplificare le innumerevoli declinazioni possibili del concetto. Allo stesso modo, se dei processi maggiormente rappresentativi, dell’epoca dell’Antropocene è il fenomeno dell’urbanizzazione planetaria, è opportuno considerare i diversi luoghi in cui l’incremento della popolazione che vive in città avviene più rapidamente, quali sono gli specifici problemi che una megalopoli pone dal punto di vista del consumo delle risorse, e quali sono i segni dell’urbanizzazione planetaria nelle città in cui viviamo e che, nella maggior parte dei casi, continuano incessantemente a consumare suolo. L’idea alla base di tale principio è quella dell’educazione al territorio, vale a dire la convinzione che nel riferimento al territorio trovino spazio naturale e convergenza le diverse sfide educative della geografia, tra le quali l’Antropocene. Personalizzare l’Antropocene Educare geograficamente all’Antropocene significa anche rendere possibile un’appropriazione dei problemi antropocenici su un piano personale e prima di tutto affettivo, emozionale, motivazionale. Soltanto attraverso una simile personalizzazione è possibile, infatti, costruire quel senso di consapevolezza e responsabilità verso il pianeta che deve costituire uno dei principali obiettivi di un’educazione geografica all’Antropocene. La riflessione sulla geografia dell’emozioni ha dimostrato come non possa esistere conoscenza del mondo senza coinvolgimento emozionale, e come le emozioni forniscono un senso al nostro stare nel mondo, incluse le relazioni con noi stessi e con gli altri. Dunque, educare geograficamente all’Antropocene richiede, pertanto, di considerare la relazione con il pianeta in una prospettiva soggettiva ed emozionale, interrogandosi sul modo in cui l’Antropocene ci riguarda direttamente, su cosa muove nella nostra coscienza e su cosa possiamo fare per partecipare pienamente al confronto e alle scelte sul futuro del pianeta. La geografia offre, in tale direzione, un ricchissimo serbatoio di possibili iniziative formative allo spazio vissut o , sul nostro rapporto affettivo con i luoghi quotidiani e sulla percezione dei paesaggi. Educare al futuro dell’Antropocene Il discorso sull’Antropocene è fortemente declinato al futuro, nel senso di immaginare in che modo l’uomo abiterà la Terra nei prossimi decenni e quali sono le sfide che si troverà dovrà affrontare e superare. Scenari, proiezioni e stime costituiscono il lessico con il quale ci si confronta su quanto crescerà la popolazione mondiale, sulla durata delle riserve di combustibili fossili, sul tasso di deforestazione, sull’incremento medio della temperatura globale, e sulle conseguenze che questi altri cambiamenti avranno sui modi di abitare il pianeta. La futurologia, nel senso di saggi e contributi che discutono attorno alle possibili direzioni che il mondo potrà intraprendere, hanno ormai i connotati di un genere letterario che NON trascura le implicazioni etiche legate al ruolo che l’uomo, attraverso la tecnologia assunta nei confronti delle trasformazioni planetarie. Qualsiasi sintesi geografica è un discorso sul futuro, nel senso che, attraverso l’interpretazione dei luoghi, definisce attese e aspettative sociali e proficua soluzioni, possibilità, interventi e progetti. In altri termini, la pratica di osservare, pensare, immaginare i luoghi, così come quella di descriverli e rappresentarli, NON è mai naturale: significa seziona r e solo ciò che ha valore e che vorremmo rimanesse tale , perché possa essere tramandato alle future generazioni . Il tema dell’Antropocene offre alla geografia la possibilità di recuperare e valorizzare le capacità di pensare al futuro attraverso l’analisi del presente. Nel campo dell’educazione all’Antropocene, ci si spende attorno al tema tecnologico: ragionando sul futuro, del resto, la geografia non può prescindere dall’educazione all’utilizzo delle tecnologie, in quanto componente irrinunciabile della vita umana nell’epoca dell’Antropocene. Se l’Antropocene è segnato anche da un continuo progresso tecnologico, è quindi fondamentale sviluppare e fornire gli strumenti per comprendere che la tecnologia è in grado di mutare profondamente, e in modo talvolta imprevedibile, le condizioni della vita umana sul pianeta e per utilizzarle in modo consapevole. Costruire azioni di cittadinanza antropocentrica Abitare l’Antropocene costituisce una sfida non solo sul piano culturale, legata al ripensamento del ruolo dell’uomo come principale agente del cambiamento globale, poiché ha anche delle In particolare, i progressi dell’informatica, la nascita della geo m atica e lo sviluppo dei sistemi informativi territoriali hanno fornito gli strumenti indispensabili per effettuare sempre più soddisfacemente l’analisi multidimensionale. Con questi strumenti è possibile raccogliere ed elaborare sempre più maggiormente i dati sui cambiamenti climatico-ambientali e interpretare a varie scale spazio-tempo le possibili relazioni fra uomo e natura con più precisione. Le nuove tecnologie sono di supporto sia all’analisi del contesto geografico-fisico generale, sia all’indagine locale, tramite il rilevamento delle forme e il monitoraggio dei processi morfogenetici. Lo studio del terreno e la relativa cartografia geomorfologica esprimono in versione sintetica le relazioni fra le forme e i processi presenti nel l’ area, evidenziando quei fenomeni in cui l’attività morf o genetica può rappresentare un pericolo per la stabilità del paesaggio ed eventualmente un rischio per l’uomo. In questo quadro multidimensionale si può affermare che la geomorfologia svolge un importante ruolo all’interno della scienza del sistema Terra, poiché fornisce le basi per comprendere la natura delle diverse forme che condizionano l’ambiente superficiale in cui si sviluppa la biosfera. Cronologia dell’uomo e della natura Per descrivere in modo univoco la storia della Terra, gli scienziati si servono della scala dei tempi geologici prodotta dalla commissione internazionale di stratigrafia. Si tratta di uno strumento in continuo aggiornamento per effetto dei progressi nella ricerca geologica e della formazione di nuovi nomi e intervalli