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Riassunto del manuale "Geografia Umana" per sostenere l'esame di Geografia Umana (p), Appunti di Geografia

Una panoramica sulla Geografia Umana, una disciplina che si occupa dello spazio terrestre e dei rapporti spaziali tra gli esseri umani. Vengono descritte le differenze tra geografia fisica e geografia umana, i concetti geografici essenziali e i modi in cui si può valutare lo spazio che ci circonda. utile per comprendere il mondo in cui viviamo e le vicende che riguardano i popoli e i paesi diversi dal nostro.

Tipologia: Appunti

2020/2021

In vendita dal 02/01/2023

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giovanni-pasquali 🇮🇹

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Scarica Riassunto del manuale "Geografia Umana" per sostenere l'esame di Geografia Umana (p) e più Appunti in PDF di Geografia solo su Docsity! Geografia Umana CAPITOLO 1 – Introduzione: alcune nozioni di base La geografia è considerata la scienza dello spazio, una disciplina che si basa sull’utilizzo dello spazio terrestre. La geografia è la descrizione della Terra, nonché la consapevolezza dell’ubicazione delle cose, dei loro rapporti spaziali. Noi viviamo la vita quotidiana dentro uno spazio geografico definito. La geografia concerne lo spazio, e ciò che in esso agisce. Geografia fisica e geografia umana La geografia fisica si interessa di forme fisiche della Terra e della loro distribuzione, di clima, vegetazione e atmosfera. La geografia umana si occupa del mondo di com’è e come potrebbe essere, l’ambito specifico è quello degli esseri umani. Il contenuto della geografia umana permette di integrare tutte le scienze sociali con i suoi sottosettori: geografia politica, economica, culturale, sociale, ecc. La geografia umana ci aiuta a capire il mondo in cui viviamo e le vicende che riguardano i popoli e i paesi diversi dal nostro. Per non parlare del fatto che chiarisce i contrasti tra società e culture. La conoscenza della geografia umana serve per essere dei cittadini meglio informati, capaci di capire le questioni delle comunità e per avere una visione più chiara dei sistemi economici, sociali e politici. Concetti geografici essenziali Per il geografo, lo spazio può essere inteso in senso sia assoluto che relativo. Lo spazio assoluto NON dipende dalla natura dei fenomeni. È utile per fenomeni umani propri delle civiltà preindustriali. Lo spazio relativo varia la sua funzionalità in base ai fenomeni operanti dal punto di vista scientifico. È un prodotto sociale, dipendente dalle attività e dalle interrelazioni tra di esse. Lo spazio relativo muta nel tempo. Alcuni studiosi lo considerano insufficiente; quindi, chiamano in supporto lo spazio relazionale, che è malleabile e dipende dalla natura. Di seguito alcune proposizioni tradizionalmente connesse con il concetto di spazio: 1. I luoghi hanno un’ubicazione, una direzione e una distanza in relazione ad altri luoghi 2. Un luogo ha una dimensione: può essere grande o piccolo. La scala è importante. 3. Un luogo possiede sia una struttura fisica che culturale 4. Le caratteristiche dei luoghi si sviluppano e variano nel tempo 5. Gli elementi di un luogo sono in correlazione con altri luoghi 6. Il contenuto dei luoghi è strutturato e spiegabile 7. I luoghi possono essere raggruppati in unità definibili regioni, in base alle loro somiglianze e differenze. Ubicazione, direzione e distanza L'ubicazione, la direzione e la distanza rappresentano i modi in cui comunemente si può valutare lo spazio che ci circonda. L’ubicazione dei luoghi è il punto di partenza del nostro personale movimento, nonché l’azione all’interno dello spazio della vita quotidiana. Essa si suddivide in ubicazione assoluta e ubicazione relativa. L’ubicazione assoluta consente l’identificazione del luogo sulla base di un sistema preciso e riconosciuto di coordinate: per questo motivo, l’ubicazione assoluta viene definita anche matematica. È possibile descrivere precisamente l’ubicazione assoluta attraverso il reticolo geografico di meridiani (arco immaginario che congiunge il Polo Nord terrestre con il Polo Sud terrestre) e paralleli (circonferenze immaginarie ottenute dall'intersezione tra la superficie terrestre e piani perpendicolari all'asse di rotazione terrestre), in qualsiasi punto in termini di: gradi, minuti e secondi, longitudine (distanza di un punto dal meridiano di Greenwich, misurata in gradi e frazioni di grado sull’arco di parallelo compreso tra quel punto e il meridiano di Greenwich) e latitudine (distanza di un punto dall’Equatore, misurata in gradi e in frazioni di grado sull’arco di meridiano compreso tra quel punto e l’Equatore). A volte vengono utilizzati altri sistemi di coordinate, per esempio il sistema UTM (Universal Transverse Mercator coordinate system), il quale trova vasto impiego nelle applicazioni del sistema informativo geografico e nel sistema militare di riferimento su reticolo chilometrico. Assume valore nella descrizione dei luoghi e nella misurazione della distanza che separa gli stessi, oppure nella ricerca delle direzioni tra luoghi sulle superfici terrestri. L’ubicazione relativa è la posizione di un luogo in relazione a quella di altri luoghi o attività. L’ubicazione relativa esprime l’interconnessione e l’interdipendenza spaziale e può avere implicazioni sociali (caratterizzazione del quartiere) ed economiche (valutazione del suolo disponibile per utilizzazioni). Su scala più ampia, l’ubicazione relativa ci dice che gli individui, le cose e luoghi esistono in un mondo di caratteristiche fisiche e culturali diverse, a seconda del luogo. Tuttavia, si ottiene una visione migliore della sua ubicazione, se si fa riferimento alle relazioni spaziali. La direzione è il secondo concetto spaziale universalmente noto e utilizzato. Sussiste una direzione assoluta, che si basa sui punti cardinali. Essi appaiono in modo uniforme e indipendente in tutte le culture, essendo derivati dai fatti della natura: il sorgere e il tramontare del sole per l’est e l’ovest, la posizione nel cielo del sole a mezzogiorno e di alcune stelle fisse per il Nord e il sud. La distanza associa l’ubicazione e la direzione in un concetto di uso comune che, tuttavia, per i geografi assume un doppio significato assoluto e relativo . La disposizione degli elementi sulla superficie terrestre prende il nome di distribuzione spaziale e può essere analizzata sulla base degli aspetti comuni a tutte le distribuzioni: densità, dispersione e modello di distribuzione. La densità è la misura del numero o della quantità di qualsivoglia elemento all’interno di una determinata unità areale. Dunque, è un computo di elementi in relazione allo spazio nel quale si trovano. Quando la relazione è assoluta, come nel caso della popolazione o delle unità abitative per chilometro quadrato, si parla di densità numerica. La densità fisiologica è la misura del numero di persone per unità di superficie di terreno coltivabile. La dispersione (o, al suo opposto, la concentrazione) rappresenta la diffusione di un fenomeno su un’area. Essa non dà informazioni sul numero di elementi, ma su quanto distanti essi siano. Se gli elementi sono vicini, si dice accentrati; se, invece, sono lontani, dispersi. Se l’intera popolazione di un comune urbano si concentrasse dentro i confini della città compatta, si potrebbe dire che la popolazione è accentrata. Se, invece, abitasse distribuita nelle periferie, e dunque, occupando più territorio del comune stesso, si direbbe dispersa. In entrambi i casi, la densità della popolazione (ossia il numero di abitanti in relazione all’area del comune) sarebbe la stessa, ma la distribuzione cambierebbe. La dispersione riguarda la distanza degli elementi l’uno dall’altro. La distribuzione geometrica degli oggetti nello spazio assume il nome di modello di distribuzione. Come la dispersione anche il modello di distribuzione fa riferimento alla presenza nello spazio ponendo, tuttavia, l’accento sulla disposizione degli elementi piuttosto che sulla distanza tra di essi. Distribuzione lineare: Quando la distribuzione delle città si calcola lungo una ferrovia, vicino alla quale ci sono delle case. Modello accentrato: Quando gli elementi sono concentrati attorno a un unico nodo. Modello casuale: Distribuzione irregolare non strutturata. Il sistema di centuriazione: è il sistema a scacchiera. Si tratta del sistema con il quale si organizzava il territorio agricolo nelle regioni acquistate ex novo nella Roma repubblicana. La somiglianza fra i luoghi e il concetto di regioni Le caratteristiche distintive dei luoghi in termini di contenuto e di struttura suggeriscono due concetti chiavi dal punto di vista geografico. Il primo è che sulla superficie terrestre NON possono esistere due luoghi esattamente identici, sia per quanto riguarda la cultura che la forma fisica del paese. Il secondo, invece, rappresenta un contenuto fisico e culturale di un’area geografica, mentre le interconnessioni dinamiche fra individui e luoghi evidenziano somiglianze spaziali . Per esempio, un geografo che effettua una ricerca sul campo in Francia, potrebbe riscontrare che i contadini di una determinata zona utilizzino lo stesso metodo per costruire una recinzione. Questo ci aiuta a capire che esistono delle regolarità spaziali che ci permettano di definire le regioni. Le regioni sono zone della Terra che mostrano elementi significativi di uniformità interna, nonché di differenza esterna rispetto a i territori circostanti . Il concetto di regione è utile per mettere ordine nell’immensa varietà della superficie terrestre. Sussistono diversi tipi di regione, tutti artificiali: possono essere formali, funzionali o percettive. La regione formale è caratterizzata da uniformità di una o di un certo numero di caratteristiche fisiche e culturali, oppure politiche. La regione è una regione politica formale precisamente delimitata, all’interno della quale vigono leggi e un’amministrazione. La regione funzionale, al contrario, può essere visualizzata come un sistema spaziale. L e sue parti sono interdipendenti per tutta la sua estensione. Essa presenta un’area centrale nella quale le sue caratteristiche peculiari si manifestano più chiaramente, al fine di perdere rilevanza man mano che ci si sposta verso i margini o la periferia. Le regioni percettive sono meno rigorosamente strutturate rispetto alle regioni formali e funzionali. Dato che riflettono sensazioni e immagini, esse possono risultare più significative nella vita e nelle azioni di coloro che le individuano, rispetto alle più astratte regioni ideate dai geografi. Le aree locali che si individuano esistono nelle loro menti, e si riflettono nei nomi di carattere regionale, utilizzati ad esempio negli scambi commerciali. Mantengono il loro legame con esso e interpretano il loro mondo. CAPITOLO 2 – Interazione spaziale e comportamento spaziale L’interazione spaziale indica il movimento di popoli, idee e prodotti all’interno delle aree geografiche e fra di esse. Tali movimenti e scambi sono finalizzati a raggiungere un’efficace integrazione fra diversi punti di attività umana. Un movimento soddisfa un bisogno, rappresenta il tentativo di rendere più agevole la disponibilità di risorse, prodotti e informazioni. Qualunque sia lo scopo particolare, si crea un compromesso che bilancia il vantaggio dell'interazione con i costi sostenuti per superare la separazione spaziale. Le basi dell’interazione Sussiste una serie di principi di regolamentazione che governano l’interazione spaziale. Un modello riassuntivo Il geografo Edward Ullman indagò sulle condizioni essenziali che influenzano tali interazioni e propose un modello esplicativo. Osservò che l’interazione spaziale è governata da tre fattori che determinano il flusso, che egli chiamò complementarità, trasferibilità e opportunità interposta. Sebbene il modello di Ullman faccia riferimento ai flussi di beni, esso trova applicazione anche nei trasferimenti di informazione. Perché due luoghi interagiscano, l'uno deve avere ciò che l'altro desidera ed è in grado di ottenere; inoltre, un luogo deve poter offrire un prodotto per il quale c'è una domanda effettiva nell'altro luogo, la quale è indicata dal desiderio di quel prodotto, dal potere di acquisto per assicurarselo e dei mezzi per trasportarlo. Il termine che descrive questa condizione è complementarità. L'offerta e il mercato devono andare di pari passo. Vi sono modelli fortemente generalizzati di complementarità che stanno alla base degli scambi delle materie prime e dei prodotti agricoli di paesi meno sviluppati, in cambio di denaro o dei prodotti industriali dei paesi sviluppati. Anche quando esiste complementarità, l'interazione spaziale si verifica soltanto quando vengono soddisfatte le condizioni di trasferibilità, ossia quando i costi di uno scambio risultino accettabili. Il movimento nello spazio non risponde tanto alla disponibilità e alla domanda, quanto a considerazioni circa i tempi e i costi. La trasferibilità varia in funzione di tre condizioni: 1) le caratteristiche e il valore del prodotto; 2) la distanza, misurata in termini di incidenza di tempo e denaro, lungo la quale deve essere spostato; 3) la capacità del bene di reggere i costi di trasporto. La mobilità, quindi, è anche una questione economica. La trasferibilità NON è una condizione costante, poiché varia a seconda del luogo e del tempo, in rapporto a ciò che deve essere trasferita all'evoluzione dei mezzi di trasporto. Nel caso in cui quest’ultimi siano poco sviluppati e molto dispendiosi, possono inibire gli scambi, anche a breve distanza, tra commercianti pur totalmente ben disposti. La complementarità può risultare efficace soltanto se mancano fonti alternative di offerta e di domanda, più attraenti, che siano più a portata di mano o meno costose. Le opportunità interposte servono a ridurre le interazioni fra offerta e domanda che, altrimenti, potrebbero svilupparsi tra aree distanti. Quindi, quando è possibile, si cercano mercati e destinazioni a portata di mano. La misura dell’interazione L’interazione tra luoghi, di qualsiasi natura essa sia, non è descritta in modo eloquente dal movimento di un singolo bene, dalle abitudini di un singolo pendolare: questi sono eventi unici. Si ricercano, al contrario, i principi generali che governano la frequenza e l’intensità dell’interazione. Ovunque, la vita e l'attività degli individui sono influenzate dall'attrito della distanza. Quest'ultima ha un effetto ritardante sull'interazione dell'uomo, in quanto incide sia in termini di tempo che di costo. La nostra esperienza comune dimostra che la maggior parte delle interazioni si verificano su brevi distanze. L’interscambio diminuisce, infatti, all’aumentare della distanza, conseguenza del fatto che i costi di trasferibilità aumentano all’aumentare della distanza. Lo studio di tutte le modalità di interconnessione spaziale è giunto alla conclusione che l'interazione tra luoghi è inversamente proporzionale al quadrato della distanza che li separa. Tale rigido rapporto di proporzionalità inversa al quadrato è ampiamente documentato nelle scienze fisiche. Più in generale, l'effetto decrescente della distanza descrive il calo di un'attività o di una funzione all'aumentare della distanza dal suo punto di origine. Sussiste, poi, un’aspettativa di opportunità che si associa al luogo più grande piuttosto che a quello più piccolo. Tale aspettativa si riassume in un altro modello di interazione spaziale, il modello gravitazionale. Si presti attenzione all’economista Carey, il quale si è interessato, negli Le distanze critiche, anche nell'ambito della stessa attività, sono diverse per ciascun individuo. Le variabili dello stadio della vita, della mobilità e dell'opportunità, insieme agli interessi e alle esigenze di un individuo, contribuiscono a definire quanto spesso e quanto lontano una persona si sposterà. L'accumulo di informazioni circa le opportunità e i vantaggi dell'interazione spaziale aiutano ad aumentare e motivare le decisioni di spostamento. Nel caso dei flussi informativi, però, lo spazio assume un significato diverso rispetto a quello della movimentazione delle merci. Infatti, nelle moderne telecomunicazioni, il processo del flusso di informazioni è istantaneo, indipendente dalla distanza. I flussi di informazione significativi dal punto di vista spaziale sono di due tipi: gli scambi individuali (da persona a persona) e la comunicazione di massa (dalla fonte all’area geografica). Sussiste un'ulteriore suddivisione in interscambio formale e informale: nel primo caso, vi è necessità di un canale interposto per trasmettere i messaggi, come la radio, la stampa, il servizio postale, il telefono; la comunicazione informale, invece, non necessita di alcuno di tali veicoli di messaggi istituzionalizzati. I contatti e gli scambi tra individui e all'interno di piccoli gruppi tendono ad aumentare man mano che aumenta la complessità dell'organizzazione sociale: crescono le dimensioni e l'importanza del centro demografico. Ciascun individuo sviluppa un campo delle comunicazioni personali, le cui dimensioni e la cui forma sono definite dai contatti dell'individuo nel lavoro, nel tempo libero, o in altre attività ordinarie. Ciascuno scambio interpersonale costituisce un legame nel campo delle comunicazioni personali dell’individuo. La comunicazione di massa è la trasmissione ufficiale strutturata di informazioni in un flusso essenzialmente univoco tra singoli punti di origine. Nella comunicazione di massa vi sono pochi emittenti e molti destinatari. I mass media sono per loro natura “pervasivi”. L’informazione e la percezione Gli individui, nelle loro faccende quotidiane, agiscono in spazi di attività determinati dalla fase della loro vita, dalla mobilità e da una serie di caratteristiche socioeconomiche. In ogni situazione di interazione spaziale, però, le decisioni si basano sulle informazioni relative all'opportunità o alla praticabilità dei movimenti, degli scambi, del soddisfacimento dei bisogni. Più precisamente, le azioni e le decisioni si basano sulla percezione del luogo, ossia sulla consapevolezza che si ha, in quanto individui, dei luoghi e delle convinzioni su questi stessi. La percezione del luogo fa sì che si avvertano le caratteristiche naturali e culturali di un'area e la sua struttura di opportunità. Ciò che più conta è la nostra percezione, perché le decisioni degli individui, circa l’uso da fare della propria vita e circa le proprie azioni nello spazio, non si fondano necessariamente sulla realtà, ma su come essi concepiscono e considerano la realtà. Le nostre percezioni in merito a luoghi più lontani si formano in modo meno diretto. Al contrario, le informazioni trasmesse in maniera più efficace sembrano quelle trasmesse per via diretta, cosicché si definiscano linee di contatto con aree geografiche relativamente sconosciute. Esistono, però, delle barriere al flusso di informazioni. Per questo, è meglio fruire di nostri contatti con persone vicine, perché fruttano più informazioni di quante ne riceviamo da lontano. Le barriere al flusso di informazioni originano quelli che si definiscono fattori della direzione. Quando le informazioni su un luogo sono sommarie, si creano immagini confuse, le quali influenzano la nostra impressione (percezione) dei luoghi. Si tratta di immagini che non vanno sottovalutate: ciò dimostrato dal fatto che assumiamo molte decisioni importanti in base a informazioni incomplete o resoconti imprecisi. Alla consapevolezza dei luoghi si accompagnano delle opinioni sugli stessi, ma non esiste necessariamente una connessione. In generale, quanto più un luogo è familiare, tanto più fondate saranno le basi dell'immagine mentale che di esso si hanno. Da varie indagini condotte emergono delle costanti: i luoghi vicini sono preferiti rispetto a quelli lontani, a meno di non possedere molte informazioni riguardo questi ultimi; favoriti sono i luoghi con tenori di vita elevati; gli individui tendono ad essere indifferenti a un ambiente fisico percepito come sgradevole. Una cosa meno certa è la considerazione dell’impatto negativo dei rischi naturali. Questi sono processi o eventi nell'ambiente fisico che non sono causati dagli esseri umani, ma possono avere conseguenze dannose su di essi. Ciononostante, ci sono molte ragioni per cui un pericolo naturale non scoraggia l’insediamento, oppure non incide negativamente sulle decisioni spazio- comportamentali. Gli individui sono influenzati dal loro innato ottimismo. Se non hanno subito molti danni nel passato, questi possono essere ottimisti riguardo al futuro; se, invece, i danni passati sono stati notevoli, essi possono essere indotti a pensare che la probabilità di ripetizione nel futuro sia bassa. In