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Riassunto del manuale Letteratura italiana moderna e contemporanea di Paolo Giovannetti, Sintesi del corso di Letteratura Italiana

Riassunto completo ed estremamente dettagliato del manuale di Letteratura italiana moderna e contemporanea di Paolo Giovannetti per l'esame di Istituzioni di letteratura italiana contemporanea con il prof. Dondero

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021
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Scarica Riassunto del manuale Letteratura italiana moderna e contemporanea di Paolo Giovannetti e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! MODERNITÀ E STORIA LETTERARIA Che cos’è la letteratura italiana moderna e contemporanea Nel linguaggio della critica letteraria italiana, “contemporaneo” vuol dire “posteriore all’anno 1900”. La contemporaneistica è una disciplina novecentesca che ha tratto origine da una serie di eventi dell’inizio del XX secolo. Tuttavia alcuni identificano la contemporaneità con il periodo storico posteriore al 1861, successivo alla proclamazione dell’unità d’Italia (storia contemporanea si occupa degli eventi dal 1870 in poi). Al centro del discorso ci sarà la nozione complessa di “modernità”: l’evo moderno comincia con l’ultimo decennio del XV secolo e si estende fino alla fine dell’Ottocento. La modernità che prende forma in un intervallo compreso all’incirca tra il quarto decennio del diciottesimo secolo e il secondo-terzo del diciannovesimo secolo e che si prolunga fino ai giorni nostri è quello che ci interessa. Questo periodo può essere diviso in fasi caratterizzate da una serie di fenomeni sociali: • Rivoluzione industriale che determina la nascita del proletariato di fabbrica, residente nelle città; • Lo sviluppo dell’industria rafforza la borghesia e favorisce la sua ascesa economica in tutta Europa; • I mutamenti nel mondo del lavoro portano alla lotta di classe tra potere borghese e antichi poteri aristocratici (rivoluzione francese e americana); • Nasce e s’impone la sfera pubblica borghese (incrementata dalla diffusione della stampa periodica e del giornale quotidiano e dai luoghi pubblici come il teatro, il salotto, la galleria ecc.); • La sfera pubblica modifica l’attività editoriale. Attenzione verso il nuovo pubblico che chiede sia informazione che intrattenimento letterario. Da quest’ultimo fattore inizia l’imposizione di una nuova letteratura in grado di restare al passo con i nuovi mutamenti: la letteratura moderna ovvero la modernità letteraria. Non tutti i critici vedono il cambiamento epocale e inoltre il mutamento non avviene in contemporanea tra tutte le nazioni. In Italia i cambiamenti arrivano con l’età della restaurazione (1815-1848) e non riescono ad imporsi stabilmente nella società letteraria ottocentesca. Per questo è opportuno parlare di letteratura italiana moderna e contemporanea. Tre modi di intendere la storia letteraria L'utilità della storia La letteratura è un fenomeno storico che rivela scansioni temporali, cioè una periodizzazione. Abbiamo 2 nozioni di storia: 1) Sistema complesso di avvenimenti disposti nel tempo, riconducibili a realtà sociali e politiche. 2) Successione di eventi unicamente letterari. Secondo alcuni critici la temporalità influirebbe pochissimo sulla letterarietà di un’opera. Noi assumiamo la storia come termine di riferimento fondamentale per la comprensione dell’opera letteraria. Tre modi di concepire il rapporto storia/letteratura: 1) Letteratura nella storia; 2) Storia nella letteratura; 3) La letteratura interpretata entro la serie degli eventi letterari succedutisi nel tempo. Il testo nella storia (Letteratura nella storia) È l’accezione più conosciuta e praticata: di solito c’è una contestualizzazione prima della trattazione dei contenuti letterari. Nella tradizione storicistica italiana, il cosiddetto contesto storico ha un valore irrinunciabile. A partire dal romanticismo abbiamo un’idea di letteratura come espressione della società e della nazione. Compito della letteratura è manifestare il genio collettivo di una comunità. Nella visione di De Sanctis, il racconto della letteratura italiana nel tempo ha come obiettivo l’avvicinarsi al reale, la cui essenza è strettamente connessa ai valori della nazione italiana. Questo modello desanctisiano (“Storia della letteratura italiana” del 1870-72) ha continuato fino ai giorni nostri, anche grazie alle pratiche Marxiste e alle ricostruzioni di Gramsci. In definitiva, si considera la letteratura subalterna alla storia. Una critica a questo tipo di visione viene fatta da René Wellek che dichiara che in questo modo la letteratura sarebbe usata alla stregua di un documento. Questo rischio lo vediamo con il nuovo storicismo, influenzato da Michel Foucault e poco diffuso in Italia, che propone raffinate ricostruzioni del passato storico-letterario in cui sono utilizzate le fonti letterarie come documenti. In certi casi, però, per rivelare meglio la complessità di un testo letterario è opportuno che esso venga letto sullo sfondo di vicende storico-politiche. Esempio: il romanzo storico, che ha avuto un enorme successo nell’Ottocento, è stato fortemente criticato per la sua inclinazione ai gusti del pubblico. Tuttavia, se si mettono in rilievo i legami tra la narrazione storica e la fase rivoluzionaria della borghesia europea, si può rivalutare la serietà di tale genere. La storia nel testo (La storia nella letteratura) Il riferimento di partenza è la letteratura, di cui si approfondiscono le logiche