cronologici. La scala dei tempi geologici è suddivisa in unità geocronologiche: ess e descrivono lo scorrere del tempo in modo astratto, ma coerente per tutto il pianeta. Queste suddivisioni del tempo geologico astratto sono materializzate in particolari corpi rocciosi definiti unità cronostratifiche: esse sono riconoscibili per il loro contenuto e per le discontinuità che ne delimitano, rendendole correlabili alla scala locale e quella globale. Osservando le unità della scala dei tempi geologici risulta alquanto evidente che la scansione cronologica aumenta progressivamente di dettagl io avvicinandosi al tempo presente . Dal punto di vista geologico, noi oggi viviamo nell’Olocene, all’interno del Quaternario, nel Cenozoico. Per convenzione, i tempi geologici sono misurati i n milioni di anni e la scala inizia dal tempo presente: ciò pone alcuni problemi di sincronizzazione e di sintonia con la misurazione dei tempi della storia umana. Innanzitutto, per il fatto che il tempo presente cambia col tempo, occorre scegliere un valore standard di riferimento per l’inizio del conteggio dei milioni di anni. Dal punto di vista geologico, la data di inizio della scala di età è stata posta al 1 gennaio 1950 CE (Common Era). Dopo questa data risulta, infatti, particolarmente difficoltoso tenere datazioni al radio carbonio, a causa dell’alterazione del rapporto isotopico del carbonio contenuto in occasione dei test nucleari in atmosfera. Per una notazione culturalmente neutra, l’inizio della cronologia dell’era comune oggi utilizzata dal mondo scientifico rimane la nascita di Cristo, sulla quale sono anche basati i termini di riferimento a.c. e d.c. Antropocene: tempo di cambiamento e luogo di incontro Come per ogni suddivisione geocronologica, il riconoscimento dell’Antropocene è subordinato all’individuazione nelle successioni stratigrafiche di un limite riconoscibile a scala globale che testimonia il paesaggio fra due momenti della storia della Terra ben diversi tra loro, a causa di cambiamenti irreversibili nella biosfera e nella sfera del pianeta. Gli studiosi si sono quindi messi alla ricerca dei segnali antropici più facilmente riconoscibile a scala planetaria. Una ricerca che ben presto si è canalizzata in due direttrici centrali sui seguenti aspetti: - Aspetti evolutivi: quali processi antropici possono produrre record stratificato? Si può individuare un limite geologico? Quando si colloca? - Aspetti funzionali: come si modificano le dinamiche dei processi terrestri per effetto del Duomo? Che rischi ne derivano? Le ricerche hanno confermato la necessità di una sintesi fra i risultati delle due direttrici per giungere a una definizione e una collocazione cronologica condivisa dell’Antropocene. Da ciò la conseguente convergenza di tutte le discipline della scienza del sistema Terra su un obiettivo comune: interpretare correttamente i segnali registrati nelle componenti delle sfere terrestri in funzione dei relativi processi naturali a ntropici , come comprendere quali, fra questi ultimi, siano in grado di provocare cambiamenti ambientali globali. Antropocene, “da tempo del cambiamento”, diventa anche luogo di incontro fra le scienze. A. Ipotesi di un Antropocene precoce. Il suo inizio posto circa 5000 anni dal presente e registrato in una carota di ghiaccio della Groenlandia sottoforma di drastico aumento del metano e di anidride carbonica atmosferica. Questi segnali indicherebbero i primi impatti globali dell’agricoltura intensiva, in particolare legati alla cultura di riso. B. L’ipotesi culturale dell’Antropocene. Il suo inizio nel 16 10 CE ha registrato nella carota del ghiaccio antartico della Law Dome, sotto forma di calo della CO2 atmosferica di anomalie della temperatura globale rispetto alla media nel periodo 1961-90. Questi effetti sarebbero la testimonianza dell’abbandono delle terre coltivate, del declino di grandi centri abitati e dell’espansione della copertura forestale nel continente americano, conseguenza dell’incontro scontro fra i popoli del vecchio e del nuovo mondo. C. L’ipotesi bomba nucleare per un Antropocene con inizio intorno al 1964. Gli effetti degli esperimenti nel l’atmosfera e del relativo fall-out atomico globale sono registrati in diversi marker ambientali: il picco del radiocarbonio atmosferico degli anelli di accrescimento annuale degli alberi e altre anomalie radiometriche nei sedimenti marini e terrestri. Fra le conseguenze delle attività antropiche dello stesso periodo anche il rapido aumento della CO2 atmosferica. Un riavvicinamento fra geografia fisica e umana è nei fatti della scienza attuale: dall’incontro fra le due discipline s i ricavano elementi indispensabili per descrivere e interpretare l’impatto dell’uomo sulla natura. L’analisi della crescita della popolazione mondiale e della distribuzione geografica dei cambiamenti ambientali, legati all’occupazione di aree sempre più vaste per l’urbanizzazione, delle attività agricole industriali, contribuirà a definire non solo quando l’Antropocene è iniziato ma anche come il processo di trasformazione del nostro pianeta possa eventualmente essere governato. CAPITOLO 5 – Cambiamento climatico e Antropocene: verso una riconferma o una nuova fase? L’Antropocene sta in relazione all’importante problema ambientale del cambiamento climatico. Le due tematiche si integrano e si illuminano a vicenda perché, da un lato, il sistema climatico e i suoi squilibri diventano punti di riferimento per meglio definire e datare la nuova era geologica , centrata sull’azione antropica; dall’altro lato, la stessa categoria concettuale di Antropocene può essere arricchita e completata ponendola in relazione al cambiamento climatico. Antropocene e cambiamento climatico Secondo l’analisi di Ruddiman, studioso che si è occupato di determinare l’inizio dell’Antropocene, le attività umane hanno avuto la capacità di influenzare, in modo consistente, la presenza di gas serra in atmosfera molto prima della Rivoluzione industriale, momento stabilito per indicare l’origine di questa nuova era geologica. In particolare, già 8-9 mila anni fa, agli inizi dell’agricoltura, la pratica