sostanza, l'area geografica di origine, qualunque siano gli svantaggi che un osservatore esterno può individuare, esercita una forza non facile da rimuovere o ignorare. La migrazione La migrazione – lo spostamento, permanente o a lungo termine, dal luogo di residenza e dallo spazio di attività – è stata uno dei temi durevoli della storia umana. Essa ha contribuito all'evoluzione di culture lontane, alla loro diffusione e a quella dei loro elementi attraverso l'interscambio e la comunicazione, nonché alla mescolanza di popoli nelle varie aree del mondo. Negli ultimi decenni, massicci movimenti di individui sono divenuti un pressante elemento di preoccupazione, poiché incidono nelle strutture economiche nazionali, determinano la densità di popolazione e i modelli di distribuzione, modificano le tradizionali mescolanze etniche, linguistiche e religiose, infiammano i dibattiti nazionali e le tensioni internazionali. Nella migrazione convergono tutti i principi dell'interazione spaziale e delle relazioni spaziali: complementarità, trasferibilità, opportunità e barriere interposte. L'informazione e la percezione spaziali sono importanti, come i rapporti di distanza tra le ubicazioni dei migranti, intese quelle di insediamento originarie e quelle future. In termini meno astratti, le decisioni di migrazione di massa e individuali possono essere l'espressione di reazioni pratiche alla povertà, alla rapida crescita demografica, al deterioramento ambientale (i cosiddetti “profughi ambientali”) o ai conflitti internazionali e alle guerre civili. I principali modelli di migrazione I flussi migratori possono essere analizzati su diverse scale. A ciascun livello variano i fattori di motivazione, i quali influenzano l'interazione spaziale con impatti diversi sui modelli di popolazione e sui paesaggi culturali. Sulla scala più ampia i movimenti intercontinentali vanno dai primissimi del mondo ai più recenti esodi dei profughi. Invece, le migrazioni intracontinentali e interregionali comportano movimenti tra paesi e all'interno degli stessi, perlopiù in risposta a valutazioni, individuali e di gruppo, di prospettive economiche migliori; ma spesso tali migrazioni sono una forma di mera fuga. Nel XX secolo, quasi tutti i paesi assistettero a un cospicuo movimento di individui dalle zone agricole alle città, movimento che perpetuava un modello migratorio dalla campagna alla città che era cominciato con una certa intensità durante il XVIII secolo. La privazione di terra e la fame, come pure la perdita di coesione sociale causata dalla crescente competizione per le risorse in diminuzione, determinano una spinta migratoria verso le città. Ne consegue che, mentre nei paesi più sviluppati il tasso di crescita urbana è in diminuzione, l'urbanizzazione nel mondo in via di sviluppo continua rapidamente. I tipi di migrazione Le migrazioni possono essere rilocalizzazioni forzate o volontarie oppure, in molti casi, imposte ai migranti dalle circostanze. Nelle migrazioni forzate, a prendere la decisione del trasferimento sono esclusivamente individui diversi dai migranti stessi. Dalla fine del XVI secolo all'inizio del XIX, gli africani trasferiti con la forza come schiavi nell'emisfero occidentale furono probabilmente da 10 a 12 milioni. Quando una migrazione non è completamente volontaria, si parla di una rilocalizzazione indotta. In passato, i profughi hanno cercato asilo soprattutto in Europa e in altre aree sviluppate. Recentemente, la maggior parte dei migranti internazionali è stata assorbita dai paesi sviluppati. Infatti, vi è stato un aumento degli spostamenti all'interno dei paesi sviluppati; inoltre, alcuni paesi tra i più poveri al mondo ospitano una parte considerevole della popolazione rifugiata. La grande maggioranza dei movimenti migratori, però, è volontaria: rappresenta la risposta individuale ai fattori che influenzano tutte le decisioni di interazione spaziale. Fondamentalmente, le migrazioni hanno luogo perché i migranti ritengono che le loro opportunità e condizioni di vita saranno migliori nella loro meta rispetto a quanto lo siano nella loro ubicazione di partenza. La povertà rappresenta il maggiore incentivo. Sono queste motivazioni a spingere molti dei flussi internazionali di migranti, le cui condizioni economiche nella loro patria sono talmente intollerabili che, per cercare impiego, rischiano la vita in esodi su barche e gommoni. I fattori che determinano la migrazione La geografia della popolazione fornisce gli strumenti e i concetti di base per analizzare fattori quali l’ampiezza della popolazione, la distribuzione degli individui in base all’età e al sesso che, insieme alla fertilità, alla mortalità, alle intensità abitativa e al tasso di crescita, sono influenzati profondamente dall’organizzazione sociale, politica ed economica di una società. La crescita demografica All’inizio del 2019 la popolazione mondiale ha raggiunto i 7,7 miliardi di individui. Nel 1995 essa ne contava circa 6 miliardi: ciò significa che, nell’intervallo di 24 anni fra le due date, la popolazione mondiale è cresciuta più di 70,8 milioni di individui all’anno, ovvero all’incirca 194.000 al giorno. Le nuove previsioni annunciano che, alla fine del secolo, il numero totale degli individui sarà compreso fra gli 8 e i 9 miliardi. Alcuni sostengono che, nonostante l’attuale ampiezza della popolazione o anche quella ragionevolmente prevedibile per il futuro, la capacità di sfruttamento delle risorse di adattamento degli esseri umani NON verrà MAI messa a dura prova. Altri, invece, dichiarano che la Terra non sarà mai in grado di sostenere tutti, considerato l’aumento. Essi sottolineano i diversi problemi di malnutrizione e inedia. Inoltre, citano i problemi ambientali e l’imminente esaurimento delle risorse naturali. Alcune definizioni in ambito demografico - Tasso di natalità: Il numero dei bambini nati in un anno. Si definisce “ generico ” in quanto collega le nascite alla popolazione totale, senza considerare la composizione per età o per sesso della popolazione in questione. Un paese che registra una popolazione di 2 milioni di abitanti e 40.000 di nascita all’anno avrà un tasso generico di natalità del 20%. 40.000/2 000 000 = 20/ 1000 = 20% Il tasso di natalità di un paese è fortemente influenzato dalla struttura per età e per sesso della sua popolazione, dalla dimensione della famiglia ritenut a ideale e dalle politiche adottate a livello statale. I tassi di natalità inferiori al 18% sono considerati bassi e caratterizzano principalmente i paesi industrializzati e fortemente organizzati. Il tasso di natalità, tuttavia, è soggett o a variazioni . La sua riduzione è comunemente attribuita all’industrializzazione, all’urbanizzazione e, negli ultimi anni, all’invecchiamento della popolazione, ma soprattutto sembra essere strettamente connesso allo sviluppo economico, anche se tale correlazione non sempre si manifesta allo stesso modo. Anche le questioni religiose e politiche possono incidere sul tasso di natalità : il fatto che la maggior parte delle tradizioni religiosi proibiscano o sconsiglino ai propri fedeli l’utilizzo di tecniche artificiali per il controllo delle nascite, spesso, produce in questi gruppi un elevato tasso di natalità. - Tasso di fecondità: Indicatore più preciso del tasso generico di natalità, visto che esprime la capacità riproduttiva delle donne in et à feconda , portando l’attenzione sull’unico segmento di popolazione in grado di procreare. Concetto di fecondità necessariamente soggetto a rimpiazzo: quando il tasso di mortalità di una popolazione è elevato, è necessario un rimpiazzo generazionale. A partire dagli anni Sessanta, molti hanno visto il tasso di fecondità scendere così drasticamente da modificare le percentuali di proiezione. Spesso la fecondità riflette valori culturali , non biologici. In ogni caso, il tasso di sostituzione porterà a una stabilizzazione della popolazione , anche per i paesi in via di sviluppo, che hanno subito una riduzione della fecondità. Si deve notare che le proiezioni demografiche basate sugli attuali tassi di fecondità non sono in grado di prevedere in maniera precisa i livelli demografici, nemmeno nel futuro immediato. - Tasso di mortalità: Si calcola mettendo in relazione il numero dei decessi avvenuti in un anno. Il tasso di mortalità infantile e la speranza di vita migliorarono quando in quasi tutte le parti del mondo si diffusero antibiotici e vaccini, per curare le malattie e contenere i veicoli di infezione; altresì, quando furono stanziati più fondi per migliorare le strutture sanitarie urbane e rurali e la distribuzione di acqua potabile. Per effettuale un confronto corretto tra i tassi di mortalità, ocorre che le popolazioni in esame possiedano la stessa struttura demografica. Il tasso di mortalità infantile, per esempio, è l’indice di mortalità dei bambini in età pari o inferiore a un anno ogni mille nati vivi, dunque: morti di età pari o inferiore a un anno/mille nativi vivi. Il tasso di mortalità infantile risulta significativo perché proprio in corrispondenza di tale fa scia si è verificat a la maggiore riduzione del numero di decessi , perlopiù grazie a una maggiore accessibilità ai servizi sanitari. La mortalità nel primo anno di vita è di solito maggiore che nelle altre fasce d’età. Vi sono ampie arie del mondo in cui la mortalità è fortemente influenzata da patologie che nei paesi a economia avanzata non rappresentano più una minaccia. - Piramide demografica: la natalità, la fecondità e la mortalità fanno parte di un sistema demografico strettamente interconnesso. La capacità di procreare e la probabilità di nascere insieme alle quantità di decessi, i quali avvengono all’interno di un gruppo umano, dipendono fortemente dalla sua ripartizione per età e per sesso. Allo stesso tempo, qualunque cambiamento tocchi una o tutte le variabili in oggetto è in grado di provocare dei mutamenti nella composizione per età e per sesso della popolazione. Per visualizzare le caratteristiche della struttura per età e per sesso di una popolazione, i demografi ricorrono alla costruzione alla piramide della popolazione, un espediente grafico per mostrare a colpo d’occhio le informazioni desiderate. Il termine “piramide”, attribuito a questo tipo di rappresentazione grafica, proviene dal fatto che la struttura di una popolazione soggetta esclusivamente alle tendenze di natalità e mortalità naturali, ovvero senza interferenze, assumerebbe la forma di una piramide, con una base larga che si restringe progressivamente verso l’alto, man mano che le fasce più avanzate della popolazione si riducono, a causa dei decessi. Dunque, non viene calcolat a l’immigrazion e ; tuttavia, non esistono popolazioni esenti da interferenze esterne. Le popolazioni con elevati tassi di natalità e di mortalità sono rappresentate da una piramide a base larga e a punta stretta, mentre quelle con natalità e mortalità bassa presentano un diagramma a base stretta, più simile a un rettangolo che ha una piramide. Sussistono, però, anche forti casi di squilibri: fra i sessi, per esempio, o svuotamenti in fasce d’età, forti flussi migratori, ecc. Un paese con un’ampia percentuale di giovani avrà un’elevata domanda di strutture educative e di determinati tipi di servizi sanitari. Invece, una popolazione elevata di anziani richiederà infrastrutture di servizi specifici per loro, per misurare il rapporto tra la popolazione che lavora e quella inattiva (perché troppo giovane o perché troppo anziana), si utilizza l’indice di dipendenza, che esprime il rapporto percentuale tra la popolazione convenzionale, considerata produttiva , e la popolazione dipendente . - Incremento naturale: la conoscenza delle strutture per sesso e per popolazione consente ai demografi di prevedere i futuri livelli demografici, sebbene l’infattibilità delle proiezioni diminuisca man mano che si allungano i tempi della previsione. Un paese con un’elevata percentuale di giovani registra un elevato tasso di incremento naturale, a meno che esso non sia bilanciato da un tasso di mortalità molto elevato tra i giovani e i bambini, oppure non si verifichi un cambiamento sostanziale dei tassi di fecondità e natalità. Il tasso di incremento naturale di una popolazione si ottiene sottraendo il tasso generico di mortalità dal tasso generico di natalità. “Naturale” significa che esso non tiene conto degli incrementi e dei decrementi dovuti alle migrazioni. Un mondo diviso che tende a unificarsi Il modello di transizione demografica descrive va il corso inevitabile che si supponeva avrebbe ro avuto gli eventi demografici, a partire dagli elevati tassi di natalità e di mortalità delle società premoderne, fino a quelli bassi e stabili dei paesi economici avanzati. Molte società in via di sviluppo si sono affermate nel secondo stadio del modello, per l’incapacità di incremento d ei vantaggi economici e dei cambiamenti sociali necessari per passare al terzo stadio . L’introduzione delle tecnologie moderne, sviluppate dalle società occidentali, nel campo della salute pubblica (antibiotici, insetticidi, immunizzazione, ecc.), fecero aumentare in modo rapido e significativo le speranze di vita nei paesi in via di sviluppo, dove, grazie all’importazione di tali tecnologie e cure, si realizzò in pochi anni ciò che in Europa era stato raggiunto in 50-100 anni. I paesi che provarono ad accordarsi su questo sistema utilizzato anche in Europa sono: Sri Lanka, l’India, ecc. Ma per questi popoli la riduzione della mortalità non viene immediatamente accompagnata dalla riduzione di natalità. Il totale della popolazione mondiale subì una forte impennata: da 2,5 miliardi nel 1950 si passò a 3 miliardi alla fine del 1960. Naturalmente, il tasso di natalità, a differenza del miglioramento della speranza di vita, non dipende tanto dalla tecnologia e dall’assistenza fornita, quanto dall’accettazione, da parte della società, dell’idea di un numero minore di figli e di famiglie meno numerose. Tale idea inizia a diffondersi su scala globale, in maniera ampia ma disuguale, proprio mentre la crescita demografica regionale mondiale sembrava incontrollabile. Nonostante i tassi di fecondità tendano a uniformarsi, rimane ancora una significativa minoranza di paesi in via di sviluppo con tassi di natalità in media di 1,5 o due volte superiori al livello di sostituzione. I modelli delle regioni sia a elevata sia a bassa fecondità, una volta formatisi, tendono a radicarsi. Una crescita demografica ridotta consente di incrementare il reddito personale e di accumulare capitali, garantendo una migliore qualità della vita e una maggiore sicurezza economica. Ciò, di conseguenza, rende le famiglie numerose meno indispensabili. Le popolazioni in crescita necessitano di una quantità sempre maggiore di risorse ambientali. M an mano che l’ambiente si deteriora decresce la produttività . Così, la capacità di sostentamento delle popolazioni si riduce a tal punto da rendere difficile o impossibile il progresso economico, dal quale dipende la trasmissione demografica. Equazione demografica Il numero di nascite e di decessi all’interno della popolazione di una regione indica soltanto una parte della storia del cambiamento demografico. La migrazione comporta lo spostamento a lunga distanza di individui da un luogo di residenza a un altro. L’equazione demografica sintetizza il contributo apportato alla variazione demografica regionale nel corso del tempo dalla combinazione di comportamento naturale e migrazione netta. La ricollocazione della popolazione In passato, le migrazioni dimostrarono un importante espediente per alleviare le pressioni indotte alla rapida crescita demografica, almeno in alcuni paesi europei. L’immigrazione oggi non costituisce più una valvola di sfogo per i paesi in via di sviluppo. La popolazione complessiva è troppo numerosa per essere influenzata sensibilmente dalle migrazioni. L’impatto dell’immigrazione Laddove gli spostamenti oltre frontiera sono abbastanza massicci, la migrazione può avere un impatto rilevante sull’equazione demografica e può causare una variazione significativa delle strutture demografiche, sia nelle regioni di origine, sia in quelle di destinazione. Di rado i migranti costituiscono uno spaccato rappresentativo del gruppo di popolazione che abbandonano, aggiungendo una componente non equilibrata per età e per sesso al gruppo in cui entrano a far parte. Secondo delle osservazioni, gli emigranti sono perlopiù giovani non sposati . Se siano più maschi o femmine dipende dalle circostanze. La loro area di origine perde giovani attivi nel traffico, onde assisterà uno squilibrio tra sessi con un invecchiamento della popolazione. La società di destinazione, al contrario, registrerà un aumento di nascite e un abbassamento sull’età media. La distribuzione demografica mondiale Gli individui non sono distribuiti sulla Terra in modo omogeneo. Poco più della metà della popolazione mondiale si è bloccata in modo disomogeneo nelle aree rurali. Quasi la metà soprattutto, risiede in città: una percentuale in costante aumento in quelle molto grandi. In secondo luogo, una larga maggioranza degli abitanti del mondo occupa soltanto una piccola parte della sua superficie. In terzo luogo, la popolazione si concentra nelle ar ee pianeggianti . La sua quantità diminuisce drasticamente con l’aumentare dell’altitudine. La temperatura, la lunghezza dei tempi, la crescita delle colture, i problemi legati alle pendenze e erosioni sono, infatti, limitate dall’abitabilità. Ovviamente, le arie pianeggianti sono quelle favorite in cui vivere. Solitamente la latitudine, l’aridità e l’altitudine, di contro, limitano il potere di attrazione in molte località marittime. Le basse temperature e i suoli sterili delle ampie pianure costiere dell’Artico e dell’emisfero settentrionale hanno ostacolato l’insediamento. Ci sono quattro aree di consistent e raggruppament o di popolazioni : Asia orientale, Asia meridionale, Europa, nord est degli Stati Uniti, sud est del Canada. C’è anche da dire che la Cina racchiude circa un quinto degli abitanti del mondo, mentre nell’Asia meridionale e orientale risiede quasi la metà degli individui del mondo. Sia la tecnologi a antica che quella moderna hanno reso abitabili aree che le condizioni naturali renderebbero proibitive. Il termine “ecumene” designa aree permanentemente abitate d e lla superficie terrestre . Il termine l’”anecumene” è una zona disabitata o scarsamente abitata che comprende ghiacciai, foreste ecc. Quest’ultimo si trova in modo discontinuo su tutte le parti del globo. La densità della popolazione Fu possibile estendere i confini abitativi soltanto quando gli esseri umani impararono a trarre sostentamento dalle risorse offerte dalle aree di insediamento. Il numero di individui che poteva essere sostenuto nelle vecchie o nelle nuove zone di abitazione era ed è collegato al potenziale di risorse di quelle aree, ai livelli culturali e alle tecnologie possedute dalle popolazioni del luogo. Il termine “densità di popolazione” esprime la relazione che intercorre fra il numero degli abitanti e l’ar e a da esso abitata . I dati della densità sono rappresentazioni utili, anche se non sempre corretti, della variazione regionale della distribuzione umana. La densità numerica della popolazione rappresenta l’espressione più comune e meno esauriente di tale variazion e . Essa conteggia il numero di individui per area unitaria di superficie, compreso di solito all’interno dei confini di un’entità politica. Un paese, però, generalmente contiene sia aree intensamente abitate e edificate sia scarsamente popolate e poco sfruttabili. La densità media nazionale non dice niente riguardo alle due situazioni. In generale, più ampia è l’unità politica per la quale viene calcolata la densità numerica della popolazione, meno utile risulta questo dato. La densità può essere perfezionata apportandovi varie modifiche o con significativa astrazione della distribuzione. Un indicatore più raffinato è dato dalla densità fisiologica che risulta utile per esprimere i rapporti tra la popolazione di un paese e il terreno coltivabil e . La densità agricola costituisce un altro simile indicatore, che esclude dal calcolo della densità fisiologica le popolazioni urbane e riporta il numero di abitanti rurali per unità di terreno produttivo, dal punto di vista agricolo. Tale indicatore rappresenta una stima della pressione esercitata dagli individui nelle aree rurali in un paese. La sovrappopolazione Molti economisti americani chiamati cornucopiani, espressero, a partire dagli anni Ottanta del Novecento, l’idea che la c rescita demografica rappresenta non un deterrente ma uno stimolo allo sviluppo, e che l e m enti e abilità umane costituiscano le risorse fondamentali . Dai tempi di Malthus, osservano, la