interne e solo successivamente si confronta con la storia esterna. Per usare di nuovo la distinzione fatta da Wellek, in questo caso il fenomeno letterario non funge da documento ma da monumento e cioè si carica di valori di natura estetica difficilmente riconducibili alla realtà storica. Tuttavia è innegabile che l’autonomia del prodotto letterario sia in grado di produrre conoscenza storica: l’opera permette una decifrazione della realtà. L’interprete percepisce i valori storici interni all’opera come una risposta cifrata. Il testo in questo caso si configura come un atto politico, una presa di posizione implicita contro i limiti della condizione storica. Questa tradizione critica è molto diffusa nel Novecento tedesco: i suoi esponenti più importanti sono Theodore W. Adorno e Walter Benjamin, mentre negli anni più recenti abbiamo in area italiana Franco Fortini. Ricercare la storia nel testo significa accettare e valorizzare il paradosso di ogni prodotto artistico. La critica sociologica della letteratura intende rilevare il radicamento sociale che l’opera letteraria tendenzialmente occulta. Mentre i sociologi della letteratura concepiscono il determinismo dei fatti letterari (cioè la loro necessaria dipendenza dalla materialità della storia). I critici sociologici, più attenti al testo, faticano a caratterizzare il nesso tra le risultanze delle loro analisi e le considerazioni storiche-sociali. La serie letteraria (La letteratura interpretata entro la serie degli eventi letterari succedutisi nel tempo) Uno dei comportamenti che nel leggere un testo può causare fraintendimenti è la relatività storica di ogni evento letterario: un critico deve capire la fase di un mutamento (percepirne la distanza dalla nostra contemporaneità). Anche nell’arco temporale breve, la variazione può essere notevole. Pensiamo solo a quel particolare tipo di lingua che caratterizza la poesia italiana fino agli inizi del 900: molti suoi aspetti sono rimasti immutati per secoli, mentre un’evoluzione si è definita a partire dal romanticismo ed è continuata nei 40 anni a cavallo fra 800 e 900. A Zacinto, 1802-1803, Ugo Foscolo: -siamo costretti a compiere una traduzione-parafrasi linguistica (per via della sintassi complessa, lessico che può trarre in inganno). -valutazione degli artifici retorici dal gusto classicheggiante. necessità di tener separati i generi verbali letterari dai generi verbali non letterari. Tre gli aspetti che vengono privilegiati nella teoria dei generi: 1) Il genere come entità di tipo biologico (la letteratura si organizza secondo un ordine naturale); 2) Il genere come insieme di norme e regole che prescrivono scelte stilistiche, retoriche, metriche etc; 3) Il genere come oggetto di uno studio descrittivo e analitico. Se ci riferiamo al periodo che ci interessa, possiamo dire: 1) Tra settecento e ottocento è ancora forte una visione normativa dei generi letterari, tuttavia messi in crisi dal romanticismo. 2) Verso la fine dell’ottocento le idee positiviste diffondono idee organicistiche, biologiche dei generi che sono considerati organismi viventi in evoluzione. 3) Nel corso del novecento, i generi in quanto tali sono attaccati da Benedetto Croce che vede in essi semplici categorie di comodo, prive di ogni valore storico e teorico; in Italia vi è stata poi una lenta ripresa del loro studio in quanto fenomeni letterari dotati di una loro dignità. Modi e generi esemplificativi Il genere costituisce quindi un momento di mediazione tra la singola opera e il sistema letterario e successivamente anche tra il testo autonomo e il contesto storico. Il che significa che se la letteratura è in primo luogo un fatto storico, in secondo luogo è un fatto generico. Il genere è un meccanismo che ci permette di passare dal testo al suo contesto e viceversa. Generi o modi? Il teorico della letteratura Gérard Genette decostruì in maniera efficace la “teoria tripartita” dei generi letterari (essa individua 3 grandi generi storici: drammatico, lirico ed epico che oggi corrispondono a teatro, poesia e narrativa). Genette ha argomentato 2 tesi: 1) La tripartizione dei generi non risale affatto a Platone e Aristotele. Entrambi mirano a descrivere la poesia rappresentativa, cioè quella che mostra gli stati di esistenza esterni alla soggettività. Aristotele, in particolare, mostra una conoscenza meno sistematica dell'epica e della lirica. 2) Probabilmente i due filosofi sottintendevano una bipartizione di modi e non una tripartizione dei generi, perché esisterebbero due modi di imitare la realtà: un modo drammatico, in cui si cede totalmente la parola ai personaggi, e un modo che noi chiameremmo lirico (sarebbe stato il ditirambo), in cui a parlare è solo il poeta in prima persona. Vi è poi una terza modalità, che è unione delle altre due, tipica dell’epica (narrativa per i moderni). Genette quindi propone di distinguere fra i modi mediante i quali ci si può esprimere e le forme storiche in cui quei modi si sono manifestati. Per esempio il modo drammatico non è necessariamente il dramma, ma il dramma è solo una delle sue traduzioni. Teorie dei modi Il termine “modo” usato da Genette intende i “modi enunciativi” ma esistono anche i “modi tematici” i quali nascono in combinazione con i modi del primo tipo. Si tratta di quelle categorie che prendono il nome di satirico, drammatico, comico ecc. Generi esemplificativi Esiste un genere letterario basato sull’esemplificazione di un atto linguistico, cioè di un’azione dotata di piena riconoscibilità (ad esempio persuadere, ordinare