di tagliare e bruciare le foreste per fare posto ad appezzamenti coltivabili avrebbe portato a un aumento di biossido di carbonio pari a circa 40 ppm (parti per milione). Si tratta di un’analisi degli impatti antropici sul pianeta Terra in grado di prendere in considerazione in modo più accurato la crescente influenza degli esseri umani come forza geologica planetaria. A partire da questo, viene proposta una nuova periodizzazione articolata in tre momenti distinti: 1. L’Antropocene propriamente detto, caratterizzato da una massiccia influenza antropica sull'ambiente, che viene fatto iniziare con la Rivoluzione industriale, o comunque, con la fase di maggior crescita dello sviluppo industriale, dal 1750 in poi; 2. Il Paleoantropocene, che va dalla comparsa dei primi ominidi e, soprattutto, dalla Rivoluzione agricola fino a quella industriale. Prende in considerazione quelle piccole e significative variazioni segnalate da Ruddiman, derivanti dall'azione umana precedente allo sviluppo industriale; 3. Una fase ancora precedente in cui NON si riscontra un'influenza umana. In tutte le proposte e, più in generale, negli studi sull’Antropocene, il cambiamento climatico gioca un ruolo centrale per l'estensione temporale e spaziale del fenomeno. Da un punto di vista temporale si tratta, infatti, di uno degli impatti derivanti da azioni umane che risalgono più indietro nel tempo e che, per questo, è stato utilizzato in molte delle proposte di datazione dell'inizio dell’Antropocene, sia dagli studi che lo pongono in concomitanza con la Rivoluzione industriale sia dalle proposte che lo associano alla Rivoluzione agricola. Anche da un punto di vista spaziale, il cambiamento climatico si presenta come un fenomeno particolarmente esteso, che può essere definito intrinsecamente globale, perché le dinamiche alla base del funzionamento del clima terrestre dipendono dal bilancio energetico globale, che riguarda La quinta fase riguarda le possibili implementazioni future delle azioni di mitigazione. Accanto alle politiche di mitigazione, si stanno progressivamente sviluppando anche quelle di adattamento al cambiamento climatico. La necessità di adattarsi deriva, anzitutto, dal fatto che le concentrazioni atmosferiche di gas climalteranti sono ormai così elevate da rendere inevitabile un effetto di riscaldamento a livello planetario. Oggi l'adattamento è inteso come un processo dinamico in cui le società rispondono continuamente a cambiamenti di varia natura, da quelli determinati dalla natura del fenomeno climatico in sé a quelli socioeconomici e tecnologici, a quelli culturali, legislativi, politici, istituzionali, gestionali e, più in generale, di governance. Le future azioni di mitigazione: come fermare il riscaldamento globale? La comunità scientifica, dopo aver preso in considerazione le analisi e gli scenari realizzati da numerosi esperti, i quali evidenziano i forti limiti delle attuali politiche di mitigazione, apre a due possibili strade per riuscire a fronteggiare il riscaldamento globale prima che sia troppo tardi. Si tratta di approcci in parte complementari, entrambi caratterizzati da punti di forza e di debolezza. Il primo riguarda la via già conosciuta e sperimentata delle politiche di mitigazione “tradizionali”: Si sottolinea la necessità di introdurre azioni realmente efficaci, capaci di portare a forti riduzioni delle emissioni di gas serra delle diverse nazioni per raggiungere, nel più breve tempo possibile, una situazione di sostanziale azzeramento . Questa soluzione dovrebbe portare alla quasi completa decarbonizzazione delle nostre economie, con una conseguente e gigantesca riconversione con forti effetti, in alcuni casi anche potenzialmente negativi, su molteplici fronti: geopolitico, economico, sociale, ecc. Rispetto a questa soluzione esistono però, di fatto, grandi resistenze inerzie da parte dei soggetti politici ed economici che hanno portato, in passato, al fallimento dei negoziati per costruire un accordo che proseguisse quello di Kyoto e, nel presente, al sostanziale fallimento degli impegni volontari finora presi dai diversi paesi all'interno dell'Accordo di Parigi a limitare il riscaldamento globale almeno ai 2 °C. Di fronte a questo fallimento delle tradizionali politiche di mitigazione, gli scienziati aprono un secondo potenziale approccio che non punta (solo) a ridurre le emissioni, ma piuttosto a modificare direttamente alcuni aspetti del funzionamento del sistema climatico terrestre attraverso tecniche di tipo geoingegneristico. Si tratterebbe di mettere in atto soluzioni ad alto contenuto tecnologico, le quali possono essere suddivise in due diverse categorie: tecniche di mitigazione conosciute come carbon dioxide removal, che puntano a sequestrare il biossido di carbonio ormai presente in atmosfera, e la solar radiation modification, che include alcune misure di modificazione della radiazione in entrata e/o in uscita dal sistema Terra, non collocabili all'interno delle politiche di mitigazione. La carbon dioxide removal comprende una serie di tecniche che possono contribuire a limitare il riscaldamento mediante la sottrazione di anidride carbonica direttamente dall'atmosfera. Si tratta di “emissioni negative” che vanno a compensare, o addirittura, a sovracomprensare le emissioni di CO2 dei vari paesi, portando, in quest’ultimo caso, a una situazione di diminuzione della concentrazione di questo gas serra nell'atmosfera. Nella maggior parte dei casi, si tratta di metodologie che si trovano in fase di sviluppo iniziale, quindi vi è basso accordo da parte della comunità scientifica sul reale contributo che possono dare alla decarbonizzazione in tempi rapidi, anche in ragione del fatto che fino a ora sono stati eseguiti solo calcoli teorici o, al più, sperimentazioni sul campo solo su piccola scala. Inoltre, tali metodologie comportano costi economici, nonché consumi di risorse materiali. Le tecniche di solar radiation modification puntano ad abbassare direttamente la temperatura terrestre sia diminuendo l'energia globale in entrata, attraverso una riduzione della luce solare che raggiunge la superficie terrestre, sia