popolazione mondiale che è cresciuta passando da 900 milioni a 7 miliardi di individui, senza le disastrose conseguenze preannunciate. La terza idea, che stempera l’ottimismo dei cornucopiani, è quella di stare al passo con la rapida crescita demografica. Le prospettive demografiche La fecondità e i tassi di natalità sul piano globale stanno scendendo a livelli non previsti dai pessimisti malthusiani. Su scala mondiale, ne risulta un calo da 5,0 figli per donna. Il momentum demografico Una riduzione dei livelli di fecondità non implica un arresto immediato della crescita demografica. Le nascite continueranno ad aumentare anche in corrispondenza di un calo del tasso di fecondità. La ragione va ricercata nel momentum demografico per il quale l’elemento chiave è la struttura per età della popolazione di un paese. Le popolazioni dei paesi in via di sviluppo sono molto più giovani rispetto a quelle regioni con uno sviluppo industriale stabile, con quasi un terzo, fino a oltre il 40%, di individui di età inferiore ai 15 anni. Una popolazione con un numero maggiore di giovani tende a crescere rapidamente, nonostante il livello di procreazione. È inevitabile che, mentre è in corso questo processo, persino le più severe politiche di limitazione delle nascite non saranno in grado di arrestare completamente la crescita demografica. Un paese con una popolazione ampia continuerà a sperimentare forti incrementi numerici, malgrado il calo del tasso di natalità. L’invecchiamento Le popolazioni giovani invecchiano, e anche i giovani dei paesi in via di sviluppo stanno iniziando ad affrontare le conseguenze di questa realtà. I problemi legati a un rapido invecchiamento della popolazione, già affrontati dalle economie industriali, si stanno ora affacciando anche nel mondo in via di sviluppo. La marcia verso l’invecchiamento delle popolazioni è considerato il risultato irreversibile della contrazione della fecondità e della mortalità. Nei paesi in via di sviluppo la velocità di invecchiamento è molto più rapida; quindi, essi avranno meno tempo rispetto a quelli di prima industrializzazione per adattarsi alle conseguenze dell’invecchiamento che, tra l’altro, si produrranno in più bassi livelli di reddito e di forza economica. CAPITOLO 4 – Le radici e il significato della cultura La parola “cultura”, solitamente, viene utilizzata per designare le arti auliche, ma per uno studioso di scienze sociali essa ha un’accezione molto più ampia: infatti, rappresenta il complesso di modelli comportamentali, conoscenze, adattamenti a sistemi sociali peculiari, nei quali si sintetizza il modo di vivere acquisito da un gruppo di individui. Le prove visibili e invisibili della cultura – i modelli di costruzione e di coltivazione, la lingua, l’organizzazione politica – rientrano tutte nella diversità spaziale studiata dagli esperti di geografia. Le componenti della cultura All’interno di una società, la cultura si trasmette alle generazioni successive tramite imitazione, istruzione ed esempio. La cultura, quindi, viene appresa, NON è biologica: non ha nulla a che vedere con l’istinto o le questioni di carattere genetico. La cultura è un’intricata rete di comportamenti e modi di pensare, che si modificano nel tempo. Per questo motivo, la cultura è un processo, non un corpus inalterabile di tratti culturali; essa si trasforma costantemente attraverso l’interazione con culture differenti, l’acquisizione di nuovi gusti, idee e norme comportamentali o la dimissione di vecchi. Gli individui, in quanto membri di un gruppo sociale, acquisiscono, dunque, modelli comportamentali, percezioni ambientali e sociali, e conoscenze delle tecnologie caratteristici dei singoli luoghi in un dato frangente storico. Tuttavia, non è indispensabile, né possibile, apprenderla integralmente: l’età, il sesso, lo status sociale e l’occupazione possono determinare i vari aspetti del complesso culturale nel quale un individuo viene educato tanto quanto l’epoca in cui avviene tale apprendimento. Ogni singola cultura risulta sfaccettata in varie subculture, le quali rimandano a una struttura sociale che presenta un quadro di interrelazioni tra i diversi individui. Ciascuno di essi apprende le regole e le convenzioni non soltanto della cultura generalmente intesa, ma anche della sottocultura specifica alla quale appartiene; a livello sociale ci si aspetta che il soggetto si conformi a entrambe. Molte diverse culture, quindi, possono coesistere all’interno di una data area geografica, ciascuna con la sua peculiare influenza sulle credenze e sui comportamenti dei membri che la compongono. I più piccoli elementi distintivi della cultura sono i tratti culturali , i quali sono considerati unità di comportamento acquisito: lingua, utensili, attività ricreative. Un tratto può essere un oggetto, una tecnica, una credenza o un modo di pensare. Possibilmente, poi, lo stesso tratto ricorre in più di una cultura. Singoli tratti culturali, correlati dal punto di vista funzionale, formano una struttura culturale. Quindi, possono sussistere, all’interno di una società, strutture di tipo religioso, economico, sportivo ecc. Per esempio, in molti paesi, tra cui anche l’Italia, esiste una struttura culturale imperniata sull’automobile. Gli italiani spesso acquistano automobili di marchi e modelli all’altezza del loro reddito, della loro occupazione e del loro status all’interno della società. Anche i riti di passaggio possono essere fondati sulle automobili: l’educazione stradale e l’esame della patente, possibile solo dopo il raggiungimento della maggiore età, o la pratica usuale di decorare le automobili con fiocchi bianchi durante una cerimonia nuziale. I tratti e le strutture culturali possono essere proprietà condivisa da individui che presentano per altri aspetti tratti distinti, ma associati dal punto di vista spaziale. Quando esistono sufficienti comunanze è possibile individuare un sistema culturale come realtà spaziale più ampia e generalizzata. Tratti, strutture e sistemi culturali hanno una propria estensione spaziale. In ambito geografico, si fa riferimento alla regione culturale, come a una porzione della superficie terrestre caratterizzata da alcuni elementi culturali distintivi. Le regioni che presentano strutture e paesaggi culturali correlati possono essere raggruppate per formare un complesso culturale regionale. Questo termine indica un ampio segmento della superficie terrestre che mostra una presunta uniformità di base nelle sue caratteristiche culturali e che, in virtù di esse, si differenzia sensibilmente dai territori adiacenti. Attualmente, la validità dei diversi complessi culturali è stata messa in discussione alla luce di quella che viene definita globalizzazione, un processo che coinvolge tutti gli aspetti della società umana ed economica. Tale globalizzazione genera un’omogeneizzazione culturale che va di pari passo con l’integrazione delle economie e la soddisfazione della domanda univoca dei consumatori con produzioni standardizzate, prodotte da multinazionali. L’interazione tra essere umano e ambiente La cultura si sviluppa in un dato ambiente fisico. Le interrelazioni fra individui e ambiente di una determinata area geografica, assieme all’impatto che l’agire umano ha sull’ambiente considerato, sono problematiche affrontate dall’ecologia culturale, disciplina che indaga la relazione fra un gruppo culturale e l’ambiente naturale da esso occupato. Partendo da determinate condizioni ambientali, si è condizionato lo sviluppo di risposte di adattamento e di esiti culturali anche in luoghi distanti e non collegati tra loro. Il controllo esercitato dall’ambiente Determinismo ambientale: teoria nata nel XIX secolo, secondo la quale l’ambiente fisico da solo plasma gli esseri umani, le loro azioni e il loro pensiero. I soli fattori ambientali non possono giustificare le varianti culturali che si producono nel mondo. L’ambiente pone determinati limiti all’utilizzo del territorio da parte dell’essere umano, che NON sono assoluti, bensì legati alle tecnologie disponibili, alle considerazioni sui costi necessari per modificare l’ambiente, alle differenti aspirazioni nazionali e ai legami con il resto del mondo: non si tratta di circostanze insite nel territorio. Secondo la teoria del possibilismo geografico – scuola di pensiero opposta al determinismo nata negli anni a cavallo tra il XIX e il XX secolo – sono gli individui, non gli ambienti in sé, a rappresentare le forze dinamiche dello sviluppo culturale. La natura non esprime dunque solamente dei vincoli, ma offre varie possibilità di occupazione del territorio e di utilizzo delle risorse fisiche. In merito a questo, ciascuna società utilizza le risorse naturali in conformità alle proprie necessità e competenze tecniche. I cambiamenti di tali competenze o degli obiettivi di un gruppo comportano inevitabilmente variazioni nella sua percezione dell'utilità del territorio. In ossequio ad una visione possibilista, le risorse offerte dall'ambiente possono modificarsi in base al momento storico e allo sviluppo tecnologico di una società. del raccolto. I contrasti a livello regionale fra i cacciatori-raccoglitori e le società agricole aumentarono. Laddove i due gruppi entravano in competizione per il controllo territoriale, gli agricoltori avevano la meglio sui primi. Il conflitto proseguì fino ai tempi moderni. Esso fornisce una prova drammatica dei conflitti che si possono generare a partire da differenti usi di uno stesso territorio. Le innovazioni del Neolitico La forma più definita di domesticazione delle piante e degli animali segnò l'inizio del Neolitico. Come altre epoche dell'età della pietra, questo rappresentò una fase di cambiamento culturale. In questo lasso di tempo, vi fu la creazione di utensili e tecnologie più avanzate per far fronte alle circostanze e alle necessità di una popolazione in espansione e sedentaria, la cui economia era basata su una gestione dell'ambiente di tipo agrario. Gli esseri umani appresero l’arte di filare e tessere le fibre animali e vegetali, impararono a utilizzare il tornio e a cuocere l'argilla per farne utensili; idearono tecniche per produrre mattoni, cemento e per costruire; scoprirono come estrarre, fondere e colare i metalli. Sulla base di tali progressi tecnologici, emerse una cultura di sfruttamento più complessa. Una società stratificata, basata sul lavoro e sulla specializzazione delle mansioni, soppiantò la precedente uguaglianza propria delle economie fondate sulla caccia e sulla raccolta. Particolari vantaggi, offerti da alcuni luoghi in termini di risorse o prodotti, promossero lo sviluppo di legami commerciali a lunga distanza. Alla fine del periodo neolitico, alcuni gruppi circoscritti, avendo dato vita a una società che produceva il cibo anziché raccoglierlo, intrapresero un utilizzo più sistematico dei loro ambienti. Man mano che gli individui si raccoglievano in comunità più ampie e nascevano regole di condotta e di controllo nuove e più ufficiali, sorsero i governi per far rispettare le leggi e per definire le punizioni per i trasgressori. Le religioni divennero più formali: se i cacciatori praticavano un culto individualistico, legato alla salute e alla sicurezza personali, le comunità agricole nutrivano preoccupazioni collettive basate sul calendario, concernenti il ciclo delle precipitazioni atmosferiche, le stagioni di piantagione e quelle di raccolta, l'innalzamento e l'abbassamento delle acque per l'irrigazione. Le religioni che rispondevano a tali preoccupazioni sviluppavano rituali per rendere grazie alle divinità per il raccolto ottenuto. La figura del sacerdote divenne necessaria. Esso, il cui ruolo veniva ufficializzato dalla collettività, non era soltanto intermediario fra gli individui e le forze della natura, ma formalizzava anche la struttura dei rituali, ponendosi alla guida spirituale dell'intera società. I focolai culturali Il termine focolaio culturale viene utilizzato per descrivere i centri di innovazione e di invenzione, dai quali importanti tratti ed elementi culturali si spostarono per esercitare la loro influenza sulle regioni circostanti, facendosi portatori di particolari paesaggi culturali. Fra i molti e importanti focolai culturali che si attivarono nel periodo neolitico, ci furono l’Egitto, Creta, la Mesopotamia, la Cina settentrionale, ecc. L’antropologo Julian Steward propose il concetto di evoluzione multilineare per spiegare le caratteristiche comuni di culture molto lontane, formatesi in condizioni ecologiche simili. Egli ipotizza che ciascuna zona ambientale principale tenda a generare tratti comuni nelle culture di coloro che la sfruttano. Tali tratti si baserebbero sullo sviluppo dell’agricoltura e sull’emergere di strutture culturali e amministrative simili in molti focolai culturali. La teoria opposta, il diffusionismo, è la convinzione che le somiglianze culturali si verifichino principalmente tramite la propagazione nello spazio da un sito di origine. In ogni caso, le caratteristiche comuni che derivano dall'evoluzione multilineare e la diffusione di specifici tratti di strutture culturali contengono le radici della convergenza culturale. Questo termine descrive la condivisione di tecnologie, strutture organizzative e persino tratti culturali che si manifestano in modo evidente fra società molto distanti nel mondo moderno. La struttura della cultura Si presti attenzione alla tesi di Leslie White, antropologo che definì la cultura una struttura tripartita composta di sottosistemi ai quali egli attribuì i nomi di ideologico, tecnologico e sociologico. Vengono, poi, distinte le tre componenti interrelate della cultura: i prodotti mentali, materiali e sociali. I sottosistemi, identificati tramite le loro diverse componenti, costituiscono un sistema culturale. Il sottosistema ideologico è composto da idee, credenze, conoscenze di una cultura e delle modalità secondo le quali esse trovano espressione in discorsi e in altre forme di comunicazione. Tali sistemi astratti di credenze o prodotti mentali, passati di generazione in generazione, ci indicano in che cosa credere e a che cosa attribuire valore. Il sottosistema tecnologico è composto dagli oggetti materiali grazie ai quali gli individui sono in grado di vivere. Questi sono gli utensili e gli altri strumenti che consentono di nutrirsi, vestirsi, ripararsi, difendersi e muoversi. Huxley assegnò a questi oggetti materiali il termine di manufatti. Il sottosistema sociologico di una cultura è la somma dei modelli attesi e accettati di relazioni interpersonali, che sfociano nelle associazioni economiche, politiche, militari, religiose, di parentela e altre. Tali prodotti sociali definiscono l'organizzazione sociale di una cultura e regolano il modo in cui il singolo si colloca rispetto al gruppo, sia che quest'ultimo sia rappresentato dalla famiglia, dalla chiesa o dallo Stato. Poiché ogni classificazione per sua natura è arbitraria, anche tali classificazioni dei sottosistemi e delle componenti della cultura non fanno eccezione. La struttura tripartita della cultura, pur aiutandoci ad apprezzare la sua struttura e la sua complessità, può al contempo oscurare la natura multiforme dei singoli elementi che la compongono. In una cultura, niente è lasciato completamente a sé stesso o casuale. I mutamenti delle idee di una società possono incidere sui sottosistemi sociologici e tecnologici, proprio come i mutamenti della tecnologia impongono modifiche ai sistemi sociali. La natura interdipendente di tutti gli aspetti di una cultura prende il nome di integrazione culturale. Il mutamento culturale: innovazione, diffusione e acculturazione Nessuna cultura è, o è stata, caratterizzata da una serie permanentemente fissa di oggetti materiali, sistemi organizzativi o ideologici. Non tutti i mutamenti sono così ampi come quelli indotti dall'introduzione dell'agricoltura o dalla rivoluzione industriale. Molti, presi singolarmente, sono talmente irrilevanti da passare inosservati ma, in combinazione, possono alterare sensibilmente la cultura. La combinazione di mutamenti è dovuta al fatto che i tratti culturali di ciascun gruppo non sono indipendenti, bensì raccolti in un modello integrato. Vi sono tre processi atti a spiegare le forme principali di mutamento culturale: l'innovazione, la diffusione e l’acculturazione. Con il termine innovazione si indicano i mutamenti che derivano da nuove idee create all'interno di una cultura. Molte innovazioni hanno di per sé poche conseguenze, ma talvolta l’adozione di innovazioni apparentemente non collegate può comportare grossi mutamenti, se considerate nella prospettiva del tempo. Un assioma generico è che quante più sono le idee a disposizione e quante più sono le menti capaci di sfruttarle e combinarle, tanto maggiore è la velocità dell’innovazione. L'implicazione in termini spaziali è che tendono a essere al centro di innovazioni centri urbani di dimensioni maggiore, con tecnologie avanzate, che non dipendono soltanto dall'estensione, ma anche dal numero di idee interscambiate. Il processo attraverso cui un'idea o un'innovazione viene trasmessa da un individuo o un gruppo a un altro prende il nome di diffusione. La diffusione può assumere una grande varietà di forme, ciascuna diversa per il suo impatto sui gruppi sociali. Esistono due fondamentali modalità in cui essa si esplica. La prima è la cosiddetta diffusione per spostamento, la quale prevede che gli individui si muovano, per varie ragioni, in una nuova area, portando con sé la loro cultura. La seconda, invece, è la diffusione per espansione, per la quale le informazioni circa un’innovazione possono diffondersi all’interno di una società, con l’aiuto della pubblicità locale o dei mass media. Quando la diffusione per espansione interessa quasi in maniera uniforme tutti gli individui e tutte le aree esterne alla regione di origine, viene definita diffusione per contagio. Il termine suggerisce l’importanza del contatto diretto fra coloro che hanno sviluppato o adottato l’innovazione e coloro che ne vengono a conoscenza. La velocità con cui un tratto culturale o un'idea si diffonde può essere influenzata dal decadimento con il tempo-distanza, concetto che indica che la propagazione di un'idea viene ritardata man mano che aumenta la distanza dalla fonte. Il processo di trasferimento di idee, prima fra luoghi di dimensioni maggiori soltanto più tardi fra luoghi di dimensioni minori o meno importanti, assume il nome di diffusione gerarchica. La fede cristiana in Europa, per esempio, si è diffusa da Roma come centro principale alle capitali delle province, in seguito ai piccoli insediamenti romani in territori occupati principalmente da pagani. Sul livello ideologico, il successo della diffusione dipende dell'accettabilità delle innovazioni. Si deve concludere, dunque, che la diffusione NON è il risultato della divulgazione di conoscenza. L’innovazione può essere rifiutata non soltanto per mancanza di conoscenza, ma anche perché il nuovo tratto viola le norme morali ed etiche della cultura nella quale viene introdotto. Il mutamento culturale è stato spiegato come conseguenza del processo di acculturazione, attraverso cui le popolazioni immigranti acquisiscono valori, atteggiamenti, costumi e parlata della società che li ospita, la quale a sua volta subisce un cambiamento indotto dall’assorbimento del gruppo ospitato. Un gruppo culturale può subire sostanziali modifiche nei tratti che lo identificano, adottando alcune o tutte le caratteristiche di un altro gruppo culturale dominante. Conoscere l’utilizzo della lingua di una cultura dominante è importante per quanto riguarda il commercio, leggi, civilizzazione e prestigio personale. Nella propaganda di una lingua a scapito di un’altra, dunque, un ruolo fondamentale è il potere economico e politico del gruppo dominante. Quando una nuova lingua risulta necessaria per diversi vantaggi, quindi viene imparata da soggetti, si verifica una diffusione per espansione, unita ad un’acculturazione. Per quanto riguarda il processo di diffusione, può accadere che ci siano delle barriere (fisiche o culturali), che possono ritardare o persino impedire l’adozione di una lingua , nonché ostacolare la propagazione linguistica. I mutamenti linguistici Il cambiamento può essere graduale o complessivo, via via che ogni generazione si discosta lievemente da schemi linguistici e dal lessico utilizzati dalle generazioni precedenti. La lingua standard e le varianti linguistiche Una comunità linguistica possiede una lingua standard, che include sia le norme relative a sintassi, lessico e pronuncia accettate dalla comunità, sia una serie di dialetti più o meno specifici che riflettono il parlato quotidiano legato a una particolare zona geografica. La lingua standard e i