ecc.) e compiuta mediante le parole. È l’atto linguistico ad essere in primo piano nel ruolo di “convenzione costitutiva”, elemento fondante la coerenza del testo. Il più astratto è la narrazione, l’atto di narrare dominato da un’azione linguistica che non varia, quella appunto di raccontare. Generi formali, generi metrici Norme regolative e metrica I generi di tipo formale cominciano ad avere un rapporto con il tempo storico. Il loro fondamento sono le norme regolatrici, regole, che si applicano in maniera univoca alla superficie linguistico-prosodica dell’opera. Dalle norme regolatrici discendono dei generi metrici: le regole della metrica sono quelle che permettono di individuare forme stabili nel tempo. Quale che sia la struttura del componimento, si è obbligati a riferirci a certe regole rispetto alle quali andranno visti i cambiamenti (tali regole mantengono il loro valore fondativo). Allorché l’identità di un genere dipende dalle norme regolative, siamo di fronte a un regime generico a sé stante, dotato di una specifica identità. Solo nei generi formali le norme regolatrici hanno un valore fondante, costituiscono cioè il genere letterario in quanto tale, e non sono invece elementi accessori. La genericità modulante Tradizioni in atto Quelli che consideriamo generi letterari non sono né i modi né i generi formali ma appartengono a una categoria diversa, formata da norme tradizionali che afferiscono alla dimensione del tempo. Fondante è il rapporto tra i testi, l’azione regolatrice di una o più opere che fungano da modello. La genericità modulante contempla l'esistenza di norme molto più elastiche e variabili di quelle regolatrici, norme che evolvono nella storia. Nei generi che si basano su norme tradizionali non è quindi la regola a generare il testo, bensì il contrario. Il caso più illuminante è dato dal romanzo, genere che in Italia è legato alla modernità: "Ultime lettere di Jacopo Ortis" e "Promessi Sposi", opere che inaugurano questo genere, in precedenza non molto praticato. Il romanzo, tra l’altro, è privo di regole: le convenzioni tradizionali che lo fondano si presentano in esso nella loro forma pura, quindi il romanzo può negare ogni regola e imporsi solo con la forza della propria tradizione. Generi analogici I generi a volte sono ambigui e le etichette con cui denominiamo un genere vengono continuamente modificate. Attraverso un procedimento di tipo analogico, indiretto, un gruppo di lettori traspone un’opera all’interno di una tradizione di genere a cui essa era originariamente estranea: si parla di genericità analogica. In questo caso l'opera non fa parte di una certa tradizione in modo cronologicamente distinto ma è estratta a forza dal suo contesto. Crisi di genere Secondo alcuni studiosi, nella modernità i generi tenderebbero a scomparire, in particolare quelli fondati sulle convenzioni tradizionali proprio per il legame di continuità del tempo che li caratterizza. Questo dipende dal fatto che la letteratura moderna distrugge o nega ogni istanza tradizionale. È assai diffusa l’idea che più un testo si allontana dalla tradizione, tanto più ha valore. L’opera valida sarebbe quella che nega un genere. A partire dal novecento il discorso sui generi va a complicarsi e tiene conto di diversi fattori un tempo inesistenti tra cui: l’industria culturale, i nuovi mezzi di comunicazione di massa, un pubblico sempre più numeroso e indifferenziato. Il consumo, le alterità e il canone Nella seconda metà del Novecento nascono alcuni problemi connessi al sistema dei generi: la paraletteratura o letteratura di consumo e il canone. La letteratura di consumo Si intende una serie di pratiche letterarie, generi, caratterizzati per la disponibilità ai gusti di un pubblico di massa. Nell’Ottocento questo tipo di genere nasce con i romanzi d’appendice, pubblicati a puntate dai quotidiani, soprattutto in Francia e in Inghilterra. Da questo tipo di letteratura nascono nuovi generi come il romanzo rosa, il sentimentale, il giallo. Alla fine del Novecento si aggiungono il fantasy, l’horror, lo spionaggio e la fantascienza. Le caratteristiche della letteratura di consumo sono: serialità strutturale e dipendenza dalle logiche di mercato e editoriali. La paraletteratura in poco tempo riesce a intensificare i meccanismi di genere (consuma un’intera tradizione), anche grazie alle logiche editoriali e di mercato che mirano a enfatizzare al massimo l’appartenenza di un romanzo ad una certa tradizione. Di qui la necessità di segnalare anche graficamente e commercialmente l’etichetta generica: il colore della copertina, l’inserimento in una collana, sono meccanismi che rafforzano i legami di genere e li rendono chiari e percepibili. La presenza dell’industria editoriale rende più efficace il successo di un modello e di una tradizione. Alcuni capolavori della letteratura novecentesca nascono proprio dalla paraletteratura, un’alternativa evidente alla letteratura ufficiale o istituzionale. Le alterità A minacciare la letteratura tradizionale è il fatto che le società moderne multietniche sono costrette a considerare un patrimonio letterario molto vasto che non necessariamente deve o vuole avere a che fare con la letteratura italiana o quella europea. Negli Stati Uniti, in particolare, si sta cercando di valorizzare la multiculturalità confrontandosi con tradizioni divergenti. Inoltre, sempre negli Stati Uniti, le pratiche del femminismo hanno denunciato il dominio letterario di contenuti dal punto di vista maschile e ne è derivato un interesse per la donna-scrittore