aumentando quella in uscita dal sistema Terra, rendendo l'atmosfera più trasparente alla radiazione infrarossa verso l'esterno. La maggior parte di questi metodi ha la concreta potenzialità di dare luogo a effetti collaterali negativi anche molto critici, perché vanno a modificare direttamente i meccanismi fisici alla base del funzionamento del sistema climatico globale. Tali ricadute potrebbero venire anche a scala globale e sarebbero irreversibili, nel senso che una volta applicata la tecnica non è più possibile tornare indietro. CAPITOLO 6 – Le migrazioni e l’Antropocene La centralità delle migrazioni internazionali L’ultimo decennio ha visto la trasformazione significativa delle dinamiche migratorie a causa di molteplici fattori. Per restare alle sollecitazioni subite dal continente europeo, basti pensare alla crisi economica nata negli USA nel 2008 e poi diffusasi, agli effetti tutt’altro che virtuosi della stagione delle “Primavere arabe” che hanno interessato il Medio Oriente e il Nord Africa e alla crisi ucraina. Se si considerano, inoltre, le crescenti condizioni di fragilità sociale ed economica dei paesi del Sud del mondo, si può comprendere come si sia registrato un incremento complessivo del numero totale di migranti. Il ruolo delle migrazioni è sempre stato rilevante nella storia della presenza umana sulla superficie terrestre. La progressiva occupazione del pianeta è stata il risultato di due forze congiunte: la capacità di riprodursi e accrescersi e la capacità di muoversi, dunque, di migrare. Senza migrazioni non sarebbe avvenuta la civilizzazione, e il conseguente impatto sulla superficie terrestre è stato sempre più rilevante fino al punto da poter ipotizzare dall’Ottocento in poi un’era geologica, Antropocene, in cui il condizionamento dell’azione umana, almeno della parte della popolazione umana del Nord, sia stato decisivo a livello globale. Pur caratterizzando in permanenza l’evoluzione storica, le migrazioni nel corso del XIX secolo hanno fatto registrare una significativa accelerazione del numero degli spostamenti, grazie al miglioramento della tecnologia e all’aumento delle interconnessioni. Tra il 1850 e il 1920 si è assistito al più grande movimento di popolazione in proporzione al numero di abitanti della Terra. Una chiave attraverso la quale è possibile leggere le migrazioni è quella della sicurezza: non solo nei termini della sicurezza dello Stato, ma anche in relazione alla elementare sicurezza umana. Lo sguardo ritorna verso i paesi di partenza, quelli del Sud globale, quando ci si riferisce ai temi dell’insicurezza generata dal degrado ambientale, che, negli ultimi decenni, ha condotto a una correlazione tra cambiamenti climatici e migrazioni di massa. Disastri ambientali e migrazioni Se si osservano le ripercussioni dell'azione dell'uomo sulle migrazioni, un elemento indiscutibile è rappresentato dal ruolo svolto nell'accelerazione della mobilità internazionale dalla tecnologia, in particolare dal miglioramento dei vettori e dal proliferarsi degli strumenti di informazione e di comunicazione che hanno favorito una compressione del tempo e dello spazio. Oggigiorno, molte questioni ambientali possono essere responsabili dello sfollamento e della mobilità. Esistono distinzioni tra i casi di “insorgenza lenta” e cambiamenti ambientali (la desertificazione, l’innalzamento del livello del mare e il degrado del suolo), da una parte, e i cambiamenti a “insorgenza rapida”, come forti piogge, inondazioni e calamità simili come terremoti ed eruzioni vulcaniche, dall’altra. Tuttavia, i modi in cui questi cambiamenti ambientali interagiscono con i movimenti della popolazione restano ancora ipotetici. Si tratta di un filone che ha generato un forte seguito, soprattutto da parte dei media proprio a causa della ricerca di una sempre maggiore spettacolarizzazione dei fenomeni, producendo, nell’ultimo ventennio, un incremento notevole della letteratura accademica, ma soprattutto dei report da parte delle istituzioni internazionali e delle ONG. Secondo la visione di Crutzen e Stoermer, stiamo vivendo in un'era geologica in cui i modelli di produzione e consumo sono in grado di determinare equilibri e squilibri ambientali: le attività umane hanno alterato e alterano le forze della natura e hanno inevitabili ripercussioni sulla mobilità delle persone. Tuttavia, è bene sottolineare che la mobilità di tipo ambientale e climatica non è chiaramente definita terminologicamente né giuridicamente. Un altro aspetto da tenere in considerazione è che le migrazioni in contesti di crisi ambientale sono soprattutto interne e che attribuire dignità a una causa del genere rischia di “naturalizzare”, cancellando la molteplicità di cause di natura socio-economica e politica che si associano alle condizioni di fragilità delle aree interessate. Le criticità ambientali non sono in discussione e i rischi da riscaldamento globale sono suffragati da riflessioni scientifiche, l'attenzione e i distingui sono piuttosto puntati sugli effetti e sulla localizzazione degli eventi. Al centro dell'attenzione finisce quasi sempre il Sud globale e le sue condizioni di vulnerabilità già esistenti. Secondo un filone di studio minimalista, figlio di una riflessione che trova le sue basi nelle scienze umane e di impostazione critica, il tema delle migrazioni internazionali dovrebbe essere letto come un fenomeno sociale, economico e segnatamente geopolitico, non esclusivamente legato alla dimensione ecologica o della protezione umanitaria. Risulta, infatti, fuorviante concentrarsi sull'esistenza o meno di un nesso causa-effetto tra migrazioni ambientali e attività antropica. La naturalizzazione della categoria Antropocene L’apprezzamento per una “nicchia abitativa” ecologicamente compatibile viene rafforzato da un parallelo elogio dell’immobilità. Il vero privilegio in futuro diventerà quello della stabilità e della residenzialità. A maggior ragione nell’era dell’Antropocene, il ruolo delle riserve naturali, delle aree in cui l’impatto umano è stato volontariamente limitato e ridotto, acquista un significato paradigmatico ed esemplare, proprio in virtù