dialetti Le comunità linguistiche fanno mostra di varianti linguistiche riconoscibili e identificabili, definite dialetti. Lessico, pronuncia, ritmo e velocità di conversazione possono contraddistinguere un gruppo di parlanti da un altro e consentire ad un osservatore ben allenato di distinguere chiaramente l’origine di chi parla. Si definisce lingua standard un idioma che gode di uno statuto socio-culturale e politico garantito da un ordine statale, riconosciuto e accettato all’interno e all’esterno di uno Stato. Il dialetto può diventare lingua standard identificandosi con la lingua parlata dei membri più prestigiosi, che occupano il rango sociale più elevato o detengono il potere all’interno della comunità linguistica intesa nel suo senso più lato. Il dialetto che emerge come base della lingua standard di un paese o di una nazione è spesso quello che si identifica con la capitale o il centro del potere dell’epoca dello sviluppo nazionale. La standardizzazione linguistica, invece, può essere influenzata da altri fattori, che esulano dalla sfera politica, benché sia la sfera politica a legittimare una data parità rispetto alle altre, determinandone l’adozione ufficiale della lingua di Stato , dunque dell’istruzione . In molte società la lingua standard è quella impiegata in situazioni formali, a testimonianza del fatto che sussiste una divisione tra formale informale. Chi è di rango sociale elevato e possiede una cultura e istruzione superiori tende a seguire una lingua standard; invece, coloro che hanno un’istruzione meno elevata tendono ad utilizzare il vernacolo, ossia il dialetto originario di un determinato ambiente. I dialetti, tra l’altro, sono considerati anche in termini spaziali. La lingua, infatti, ha una variabile geografica, giacché ogni contesto di interazione sociale o locale può essere caratterizzato da differenze linguistiche minime rispetto ad altri. Pidgin e lingue creole Il multilinguismo può permettere di parlare anche in una terza lingua. Il contatto a lungo termine con diverse popolazioni meno esperte, porta alla creazione di un nuovo linguaggio, ossia il pidgin. Negli ultimi 400 anni sono state create più di cento nuove lingue, scaturite dalla mescolanza di popoli e culture in tutto il mondo. Con il termine pidgin viene indicato un amalgama di lingue, solitamente in una forma grammaticalmente semplificata. Rappresenta una seconda lingua per coloro che la parlano, ma è un linguaggio limitato a funzioni specifiche, quali il commercio o altre questioni lavorative. Quando un pidgin diventa la prima lingua di un gruppo di parlanti si è compiuto il processo di creolizzazione, ovvero l’evoluzione del pidgin in una lingua creola, un idioma che finisce per acquisire una struttura grammaticale più compless a e un lessico maggiormente articolato. La lingua franca Si tratta di una seconda lingua che viene appresa accanto alla lingua madre . La lingua franca letteralmente “lingua dei franchi“, deve il proprio nome al dialetto parlato nella Galia e adottato come lingua veicolare dai crociati in Terra santa . In seguito, quando il Mediterraneo consolidò i primi commerci via mare, si assistette a un processo di convergenza, in cui la lingua dei Galli venne combinata con l’italiano, lo spagnolo, il greco e l’arabo del tempo, diventando la lingua comune del commercio tra la zona occidentale e orientale del bacino, agevolando le comunicazioni tra aree linguistiche eterogenee. Dunque, il termine lingua franca è divenuto con il tempo un sinonimo di lingua comune, parlata dai popoli con differenti idiomi. In un mondo globalizzato e poliglotta, l’inglese svolge sempre più frequentemente il ruolo di lingua franca globale. Le lingue ufficiali Le nazioni possono designare un singolo idioma come lingua ufficiale dello Stato, che diviene la lingua dell’istruzione in scuole e università, la lingua veicolare in ambito governativo e legislativo e nelle altre attività pubbliche private ufficiali. Nelle società con multilinguismo, la lingua franca nazionale, ufficialmente approvata, può garantire la comunicazione fra tutti cittadini di madrelingua diversa. La struttura delle lingue europee ufficiali è stata progressivamente minacciata dalla diffusione e penetrazione dell’inglese come uso comune. Invece, il bilinguismo viene ufficialmente riconosciuto attraverso la designazione di più lingue ufficiali, che riflettono, però, un’uguaglianza approssimativa in termini numerici o di influenza di popolazioni linguistiche distinte all’interno di un unico territorio. Solitamente le minoranze linguistiche autoctone emarginate tendono, o sono costrette, ad adottare il linguaggio ufficiale o comunque della maggioranza. D’altra parte, la conservazione degli idiomi nativi può essere agevolata da fattori quali l’isolamento. L’eredità culturale, radicata nella lingua, è consolidata e diffusa in tutto il mondo. La lingua, per questo motivo, è spesso divenuta il fulcro delle rivendicazioni di movimenti autonomisti o indipendentisti, in particolare di quei gruppi linguistici, ben distinti a livello territoriale, che si collocano al di fuori delle zone economiche centrali delle nazioni fortemente centralizzate a cui sono stati annessi. L’influenza della lingua sul territorio: la toponomastica TOPONIMI: I nomi propri di luogo. I toponimi sono un esempio dell’influenza esercitata dalla lingua a livello del territorio, e testimoniano quelle popolazioni che è un tempo vi si erano insediate e le cui dominazioni sono sopravvissute, per quanto modificate e alterate, lasciando una traccia dell’esistenza e del passaggio degli esseri umani. Il settore di particolare interesse della geografia delle lingue è lo studio di nomi propri di luogo, strumento significativo e utile, di cui si avvale la geografia culturale storica: i nomi dei luoghi sono, infatti, parte integrante del passaggio culturale e sono in grado di sopravvivere a lungo, anche dopo la scomparsa delle popolazioni che li hanno originalmente coniati. Nel nuovo mondo furono numerosi i popoli (immigrati) che assegnarono nomi alle specifiche caratteristiche territoriali e a nuovi insediamenti. Così facendo, ricordavano la propria terra d’origine, onoravano eroi e sovrani oppure prendevano in prestito, pur storpiandone la pronuncia, i nomi utilizzati dai nemici. I toponimi, indipendentemente dalla lingua d’origine, sono spesso costituiti da due parti distinte: 1. Generica = classificante 2. Specifica= modificante Queste religioni mostrano una radicata identificazione territoriale e culturale con il gruppo a cui fanno capo. Solitamente, si diventa seguaci di una religione etnica per nascita o mediante l’adozione di un complesso stile di vita, non attraverso una semplice professione di fede. I loro fedeli formano comunità chiuse e identificabili con un particolare gruppo culturale o politico. (ebraismo, induismo). Le religioni tribali Le religioni tribali sono forme particolari di religioni etniche, dalle quali si differenziano per l e dimension i limitate del numero di fedeli . Per esempio, il termine “animismo” indica la credenza che la vita animi, tramite gli spiriti, i defunti e le divinità, tutti gli oggetti inanimati (dalle rocce ai laghi, dagli alberi alle montagne). Invece, lo sciamanesimo è la forma di religione tribale che prevede l’accettazione, da parte delle comunità dei fedeli, di uno sciamano, un leader religioso guaritore ed esperto di arti magiche che, attraverso speciali poteri, è in grado di intendere e intercedere con il mondo degli spiriti, interpretandone i segni. Modelli e flussi Le religioni universali tendono a espandersi diffondendo il proprio messaggio presso nuovi popoli e nuove aree. Le religioni etniche, a meno che i fedeli non siano dispersi a livello territoriale, tendono a essere confinate in regioni specifiche. Le religioni tribali risultano, invece, sempre più limitate a livello territoriale, via via che i loro adepti vengono sistematicamente incorporati nella società moderna e convertiti alle confessioni religiose dominanti. Tra cristianesimo, Islam o buddhismo, le prime due sono le più diffuse, mentre il buddhismo è in larga parte una religione asiatica. L’induismo, la principale tra le religioni etniche, è essenzialmente confinato al subcontinente indiano e mostra la limitazione territoriale tipica di molte religioni etniche, anche quando queste occupano un’aria diversa da quella di origine. Aree estese nel mondo sono popolate da coloro che praticano religioni tribali o tradizionali, spesso in concomitanza con le religioni universali, alle quali sono stati apparentemente convertiti. Le religioni tribali sono diffuse principalmente tra le popolazioni non del tutto assimilate nelle economie, mentre, nelle culture moderne, si trovano ai margini di società più popolose ed economicamente più ricche. Il laicismo, ossia l’indifferenza o il rifiuto della religione e della fede religiosa, è un fenomeno che contraddistingue in misura crescente molte società moderne, in particolare nei paesi industrializzati e in quelli dove vige o vigeva un regime di tipo comunista. Le principali religioni L’ebraismo La fede dell’ebraismo in un unico Dio ha creato le basi per la nascita del cristianesimo e dell’Islam. A differenza di queste altre due religioni universali, l’ebraismo si identifica strettamente con un singolo gruppo etnico e con un insieme complesso e restrittivo di credenze e leggi. Questa religione ebbe origine 3000 - 4000 anni fa, nei territori del Vicino Oriente, una delle culle delle più antiche civiltà. Qui Sumeri, babilonesi e assiri svilupparono la scrittura, leggi codificate e religioni politeistiche. I fattori determinanti di questa religione etnica sono la dipendenza da Israele, la Torah e le tradizioni della cultura della fede. Gli ebrei saranno perseguitati dall’Europa cristiana, talvolta espulsi da diverse nazioni e spesso isolati in quartieri appositamente designati a tale scopo (ghetti). Gli ebrei ashkenaziti, costituiscono forse l’80% di tutti gli ebrei presenti nel mondo e si distinguono dagli ebrei sefarditi per tradizioni culturali e pratiche liturgiche. Nel 1948 la creazione dello Stato di Israele, avvenuta sotto l’auspicio dell’ONU, ha coronato il raggiungimento dell’obiettivo centrale di tale movimento, il raggiungimento di una patria, ma ha reso l’aria mediorientale un focolaio di conflitto tra gli ebrei e le popolazioni arabe. La sinagoga sarà essenziale, affinché il servizio religioso abbia luogo. Il cristianesimo Il cristianesimo è la religione che prende il nome da Cristo, appellativo di Gesù di Nazareth, predicatore ebreo nato tra il 7-4 a.C in Palestina, ritenuto dai propri seguaci il Messia promesso da Dio. Il cristianesimo nasce dall’ebraismo tradizionale, ma si differenzia per l’universalità del messaggio, che si basava sulla promessa della salvezza per tutta l’umanità e non solamente per il popolo eletto. La missione del cristianesimo è incentrata sulla conversione e l’attività missionaria che si è sempre posta come elemento chiave della sua diffusione. Il cristianesimo si propagò rapidamente tra le classi più umili sia delle regioni orientali che di quelle occidentali dell’Impero Romano. Per la Chiesa occidentale, Roma fu il principale centro da cui il culto si diffuse nelle capitali delle province e negli insediamenti romani minori in Europa. I cristiani dapprima perseguitati, ottennero piena libertà di culto nel 313 durante l’impero di Costantino, grazie all’Editto di Milano. Con Teodosio si decretò la religione ufficiale di Stato. La citazione del cristianesimo come religione ufficiale dell’impero ne accelerò la diffusione gerarchica, che con il tempo interessò tutta la vasta estensione del mondo romano. Con la suddivisione dell’impero in due metà, Oriente e Occidente, si divise anche la cristianità. La chiesa occidentale con la sede a Roma fu una delle pochissime forze stabilizzanti che unirono l’Europa occidentale, durante quelli che vennero definiti secoli bui. L’Impero Romano d’Oriente, la cui capitale era Costantinopoli, continuava a essere sottomesso al controllo imperiale secolare. Prosperando sotto la sua protezione, la chiesa orientale si diffuse nei Balcani, nell’Europa orientale, in Russia e nel Vicino Oriente. La cultura dell’Impero Romano d’Oriente aprì le porte all’influenza dell’Islam, sebbene la chiesa ortodossa orientale continui ad essere, anche oggi, una componente predominante della religione cristiana. Con la Riforma protestante dei secoli XV-XVI si divise la chiesa nei territori d’Europa occidentale: l’area meridionale fu dominata dal cattolicesimo, mentre negli Stati occidentali e settentrionali sorse una varietà di confessioni e sette protestanti, oltre che di chiese nazionali. Questa divisione si riflette la conseguente dispersione del cristianesimo nel mondo. L’Islam L’Islam scaturisce dalle medesime radici ebraiche del cristianesimo e incarna molte delle stesse credenze: l’esistenza di un unico dio , Allah, che nel tempo si rivela agli uomini attraverso i profeti, Adamo, quale il primo uomo, e i discendenti del profeta Abramo. Maometto viene riferito come il maggiore profeta di Allah , il successore incaricato di completare l’opera dei profeti precedenti dell’ebraismo e del cristianesimo, tra cui Mosé, Davide e Gesù. Il Corano rappresenta la parola di Allah, rilevata a Maometto, e contiene non solo le norme che regolano il culto e altre specifiche dottrinali, ma anche istruzioni sulla gestione di questioni umane. Maometto risiedeva alla Mecca, nell’anno 622 fuggì a Medina, dove proclamò la costituzione e annunciò la missione universale della comunità islamica. La fuga del profeta segna il punto di partenza del calendario islamico (lunare). All’epoca della morte di Maometto, avvenuta nell’anno 11, tutta l’Arabia aveva abbracciato l’Islam. Si diffuse anche in buona parte dell’Asia centrale a spese dell’Induismo e in altri paesi, in totale sono 39. Dopo la morte di Maometto ci saranno dei disaccordi di successione alla guida spirituale, dunque ci sarà una scissione in due gruppi: sunniti e sciiti. I sunniti rappresentano la maggior parte della popolazione musulmana. Riconoscono i primi quattro califfi come legittimi successori di Maometto. Gli sciiti rifiutano la legittimità dei primi tre califfi e ritengono che la guida del mondo mussulmano spetti per diritto solo al quarto, che è Alì, il genero del profeta. interno. Questa dottrina considera il Buddha come un essere divino, e insieme con altre divinità, un salvatore per tutti coloro che gli sono sinceramente devoti. Pone particolarmente enfasi alla meditazione, non richiede lo svolgimento di servizi e funzioni religiose nei monasteri e tende a essere maggiormente improntato al politeismo e alla centralità dei diritti. Il buddismo vajrayana (Veicolo di diamante) fu una forma di buddismo predominante all’epoca della prima conversione del Tibet e delle vicine regioni settentrionali. In origine, tale insegnamento accordava una particolare importanza all’autodisciplina e alla conversione attraverso lo studio della filosofia, ma in seguito assunse elementi più formalmente monastici e rituali, elevando il Dalai Lama al rango di Buddha, trasformandolo in un leader sia spirituale che temporale. Le immagini del Buddha in forma umana stilizzata iniziarono a comparire nel I secolo e sono tuttora diffuse nei dipinti e nelle sculture che si trovano in tutto il mondo buddista. Esistono tre principali tipi di edifici e monumenti associati a questa religione: lo stupa (Santuario commemorativo), la pagoda (tempio che custodisce un’immagine o una reliquia del Buddha) e il monastero, che talvolta ha le dimensioni di una piccola cittadina. Le altre religioni dell’asia orientale Tra 1500 e 2000 anni fa il buddismo raggiunse la Cina dai territori del sud e fu introdotto in Giappone dalla Corea nel VII secolo, incontrando e, in seguito, amalgamandosi con i sistemi etico- religiosi già esistenti e ben consolidati di queste terre.  In Cina l'unione avvenne con il confucianesimo e con il taoismo, che all'epoca dell'introduzione del buddismo iniziavano a legarsi tra loro. In Giappone, invece, il buddismo si integrò con lo scintoismo, una forma politeista di animismo e sciamanesimo. I sistemi religiosi cinesi sono incentrati non tanto sull'aldilà, quanto sul raggiungimento del miglior stile di vita possibile nell'esistenza presente. Si tratta di dottrine più etico-filosofiche che non religiose nel senso puro del termine.  Confucio, un compilatore della saggezza tradizionale, vissuto all'incirca nella stessa epoca di Buddha, promuoveva l'importanza di un comportamento corretto, sia tra governanti e sudditi che tra i membri di una stessa famiglia. La famiglia veniva esaltata come nucleo dello Stato, mentre il rispetto dei figli per i genitori era stimato come la virtù più elevata. Il confucianesimo NON prevede la presenza di chiese e di ecclesiastici, sebbene il suo fondatore credesse in un paradiso dai connotati naturalistici e incoraggiasse le usanze cinesi di profondo rispetto degli antenati, in segno di culto e gratitudine. Dopo la sua morte, la tradizione si espanse fino a includere l'adorazione dello stesso Confucio in templi appositamente edificati a tale scopo. Il confucianesimo, quindi, costituì la base del sistema religioso della Cina. Nel confucianesimo confluì, o si mescolò, il taoismo, un'ideologia che secondo la leggenda venne inizialmente impartita da Lao-tsu nel VI secolo a.C., il cui tema fondamentale è il Tao, ossia la Via, filosofia secondo la quale la felicità eterna risiede nella identificazione totale con la natura che deplora la passione, nonché l'interferenza dei governi nella via semplice degli esseri umani. Il buddismo, spogliato dal pragmatismo cinese di buona parte del ruolo centrale attribuito alla vita ultraterrena, fu accettato come supporto ai sistemi religiosi cinesi. Insieme al confucianesimo e al taoismo, il buddismo divenne uno dei tre insegnamenti onorati. Il buddismo influenzò anche lo shintoismo giapponese, la religione tradizionale del Giappone, sviluppatasi dall'adorazione della natura e dal profondo rispetto per gli antenati. Lo shintoismo è essenzialmente un complesso di tradizioni rituali piuttosto che un sistema etico morale, e venera un insieme composito di nomi, inclusi imperatori divinizzati, spiriti familiari e tutte le divinità che risiedono nei fiumi, negli alberi, in alcuni animali, nelle montagne e, in particolare, nel sole nella luna. Dopo un'iniziale resistenza, le divinità buddiste vennero considerate alla stregua di divinità giapponesi sotto un'altra forma, e i sacerdoti buddisti finirono per controllare la maggior parte dei santuari e dei luoghi di culto shintoisti. In epoca più recente, lo shintoismo ha abbandonato molte delle influenze del buddismo ed è diventato la religione di Stato ufficiale, i cui centri di culto sono i numerosi santuari e templi in cui si ritiene che risiedano gli dèi e ai quali si accede attraverso cancelli di ingresso cerimoniali.   