e per figure minori spesso trascurate (gender studies). Un canone in crisi Tutte le tensioni culturali nel loro insieme contestano il canone letterario definito dal mondo occidentale. Momenti di reazione in cui i letterati si oppongono all’eccessivo allargamento del canone diventano sempre più frequenti. Basti pensare in Italia a Carducci e alla sua scuola che hanno cercato di contrastare il romanticismo richiamandosi ai modelli classici. Nel 1920, molti scrittori, a partire da quelli della rivista “La ronda”, hanno cercato di proporre alternative alle recenti avanguardie, mirando a ricostruire stili e generi più legati alla tradizione. La questione del canone e il sistema di scritture e di interpretazioni ereditate dal passato appare oggi fortemente minacciato da forze alternative che ne negano la piena autorità. Almeno due versanti di sgretolamento del canone: 1) Il punto di contatto tra la letteratura e i mezzi di comunicazione di massa. Non è la letteratura in sé a vacillare, quanto i modi, le tradizioni di avvicinare i testi alle gerarchie estetiche ritenute un tempo primarie. Mentre il vecchio canone entra in crisi, si rafforza lo spazio dell’esperienza estetica: il pubblico di massa si avvicina a opere artistiche che non verrebbero propriamente definite tali (la pubblicità ad esempio). 2) Problema del canone in relazione all’insegnamento (come ad esempio che autori far studiare o con quanta minuzia affrontare la storia letteraria). molti italofoni, i quali sono competenti anche del loro dialetto. Tale scelta determina una crisi progressiva dello strumento dialettale: i dialetti si italianizzano e rischiano di scomparire. Questo processo, che è tuttora in corso, può determinare la perdita delle tradizioni culturali. Fine della questione della lingua? Il fiorentinismo manzoniano produce effetti pratici di notevole interesse, soprattutto sul piano delle scritture prosastiche medie e medio-basse, quindi anche nell’ambito scolastico. Quanto alla teoria, Manzoni subisce attacchi e critiche severi. Nel 1873 il glottologo goriziano Graziadio Isaia Ascoli afferma che l’italiano è giunto alla sua formazione nelle scritture di impianto letterario e scientifico (in ambito intellettuale). Ascoli sostiene che le radici della nostra lingua poco hanno a che fare con le caratteristiche del fiorentino moderno e porta ad esempio l’unificazione linguistica della Germania che si è verificata prendendo a modello un’opera scritta. Dopo Ascoli, la questione della lingua si esaurisce: le discussioni tradizionali appaiono superate dai fatti. L’Italiano entra in una storia nuova e reclama una descrizione oggettiva delle proprie caratteristiche e tendenze. Tendenze dell’italiano novecentesco Nel Novecento, molti dei fattori indicati (contraddizioni della scuola, emarginazione dialetti, importanza del giornalismo) continuano ad agire nel bene e nel male. L’avvento al potere di Mussolini contribuisce a una importante riforma scolastica: la riforma Gentile del 1923. Ad esempio è prevista la valorizzazione delle identità dialettali e l’insegnamento dell’italiano è meno condizionato da una rigida grammatica. Tuttavia, ben presto la scuola diventa luogo di attuazione di ideali e pratiche fasciste (come la lotta contro i barbarismi e contro le lingue locali). Il “purismo di Stato” ostacola l’uso dei dialetti e favorisce la loro emarginazione. Nel corso del Novecento vanno definendosi le varianti locali della lingua standard, i cosiddetti “italiani regionali”. Nel 1924 cominciano le prime trasmissioni radiofoniche che diffondono la lingua italiana, prescindendo la parola scritta. La serie di trasformazioni così introdotte fanno parlare di “mezzi di comunicazione di massa”. Caduto il fascismo e riattivatasi una dialettica più democratica, non tutti i problemi sono stati risolti. La questione del dialetto è ancora irrisolta, nonostante lo Stato repubblicano riconosce alcune lingue locali. Controtendenze sono ancora oggi nell’uso del dialetto in poesia e musica. Sempre più forte, poi, l’influsso delle lingue straniere, soprattutto l’inglese. L’italiano di oggi è ricco di varietà: secondo Francesco Sabatini, l’italiano odierno presenta 6 varietà: 1) Italiano standard. Si tratta di una lingua nazionale scritta per lo più di registro formale. Lo standard orale è un’utopia perché dovrebbe corrispondere a una pronuncia senza influssi regionali. 2) Italiano dell’uso medio. È anch’esso nazionale ma si differenzia dallo standard per la natura parlata e il registro informale. 3) Italiano regionale delle classi istruite. È per definizione non nazionale, è solo orale e di registro informale. Il legame con le realtà locali si limita a fenomeni di pronuncia e di lessico scarsamente avvertibili, anche da parte di persone colte. 4) Italiano regionale delle classi popolari. Variante di quello precedente che accentua di più i fenomeni locali. La differenza importante è la possibilità di dar luogo a testi scritti: si parla di italiano popolare, caratterizzato da un gran numero di infrazioni allo standard. 5) Dialetto regionale/provinciale. Di registro informale, esclude l’uso scritto. È soggetto a rivalutazione letteraria che vede nei dialetti vere e proprie lingue locali. 