della rarefazione dell’impronta antropica. Lo sfruttamento indiscriminato delle risorse della natura da parte dell’umanità rappresenta uno dei cardini definitori dell’Antropocene. Tale opera di prefazione delle risorse naturali non è soltanto materialmente percepibile e quantitativamente rilevante. Essa produce anche un forte impatto sulla qualità della vita e sulla cultura, che permette di apprezzare le componenti di tale qualità. L’Antropocene, in questa prospettiva di lettura, è caratterizzata dall’abbandono del senso estetico che non soltanto segna uno scadimento dell’aspetto esteriore delle cose, ma si fa sintomo di un malessere esistenziale profondo. Per recuperare un senso ampio disteso della bellezza esistente sulla Terra, occorre uscire da un’ottica che mette l’uomo al centro del mondo, andando “controcorrente” rispetto il dominio antropocentrico che dà il nome alla nuova era, per recuperare un respiro di visione più ampio, in grado di apprezzare il ruolo che possono avere il mondo inanimato, il mondo vegetale e il mondo animale. Ci si occupa, altresì, di un filone distopico nell’immaginazione dell’Antropocene . Molta comunicazione relativa all’argomento è basata sulla costruzione di uno scenario apocalittico, e fa quindi leva sulla paura, sulla necessità di cambiare passo per poter scongiurare una fine inevitabile e sempre più prossima. Tuttavia, l’educazione a un comportamento più responsabile non può avvenire soltanto attraverso una prospettiva catastrofica, che mette di fronte a scenari minacciosi e apocalittici, ma deve attraversare anche una pars costruens che ponga le basi per un apprezzamento e una valorizzazione consapevole nei confronti delle forme di vita non umane e dell’equilibrio ecologico dell’ecosistema terrestre. Prospettive didattiche per l’utilizzo della letteratura nello studio dell’Antropocene La dimensione comparatistica offerta dalla letteratura, che permette uno sguardo sintetico rivolto a più contesti geografici, linguistici e culturali di produzione, permette un’analisi a largo spettro delle aree sociali e culturali, in cui il pensiero legato all’Antropocene si è consolidato e diffuso. Attraverso il coinvolgimento dei testi letterari, si crede dunque sia possibile non soltanto fornire un ampliato repertorio di immagini, informazioni e contesti di ambientazione narrativa, ma anche proporre uno sguardo critico in grado di leggere con attenzione i processi in corso, di decodificarli, di analizzarli, in una crescita di consapevolezza che appare eticamente doverosa. PARTE SECONDA: Casi e luoghi della geografia dell’Antropocene CAPITOLO 8 – Figure dell’Antropocene negli olivi di Puglia Come dispositivo semantico, o polisemico, l’Antropocene ha raggiunto diversi se non diversissimi campi di studio e approcci. Essendo esso un concetto molto generale e generalizzante, sussiste la possibilità di codificare determinati contenuti, qualora vengano presi in esame: si parla, in tal caso, di figure. Vengono prese in considerazione tre figure dell’Antropocene, con una quarta sullo sfondo, utili per toccare alcuni nodi focali nella proliferazione del batterio Xylella fastidiosa in Puglia . La Puglia come giardino. La piantagione, forma e distanza estetica La Puglia è ben nota per la quantità di olivi che caratterizzano il suo paesaggio: grazie anche alla mancanza di rilievi, la distesa di olivi si manifesta spesso come punto di fuga dell’orizzonte, una parte fondamentale del paesaggio che mette in correlazione chi guarda con cosa è guardato: è la manifestazione della relazione attraverso la vista. In Puglia, la relazione è la seguente: l’olivo caratterizza l’ economia , l’ identità , le tradizioni e permea moltissime altre forme della vita sociale e della storia. A prima vista si direbbe che la relazione che si manifesta attraverso l’ orizzonte sia una forma caratteristica dell’agricoltura moderna: quella che organizza lo spazio nella maniera più efficiente possibile in ottica produttiva. È nota, all’interno del dibattito sull’Antropocene, la proposta di Donna Haraway di porre l’attenzione su una delle forme che manifesta meglio la storicità della relazione con le entità non-umane e con lo spazio, parlando di Plantationocene , dell’ era delle piantagioni . Questa proposta ha riscosso un certo successo: i processi di alienazione, sfruttamento e spoliazione, che storicamente hanno accompagnato questa forma colturale, permettono una connessione tra esperienze eterogenee, caratterizzate tutte dalla razionalità spaziale moderna. Una razionalità che vede lo spazio come astratto e uniforme, la quale interviene secondo la sua rappresentazione. Esempio di semplificazione ecologica, di sfruttamento, di alienazione e dominio, la piantagione ci porta nell’intersezione tra il disciplinamento delle persone e quello delle piante. Non si riesce ad asserire con fermezza se la distesa degli olivi in Puglia sia stata considerata una piantagione. Ciononostante, dall’analisi di alcuni momenti chiave nella territorializzazione degli olivi si comprende dove abbia assunto caratteri peculiari della piantagione e dove no. In particolare, a partire dal Settecento si riscontra l’interesse da parte di alcuni personaggi illustri, illuminati scienziati, nei confronti delle malattie dell’olivo e delle tecniche per incrementare la produzione. Negli stessi anni, Carlo III di Borbone, sovrano illuminato, si fece promotore di una intensificazione della coltivazione di olivo in Puglia, attraverso la riforma fondiaria del 1739. L’olivicoltura si inserisce in un sistema sociale ben polarizzato, che poteva contare sulla manodopera bracciatile come lavoro a basso, bassissimo, costo. Da questo punto di vista, sembra effettivamente che in questo periodo storico si possa parlare di piantagione, esattamente come Haraway la descrive: “La piantagione dipende veramente da intense forme di schiavitù lavorative, includendo anche il lavoro schiavizzato delle macchine, una costruzione di macchine per lo sfruttamento e l’estrazione di terrestri. Penso sia anche importante includere il lavoro forzato dei non-umani – piante, animali e batteri – nel nostro