CAPITOLO 6 – Geografia etnica: elementi di diversità Le politiche di “chiusura allo straniero”, o di manifesta intolleranza nei confronti di chi giunge sulle nostre coste, evidenziano una scarsa capacità di riconoscere i movimenti di popolazione nel mondo. Diversi Stati del mondo sono diventati, negli ultimi anni, un melting pot culturale; questa affermazione si dimostra valida per molti paesi occidentali, compresa l’Italia. La maggior parte delle società del pianeta, persino quelle che dall'esterno appaiono più omogenee, ospita al proprio interno gruppi etnici distinti, ossia popolazioni che si sentono legate da un'origine comune e che si differenziano da altri gruppi in virtù di legami di cultura, razza, religione, lingua o nazionalità. I fattori determinanti della globalizzazione contribuiscono ad accrescere i movimenti e la mescolanza etnica. La geografia cosiddetta “etnica” si occupa dei molteplici spostamenti, migrazioni e mescolanze di popoli di diversa origine in tutto il mondo. L'attenzione di tale disciplina è principalmente rivolta alle interazioni e alla distribuzione a livello territoriale dei gruppi etnici e delle caratteristiche culturali che li contraddistinguono. La cultura caratterizza il gruppo e lo distingue da tutti gli altri nuclei che hanno creato e trasmesso collettivamente ai propri figli e discendenti altri “generi di vita”. L’etnicità, al contrario, è un termine utilizzato per connotare un più ampio gruppo di individui che condividono i tratti di una specifica cultura comune. Il concetto si basa sulla ferma consapevolezza, da parte dei membri di un gruppo, di essere diversi da altri individui che non condividono le medesime caratteristiche peculiari né la medesima eredità culturale. Il concetto è legato allo spazio. I gruppi etnici sono associati a territorio riconosciuti, di cui sono gli occupanti principali o esclusivi, e sui quali hanno finito per imprimere segni culturali specifici. Inoltre, dal momento che l’etnicità viene spesso identificata con la lingua e con le pratiche religiose che distinguono un gruppo minoritario dalla cultura dominante, all’interno della quale è inserito, il concetto di appartenenza etnica è correlato agli elementi della lingua e della religione. Diversità etnica e separatismo Razza ed etnicità sono due concetti spesso considerati sinonimici, ma in realtà estremamente differenti. La razza è una classificazione, ormai sorpassata, degli esseri umani in base a caratteristiche fisiche esteriori, come il colore della pelle, lo spessore dei capelli oppure il colore e forma degli occhi. Tutti gli esseri umani appartengono alla stessa specie, e i biologi non utilizzano più il concetto di razza per descrivere le differenze umane. Sebbene la razza non esista in senso scientifico e biologico, permane ancora come idea basilare per differenziare i gruppi etnici e il razzismo – il pregiudizio e la discriminazione basati sulle categorie razziali – è purtroppo ancora presente. Etnocentrismo è il termine utilizzato per descrivere la tendenza a giudicare e valutare altre culture in base agli standard della propria cultura di appartenenza e sottintende la convinzione della superiorità del proprio gruppo etnico. L’etnocentrismo può essere un elemento di divisione tra società multietniche, creando rivalità e provocando discordie a livello sia sociale sia territoriale, ma può anche assumere la connotazione positiva di un sentimento di riconoscimento e identificazione in grado di offrire sostegno all’individuo che si ritrova all’interno di un ambiente estraneo e complesso. Il gruppo etnico tende a conservare le istituzioni culturali di origine; inoltre, il più delle volte, offre ai nuovi arrivati la possibilità di amicizia e legami coniugali, opportunità economica e uno schieramento politico di riferimento. Laddove gruppi etnici si mescolano, i confini territoriali si fanno più indeterminati, o laddove un unico stato ospita più etnie rivali, i conflitti interetnici possono assumere toni drammatici se viene a mancare la coesistenza pacifica o il controllo esercitato dal governo centrale. L’Olocausto è stato un caso estremo di sterminio etnico, ma la storia dell'umanità è disseminata di analoghi crimini contro comunità prese di mira per la loro diversità culturale etnica. Attraverso il genocidio, tale “pulizia” implica la violenta eliminazione di un gruppo etnico specifico da una Le culture fondatrici dell’identità dell’America anglosassone Sebbene nell'America anglosassone contemporanea non esista una singola area che possa essere considerata come vera e propria “patria” per una specifica minoranza etnica, si registra la presenza di una serie di gruppi etnici e sociali distinti. Quello inglese è diventato il gruppo fondatore, ossia il gruppo che per primo è giunto nei nuovi territori, assumendo un ruolo dominante, creando le norme culturali e gli standard sulla base dei quali gli altri gruppi di immigrati sarebbero stati valutati. In virtù della loro priorità di arrivo e dell'egemonia esercitata inizialmente, i britannici hanno creato la cultura maggioritaria del regno anglo-americano, il cui impatto etnico è ancora evidente al giorno d'oggi. Gruppi etnici Dal momento che i britannici avevano già occupato buona parte dei terreni agricoli a est, i successivi flussi di immigrati provenienti dall'Europa furono in un certo senso obbligati a “scavalcare” tali aree, cercando opportunità di insediamento nelle terre produttive ancora disponibili del Canada e degli Stati Uniti occidentali e interni. Anche al di fuori dell'area anglo-americana esistono fenomeni analoghi: in Europa, per esempio, la storia parla di continui flussi migratori che, giungendo da terre diverse, hanno portato gruppi etnici diversi a occupare le terre occidentali. Tali flussi hanno creato aree di concentrazione culturale che vengono definite isole etniche. Caratterizzate da un forte senso della comunità, le isole etniche hanno spesso lasciato un'impronta caratteristica sul paesaggio rurale, conservando uno specifico stile per le abitazioni, mentre gli abitanti hanno mantenuto il proprio linguaggio, modo di vestire e tradizioni. In Europa sono ancora esistenti delle isole etniche: tra i casi più interessanti vi sono i baschi nella parte settentrionale della Spagna atlantica. Assai meno conosciuto è il caso degli albanesi di Grecia, in quanto il loro riconoscimento è stato fortemente scoraggiato nei decenni passati dalle autorità elleniche. In Italia si possono menzionare varie isole etniche sulle Alpi, in assai variabile misura “deperite”. Segregazione e diversità etnica nel paesaggio urbano Ogni nuovo elemento ha cercato sia di inserirsi all'interno della matrice urbana, creata dai gruppi fondatori, sia di instaurare relazioni accettabili con altri gruppi etnici di immigrati. Tale processo di inserimento è stato raggiunto con la creazione di quartieri o comunità etniche. Si tratta di aree di aggregazione all'interno del nucleo urbano di un particolare gruppo culturale. I quartieri popolati da immigrati sono un indicatore della distanza sociale che separa il gruppo minoritario da quello fondatore. Maggiore sono le differenze percepite tra i due gruppi, più grande risulta la distanza sociale e minori sono le possibilità che il gruppo fondatore accetti al proprio interno i nuovi arrivati. Ne consegue che la comunità etnica sopravviverà più a lungo, sia come luogo di rifugio per gli immigrati, sia come luogo di segregazione imposta. L'espressione segregazione indica la misura in cui gli individui appartenenti a un gruppo etnico NON sono distribuiti in modo uniforme, in relazione al resto della popolazione. Uno degli strumenti comunemente utilizzati per quantificare il livello di segregazione di un gruppo specifico è l'indice di segregazione o indice di dissimilarità residenziale: esso esprime la differenza percentuale nella distribuzione di due gruppi che costituiscono una determinata popolazione, con un intervallo teorico di valori che va da 0 (nessuna segregazione) a 100 (segregazione totale). Gli esempi raccolti in città di tutto il mondo evidenziano che la maggior parte delle minoranze etniche tende a essere nettamente segregata dal gruppo fondatore e che la segregazione basata su linee di demarcazione etniche risulta solitamente maggiore rispetto a quanto ci si potrebbe aspettare guardando solo ai livelli socioeconomici dei gruppi coinvolti. Inoltre, il livello di segregazione può variare tra città all’interno dello stesso Paese e tra differenti etnie all’interno di una singola città. La segregazione territoriale è in via di aumento negli Stati in via di sviluppo. La rapida urbanizzazione di un Paese multietnico come l’India ha originato contesti urbani segnati da contrasti sociali e culturali. Nelle città indiane si ritrovano sempre più spesso colonie residenziali ben definite, segregate dalle origini di casta o in base al villaggio di provenienza degli immigrati. A livello mondiale, in tutti i contesti urbani continentali nazionali, il livello di segregazione degli immigrati è almeno in parte condizionato dal livello di distanza sociale percepito tra la popolazione dei nuovi arrivati e le altre società ospitanti, all'interno delle quali viene ricercato un territorio di residenza. La percentuale di assimilazione di una minoranza etnica da parte della cultura ospitante dipende da due gruppi di fattori: quelli esterni includono gli atteggiamenti del gruppo fondatore e di altri gruppi etnici nei confronti della minoranza; quelli interni sono relativi alla compattezza e al senso di diffidenza, e chiusura, mostrato dal gruppo. Fattori di controllo esterni Quando la cultura maggioritaria percepisce un gruppo etnico specifico come una minaccia alla propria integrità, quest’ultimo tende a essere isolato territorialmente mediante tattiche di “blocco”, messe in atto per confinare la minoranza rifiutata e per resistere al suo insediamento nei quartieri urbani già occupati. Più il gruppo minacciato è compatto, più le sue manovre di resistenza saranno irremovibili. Quando il confronto non risulta efficace, l'invasione del territorio del gruppo fondatore da parte della minoranza rifiutata procede fino a raggiungere una percentuale critica di occupazione degli spazi abitativi. Tale livello, indicato con l'espressione tipping point, può provocare un rapido esodo da parte dell'ex popolazione maggioritaria. L'invasione, seguita dal subentro per successione, crea un nuovo schema territoriale di predominanza etnica. La discriminazione razziale etnica in aree urbane si esprime in genere relegando la minoranza rifiutata nelle dimore più povere disponibili. Mansioni sgradevoli, umili, retribuite in modo inadeguato e posti di lavoro che non attirano il gruppo fondatore restano appannaggio pressoché esclusivo dei nuovi arrivati, mentre altri sbocchi professionali vengono preclusi. Fattori di controllo interni La segregazione autoimposta di alcuni gruppi etnici può assolvere a quattro funzioni principali: difesa, supporto, conservazione e attacco. In primo luogo, tale segregazione offre un mezzo di difesa, riducendo l'esposizione all'isolamento di singoli immigrati grazie alla contiguità fisica entro un'area delimitata. In secondo luogo, il quartiere etnico offre molte forme diverse di supporto agli individui che vi risiedono. Il territorio serve da punto a metà strada tra il Paese di origine e la società ospitante, all'interno della quale gli elementi estranei ambiscono a un definitivo inserimento. Il quartiere funziona come luogo di iniziazione e indottrinamento: fornisce i primi rudimenti per orientarsi, istituzioni religiose, opportunità di lavoro laddove le barriere linguistiche sono minime, oltre a legami di amicizia e di fratellanza per rendere più agevole la transizione verso la nuova società. In terzo luogo, il quartiere etnico può espletare anche una funzione di conservazione, che riflette l'intento positivo del gruppo etnico di custodire e di promuovere gli elementi essenziali della propria eredità culturale, primi fra tutti lingua e religione. La funzione di conservazione e tutela coincide con una certa riluttanza a venire totalmente assorbiti nella società fondatrice . Infine, la concentrazione etnica territoriale può svolgere anche una funzione che è possibile definire di attacco o di rivendicazione: una ricerca pacifica e legittima di rappresentazione politica. Concentrazioni etniche in continuo cambiamento Una volta create, le comunità etniche NON sono necessariamente permanenti. Le aggregazioni etniche che inizialmente si identificavano con specifiche aree urbane centrali vengono solitamente, o di frequente, soppiantate da gruppi di nuovi arrivati. Con i recenti flussi di immigrazione diversificati, i vecchi quartieri etnici, caratterizzati da un’omogeneità razziale, sono diventati più nettamente suddivisi e polietnici. La crescente diversità etnica, unita a un flusso migratorio, ha in alcuni casi accentuato la segregazione dei gruppi urbani invece di attenuarla. Quando a una comunità etnica viene rifiutata o negata l'assimilazione in seno alla società più ampia, tale comunità può comunque trasferirsi conservando la propria coesione interna. Uno dei risultati è quello che viene definito con il neologismo ethnourb (periferia etnica), indicante una comunità periferica completamente strutturata dal punto di vista politico e socioeconomico, con la concentrazione significativa di un singolo gruppo etnico. Tipologie e risultati a livello territoriale Si ricordi il concetto di “genere di vita”, proposto alla fine del XIX secolo dal geografo tedesco Ratzel. Questo concetto viene applicato a una classificazione dei modi di vita dei diversi popoli della Terra, per i quali la connessione col quadro fisico-ambientale è molto evidente. Tuttavia, man mano che una parte crescente della popolazione mondiale passa a modalità di vita economica più complesse, si fa strada la consapevolezza che sono opportuni nuovi criteri di classificazione delle attività economiche. Un concetto di frequente utilizzo è stato quello di struttura socioeconomica, il quale presenta il vantaggio, per spiegare la diversità regionale e locale delle attività economiche, di ricomprendere in uno schema che da un lato può applicarsi egualmente bene tanto alle attività tradizionali che a quelle moderne, dall'altro può collegare tali attività all'organizzazione sociale delle popolazioni che le praticano. Quindi, il concetto permette di distinguere il differente significato sociale, nonché economico, che anche l'uso delle medesime tecniche può occultare. Categorie di attività È possibile distinguere un numero ristretto di stadi produttivi e attività di servizio. Le attività primarie sono quelle attività che raccolgono o estraggono qualcosa dalla terra o dal mare. Queste attività (agricoltura, attività di raccolta e attività estrattiva) si collocano all'inizio del ciclo produttivo, nel quale gli esseri umani sono in più stretto contatto con le risorse e le potenzialità dell'ambiente. Tali attività implicano la produzione di generi alimentari di base e di materie prime. Le attività secondarie (manifattura, costruzioni, produzione di energia) sono quelle che aggiungono valore ai materiali, modificandone la forma o combinandoli, per creare prodotti più utili, e dunque di maggior valore. Le attività terziarie consistono in quelle specializzazioni lavorative che forniscono servizi ai settori primario e secondario; inoltre, forniscono beni alla comunità e all'individuo. Comprendono servizi finanziari, commerciali, amministrativi e costituiscono il vitale collegamento tra produttore consumatore. I servizi del terziario, inoltre, forniscono ai produttori un’informazione essenziale: l'entità della domanda di mercato, senza conoscere la quale sono impossibili decisioni produttive economicamente giustificabili. Il termine quaternario si applica una quarta classe di attività economiche, interamente composte dai servizi resi da “colletti bianchi”, professionisti impegnati nel campo dell'istruzione, del governo, dei processi informativi e della ricerca. A volte si distingue una suddivisione di queste funzioni direttive – le attività quinarie – per evidenziare il ruolo dei centri decisionali ad alto livello, in tutti i tipi di organizzazioni su larga scala, pubbliche e private. Queste categorie di attività aiutano a individuare la struttura soggiacente alla varietà di lavori a cui le persone si dedicano per guadagnarsi da vivere. Tuttavia, prese da sole, esse dicono poco sull'organizzazione dell’economia di cui fa parte il singolo lavoratore o la singola impresa. Per comprendere questa organizzazione, bisogna considerare le strutture socioeconomiche; e, al di sopra di esse, i sistemi economici ai quali appartengono, che permettono una comprensione più approfondita. Tipi di sistema economico Le economie nazionali, all’inizio del XII secolo, rientrano in uno di questi tre principali tipi di sistema: di sussistenza, di mercato o pianificato. Nessuno di questi sistemi economici esiste isolato. Ciascuno, comunque, manifesta caratteristiche peculiari, basate sulle sue basilari forme di gestione delle risorse e di controllo economico. In un'economia di sussistenza, i beni e i servizi vengono creati a uso dei produttori e dei loro nuclei familiari. Dunque, lo scambio di merci è modesto. Nelle economie di mercato, divenute prevalenti quasi ovunque nel mondo, i produttori o i loro agenti commercializzano merci e servizi. Almeno in teoria, la legge della domanda e dell’offerta determina i prezzi, mentre la concorrenza commerciale costituisce l’elemento chiave per regolare le decisioni produttive e la distribuzione. Nella forma di economie pianificate, associate alle società di tipo comunista, i produttori e i loro controllori disponevano delle merci dei servizi attraverso agenzie governative che ne controllavano la quantità offerta, le caratteristiche e il prezzo. Con poche eccezioni, le economie rigidamente pianificate, nella loro forma classica, non esistono più, poiché sono state smantellate a favore di strutture che sono di libero mercato; in alternativa, sono state in parte mantenute con un grado minore di controllo economico. Attività primarie: l’agricoltura Lo scopo basilare dell'economia umana è produrre o assicurarsi cibo sufficiente a far fronte alle richieste giornaliere di energia individuale. I cibi possono essere acquisiti dal fruitore direttamente, attraverso le attività economiche della caccia, della raccolta, della coltivazione e della pesca; oppure indirettamente, mediante altre attività economiche primarie, secondarie o di livello più elevato, le quali forniscono a chi guadagna un reddito sufficiente per ottenere il sostentamento necessario. L'agricoltura, intesa come coltivazione di piante e allevamento di bestiame, ha da tempo sostituito la raccolta e la caccia come attività primaria ed economicamente più significativa. È la più diffusa nel territorio e si pratica in tutte le regioni del mondo, in cui le condizioni ambientali lo permettono. Le Nazioni Unite ritengono che più di un terzo delle terre emerse mondiali sia utilizzabile da un punto di vista agricolo. L'agricoltura rimane una componente fondamentale delle economie di molte nazioni in via di sviluppo, producendo per il mercato interno e fornendo un contributo essenziale al reddito nazionale attraverso le esportazioni. Si parla di un continuum agricolo, concernente le condizioni dell'economia agricola, alla cui estremità si trova la produzione intesa esclusivamente per il sostentamento familiare; dall'altra si trova l'agricoltura tipica delle economie avanzate, quindi specializzata e quasi industriale, concepita per destinare i prodotti lontano dai luoghi di produzione. Tra i due estremi si trova lo spazio intermedio rappresentato dall'agricoltura tradizionale, in cui la produzione è in parte destinata al consumo domestico, in parte orientata alla vendita esterna, o sul mercato locale o su quello nazionale e internazionale. L’agricoltura di sussistenza Per definizione, un sistema economico di sussistenza implica la quasi totale autosufficienza da parte dei suoi membri. La produzione destinata allo scambio è minima e ciascuna famiglia o gruppo sociale coeso conta su sé stesso per le esigenze fondamentali. Si possono individuare due tipi fondamentali di agricoltura di sussistenza: estensiva e intensiva. La differenza principale fra i due concerne le potenzialità di sostentamento della popolazione. L'agricoltura di sussistenza estensiva coinvolge vaste aree di superficie e minima concentrazione di manodopera. L'agricoltura di sussistenza intensiva prevede la coltivazione di piccoli appezzamenti attraverso il ricorso a una grande mobilitazione di manodopera. Agricoltura di sussistenza estensiva Tra i diversi tipi di agricoltura di sussistenza estensiva, due sono di particolare interesse: il nomadismo pastorale e l’agricoltura itinerante. Il nomadismo pastorale, ovvero il movimento migratorio controllato di bestiame che si alimenta soltanto di vegetazione spontanea, è il sistema di uso del suolo più estensivo. Questo vuol dire che richiede la massima estensione di terreno per persona da sostentare. In vaste porzioni delle aree desertiche e semidesertiche asiatiche un numero relativamente ristretto di persone fa pascolare i capi di bestiame per il consumo del gruppo stesso, e non per la vendita sul mercato. Qualunque sia la specie coinvolta, le caratteristiche comuni del bestiame sono resistenza fisica, mobilità e capacità di vivere con scarso foraggio. La pastorizia nomade è governata dalle precipitazioni scarse stagionali, un fattore che comporta una presenza intermittente della vegetazione pascolabile; quindi, lunghe permanenze in una data località non sono possibili. La transumanza è una forma particolare di trasferimento stagionale delle greggi, per sfruttare condizioni di pascolo localmente variabili. Implica o il regolare spostamento in verticale, dai pascoli di montagna in estate a quelli di pianura/valle in inverno, o il movimento orizzontale fra aree di pascolo interamente in pianura, per raggiungere periodicamente pasture divenute lussureggianti, grazie alle precipitazioni stagionali. Il nomadismo pastorale è in declino. Svariati mutamenti economici, sociali e culturali spingono i gruppi nomadi a modificare il proprio sistema di vita o a scomparire del tutto. Un tipo ben diverso di agricoltura di sussistenza estensiva si ritrova in tutte le aree caldo-umide alle basse latitudini del mondo, dove le persone sono impegnate nel nomadismo agricolo. A causa della terreno. La grande