6) Dialetto locale. Di registro informale, esclude l’uso scritto. È soggetto a rivalutazione letteraria che vede nei dialetti vere e proprie lingue locali. LA CRITICA DEL TESTO Che cos’è la critica del testo Una definizione generale “Critica del testo”, “filologia testuale”, “ecdotica” sono tre etichette sostanzialmente equivalenti e rappresentano la disciplina che si occupa di dare risposte a domande filologiche (Qual è la volontà dell’autore? In quale esatta forma l’autore intendeva presentare la propria opera? Chi e perché è intervenuto a modificarla? Quale ruolo deve svolgere l’intenzione di chi ha scritto il libro? E quale responsabilità va invece attribuita all’editore o agli editori?). Il filologo deve: 1) Fornire un testo sicuro, conforme alla volontà definitiva dell’autore. 2) Documentare in modo esaustivo sia le tappe che hanno condotto alla nascita di quella forma testuale reputata immutabile (la cosiddetta “editio ne varietur” cioè appunto definitiva, da cui non bisogna discostarsi), sia le eventuali strade che da essa si siano poi allontanate e abbiano condotto alla maturazione di lezioni diverse. Chiamiamo “edizione critica” di un’opera quella che restituisce il testo alla sua forma definitiva e fornisce tutte le informazioni relative alla sua storia redazionale ed editoriale Due tipi di filologia In molti casi, la critica del testo si limita al primo dei due punti: mira soltanto alla cosiddetta “constitutio textus”, cioè alla ricostruzione del testo in una forma il più possibile conforme al volere dell’autore. Quella che oggi chiamiamo critica del testo originariamente nasce dall’esigenza di recuperare la forma autentica di testi antichi e antichissimi. La critica si muove più difficilmente quando non abbiamo versioni autografe. Dopo la nascita della stampa a caratteri mobili è sempre più facile venire informati circa la volontà dell’autore e sempre più numerose le opere pubblicate con la piena autorizzazione di chi le ha firmate. Dall’Ottocento esistono leggi che regolano proprio il diritto d’autore, la proprietà intellettuale di un’opera. Quando parliamo di filologia testuale dobbiamo distinguere: -I principi e le procedure della “constitutio textus” di opere per lo più antiche, che si realizza seguendo una metodologia scientifica ben codificata (metodo lachmanniano). -I principi e le procedure con cui si trattano i testi per lo più moderni, oggetto filologia d’autore. Cenni sull’edizione critica dei testi antichi Che cos’è uno stemma I filologi che si occupano di opere antiche hanno per lo più a che fare con testi tramandati da una serie di manoscritti: si chiama tradizione manoscritta. L’obiettivo è stabilire i rapporti che legano fra loro tali manoscritti, detti testimoni. Nel mondo medievale, le opere letterarie venivano rese pubbliche attraverso codici manoscritti realizzati da esperti detti copisti o amanuensi. In questo processo si introducevano numerosi errori che rendevano l’opera corrotta (questo discorso può valere anche per la stampa). Nella filologia testuale, si adotta oggi prevalentemente il metodo lachmanniano (deriva dal nome di un grande filologo tedesco, Karl Konrad Lachmann, vissuto tra il 1793 e il 1851, il quale si dedicò allo studio e all’edizione del poeta latino Lucrezio). Il principio di base di questo metodo è quello degli “errori comuni”. Le relazioni che legano fra loro i manoscritti sono stabilite dal filologo non attraverso le lezioni corrette che in essi siano riconoscibili (cioè attraverso le forme che i manoscritti hanno in comune), ma attraverso gli errori. Per errore si intende una lezione inaccettabile perché deforma il testo e contraddice il contesto. Una volta individuati gli errori, il filologo costruisce uno “stemma”, cioè cerca di mettere in ordine i manoscritti secondo i rapporti logici che gli errori definiscono. Possiamo identificare tre tipi di stemmi partendo dall’analisi di due manoscritti A e B che ci restituiscono la stessa opera. 1) A è l’originale e B è stato copiato da A introducendo almeno un errore. Oppure l’opposto, cioè B è l’originale e A ha un errore etc. 2) Sia A sia B hanno almeno un errore specifico a testa, un errore cioè non presente nell’altro manoscritto detto “errore separativo”. A e B derivano quindi da un manoscritto originale. 3) A e B non solo hanno errori particolari che li separano, ma hanno anche almeno un errore in comune, detto “errore congiuntivo”. Questo postula l'esistenza di un manoscritto ipotetico, X, che ha introdotto l’errore. X viene detto archetipo o sub-archetipo se lo si suppone derivato da un altro. Il terzo tipo di stemma è il più frequente. Le fasi di un’edizione critica Le fasi del lavoro filologico sono: 1) Recensio. Porta alla definizione dello stemma (cioè si cerca di mettere in ordine i manoscritti secondo i rapporti logici che gli errori definiscono) e alla ricostruzione del testo originale (quasi sempre l’archetipo). Si inizia con la raccolta dei manoscritti e con il confronto, detto “collazione”. Dopo aver costruito lo stemma, si prendono in considerazione i manoscritti più vicini all’archetipo e si accolgono le lezioni che hanno in comune. Un criterio che guida il lavoro dei filologi è “lectio difficilior potior”: fra due varianti egualmente autorevoli, va preferita quella che produce una lezione più difficile e rara . Questo perché è possibile che i copisti siano intervenuti introducendo una parola più chiara. 2) Examinatio. Si deve ripercorrere il testo ottenuto con la fase precedente alla ricerca di errori sfuggiti. 3) Emendatio. Implica la correzione congetturale degli errori. Si parla in questo caso di “divinatio”. Il filologo in questa fase deve conoscere la cultura e la lingua dell’autore e il contesto letterario. Si utilizza anche il metodo di considerare le varianti come diffrazioni di un passo particolarmente complesso, frainteso contemporaneamente da tutti i copisti. Viene anche effettuata la normalizzazione grafica del testo, che deve essere ricondotto alle norme moderne, lontanissime da quelle antiche. 