pensiero.” Assistiamo, infatti, anche all’emerge di numerosi patogeni e al tentativo di sventare le minacce che procuravano alla produzione. Eppure, oggi risulterebbe insufficiente parlare di monocoltura, di piantagione, per quanto riguarda la territorializzazione dell’olivicoltura in Puglia. A distanza di quasi tre secoli, la realtà che si osserva manifesta un paesaggio dal carattere “pezzato”. Coltivazioni biologiche di olio di oliva di altissima qualità si alternano a coltivazioni ancora orientate alla vendita di olio per altri fini oltre quello alimentare, fino ad arrivare a campi abbandonati. Vi sono, a maggior ragione, più pratiche che hanno dato forma a questo paesaggio. Molto spesso l’oliveto rimane spoglio per permettere la “ scopatura ” , ovvero la raccolta delle olive da terra, con la scopa. Se invece la raccolta avviene a mano, quando le olive sono più mature, l’erpicatura avverrà solo in specifici momenti dell’anno. Seguendo la forma dell’olivo, il tronco anche manifesta pratiche diverse: si può notare, in alcuni campi, come venga puntualmente tolta l’incrostazione di legno marcio interna al tronco. In altri campi, si nota la presenza di pietre per tenere distanti o indirizzare due branche al fine di allevare una forma ottimale per la raccolta. Infine, ovviamente la chioma, interessata dal sapere antico della potatura. Campi non potati si alternano a campi capitozzati, dove il “capo” dell’albero è stato eliminato. Ogni coltivatore ha una sua specifica sensibilità, anche se vi sono varie forme che vengono allevate con criteri logici precisi, a cui si affiancano le esperienze personali. In Salento, in particolare, queste differenze si possono notare anche tra campi molto vicini. Ogni pratica agricola si porta dietro dei saperi e, nel caso dell’olivo, molto spesso dei prodotti diversi. L’olio, come è noto, è presente in molti ed eterogenei prodotti, e può assumere molte ed eterogenee forme: è stato usato, infatti, nel corso del Settecento, come componente per fare il sapone, oppure come fonte di illuminazione. Con i processi di raffinazione, ha raggiunto capacità trasformative che lo portano ad assumere una sembianza neutra che può essere a sua volta utilizzata in diversi prodotti ancora. Le necessità cambiano le pratiche di riferimento. Il carattere temporale di ognuna di queste forme si nota non solo nel ruolo che l’olivo assume nei ricordi di moltissimi salentini e pugliesi, ma anche nella tipologia delle sue proprietà: anche l’eredità di pochi olivi assume un significato che attribuisce alla relazione con questa pianta un valore indiscusso nell’economia. In alcuni periodi storici sono stati emarginati per privilegiare lo sviluppo di spazi agricoli o di aree urbane, mentre in altri casi sono stati posti al centro di attività agro-silvo-pastorali su cui si sono basati interi sistemi economici di lunga durata. I boschi sono un formidabile strumento per ricerche incentrate sull’ambiente, inteso come configurazione della territorialità, ovvero come forma territoriale della natura ed elemento di base nel processo specificamente umano di costruzione sociale e di rafforzamento della consapevolezza di sé da parte degli individui e delle comunità. Cenni teorici sull’Antropocene Da quando il termine Antropocene è stato proposto da Crutzen e Stoermer, come concetto utile per studiare i cambiamenti avvenuti nelle relazioni tra l’uomo e il pianeta Terra a partire dal XVIII secolo, il suo significato è stato più volte rielaborato. Un primo punto di riferimento è dato da studi che definirebbero l’Antropocene come epoca geologica successiva all’Olocene. Questo porta immediatamente a riflettere sul problema della datazione, ovvero del suo inizio. Sussistono posizioni tra loro molto distanti, che però sono centrali dal punto di vista dello studio dei boschi nell’Antropocene, in quanto NON è possibile negare il fatto che l’uomo abiti e trasformi i boschi fin dall’antichità. Da questo punto di vista, interessante è la posizione di chi pensa che l’Antropocene abbia avuto inizio con la Rivoluzione agricola neolitica. I sostenitori di queste ipotesi dimostrano, attraverso evidenze scientifiche derivate dalle concentrazioni di gas serra in atmosfera, che l’avvio delle attività agricole umane ne abbia gradualmente modificato la concentrazione, segnando di fatto un fortissimo impatto antropico sulle dinamiche chimiche terrestri. Si tratta di una posizione molto interessante, in quanto permette di approcciare lo studio del rapporto tra l’uomo e i boschi non tanto in termini di impatto ambientale, quanto piuttosto di relazioni tra entità naturali che interagiscono biologicamente e culturalmente. Le foreste e l’Antropocene Dieci mila anni fa la Terra era probabilmente in gran parte coperta da una fitta foresta naturale. A partire almeno dalla Rivoluzione neolitica, l’uomo ha avviato un processo di graduale frammentazione delle superfici forestali, che oggi si presentano con una distribuzione irregolare sul pianeta. Questo fenomeno è correlato con il graduale processo di perdita di biodiversità che ha caratterizzato tutto l’Olocene. A partire dalla Rivoluzione industriale, l’uomo ha aumentato la propria necessità di spazi per attività economiche e abitative, in linea con l’aumento della popolazione e l’allargamento alla scala globale delle attività economiche. La deforestazione NON ha avuto la medesima intensità in tutte le regioni del pianeta: infatti, dalla preistoria ad oggi, le perdite maggiori hanno riguardato le foreste delle fasce temperate, seguite dalle foreste sub-tropicali. Attualmente ci troviamo in una fase molto particolare, in quanto di fronte ad una perdita dell’1% delle foreste presenti sulla superficie terrestre tra il 1990 e il 2015. Si nota un graduale rallentamento nel tasso di riduzione, dovuto soprattutto a processi di riforestazione in alcune regioni, che sono stati particolarmente intensi soprattutto tra il 1990 e il 2010. Nonostante questo rallentamento negli ultimi anni, si registra comunque una perdita importante del patrimonio forestale globale, che riguarda soprattutto le foreste primarie. La rinascita delle foreste ha numerose