quantità di acqua richiesta dall'irrigazione per la “rivoluzione verde” ha causato un grave impoverimento delle falde acquifere, dunque una situazione conflittuale. Si temono, poi, gravi conseguenze per l'abbandono dell'agricoltura tradizionale di sussistenza, con il quale si perde anche la sicurezza alimentare garantita dalla molteplicità di varietà botaniche, diversificate localmente e adattate. L'agricoltura di mercato, inoltre, mira a massimizzare i profitti, non ad assicurare il minimo vitale alimentare. I contadini poveri, incapaci di permettersi l'investimento di capitale richiesto dalla “rivoluzione verde”, sono stati soppiantati dalla monocultura di mercato, spesso orientata verso coltivazioni agroindustriali, concepite per l'esportazione piuttosto che per la produzione alimentare a uso del mercato interno. Così facendo, la varietà dei raccolti destinati all'alimentazione si riduce. In molte zone, dove in passato si sono ottenuti grandissimi successi, le conquiste della “rivoluzione verde” vanno declinando. Gli ultimi raccolti di cereali in Asia, per esempio, crescono soltanto a due terzi del ritmo degli anni Settanta. Si parla di organismi geneticamente modificati in termini di diffidenza da parte dei consumatori nei confronti delle colture alimentari, oltre ai costi elevati e alle restrizioni imposte alle nuove biotecnologie dalle aziende che le hanno sviluppate. Malgrado questo, la produzione di raccolti trasformanti dall'ingegneria genetica si sta diffondendo con rapidità. Le modifiche genetiche che hanno incontrato maggior successo sono state la resistenza agli erbicidi e agli insetti: a esse si devono il significativo aumento di produttività e la riduzione di costi nelle corrispondenti colture. L’agricoltura di mercato La trasformazione dei sistemi agricoli di sussistenza ha reso gli ultimi più complessi, conferendo loro quella diversificazione e quei collegamenti tra le attività che contraddistinguono i sistemi economici avanzati del mondo più sviluppato. I contadini che operano in tali sistemi non producono per il proprio sostentamento, ma principalmente per un mercato lontano dall'azienda. Essi fanno parte delle economie integrate, in cui l'agricoltura rappresenta soltanto un elemento della complessa struttura comprendente le attività minerarie, le industrie, le manifatture, le attività di servizio dei settori terziario, quaternario e quinario. In queste economie, le attività agricole in genere sono orientate alla domanda del mercato, espressa attraverso i prezzi, e sono connesse ai consumi di una società più ampia, anziché bisogni immediati dei coltivatori. L'agricoltura all'interno delle moderne economie è caratterizzata dalla specializzazione; dalla vendita esterna in luogo della produzione di sussistenza; dall'interdipendenza di produttori e acquirenti, collegati attraverso i mercati. Teoricamente, meno i prodotti agricoli sono disponibili, tanto maggiore sarà il loro prezzo di mercato. L'espressione sistema agroindustriale si applica a questa crescente fusione fra la tradizionale economia alimentare e i nuovi modelli di produzione dei sistemi di mercato. L'agricoltura a contratto si va diffondendo anche nei paesi in via di sviluppo, sebbene sia spesso criticata come ulteriore negativo segno della globalizzazione, in cui i piccoli agricoltori vengono sfruttati dal potente sistema agroindustriale occidentale. La FAO, però, sostiene che gli accordi contrattuali ben condotti sono efficaci per connettere i piccoli agricoltori delle economie emergenti con i fornitori di consulenza avanzata per la crescita e per offrire loro accesso ai mercati vantaggiosi con prezzi stabili. Un modello di localizzazione agricola Agli inizi del XIX secolo, Johan Heinrich von Thünen osservò che i suoli dotati in apparenza delle medesime caratteristiche fisiche venivano impiegati per scopi agricoli diversi. Egli, altresì, notò che attorno a ciascuna delle importanti città in cui si concentrava il mercato dei prodotti agricoli del territorio circostante, si sviluppava una serie concentrica di anelli di terreno, ciascuno usato per produrre derrate agricole differenti. L'anello più vicino al mercato si specializzava in prodotti deperibili, costosi da trasportare e molto richiesti. Gli anelli di suolo coltivabile più lontani dal centro urbano erano impiegati per derrate dai costi di trasporto più sostenuti e domanda meno continua. Ai margini esterni dell'agricoltura più redditizia, ancora più lontano dal mercato centrale, si trovavano i pascoli per il bestiame e analoghi usi estensivi del suolo. Per spiegare come mai ciò accadesse, von Thünen formalizzò un modello spaziale, il modello di von Thünen, forse il primo sviluppato per analizzare la distribuzione territoriale dell'attività economica. Egli giunse alla conclusione che le differenze riflettevano il costo necessario per superare la distanza che separava una data fattoria da una città centro di mercato. Maggiore era la distanza, più elevato era il costo operativo per il contadino, giacché alle altre spese bisognava aggiungere quelle di trasporto. La resa del terreno, per qualunque prodotto agricolo, decresce con l'aumento della distanza dalla città-mercato centrale. Le colture che hanno sia il più alto valore commerciale sia i più alti costi di trasporto saranno poste a distanza superiore. Il terreno lontano dai mercati si usa estensivamente. Poiché in questo modello i costi di trasporto sono uguali in tutte le direzioni a partire dal centro, ne risulta uno schema zonale a cerchi concentrici di sfruttamento del terreno, chiamati anelli di von Thünen. Agricoltura di mercato intensiva Dopo la Seconda guerra mondiale, nell'economia di mercato dei paesi sviluppati l'agricoltura si è sempre più concentrata sull’efficacia dei metodi di produzione. In questo senso, l'intera agricoltura moderna di mercato è “intensiva”. Per quanto riguarda l'agricoltura di mercato, viene determinata la distinzione tra intensiva ed estensiva. I contadini che impiegano grandi quantità di capitale e/o di lavoro per unità di superficie si dedicano all’agricoltura commerciale intensiva. Le colture che giustificano tali costosi investimenti produttivi si caratterizzano per produttività e valore di mercato elevati per unità di superficie. Dal momento che il prodotto è deperibile, i costi di trasporto aumentano, in quanto occorrono confezioni e spedizioni speciali: questo è un motivo per mantenere l'ubicazione vicino al mercato. Un esempio è rappresentato dalle aziende con cerealicoltura finalizzata all’allevamento, che si dedicano a coltivare cereali destinati al consumo del bestiame dell’azienda, il quale rappresenta il prodotto finale dell’azienda agricola. Per produrre un articolo commerciabile in grandi quantità ad un costo il più contenuto possibile, gli operatori delle aziende agricole confinano gli animali in recinti o gabbie, somministrano loro antibiotici e vitamine per mantenerli in salute e accelerarne la crescita e li nutrono con mangimi artificiali. Agricoltura di mercato estensiva Più lontano dai mercati, su terreno meno costoso, vi è minor necessità di sfruttare il suolo in maniera intensiva. Nelle fasce temperate dei due emisferi, l'agricoltura di mercato estensiva è caratterizzata da grandi fattori e produttrici di cereali e/o dall’allevamento di bestiame brado al pascolo, i quali differiscono dalle aziende con cerealicoltura finalizzata all'allevamento e dal nomadismo, con cui possono avere superficiali analogie. Poiché l'allevamento all'aria aperta può risultare un'attività remunerativa soltanto dove sono inesistenti gli utilizzi alternativi del terreno e la qualità del suolo è modesta, le regioni del mondo che lo praticano sono caratterizzate da bassa densità demografica, bassi investimenti per unità di superficie e da una richiesta relativamente limitata di manodopera. Colture specializzate La prossimità al mercato NON garantisce la produzione intensiva di coltura e di elevato valore: possono essere di impedimento il suolo e le condizioni climatiche. Circostanze particolari, soprattutto climatiche, rendono alcune località lontane dai mercati delle aree agricole altamente sviluppate. Due casi particolari sono l'agricoltura nei climi mediterranei e nelle aree coltivate a piantagione. Nel paesaggio rurale del bacino del Mediterraneo dominavano in passato i cereali, e molta della superficie delle campagne era destinata al pascolo. Essendosi ridotta la cerealicoltura, ed essendo state abbandonate le campagne più povere, l'agricoltura mediterranea odierna si caratterizza in gran La raccolta di prodotti forestali è tuttora importante specie presso le società agricole di sussistenza. Le foreste di interesse commerciale sono ridotte a due vastissime fasce. Una, quasi interrotta, si trova nelle latitudini medie settentrionali dell'emisfero nord; l'altra è collocata nelle zone equatoriali dell'America meridionale centrale, dell'Africa centrale e dell'Asia sud-orientale. Queste fasce forestali differiscono per tipo di alberi e mercato di sbocco, o comunque di utilizzo. La foresta del nord, ovvero di “legno dolce”, è la più ampia e la più continua: si estende intorno al mondo dalla penisola scandinava sino al Nord America. Negli ultimi tempi le aree boschive europee e americane sono state gravemente minacciate dalle piogge acide e dall'inquinamento atmosferico; quindi, l'estensione forestale è stata mantenuta costante attraverso la conservazione, la protezione e il rimboschimento. Le foreste di legno duro delle pianure tropicali sono sfruttate particolarmente per ricavarne combustibile vegetale come la carbonella. Nel corso degli anni Novanta del Novecento, le foreste tropicali e terreni boscosi furono convertiti a uso agricolo. Queste riconversioni hanno avuto implicazioni non soltanto ecologiche, ma anche economiche, giacché tagliare le foreste senza ripiantare trasforma una risorsa rinnovabile in una risorsa non rinnovabile, sfruttata sino alla distruzione. Miniere e cave Le industrie estrattive diventano rilevanti quando lo sviluppo tecnico e le necessità economiche rendono possibile una più sofisticata esplorazione delle risorse della terra. Oggi queste industrie forniscono le materie prime e l'energia di base per il genere di vita tipico delle popolazioni delle economie avanzate. Le industrie estrattive si basano sullo sfruttamento di minerali che non sono uniformemente distribuiti, la cui quantità e concentrazione sono determinate dai passati eventi geologici, non dalle richieste dal mercato contemporaneo. Il fatto che l'industrializzazione si sia sviluppata in modo così rapido e a costi relativamente bassi è il diretto risultato di una disponibilità immediata di materie prime minerarie in concentrazioni ricche e accessibili. I costi, poi, aumentano perché si devono applicare tecnologie più avanzate a più alto consumo energetico per estrarre i materiali desiderati da profondità sempre maggiori della crosta terrestre, o da nuovi giacimenti. La produzione della maggior parte dei minerali metallici, come ferro, rame e piombo, è condizionata dalla combinazione di tre fattori: quantità disponibile, tenore metallico del minerale e distanza dai mercati. Un quarto fattore, il costo dell'acquisizione dei terreni e dei diritti di estrazione, può da solo pareggiare in importanza gli altri fattori o anche superarli, limitatamente alle decisioni relative allo sviluppo delle miniere. Le nazioni industrialmente sviluppate dell'economia di mercato restano in posizione di svantaggio competitivo rispetto alla produzione dei paesi poveri, i quali hanno costi di manodopera più contenuti e dispongono di miniere di proprietà statale con riserve ricche e numerose. Quando il minerale è ricco di contenuto metallico, conviene trasportarlo direttamente sul mercato per la trasformazione metallurgica. Però, com’è ovvio, i minerali a tenore più elevato tendono a essere estratti per primi. Ma, a causa dell'alto costo di estrazione, molti minerali a più alto tenore non vengono sfruttati, preferendo utilizzare giacimenti più ampi, anche se di minerali a tenore bassissimo. CAPITOLO 8 – Mezzi di sussistenza ed economia dai colletti blu ai colletti d’oro Le componenti dell’economia spaziale Ogni attività umana ha espressione spaziale . I diversi sistemi economici si riconoscono in regioni di concentrazione industriale, aree di specializzazione e luoghi destinati a fabbriche e magazzini. Si possono comprendere classificando le attività economiche in primarie, secondarie, terziarie, quaternarie e quinarie. Attività primari e : sono legate alle risorse naturali che le attività stesse raccolgono o di cui sfruttano la localizzazione; interessano prevalentemente l’agricoltura e l’allevamento. Attività secondarie: incentrate sulla lavorazione dei materiali e sulla produzione di merci, richiedono condizioni spaziali diverse dalle attività del terziario o dei poli di ricerca e dai complessi d’ufficio delle attività quaternarie e quinarie. Per l’industria e per gli altri tipi di attività si possono identificare un insieme ricorrente di vincoli economici. Concetti e vincoli I vincoli si rilevano, in generale, nel comportamento dell’essere umano rispetto al territorio; in particolare, nelle scelte di tipo economico. Dunque, l’intensità dell’interazione spaziale decresce con l’aumento della distanza tra i luoghi. Si presuppone che i produttori e venditori di merci e servizi mirino alla massimizzazione dei profitti. Per raggiungere tale obiettivo, ciascuno dei soggetti tiene conto dei costi di produzione e di quelli derivanti dal mercato, nonché dei condizionamenti della politica, della concorrenza e di altri fattori limitativi. Spesso, tuttavia, i meccanismi del mercato vengono analizzati al di fuori di un contesto territoriale, e gli economisti trattano la domanda, l’offerta e il prezzo come se tutta la produzione, gli acquisti e le vendite avvenissero in un unico punto . Le attività secondarie: manifatture Se si parte dal presupposto che i mercati siano liberi, i produttori razionali e i consumatori informati, le decisioni inerenti la localizzazione della produzione e il marketing dovranno basarsi su un’attenta valutazione di costi e di opportunità spazialmente differenziati. Nel caso delle attività primarie, i punti e le aree disponibili sono legati all’ambiente. Nel caso delle attività economiche del settore secondario, fino a quinario, la scelta della localizzazione più complessa richiede una localizzazione considerevole per le prospettive del profitto. Il versante della domanda definisce le aree in base alle opportunità commerciali e la distribuzione della popolazione e della capacità di acquisto . Sul versante dell’offerta, prendere decisioni comporta, per gli industriali, un insieme di equazioni più elaborate. I produttori devono considerare il costo delle materie prime, la distanza tra queste ultime, i mercati, il costo della manodopera, le spese, la disponibilità e i costi di capitale; a questi si aggiunge una serie di altri oneri, relativa al processo di produzione e distribuzione. Scelte localizzate per le manifatture Le attività secondarie prevedono la trasformazione di mat erie prime in prodotti finiti . In questo campo domina la produzione manifatturiera, intesa nei suoi molteplici aspetti: dalla fusione del ferro e dell’acciaio allo stampaggio di giocattoli di plastica, all’assemblaggio di componenti per computer, alla confezione di abiti, ecc. Nella produzione di beni standardizzati all’interno delle fabbriche, una caratteristica comune a tutti questi casi è l’impegno di energie da parte del lavoro specializzato, un fattore tipico dell’industria. Le manifatture pongono un problema di localizzazione diverso dall’acquisizione di materie prime, in quanto presuppongono l’assemblaggio e la lavorazione dei materiali e la distribuzione di quanto integrato e la specializzazione territoriale. Tutte le economie avanzate sono ben servite da una vasta gamma di mezzi di trasporto, senza i quali sono possibili soltanto attività di sussistenza locali. Il trasporto su vie navigabili è il sistema di trasporto di merci più economico per la lunga distanza e presenta costi operativi e diritti di transito contenuti. Le ferrovie permettono di spostare in modo efficiente grandi quantità di merci sulla lunga distanza con costi contenuti di combustibile e di lavoro. I camion nell’economia moderna, invece, veloci e circolanti su reti stradali, hanno alterato il quadro competitivo in favore del trasporto su gomma rispetto a quello ferroviario. I sistemi stradali prevedono una grande flessibilità di servizio e reagiscono più in fretta delle strade ferrate. Oleodotti e gasdotti forniscono un trasporto efficiente e affidabile, adattissimo allo spostamento di tutta una varietà di liquidi e gas. Il trasporto via aerea riveste uno scarso peso per la localizzazione della maggioranza dell’industria, mentre è sempre più importante nelle tratte per passeggeri su lunga distanza e nelle spedizioni di merci confezionate di grande valore. Trasporti e localizzazione I costi sono più in funzione della distanza, lungo la quale vengono trasportati i beni, perché dipendono dai diversi tassi di nolo, dalle tariffe richieste per il carico, dal trasporto e dallo scarico delle merci. I tassi di nolo distinguono i beni sulla base della loro presunta capacità di sostenere i costi di trasporto relazionati al valore. In genere, i prodotti lavorati sono di pregio più elevato e di maggiore fragilità e possono, per questo, avere tassi di nolo più elevati delle ingombranti materie prime non lavorate. Nelle economie avanzate, con manifatture ad alto valore aggiunto, i costi più elevati di trasporto dei beni infiniti sono, dunque, una ragione fondamentale del crescente orientamento dell’industria verso il mercato. Ogni modalità di trasporto ha, inoltre, una serie di costi fissi, relativi agli immobili e agli impianti necessari, oltre ai costi terminali e a quelli del percorso. I costi terminali sono le tariffe legate alle spese di carico, di imballaggio e di scarico, nonché alle pratiche burocratiche e i relativi documenti di vantaggio. I costi di percorso variano in base alla modalità di trasporto scelta e sono spese legate all’effettivo movimento dei beni una volta caricati. I costi di trasporto totali rappresentano una combinazione di tutte le spese. Teorie della localizzazione industriale In pratica, le decisioni di localizzazione delle imprese non si basano sul peso di un singolo fattore, dato che per le attività secondarie esiste un insieme differenziato di determinanti localizzative. Sarà utile, pertanto, un breve sguardo ai tre fondamentali approcci al problema delle localizzazioni degli impianti: Teoria del minor costo Il modello classico della localizzazione industriale si fonda sul lavoro di Alfred Weber. Il modello spiega la localizzazione ottimale di uno stabilimento manifatturiero in termini di minimizzazione di tre spese base: costi relativi al trasporto, costi di manodopera e costi di agglomerazione. Possono, però, anche sopravvivere delle diseconomie, quali affitti o salari più alti. Weber conclude che i costi di trasporto sono l’elemento principale nel determinare la localizzazione. Egli osserva, comunque, che se la variazione dei costi della manodopera o della numerazione sono abbastanza elevati, una localizzazione stabilita soltanto in base ai costi di trasporto può, in effetti, NON rilevarsi ottimale. Weber formulò cinque assunti di controllo: 1. L’area è completamente uniforme dal punto di vista fisico, politico, culturale e tecnologico; 2. Le attività manifatturiere riguardano un unico prodotto, da trasportare a un unico mercato, la cui ubicazione è nota; 3. Gli input concentrano materie prime provenienti da più fonti conosciute, situate in luoghi diversi; 4. La manodopera è disponibile in maniera illimitata ma immobile sul posto; 5. I percorsi di trasporto non sono fissi, ma collegano punti d’origine e di destinazione per la via più breve e i costi di trasporto riflettono direttamente il peso dagli articoli trasportati e la distanza da percorrere. Da questi principali punti, Weber deduce la localizzazione con il minimo costo di trasporto attraverso il triangolo localizzativo, che sintetizza gli effetti di costo causati dalle localizzazioni fisse delle materie prime e del mercato in qualunque direzione. Ogni angolo del triangolo esercita la propria attrazione, ciascuno se dovesse essere scelto come sede dell’impianto ha un costo definito di produzione. L’analisi weberiana mira alla localizzazione con il minimo costo di trasporto che risulterà probabilmente all’interno del triangolo localizzativo. La sua posizione esatta dipenderà dalle distanze, dal peso rispettivo delle materie prime impiegate e dal peso del prodotto finito, e potrà essere orientata