4) Ricostruzione dell’edizione critica vera e propria. Il nucleo primario è costituito dal cosiddetto “apparato”, cioè la registrazione di tutti gli errori evidenti nella tradizione manoscritta e delle varianti più rilevanti ai fini della ricostruzione del testo. L’apparato non è agevole alla lettura, è infatti pieno di abbreviazioni e convenzioni che devono essere studiate. L’edizione critica dei testi moderni La filologia d’autore Nella modernità si ha una sovrabbondanza di materiali firmati che convergono della forma “ne varietur”, definitiva, del testo. Potremmo persino dire che la volontà dell’autore, l’intentio auctoris, in questi casi è fin troppo manifesta e sovra documentata. Il filologo deve ricostruire il sistema di varianti che preludono alla “editio ne varietur”. La ricca attestazione di materiali preparatori, approssimazioni al testo, rende l’opera più fluida e incerta, come un processo interminabile. Un altro problema riguarda il concetto di “volontà definitiva”, cioè l’ultima volontà espressa dall’autore rispetto alla propria opera. Non sempre i critici si sono dimostrati disposti ad accettare questo criterio (esempio eclatante è la Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, pubblicata contro la sua volontà nella prima forma che egli Questa condizione bidimensionale dell’arte è resa esplicita dai teorici dell’allegoria che si rifanno al pensiero di Walter Benjamin. La forma moderna di allegoria mette in rilievo l’artificiosità e contraddittorietà dell’opera d’arte. Il testo artistico moderno è spesso una costruzione non omogenea in cui significante e significato, forma e contenuto, non sono in equilibrio. Tutto ciò avviene, secondo Benjamin, in seguito alla condizione alienata indotta dal mondo capitalistico avanzato: in seguito cioè alla separazione tra individuo e senso della vita, quale tratto distintivo della modernità. L’uomo non è in grado di attingere in modo diretto a valori autentici, allo stesso modo l’opera d’arte non comunica attraverso messaggi immediati e univoci ma tende a presentare un’intima frammentarietà, una complessa stratificazione di significati in contrasto con la superficie del messaggio, con le apparenze che essa stessa manifesta. Una simile visione dell’ideologia e delle sue sfaccettature può permettere di: 1) Cogliere i fondamenti non ideologici di opere ritenute conformiste. 2) Individuare l’ideologia profonda di opere altamente formalizzate. 3) Rovesciare le connotazioni primarie di un testo mostrando complessità dei rapporti forma/contenuto al suo interno. Psicoanalisi e letteratura Le arti in genere sembrano avere uno stretto rapporto con l’inconscio. Secondo Freud, nei prodotti estetici avverrebbe qualcosa di simile a ciò che si verifica nelle malattie mentali, lapsus, nevrosi, sogni e motti di spirito. In tutte queste esperienze l’uomo entrerebbe in contatto con le proprie pulsioni più profonde, relegate nell’inconscio. Nasce quella che Freud chiama una formazione di compromesso: un evento (lapsus, sogno) che manifesta sia la pressione svolta dall’inconscio sulla parte cosciente della psiche (la coscienza), sia la reazione difensiva di quest’ultima in termini di censura e rimozione. La letteratura e le arti sono riconducibili alla medesima dialettica conscio/inconscio. Tramite l’arte l’uomo può fare i conti con i propri impulsi più profondi, trasformandoli in atti pubblici che sono accettati, socializzati e riconosciuti. L’inconscio, quindi, invece di costituire un pericolo per la nostra salute, diviene fonte di piacere per noi e per altri. Queste idee si calano con una certa difficoltà nella pratica reale della ricerca letteraria. Si possono distinguere due tipi di posizione: 1) Nei primi anni della psicoanalisi la tendenza è stata di applicare il rapporto conscio/inconscio alla vita dello scrittore e alla sua esperienza di uomo reale. Un testo letterario ci comunica qualcosa della psiche del suo autore, delle sue pulsioni e paure. 2) L'inconscio produce effetti linguistici, propizia meccanismi formali descrivibili in termini di analisi retorica e stilistica, in termini cioè pienamente letterari. In questo modo, l’inconscio che ci parla di testi letterari non è solo quello dello scrittore, ma anche e soprattutto il nostro, di lettori coinvolti. I meccanismi di compromesso della psicoanalisi veicolano contenuti che non sono unicamente di natura psichica e psicologica. Le arti non solo ci mettono in contatto con il nostro inconscio, ma portano a galla contenuti repressi sul piano dei comportamenti sociali. A fianco della rimozione vi sarebbe anche una repressione, e la letteratura si scaglia contro entrambe le dinamiche. I meccanismi espressivi che essa manipola produrrebbero un ritorno del represso che è anche un ritorno del rimosso: farebbe passare e renderebbe accettabili contenuti sottoposti a censura da processi sia individuali (psichici) sia collettivi (sociali). La ricezione, il lettore Un dominio assai accidentato La letteratura studiata a partire dal lettore è l’oggetto di ricerca della sociologia della letteratura. Il modo di intendere il rapporto letteratura-storia, porta all’allontanamento del critico dal testo inteso nella sua autonomia di monumento e mette in primo piano la sua natura di documento sul quale studiare la storia. Il fondamento primario dei modelli critici reader-oriented è stato enunciato da Jean-Paul Sartre: “il testo letterario si riduce a segni neri sulla carta e perciò letteralmente non esiste, se il lettore non sceglie di incontrarsi con le parole che lo compongono dandogli vita”. Le teorie della lettura o della ricezione sono varie, ma possiamo distinguere 4 indirizzi primari: 1) Sociologia della ricezione, ha come obiettivo quello di esplorare i settori trascurati dal pubblico e invece privilegiati dai lettori. 