cause, che trovano specifiche declinazioni nei diversi contesti regionali, in relazione con fattori di natura politica, economica, sociale e culturale. A livello generale, si possono individuare alcune cause principali: è stata resa possibile la crescita e la messa a dimora di nuovo legname perché le vecchie foreste erano state rimosse, gli incendi boschivi sono stati maggiormente controllati, i terreni agricoli sono stati abbandonati e riportati alla foresta e la domanda di legname e di prodotti derivati dal legname è diminuita. La transizione in atto in alcune regioni compensa in parte la generale perdita di foreste e contribuisce a mantenere una sorta di equilibrio; tuttavia, pone anche una serie di problematiche dal punto di vista ambientale. Le nuove foreste, derivanti dall’abbandono dell’agricoltura, non hanno infatti la medesima forza di quelle originarie, i nuovi ecosistemi impiegheranno molto tempo per raggiungere una condizione di stabilità interna tale da consentire loro di superare momenti critici quali incendi o siccità. Al contrario di quanto si potrebbe pensare, le attività agricole tradizionali hanno contribuito per molto tempo a preservare i boschi e le foreste, che erano parte integrante dei sistemi rurali su cui è basato il sostentamento delle comunità umane per gran parte della loro storia. A lungo gli uomini hanno, quindi, deforestato, ma hanno anche interagito in maniera costruttiva con gli ecosistemi forestali. Il risultato è che in molti casi, oggi, boschi e foreste necessitano dell’intervento umano per sopravvivere in buone condizioni: si è creata una sinergia. In questi contesti l’abbandono porta al degrado ed espone le foreste a un maggiore rischio di distruzione. Le foreste pluviali di latifoglie tropicali e subtropicali: l’Amazzonia nell’Antropocene L’Amazzonia è stata a lungo descritta come una sorta di paradiso terrestre, uno dei pochi luoghi sulla Terra nei quali la natura regna incontrastata, da sempre libera dalla mano dell’uomo . Si tratta di un approccio definibile come coloniale, che produce una narrazione basata sul concetto di wilderness, come strumento per sminuire il ruolo svolto dall’uomo nella regione amazzonica. Numerose evidenze di carattere antropologico, archeologico, geologico ed ecologico dimostrano che il suolo amazzonico ha subito importanti modificazioni a causa dell’attività umana fin dall’epoca preistorica, e che la foresta amazzonica ha prosperato per gran parte della storia umana. Lo straordinario sistema ecologico scoperto dai colonizzatori europei non era, quindi, il residuo di un mondo primitivo, al contrario era la prova del fatto che l’uomo può modificare l’ambiente senza distruggerlo. Sulla base di molte prove scientifiche, l’Amazzonia può a tutti gli effetti essere descritta come una foresta antropizzata. L’Amazzonia non è un’unica foresta, bensì l’insieme di molte foreste che presentano numerose differenziazioni regionali; tuttavia, vi sono alcuni elementi di fondo che le rendono tutte simili tra loro a causa della dominanza di un piccolo gruppo di specie vegetali, la maggior parte delle quali devono il ruolo all’interazione con gli uomini. Queste piante sono una risorsa durabile derivante dall’interazione tra uomo e natura, funzionale sia al mantenimento degli ecosistemi, sia dei sistemi economici. L’impatto dell’ attività coloniale predatoria è stato devastante , perché ha sottratto alla foresta il fondamentale sapere delle popolazioni locali, generando uno squilibrio che oggi sta causando danni molto gravi ai singoli ecosistemi e più in generale all’intero sistema amazzonico. Le foreste di latifoglie e le foreste miste temperate: i boschi europei nell’Antropocene Concentrando l’attenzione sulle foreste temperate, si ha l’occasione di ragionare su regimi che nell’Olocene hanno conosciuto processi di deforestazione massiccia, ma che, al contrario, negli ultimi anni stanno attraversando una fase di riforestazione. Con riferimento all’Europa, i forti tassi di urbanizzazione raggiunti a seguito della conclusione della transizione demografica e della terziarizzazione dell’economia hanno portato all’abbandono di molte regioni montuose e collinari, che in passato sono state sfruttate fortemente per scopi agro- silvo-pastorali. Nel caso in cui si prendesse in considerazione un ecosistema forestale sviluppatosi in condizioni naturali, senza l’influenza di attività antropiche, si parlerebbe di foresta vergine. Una delle più importanti foreste vergini (o quasi) d’Europa è la foresta di Perućica in Bosnia ed Erzegovina. Le foreste vergini non vanno confuse con le foreste naturali, le quali in passato hanno risentito di attività antropiche, ma da tempo sono soggette a un regime che esclude interventi dell’uomo e perciò presentano strutture e composizioni assai vicine a quelle delle foreste indisturbate. Pare evidente che in Europa, nella quasi totalità dei casi, piuttosto che di foreste vergini, sarebbe corretto parlare di foreste naturali, che godono cioè di condizioni di buona naturalità, avendo avuto la possibilità di evolversi per decenni (o secoli) in assenza di intervento antropico. Ibridazioni: il bosco come elemento del territorio Questa riduzione estrema di biodiversità produttiva rende fragili sia le aree di produzione, oggi ridotte a monocolture industriali, sia i mercati di arrivo, di fronte ad esempio all’eventualità (reale) di malattie che possano attaccare una specifica varietà di frutto, la cui economia produttiva sarebbe quasi completamente affossata. Una delle principali specie animali, simbolo dell’impatto dei sistemi del cibo umani sulla biosfera, è il pollo, allevato come fonte principale di proteine per gran parte degli abitanti sulla Terra. Oggi la popolazione di quest’uccello è superiore a quella di qualunque altra specie di volatili selvatici e domestici. L’impatto del sistema alimentare globale sulla biosfera si è spinto tanto in profondità da modificare la stessa struttura costitutiva di alcune specie animali e vegetali, ovvero il loro DNA. Nonostante in Europa la comunità scientifica e l’opinione pubblica siano ancora divisi sugli effetti degli OGM