tanto verso le materie prime quanto verso il mercato. Approcci alla massimizzazione del profitto Per molti studiosi, le semplificazioni e le rigidità delle spiegazioni fornite dalle teorie del minimo costo e dall’interdipendenza delle localizzazioni sono poco realistiche e restrittive. In conclusione, sostengono che la localizzazione perfetta di un’attività produttiva sussiste dove è locato un maggiore profitto netto. Essi propongono di impiegare il principio di sostituzione, il quale riconosce che, in molti processi industriali, è possibile compensare la diminuzione di un fatto produttivo con l’aumento di un altro, oppure aumentare i costi di trasporto, riducendo simultaneamente la rendita del terreno. Altre considerazioni vincoli localizzativi Nell’economia di agglomerazione Sia la teoria dei costi sia quella della massimizzazione dei profitti riconoscono che il raggruppamento in una medesima area dell’attività industriale può assicurare alle singole imprese dei vantaggi che non potrebbero ottenere restando isolate. Questi vantaggi si concretizzano con forme di risparmio derivanti dalla condivisione di alcune infrastrutture, come gli impianti per i trasporti, i servizi sociali, i servizi pubblici, i mezzi di comunicazione. La concentrazione in un luogo può anche creare i bacini comuni di manodopera e naturalmente un mercato costituito da altre industrie delle popolazioni urbane. Le nuove fabbriche, in particolare, potranno trarre significativi vantaggi dalla localizzazione accanto ad altre fabbriche impiegate nella medesima attività, perché la manodopera è specializzata per i servizi di supporto. La relazione di industrie simili in aree limitate risale agli albori dell’età industriale e persiste in molte delle economie più recenti. Bisogna riconoscere che l’agglomerazione può produrre anche svantaggi, non soltanto benefici: se eccessiva può tradursi in diseconomie da congestione, alti prezzi del terreno, inquinamento, ecc. Quando gli svantaggi superano i vantaggi, un’impresa trarrà profitto dalla riedificazione in una sede più isolata. Produzione flessibile o just in time Chiunque assuma le decisioni localizzative e qualunque sia il criterio su cui esse si fondano, nel corso degli anni i risultati hanno prodotto un caratteristico modello mondiale delle manifatture. Si possono distinguere quattro principali regioni manifatturiere comunemente riconosciute: la parte orientale degli Stati Uniti, l’Europa occidentale e centrale, l’Europa orientale e l’Asia orientale. Nel complesso, questi raggruppamenti regionali si stima incidano per tre quinti sulla produzione manifatturiera mondiale, quanto a volume e valore. Le prime tre aree hanno beneficiato della fase precoce di sviluppo e di fusione delle manifatture, successiva alla rivoluzione industriale del XVIII secolo e proseguita sin oltre la Seconda guerra mondiale. La quarta area, l’Asia orientale, fa parte di un più vasto e nuovo modello di industrializzazione mondiale, emerso di recente come risultato di una massiccia convergenza culturale internazionale e dei trasferimenti tecnologici della seconda metà del XX e degli inizi del XXI secolo. Il Nordamerica L’importanza dell’attività manifatturiera nel Nordamerica è in costante declino. Le manifatture si trovano soprattutto nelle zone urbanizzate, ma non sono distribuite in modo uniforme. La principale concentrazione si situa nella parte nord-orientale degli Stati Uniti, nelle zone confinanti col Canada sudorientale, la cosiddetta Cintura manifatturiera dei Grandi laghi. Quest’area ospita la maggior parte della popolazione urbana dei due Stati, la più capillare sviluppata rete di trasporti, il più grande numero di stabilimenti manifatturieri e la maggior presenza dell’industria pesante. Il cuore della Cintura manifatturiera si è sviluppato a cavallo dei Monti Appalachi, verso l’interno del continente. La parte canadese della Cintura è situata accanto alle aree industriali statunitensi. Durante gli anni Novanta del secolo scorso, l’economia del Nordamerica visse quasi dappertutto un progressivo declino dell’occupazione industriale e del volume degli affari. La regione industriale del Nordamerica, in rapida crescita, si trova lungo il confine tra Stati Uniti e Messico. Questa sub-regione viene chiamata la frontiera dei lavoratori. L’Europa occidentale e centrale La rivoluzione industriale, che ebbe inizio in Inghilterra alla fine del 1700, e che si diffuse sul continente nel corso del XXI secolo, fece dell’Europa occidentale centrale la regione manifatturiera principe del mondo e l’area di origine dell’industrializzazione sulla Terra . La filatura e la tessitura meccaniche a energia idraulica dell’industria tessile inglese diedero inizio alla rivoluzione, ma fu l’energia del vapore, non quella idraulica, a fornire l’impulso per la completa industrializzazione di quel Paese e dell’Europa. Di conseguenza, in Inghilterra, furono i giacimenti di carbone, e non i corsi d’acqua, le sedi dei nuovi distretti manifatturieri. Le tecnologie sviluppate in Gran Bretagna si diffusero sul continente. Altre concentrazioni industriali, infatti, si raccolsero nei principali distretti metropolitani e nelle capitali delle nazioni europee. L’area industriale più vasta e importante si estende dal confine franco-belga sino alla Germania occidentale. Il suo perno è la Ruhr, in Germania, una concentrazione industriale compatta, altamente urbanizzata, con più di 50 importanti città, che ospitano industrie siderurgiche, tessili, automobilistiche, chimiche, nonché tutti gli stabilimenti di lavorazione dei metalli delle economie moderne. L’Europa occidentale sta sperimentando, altresì, una fase di deindustrializzazione, iniziatasi negli ultimi decenni del Novecento con il forte ridimensionamento dell’industria mineraria e della siderurgia. L’Europa orientale Tra la fine della Seconda guerra mondiale e il 1990 le concentrazioni industriali dell’Europa orientale rimasero sostanzialmente escluse dalle precedenti connessioni con i grandi mercati e le economie delle regioni europee; al contrario, esse dovettero sottostare alla pianificazione industriale e la politica economica imposte dall’Unione Sovietica. L’Asia orientale L’Asia orientale sta rapidamente diventando la più produttiva regione industriale del mondo. Il Giappone è emerso quale seconda nazione manifatturiera in assoluto. La Cina si sta industrializzando in fretta e compare tra i primi dieci produttori di un buon numero dei principali prodotti industriali. L’industria giapponese venne ricostruita, dopo la distruzione quasi totale subita nel corso della Seconda guerra mondiale, sino a raggiungere l’attuale posizione dominante in alcuni settori dell’elettronica e di altri prodotti ad alta tecnologia. La ricostruzione dell’industria giapponese avvenne senza la disponibilità interna di materie prime e mirando soprattutto alle esportazioni verso i mercati esteri. La dipendenza dall’importazione di materie prime e l’esportazione di prodotti finiti ha favorito la localizzazione sulla costa della maggior parte delle fabbriche . Quando fu istituita la Repubblica Popolare (1949), accompagnata da forme di pianificazione economica, la Cina era un Paese danneggiato dalla guerra, sostanzialmente sottoindustrializzato. La maggior parte della produzione manifatturiera era su piccola scala, finalizzata alla modesta domanda locale. Il programma di massiccia industrializzazione iniziato dal nuovo regime aumentò, in misura rilevante, il volume, la diversificazione la diffusione delle manifatture in Cina. Dalla fine degli anni Settanta, le attività manifatturiere furono parzialmente liberalizzate e la produttività industriale crebbe rapidamente; nel contempo, i guadagni più significativi non provenivano dall’imprese statali, ma dalle aziende agricole collettivizzate, che andavano rapidamente moltiplicandosi. A differenza del Giappone, la Cina possiede una riserva interna abbastanza ricca e diversificata di materie prime, quali minerali e combustibili. Modello high-tech Per le aziende del settore high-tech sono emersi nuovi modelli di orientamento e di vantaggio localizzativo, basati su fattori differenti da quelli che guidavano tradizionalmente la scelta di una regione o di una sede. L’alta tecnologia è più un concetto che è una definizione precisa. Probabilmente la si prende meglio come applicazione di intensi sforzi di ricerca e di sviluppo, volti a creare e produrre nuovi prodotti molto avanzati, dal punto di vista scientifico e meccanico. I lavoratori altamente specializzati – i cosiddetti “colletti bianchi” – rappresentano una percentuale notevole della manodopera complessiva. Ne fanno parte scienziati ricercatori, ingegneri e tecnici qualificati. Sebbene solo pochi tipi di attività industriale siano, in genere, considerati esclusivamente high-tech – elettronica, comunicazioni, computer, software, farmaceutici e biotecnologie, industriale aerospaziale, ecc. – la tecnologia avanzata fa sempre più parte delle strutture dei processi di ogni forma d’industria. Ne sono appropriati gli esempi di robotica nelle catene di montaggio, di design e della fabbricazione con l’ausilio del computer, di controlli elettronici nei processi di rifinitura e della costante creazione di nuovi prodotti da parte dell’industria chimica. Le industrie high-tech hanno teso sempre più concentrarsi in alcune regioni delle nazioni di origine, e al loro interno hanno formato spesso delle agglomerazioni altamente specializzate e autosufficienti. Le dinamiche di insediamento dell’industria high-tech suggeriscono che la stessa risponde a forze localizzative diverse da quelle che controllano le manifatture tradizionali. Sono state identificate almeno cinque tendenze localizzative: Si considerino infine le attività quinarie, le professioni dei “colletti d’oro”, un’altra riconosciuta suddivisione del settore terziario, che rappresenta le qualificate competenze lavorative ben retribuite di dirigenti commerciali, funzionari governativi, scienziati ricercatori e così via. Queste persone trovano il proprio posto di lavoro nei maggiori agglomerati metropolitani, all’interno e accanto alle più importanti università e parchi di ricerca, nei centri medici di primo livello, negli uffici dell’amministrazione pubblica, situati nelle capitali politiche. Servizi del commercio mondiale Se le attività di servizi hanno svolto una funzione propulsiva della crescita economica nazionale, sono anche diventate un fattore sempre più rilevante nei flussi del commercio internazionale e nell’interdipendenza economica. In tale incremento, il segmento in più rapida crescita è stato quello dei settori privati, quali le attività finanziarie di intermediazione e di leasing. Sebbene le nazioni in via di sviluppo detengono una percentuale sempre più elevata dello scambio dei servizi globali, il commercio internazionale dei servizi è ancora dominato, in modo schiacciante, da pochissimi Stati, estremamente industrializzati. Tra questi va inclusa la Cina, che occupa la terza posizione mondiale in base all’esportazione di servizi. CAPITOLO 9 – Modelli di sviluppo e cambiamento Disuguaglianze nello sviluppo economico Sussistono dei contrasti riguardanti i livelli di sviluppo economico e di benessere prodotti dal diverso accesso alla ricchezza delle risorse, sia che si parli di quelle all’interno della società globale sia di quelle all’interno della società di ciascun Paese. Su scala globale, vengono distinti paesi “a economia avanzata” o “ricchi”, come il Canada o la Svizzera, e paesi “a economia meno avanzata” o “poveri”, come il Bangladesh o il Burkina Faso. Dividere il continuum: definizioni di sviluppo Le nazioni mostrano livelli di sviluppo diversi. Lo sviluppo indica la misura in cui le risorse umane naturali di un’area di un Paese sono state mobilitate per la produzione . Il termine, nel significato più comune, può anche implicare riferimenti alla crescita economica, alla modernizzazione e ai miglioramenti dei livelli di produzione e consumo delle materie prime. Secondo alcuni, il termine indica anche dei cambiamenti apportati alle tradizionali strutture sociali, culturali e politiche per avvicinarle il più possibile a quelle tipiche degli Stati delle economie considerati “avanzati”. Secondo altri, “sviluppo” e “sottosviluppo”, come concetti e condizioni misurabili, furono un’invenzione del pensiero culturale dell’istituzioni economiche occidentali. La loro ideazione e utilizzo permisero di considerare la scena planetaria come una struttura ordinaria , ovvero un sistema, in cui esistevano alcuni segmenti che non rispondevano agli standard occidentali di ricchezza, benessere e progresso. Si ha quindi una scala, la quale mostrerebbe che le nazioni sono situate lungo un continuum che si estende da quelle meno avanzate (per tecnologia o industrializzazione) alle più sviluppate. Nel significato più vasto, le nazioni “sviluppate” si pongono in evidente contrasto con il mondo “sottosviluppato”, “meno sviluppato” o “in via di sviluppo”. Il sottosviluppo, da un punto di vista strettamente economico, suggerisce la possibilità o il desiderio di applicare un input alla forma di manodopera, tecnologia, che permetterà alla popolazione locale di migliorare la qualità della vita. La categoria generica del sottosviluppo NON dice in quali nazioni tali sforzi per il progresso siano stati compiuti o si siano dimostrati efficaci. Con il tempo, pertanto, è stata introdotta una suddivisione più accurata, che comprende termini indistintamente relativi quali paesi moderatamente, meno o molto poco sviluppati. Più di recente, si è diffuso l’impiego dell’appellativo economia emergente, che fornisce un’immagine più positiva di “sottosviluppato”. Il termine Terzo Mondo viene spesso applicato alle nazioni in via di sviluppo nel loro insieme, sebbene la designazione altro non è che riferimento, esclusivamente politico, ai paesi non allineati formalmente con il Primo Mondo delle nazioni industrializzate in cui vigeva il libero mercato, o con il Secondo Mondo dell’economia controllata da un centro direttivo. Esiste un Quarto Mondo che raccoglie un gruppo di Stati meno sviluppati, riconosciuti come tali dalle Nazioni Unite. Poiché i termini per queste categorie sono di uso comune, e suggeriscono chiaramente la possibilità che un Paese progredisca da uno stadio più basso a uno più elevato di sviluppo, ci si aspetterebbe un accordo riguardo quale categoria sia applicabile a ciascun paese e quando uno Stato si possa considerare progredito da un grado inferiore a uno superiore di sviluppo. I molteplici termini ideati rappresentano dei tentativi di produrre una classificazione degli Stati , in base alla quale le condizioni di sviluppo sono definite da una varietà di sistemi di misurazione economici e sociali, lungo un continuum di caratteristiche specifiche o composite. Spiegazioni del sottosviluppo Il rapporto di Brandt allude a una diffusa ma semplicistica spiegazione spaziale: lo sviluppo è una caratteristica del ricco Nord mentre la povertà e il sottosviluppo sono condizioni proprie dei tropici. I sostenitori di tale spiegazione, fondata sull’altitudine, perorano la loro posizione con il ricorso a carte geografiche topiche. Si ammetta che le regioni tropicali affrontino gli ostacoli ecologici più grandi, dovuti alla scarsa produttività agricola e a un’alta incidenza di malattie delle piante, degli animali e umane. Bisogna, inoltre, sottolineare come queste regioni abbiano sùbito e subiscano gli effetti negativi della colonizzazione e del neocolonialismo. Si riportano alcune generalizzazioni che appaiono inconcludenti: 1) La scarsità di risorse è considerata un limite alla possibilità di sviluppo . Gli economisti hanno a lungo sostenuto che fare affidamento sulla ricchezza e sull’esportazione di risorse naturali, da parte delle nazioni meno avanzate, indebolisce la loro possibilità di crescita. 2) Spesso l’attuale sottosviluppo si denota come conseguenza del passato coloniale : questo nei casi in cui i colonizzatori lasciarono praticamente intatta la popolazione indigena di alcune regioni, ma creando strutture politiche e infrastrutture fisiche più adatte allo sfruttamento, a tutto vantaggio della madrepatria. I paesi meno sviluppati si trovano, quasi senza eccezione, in zone ecologiche che pongono seri problemi di salute inesistenti alle medie latitudini e, inoltre, presentano limiti agricoli molto diversi da quelli degli Stati ricchi. La questione centro periferia I modelli centro-periferia si basano sulla constatazione che, all’interno di molti sistemi spaziali, esistono violenti contrasti territoriali concernenti la ricchezza, il progresso economico e la crescita tra il nucleo economico centrale e le zone periferiche. Il modello presuppone che la crescita e la prosperità delle regioni centrali avvengano, perlomeno parzialmente e temporaneamente, a spese delle zone periferiche sfruttate. Il processo di causazione circolare cumulativa continua a polarizzare lo sviluppo e, secondo l’economista Gunnar Myrdal, esso conduce a una divisione permanente tra i centri che prosperano e i distretti periferici poveri, che vengono spremuti per trarne manodopera, materie prime e profitti. Il modello centro-periferia sottolinea le relazioni economiche e gli schemi spaziali di controllo sulla produzione e sul commercio. Il Reddito Nazionale Lordo è un dato statistico facilmente ricavabile, che esprime il complessivo valore di mercato dei beni e dei servizi prodotti all’interno di un’economia in un dato periodo. Espresso su scala pro capite, il RNL è spesso impiegato quale indicatore delle prestazioni economiche di uno Stato. Sussistono dei pareri contrari: alcuni tra cui gli ambientalisti affermano che il RNL sovrastima la ricchezza di una società, ignorando il costo dei danni ecologici e del depauperamento imposto dalle economie moderne alle risorse naturali; altri, al contrario, ritengono che questo sottovaluti la forza della crescita economica, trascurando in larga misura, la qualità dei miglioramenti produttivi apportati dalla tecnologia. Fatto sta che il RNL non è un sunto del tutto realistico dello stadio di sviluppo. Tende a distorcere il quadro generale del sottosviluppo, dando particolare peso alla situazione puramente monetaria, senza rappresentare accuratamente lo Stato economico dei paesi. Come prevedibile, le nazioni con Reddito Nazionale Lordo pro capite più elevato sono quelle dell’Europa nord-occidentale, dove ebbe inizio la Rivoluzione industriale, e le aree alle medie latitudini, dove le nuove tecnologie furono trasferite per prime. Al contrario, vaste zone dell’Africa e dell’Asia si trovano in fondo alla graduatoria dell’indice di reddito medio. Consumo energetico pro capite Il consumo di energia pro capite è un metodo frequentemente utilizzato per misurare l’avanzamento tecnologico di un paese, giacché è generalmente correlato al reddito pro capite. Il punto chiave è il consumo, non la produzione. Molti tra i paesi altamente sviluppati utilizzano grandi quantità di energia, ma ne producono relativamente poca. Una buona parte dei paesi a economia meno avanzata dipende dalle forme di energia commerciale molto meno rispetto a paesi più ricchi. Il loro consumo energetico, infatti, attinge primariamente da fonti quali lavoro umano e animale, la legna da ardere e i residui dei raccolti. I paesi economicamente avanzati hanno sviluppato la propria potenza economica attraverso l’impiego di energia a buon mercato e la sua applicazione nei processi industriali . Attualmente, tuttavia, l’energia non è più così largamente disponibile a buon mercato come quando i paesi di prima industrializzazione stavano mettendo a punto il proprio sviluppo. Oggi l’energia può essere a buon mercato solamente investendo immensi capitali per la sua generazione. Qualunque fattore incrementi il costo dell’energia ne allontana ulteriormente l’acquisizione da parte delle nazioni economicamente meno avanzate, le quali rinunciano a uno sviluppo industriale su larga scala, poiché il loro fabbisogno è soddisfatto attraverso energia animale o combustibili sempre meno disponibili, come la legna da ardere. La forza lavoro impiegata nell’agricoltura Un’elevata percentuale di manodopera impiegata nell’agricoltura è associata a un basso reddito nazionale pro capite e a un ridotto consumo energetico, ovvero: un’economia prevalentemente di sussistenza, che comporta un basso accumulo di capitali e un limitato sviluppo economico nazionale. In questo settore, sussiste la meccanizzazione, la quale aumenta la produttività di una manodopera rurale in decremento; così facendo, i lavoratori agricoli in eccesso diventano disponibili per l’impiego nell’industria nei servizi urbani. Conseguentemente, se trovano un buon posto di lavoro, favoriscono l’aumento della ricchezza nazionale e personale. Povertà, calorie e nutrizione La diffusione della malnutrizione è la conseguenza più evidente della scarsità di mezzi economici. I livelli di nutrizione, infatti, sono indicatori efficaci dello sviluppo economico di un Paese. Il cibo, dunque, in quanto bene di consumo indispensabile e universale, nonché obiettivo dell’attività produttiva della maggior parte degli esseri umani, è indice fondamentale del benessere economico. Si presti attenzione al fabbisogno calorico necessario per compiere una moderata attività fisica. Esso varia secondo il tipo di occupazione, l’età, il sesso, la corporatura di un individuo e le condizioni climatiche. L’organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura (FAO) stabilisce in 2350 cal il livello di consumo minimo giornaliero necessario, nonostante la cifra sia difficilmente applicabile su scala globale. Come altri indicatori nazionali, i dati relativi all’apporto calorico devono essere soppesati con cautela: è più probabile che il consumo calorico riferito da alcuni Stati rifletta fervide speranze che un’effettiva disponibilità alimentare. Valutazione composita dello sviluppo economico Sebbene le valutazioni dello sviluppo tecnologico, fondate su un unico fattore, tendano a identificare lo stesso insieme di paesi come “meno sviluppati”, la corrispondenza non è esatta. Per ciascun indicatore selezionato per effettuare il paragone, ogni Paese si ritrova in compagnia di un gruppo leggermente diverso. Come conseguenza, NESSUN SINGOLO INDICATORE di sviluppo tecnologico, ricchezza e benessere economico riflette appieno le diverse caratteristiche dei singoli paesi: si tratta di indici di rilevamento riassuntivi. Un modello di sviluppo economico La consapevolezza che la crescita economica NON è automatica rappresenta il capovolgimento di una convinzione precedentemente diffusa, ovvero: esiste un inevitabile processo di sviluppo che tutti i paesi possono sperimentare. Il processo tecnologico negli ultimi decenni è in larga misura dipeso da una manodopera istruita, con più alti livelli di investimento di capitale. Si ritiene che l’attuale profonda differenza rilevata su scala globale, negli ambiti dell’istruzione e della preparazione tecnica, sia la maggiore causa della differenza nel benessere tra paesi ricchi e paesi poveri. La teoria della dipendenza sostiene che queste disuguaglianze NON sono accidentali, ma sono il risultato dell’abilità dei paesi sviluppati di sfruttare gli Stati economicamente e politicamente più deboli, per assicurarsi una sorgente continua di risorse e di capitale. Ciò impone un circolo vizioso all’interno del quale l’industrializzazione selettiva non dà luogo a una crescita indipendente, ma a un ulteriore sottosviluppo dipendente, conseguenza negativa della “causazione circolare cumulativa”. Indici non economici di sviluppo Indicatori quali il prodotto interno lordo e il reddito pro capite, nonostante diano un’idea della ricchezza totale di uno Stato, nascondono sia le disuguaglianze sociali sia la qualità della vita dei suoi cittadini. Questi aspetti possono emergere più chiaramente attraverso gli indicatori di sviluppo sociale, quali la mortalità, l’accesso all’istruzione e ai servizi sanitari, oppure la condizione femminile. Nella quasi totalità dei casi si è rilevata una correlazione di causalità tra gli indicatori economici e quelli sociali. A livelli più elevati di istruzione o di reddito si associano tassi inferiori di mortalità generale, infantile, di natalità, di incremento demografico ecc. Comunque lo si misuri, il divario tra i paesi più e meno sviluppati, nelle sue caratteristiche non economiche, è perlomeno altrettanto grande quanto lo è negli aspetti economico-tecnologici. Istruzione Una forza lavoro alfabetizzata e istruita è indispensabile per un efficace trasferimento di tecnologia avanzata dai paesi sviluppati a quelli in via di sviluppo. Eppure, nelle società più povere, oltre la metà degli adulti è analfabeta, mentre nelle più ricche la percentuale può essere addirittura inferiore all’1%. Il problema, in parte, scaturisce da una povertà nazionale che non permette di investire sufficientemente nell’istruzione; in parte, riflette l’assenza di un bacino sufficientemente ampio di insegnanti qualificati che convive con l’impossibilità di espanderlo abbastanza in fretta da tenere il passo con la quota in costante aumento di popolazione in età scolare. Il risultato è che nei paesi poveri la frequenza scolastica è circoscritta a una piccola parte della popolazione. Tra i fattori responsabili si ricordano la mancanza di strutture e di insegnanti, la povertà che rende proibitivi per molte famiglie i costi dell’istruzione e mantiene impegnati a tempo pieno nel In quasi tutte le culture, alle donne viene assegnato un ruolo subalterno quello dell’uomo . Questo comporta un accesso maggiormente limitato alle risorse, al potere e alla libertà. L’incremento della partecipazione femminile alla forza lavoro, avvenuto negli ultimi decenni, si riflette nei cambiamenti positivi avvenuti nelle condizioni di vita sia delle donne che dei bambini. È necessario precisare che tale incremento non è necessariamente correlato allo sviluppo economico. Spesso, infatti, la modernizzazione dei sistemi di produzione, agricola o industriale, mina le possibilità lavorative delle donne. Ciò avviene perché generalmente la divisione del lavoro, effettuata in base al genere, affida alle donne i compiti più umili e faticosi. Pare che, in certi casi, le donne impieghino una percentuale maggiore del loro tempo nelle attività lavorative rispetto agli uomini ma ovunque, a parità di impiego, esse vengono retribuite meno. Da questo si comprende come, su scala globale, l’odierno modello di assegnazione dei ruoli economici e istituzionali sia basato sulla discriminazione di genere. Esso risulta influenzato dal livello di sviluppo economico del Paese e dal persistere delle restrizioni religiose di costume imposte alle donne. Per quanto riguarda le tradizioni religiose, infatti, queste riducono l’accettazione delle donne in attività economiche che avvengono all’esterno delle mura domestiche; quindi, la tradizione sottostima l’occupazione femminile. Il ruolo storico di forte indipendenza e di detenzione delle proprietà da parte delle donne, ben presente un tempo nei sistemi agricoli dei villaggi tradizionali, è stato, tuttavia, progressivamente sostituito dalla subordinazione femminile avvenuta durante il processo di ammodernamento delle tecnologie agricole e con l’introduzione di istituzioni amministrative dominate dagli uomini. CAPITOLO 10 – Sistemi urbani e strutture urbane Un mondo in via di urbanizzazione Nel 2007 la crescita della popolazione urbana ha raggiunto un importante punto di svolta: essa ha superato la popolazione rurale. Megacittà = città che contano una popolazione di dieci milioni di abitanti. Ne consegue che il notevole aumento della popolazione mondiale, nel corso dei secoli, ha implicato un forte incremento della componente urbana. La percentuale della popolazione urbana è cresciuta ovunque in misura rilevante, poiché il fenomeno dell’urbanizzazione si è diffuso in tutte le aree del globo. L’entità della crescita urbana varia da continente a continente e da regione a regione, ma quasi tutti i paesi evidenziano due elementi comuni : la percentuale di persone che abitano in città è in aumento e le dimensioni delle città tendono a crescere. Il risultato è un crescente multiculturalismo urbano, con connessi problemi di frammentazione sociale e segregazione delle minoranze, isolamento e povertà, specie nelle maggiori città degli Stati di destinazione. Megacittà e fusione di metropoli Quando importanti complessi metropolitani separati, qualunque sia la loro dimensione, si espandono lungo le strutture di trasporto da cui sono collegati, è possibile che alla fine si incontrino e si uniscano in corrispondenza dei rispettivi margini esterni, creando le ampie regioni metropolitane o conurbazioni. Nelle aree dov’è emerso questo modello sempre più diffuso, il paesaggio urbano non può più essere descritto come un’area dai confini ben definibili e chiaramente distinguibili. Occorre piuttosto riconoscere la presenza di vaste regioni di urbanizzazione continua, formate da più centri. Il termine megalopoli designa la principale conurbazione presente in Nordamerica. Al di fuori del Nordamerica, gli esempi di conurbazioni sono numerosi e in aumento, presenti in prevalenza nelle aree più industrializzate dell’Europa e dell’Asia orientale, ma in via di diffusione anche in altre regioni del mondo, in paesi in via di sviluppo, dove aggregati urbani e megacittà ancora principalmente rurali sono comparsi. La natura delle città Le città sono i più antichi segni della civiltà. Risalenti a 6000 anni fa o più, ebbero origine (e si diffusero) a partire dai focolari culturali da cui si svilupparono le prime forme di agricoltura. Che siano antiche o moderne, tutte le città palesano temi e tratti regolari ricorrenti in linea con il tempo e il luogo in cui si situano. In primo luogo, ogni città svolge determinate funzioni da cui deriva il reddito necessario per sostentare sé stessa e i suoi abitanti . In secondo luogo, nessuna città esiste “nel vuoto”, bensì appartiene a una società e a un sistema economico più ampi, con i quali ha legami reciproci essenziali; in altri termini, ogni città costituisce un’unità all’interno di un sistema di città e un centro di attrazione per un’area non urbana circostante. In terzo luogo, ogni unità urbana presenta una disposizione interna per quanto concerne usi del territorio, gruppi sociali e funzioni economiche. Tali assetti possono essere in parte determinati da decisioni individuali e forze di mercato. Infine, tutte le città hanno conosciuto problemi riguardanti l’uso del territorio. Pur con i loro limiti, esse rimangono la chiave di volta delle nostre culture, il fulcro attorno a cui le società e le economie moderne si organizzano. Qualunque sia la loro dimensione, età o ubicazione, gli insediamenti urbani esistono al fine di svolgere in modo efficiente le funzioni richieste dalla società che li ha creati. Poiché NON è possibile che tutte le funzioni urbane e gli abitanti risiedano in un unico luogo, le città stesse devono occupare un certo spazio, all’interno del quale i vari tipi di uso del territorio e i residenti dispongano del posto necessario. La totalità degli individui e delle funzioni presenti in una città costituisce un paesaggio culturale. Alcune definizioni La caratteristica comune delle unità urbane è il fatto di essere insediamenti non agricoli, sorti attorno a un nucleo centrale. L’aggettivo “urbano” viene spesso utilizzato per descrivere realtà quali una cittadina, una città, un sobborgo e un’area metropolitana, ma si tratta di un termine generale, NON impiegato per designare un insediamento di tipo o di dimensione specifici. I termini “città” e “cittadina” indicano insediamenti sviluppatisi attorno a un nucleo centrale di carattere multifunzionale , nel quale l’uso del territorio è distribuito tra residenziale e non residenziale. Le cittadine sono più piccole e hanno un grado di complessità inferiore rispetto alle città; tuttavia, in esse le attività economiche rimangono concentrate attorno a un nucleo. Il termine “sobborgo” contraddistingue un’area secondaria, un segmento insediativo specializzato sul piano funzionale e appartenente a un complesso urbano più ampio. Può trattarsi di un’area prevalentemente o esclusivamente residenziale, industriale o commerciale, ma in base alla specializzazione dei suoi usi del territorio e delle sue funzioni, un sobborgo NON è autosufficiente. Infatti, dipende da aree urbane situate al di fuori dei suoi confini e si integra con queste. Nel caso di grandi città, comprendenti molti sobborghi, la parte dell’area urbana contenuta all’interno dei confini ufficiali del nucleo principale, attorno al quale, si sono sviluppati i sobborghi, è comunemente denominata città centrale. Il termine “area urbanizzata” designa un paesaggio caratterizzato da edificazione continua , definito dalla densità di edifici e di popolazione senza alcun riferimento a confini amministrativi. Può essere considerata la città intesa in senso fisico. Un’area metropolitana indica un’entità funzionale su larga scala, che può contenere molte aree urbanizzate, a edificazione discontinua, ma comunque operanti come un insieme economico integrato. L’ubicazione negli insediamenti urbani I centri urbani sono collegati dal punto di vista funzionale ad altre città e ad aree rurali . Di fatto, un’unità urbana esiste per fornire servizi non solo a sé stessa , bensì anche ad altri destinatari esterni. Le città con funzioni speciali sono quelle dedite ad attività minerarie, produttive o di altro tipo, la cui localizzazione è legata alla presenza di materie prime, a economie di agglomerazione o alla forza d'attrazione esercitata da una concentrazione di mercati. Un tratto comune a tutti gli insediamenti è la funzionalità, a prescindere da quali siano le loro specializzazioni funzionali riconosciute. Ogni unità urbana fornisce beni e servizi a un'area circostante che gravita intorno ad essa. Per alcuni insediamenti, i servizi alle zone rurali e gli scambi commerciali costituiscono la funzione dominante; questi formano la terza categoria di città: le località centrali. La gerarchia urbana La gerarchia urbana, ovvero la classificazione delle città in base a dimensione e complessità funzionale, è un modo efficace per riconoscere le modalità di organizzazione dei sistemi di città. La gerarchia assume la forma di una piramide al cui vertice compaiono poche città grandi e complesse, mentre alla base si trovano molti centri più piccoli e di struttura più semplice. Le città di dimensioni minori sono sempre in numero superiore rispetto a quelle più grandi. Beni, servizi, comunicazioni e persone si muovono avanti e indietro all'interno della gerarchia. I singoli centri interagiscono con le reti circostanti, ma giacché città dello stesso livello forniscono sostanzialmente i medesimi servizi, i centri di dimensioni analoghe tendono a NON servirsi a vicenda. Pertanto, nell'ambito di una stessa gerarchia, gli insediamenti di un determinato livello sono interrelati prevalentemente con comunità di livello diverso . Città mondiali Al vertice dei sistemi nazionali di città vi è un numero relativamente esiguo di agglomerazioni che possono essere denominate città mondiali. Questi grandi centri urbani sono punti di controllo dell'attività internazionale di produzione, marketing e finanza. Accolgono generalmente anche la funzione politica: a livello nazionale come le capitali o i capoluoghi di importanti regioni, e a livello internazionale come sedi di organizzazioni internazionali. Queste città ospitano la sede centrale della società , ma possono offrire anche i servizi legali, contabili, finanziari, di marketing e gli altri servizi specializzati ad alto livello, che sono richiesti per l'operazione su scala globale. Londra, New York e Tokyo sono state universalmente riconosciute come le tre città mondiali dominanti. Esse ospitano il maggior numero di servizi transnazionali e di filiali appartenenti a società multinazionali, dominando il commercio nelle rispettive aree geografiche. Le stesse grandi società transnazionali incoraggiano lo sviluppo e il dominio delle città mondiali. Le crescenti dimensioni e complessità di queste aziende impongono loro la necessità di funzioni di gestione centrali, affidandole a società di servizi specializzate, in modo da semplificare al massimo il controllo delle varie attività disseminate in diversi luoghi. Legge rango-dimensione e città primate In alcuni paesi, soprattutto quelli caratterizzati da economie complesse e una lunga storia urbana, la gerarchia relativa alle dimensioni della città è sintetizzata dalla legge rango-dimensione. Secondo questa regola, la città che occupa il posto n per grandezza all’interno di un sistema nazionale di città, avrà dimensioni pari a 1/n di quelle della città più grande. In altri termini, il secondo insediamento in ordine di grandezza sarà equivalente alla metà di quello più grande. La possibilità di ordinare le città secondo il principio rango-dimensione è meno applicabile a paesi caratterizzati da economie poco sviluppate, o a quelli nei quali il sistema di città è dominato da una città primate, ovvero una città le cui dimensioni sono molto più del doppio di quelle della città al secondo posto nella graduatoria. Aree di influenza urbana Indipendentemente dalla posizione all'interno della specifica gerarchia urbana in cui viene inserito, ogni insediamento urbano esercita un' influenza sull'area circostante . Tale influsso di norma è proporzionato alle dimensioni dell'unità urbana che lo esercita. Oltre tale area è possibile che l'influsso dominante sia esercitato da un'altra città. Si dicono aree di influenza urbana le zone che si trovano all'esterno di una città, ma gravitano comunque attorno a essa. Via via che la distanza da una comunità aumenta, l'influenza esercitata da quest'ultima sulla campagna circostante diminuisce. Località centrali Un modo efficace per cogliere il significato delle aree di influenza prevede di considerare gli insediamenti urbani in termini di località centrali , ovvero centri per la distribuzione di beni e servizi economici alle popolazioni non urbane circostanti. Le località centrali presentano alcune caratteristiche di regolarità in termini di dimensioni e distanza reciproca, che non sussistono dove prevalgono città con funzioni speciali o centri di trasporto. Quindi, le località centrali hanno una distribuzione regolare: centri di dimensione assimilabile che svolgono lo stesso numero e tipo di funzioni, essendo ubicati alla medesima distanza l'uno dall'altro. Nel 1933 il geografo tedesco Walter Christaller tentò di spiegare tali tratti di regolarità inerenti alle dimensioni, l’ubicazione e l’interdipendenza degli insediamenti. Egli decise di applicare la sua teoria delle località centrali a un contesto ideale semplificato. Christaller ipotizzò che si verificassero le seguenti condizioni: 1) Le cittadine che forniscono alle campagne circostanti beni fondamentali, quali generi alimentari e abbigliamento, sviluppano una pianura uniforme, priva di barriere topografiche, di direzioni privilegiate del traffico, nonché di variazioni delle produttività agricola. 2) La popolazione agricola è distribuita in modo uniforme in tale pianura. 3) Le persone hanno caratteristiche omogenee, vale a dire che hanno gusti, tipi di domanda e redditi simili. 4) Ogni tipo di prodotto o servizio disponibile alla popolazione distribuita nella pianura ha una propria soglia, ovvero un numero minimo di consumatori necessario per sostenerne l’offerta. 5) I consumatori acquistano beni e servizi presso la struttura più vicina (negozio o fornitore di servizi). Se tutte le ipotesi di Chistaller vengono date per realizzate contemporaneamente, ne derivano le seguenti conseguenze. 1) Poiché ogni acquirente è cliente abituale del centro più vicino, dove può reperire i beni di cui ha bisogno, la pianura agricola viene automaticamente suddivisa in aree di mercato non correzionali, dove tutte le singole cittadine hanno il monopolio delle vendite. 2) Tali aree di mercato assumono la forma di una serie di esagoni che coprono l’intera pianura. Siccome l’intero territorio dell’ipotetica pianura deve essere suddiviso in zone di influenza, non vi possono essere zone NON servite, né alcuna zona può ricevere lo stesso tipo di servizio da due centri che sono in concorrenza. 3) È presente una località centrale al centro di ciascuna delle aree di mercato esagonali. 4) Le località centrali più grandi, quelle con le aree di mercato più ampie, assicurano l’offerta di tutti beni e servizi che i consumatori dell’area in questione richiedono e possono permettersi. 5) Le dimensioni dell’area di mercato di una località centrale sono proporzionali al numero di beni e servizi offerto da tale località. 6) Contenuto all’interno delle aree di mercato più grandi, o ai margini di esse, vi sono località centrali che servono una popolazione minore e offrono una gamma più ridotta di beni e servizi. Christaller giunse a due ulteriori importanti conclusioni. Innanzitutto, le città di uguali dimensioni nel sistema di località centrali si trovano a una distanza uniforme l’una dall’altra; inoltre, i centri più grandi sono più distanziati rispetto a quelli più piccoli. In secondo luogo, il sistema di città è interdipendente . Se una località centrale fosse eliminata, l’intero sistema dovrebbe essere riadattato per quanto riguarda il modello spaziale.
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