sulla salute umana e sull’ambiente, e il loro utilizzo sia fortemente limitato, le filiere agroindustriali globali e i mercati nordamericani sono ampiamente occupati da prodotti geneticamente modificati. Cibo, capitalismo e Antropocene: una lettura critica In origine, nonostante esempi localizzati di sovrasfruttamento delle risorse, l’umanità ha prodotto cibo senza che si manifestasse il rischio globale di superare i limiti planetari della sostenibilità. Gli equilibri si sono radicalmente modificati a partire dall’enorme aumento dell’utilizzo di combustibili fossili connesso la Rivoluzione industriale, ma soprattutto con l’impressionante incremento della forza e dell’intensità degli impianti antropici sull’ambiente, a partire dal secondo dopoguerra, a partire dagli anni Cinquanta, che ha preso il nome di “Grande Accelerazione”. Un’analoga accelerazione è riconosciuta dalle scienze economiche sociali anche ai sistemi di produzione e distribuzione di cibo, che a partire dal secondo dopoguerra sono trasformati in maniera radicale dalla diffusione globale di un approccio produttivista e dall’industrializzazione dei sistemi produttivi. Il sociologo statunitense Philip McMichael riconosce in questa trasformazione l’inizio di un nuovo “regime del cibo”, evolutosi verso la globalizzazione commerciale e produttiva nei decenni successivi. I sistemi del cibo contemporanei sono caratterizzati da geografie diseguali, con alcune regioni pienamente inserite nelle dinamiche globalizzate di produzione intensiva agro-industriale, altre maggiormente caratterizzate da sistemi produttivi di piccola scala più rispettosi degli equilibri locali. Soprattutto, però, essi sono caratterizzati dalla coesistenza, anche negli stessi territori, di paradigmi produttivi di consumo diversi, talvolta in competizione tra loro, e contribuiscono a definire l’articolata rete multiscalare di reti del cibo. Se è vero che l’uomo come specie sta trasformando la Terra come nessuna specie aveva mai fatto prima d’ora, è altrettanto vero che non tutti i sistemi sociali e non tutti i modelli economici impattano sull’ambiente allo stesso modo. Alla radice della “grande accelerazione“ della seconda metà del Novecento c’è l’affermazione dell’economia industriale e finanziari a di stampo capitalista e della concezione utilitaristica delle risorse ambientali che essa veicola . Anche la produzione, la trasformazione, la distribuzione e il consumo di cibo veicolano la relazione con la natura descritta come base delle trasformazioni dell’Antropocene, quando queste si fondano sulle logiche delle economie capitaliste globalizzate, caratterizzate dalla concentrazione del potere nelle mani di pochi attori economici, da catene del lavoro lunghe, da una netta separazione tra produttori e consumatori e da un approccio predatorio nei confronti delle risorse ambientali. L’economia di piantagione è uno degli esempi più lampanti. Come si mangia nell’Antropocene? Il tema dell’accesso al cibo da parte di tutti gli abitanti della Terra è da decenni parte delle politiche internazionali del dibattito scientifico, che l’hanno veicolato attraverso concetti come quelli di sicurezza alimentare e diritto al cibo e attraverso politiche che nei fatti hanno riprodotto e amplificato il sistema produttivo insostenibile alla base delle disuguaglianze globali. Il dibattito critico più recente ha individuato in queste disuguaglianze un elemento strutturale del sistema agroindustriale capitalistico, che si fonda su relazioni di dipendenza tra territori e su geografie del cibo fortemente diseguali. A partire da questa consapevolezza, si sono sviluppate proposte e riflessioni finalizzate a ipotizzare e praticare sistemi produttivi radicalmente alternativi a quello dominante, fondati sulla sovranità alimentare o sul cibo come bene comune. CAPITOLO 11 – Perché un Museo delle Tecnologie dell’Antropocene? Perché un museo? Il Museo delle Tecnologie dell’Antropocene è una collezione costruita per indagare l’Antropocene attraverso oggetti e abbinamenti inconsueti ma non casuali: il tentativo di riflettere sulla forza smisurata esercitata oggi dall’uomo sulla natura. In un museo, o anche nel catalogo di un museo, inizialmente c’è disordine che, tramite allestimenti e riallestimenti, può cristallizzarsi in schemi e strutture che portano a una migliore comprensione delle cose. Il museo come strumento per pensare, quindi, in cui gli oggetti sono le parole e le mezze frasi. In cui gli oggetti possono essere facilmente allestiti e riallestiti. L’Antropocene Siamo nell’Antropocene: un’epoca in cui, secondo le osservazioni e i calcoli degli scienziati, l’agire dell’uomo sulla Terra ha una forza pari a quella dei cataclismi naturali della preistoria. Modifichiamo drasticamente la superficie della Terra, siamo la causa dei cambiamenti climatici e facciamo scomparire piante e animali a un ritmo pari a quello delle grandi estinzioni di massa. Siamo noi il cataclisma. Ma non finisce qui: il sistema Terra sta rispondendo, in quanto funziona tramite cicli e processi di “feedback”. Risponde all’inquinamento con l’effetto serra, con la fusione dei ghiacciai e calotte polari, con siccità e alluvioni che possono aumentare o ridurre l’inquinamento iniziale. La storia dell’uomo si intreccia con la storia della Terra. Dentro il sistema Terra, il “sistema uomo” è uno dei feedback: risponde alle crisi con conflitti tra popolazioni ma anche con interventi virtuosi. L’Antropocene non è soltanto una nuova epoca geologica, ma è anche una NUOVA EPOCA CULTURALE. La rivoluzione che si è innescata con le crisi ecologiche e sociali, e che riguarda il rapporto uomo/natura, coincide con la rivoluzione dell’intelligenza artificiale. Il Museo delle Tecnologie dell’Antropocene (MAT) Il Museo cerca di sistematizzare e ricomporre il sapere, per cui di ciascun oggetto si presenta e si presenterà la storia e la descrizione. Il MAT prova a descrivere per rendere visibile la cosa intorno all’oggetto, cioè le relazioni invisibili tra natura e cultura che lo rendono una chiave concettuale per comprendere l’Antropocene.
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