2) Orizzonte delle attese, mira a storicizzare l’atto di lettura. 3) Ambito teorico, intende definire l’atto di lettura e l’immagine della letteratura che derivano da un privilegiamento del lettore rispetto all’opera. 4) Ermeneutica e decostruzione, devono il loro sviluppo all’importanza del dialogo destinatario-opera. La sociologia della ricezione Si tratta di un metodo attento alla modernità letteraria, alla produzione degli ultimi 200 anni. Nasce e si consolida un modo di produrre e consumare il libro che determina una spaccatura tra pubblico elitario e pubblico di massa, tra letteratura alta e letteratura di consumo. Il dominio del consumo di solito non è ritenuto degno di indagine dalla critica letteraria. La sociologia della ricezione, invece, ritiene fondamentale capire come è fatto un prodotto di consumo perché lo spessore letterario di un’opera ci dice moltissimo circa l’identità di chi quel testo ha privilegiato. La sociologia della ricezione apre nuovi fronti della critica letteraria e della ricerca: oltre ai generi di massa, il settore dei best-seller e il problema della mediazione editoriale. L’orizzonte delle attese Leggere un libro implica operazioni mentali che variano notevolmente in rapporto al sistema di orientamento di ciascun lettore. Invece di ragionare in una dimensione sincronica, relativa al mondo odierno, si ragiona in modo diacronico, cioè si cerca di caratterizzare la varietà storica della lettura, i mutamenti nel tempo delle aspettative dei lettori e le loro stratificazioni sociali e di gusto. Lo studioso tedesco Hans Robert Jauss, coniatore del termine “orizzonte delle attese”, ha mostrato che, cogliendo come i lettori hanno fruito dei testi letterari nelle diverse epoche, siamo in grado di percepire la distanza tra il nostro modo di vedere le cose letterarie e il modo elaborato da un’altra epoca. La teoria letteraria secondo il lettore Questo ribaltamento prospettico ha prodotto conseguenze teoriche di notevole importanza. Le posizioni metodologiche più importanti sono quelle che hanno ridiscusso i fondamenti linguistici della letteratura. Lo studioso americano Stanley Fish ha negato l’esistenza stessa del testo e dei suoi contenuti al di fuori dei singoli atti di lettura. Solo la comunità interpretativa che legge un’opera ne può stabilire le caratteristiche e il contenuto. Tutto ciò implica che il rapporto fra lingua e realtà debba essere ridiscusso. Anche la lingua reclama locutori reali per esistere, ha bisogno di riferimenti pragmatici per funzionare davvero. Le parole non agiscono in modo autonomo dagli individui ma hanno bisogno che una realtà esterna alla lingua ne legittimi l’esistenza. Questa linguistica mette al centro della propria riflessione il soggetto, colui che usa la lingua. Se la lingua smette di essere un sistema autonomo, la realtà nella sua complessità ritorna a essere pienamente protagonista. Ermeneutica e decostruzionismo L’ermeneutica oggi è un orientamento filosofico che si rifà in particolare a Hans-Georg Gadamer e il cui esponente italiano più importante è Gianni Vattimo. I pensatori dell’ermeneutica da un lato esaltano l’essenza linguistica della realtà, dall’altro valorizzano il ruolo dell’interprete. Difendono un pensiero convenzionale e non dogmatico, criticando le ideologie e ridiscutendo continuamente il rapporto con la realtà. Il decostruzionismo trova i suoi fondamenti teorici in Paul de Man. L’oggetto linguistico che si costituisce in testo letterario non dà all’opera un’unità chiusa e compatta. Al contrario, l’opera è attraversata da falle, discontinuità, incoerenze e si ha spesso la sensazione che il senso sia dislocato ai margini dell’opera. Centrale è la teoria dell'indecidibilità: di un’opera non si hanno mai letture sicure, positive. Letteratura e critica finiscono per confondersi e sovrapporsi. Secondo la teoria di Jacques Derrida, dentro la lingua non agisce una logica binaria ma è attivo un gioco libero, free play dei significanti, che sposta continuamente i termini primari del discorso. La centralità del soggetto lettore diventa centralità del “discorso che dice il testo”. Di qui la sensazione che il critico decostruzionista in realtà metta in primo piano il proprio bisogno di scrittura, raccontare la letteratura in modo soggettivo. Certi aspetti della teoria decostruzionista (semplicemente “teoria”) in realtà svolgono un ruolo di contestazione pubblica molto forte. GLI “ISMI” DELLA MODERNITÀ Critica degli “ismi” Tre tipi di “ismo” Il primo a segnalare la proliferazione degli “ismi” è stato Luigi Capuana che nel 1898 ha intitolato “Gli ismi contemporanei” una sua raccolta di saggi. La germinazione di movimenti letterari caratterizzati dal suffisso -ismo ha prodotto per esempio movimenti come il naturalismo, il verismo, il simbolismo, il classicismo. La tendenza a fare uso di tali etichette ha avuto fortuna soprattutto nella pratica scolastica per riferirsi a gruppi, correnti o movimenti. Gli “ismi” impazzano nell’arco cronologico che va dal neoclassicismo al neorealismo ma si applicano anche a periodi precedenti (stilnovismo, petrarchismo, classicismo, manierismo). Molti degli “ismi” antichi sono denominazioni retrospettive o analogiche diffusesi in età moderna. Nel caso di letteratura moderna, siamo tenuti a confrontarci con tre tipi di “ismi”: 1) “ismi” genetici, si applicano a movimenti o scuole caratterizzati da programmi pubblici (manifesti), come il romanticismo e il futurismo; 2) “ismi” che designano gruppi o movimenti privi di poetiche o programmi in senso forte (verismo, decadentismo, crepuscolarismo ed ermetismo); 3) “ismi” analogici e retrospettivi, etichette coniate dopo che i movimenti in questione si erano da tempo esauriti (neoclassicismo, estetismo, modernismo). Le etichette del primo tipo sono indispensabili, quelle del secondo tipo sono utili, quelle del terzo tipo sono controproducenti e discutibili. Programmi (manifesti) e poetiche Il discrimine tra la prima e la seconda serie di “ismi” è determinato dalla differenza tra un programma e una poetica. Programma è un testo, un saggio o un vero e proprio manifesto, in cui un autore precisa le caratteristiche di un movimento o di una scuola. Poetica è qualsiasi riflessione intorno alla propria opera espressa da uno scrittore, qualsiasi giudizio d’autore intorno a un’opera nella manipolazione della vita pubblica alla stregua di un’opera d’arte. Il termine in sé, quindi, non designa in alcun modo un movimento ma si limita a cogliere analogie tra fenomeni reali. CHE COS’È LA POESIA MODERNA Fuori o dentro un genere? Opposte tensioni La lirica moderna è un vero e proprio genere letterario le cui principali caratteristiche appaiono definite a partire da Francesco Petrarca. Ma nella modernità si fa di tutto per sfuggire alle gabbie del genere. Due le maniere di concepire la poesia moderna: 1) pensare a un genere che produce una serie di scuole fondate sul principio dell’imitazione (petrarchismi); 2) percepire una tensione espressiva sfuggente, nata dall’azione di soggettività instabili e discontinue. Entrambe le visioni colgono aspetti importanti del modo di percepire la poesia nel mondo occidentale. A partire dal Trecento il genere della poesia lirica assume un ruolo dominante all’interno del sistema dei generi letterari, attraverso il modello della poesia petrarchesca e quello dei poeti provenzali. La poesia di impianto soggettivo diviene la forma più prestigiosa e ambita. In Italia, tra Sette e Ottocento, la lirica in quanto vero e proprio genere culmina nel sottogenere dell’ode: un tipo di componimento scritto in uno stile e in un metro impegnativi e di tema pubblico e civile. Fino all’Ottocento la letteratura poetica (in versi) comprendeva molti generi, i più importanti dei quali: 1) la tragedia, 2) l’epica, 3) la poesia didascalica, 4) la poesia satirica. In coincidenza con la nascita della modernità letteraria, il mondo occidentale tende a negare la genericità della poesia. La lirica moderna è determinata dalla sua capacità di mettere in crisi gli altri generi della poesia in versi, ma anche di assorbirli al proprio interno: la sostanziale scomparsa degli antichi tipi di poesia in versi implica il parziale recupero dei temi e delle loro funzioni da parte dell’unico genere della poesia moderna. La poesia moderna cerca di assumere atteggiamento di dominio e di proporsi come esperienza superiore. Questi atteggiamenti sono confermati dalla poesia in prosa: l’imperialismo della poesia ha fatto in modo che fosse possibile accogliere come lirico anche qualcosa che all’apparenza non ne denunciava le caratteristiche: anche la prosa poteva essere riscattata e letta alla stregua di un testo in versi. Quale funzione? La poesia, come viene percepita nella modernità, è sia un genere letterario sia un dominio espressivo che contesta i generi; la lirica costituisce tanto una tradizione fondata sull’autorevolezza di indiscussi modelli, quanto un’anti-tradizione che respinge l’eredità tematica e stilistica dei padri. La negazione del passato e della tradizione rivela un propria storia e tradizione della poesia moderna. In questo ambito, bisogna anche parlare del ruolo svolto nella modernità dal romanzo, che ambisce a dominare il sistema letterario e tende ad assimilare a sé parecchi generi della tradizione (epica, novellistica, trattatistica..), così come la lirica. Lirica e romanzo appaiono costantemente in conflitto reciproco. L’interpretazione principe della lirica moderna è quella che ha come padre Hegel (esponenti in Italia Adorno e Mengaldo): la lirica moderna, esprime le ragioni (dolore, crisi) di un soggetto, di un io irrimediabilmente separato dal proprio corpo sociale. L’uomo, alienato dal mondo moderno, realizza nella sfera autonoma della poesia uno spazio di libertà. La lirica moderna è contemporaneamente protesta e fuga: protesta perché implica la sofferta consapevolezza di quanto l’uomo potrebbe essere, di quanto è stato da lui perduto in seguito all’alienazione capitalista; fuga perché implica la definizione di un luogo pienamente autonomo, quasi non più comunicante con la realtà esterna. L’unica salvezza è simbolica, relegata nel dominio chiuso della pagina poetica, entro la quale anche le tensioni formali più estreme e disarmoniche cifrano una protesta contro lo stato di cose presente, additando la possibilità di un’altra condizione di vita. L’esperienza letteraria si vuole maggiormente asociale e si pensa come un ambito perfettamente separato: questo rivela la propria dipendenza da una società che ha liquidato la libertà del soggetto. Un dibattito molto ricco Le opinioni dei critici sono discordanti sia sul significato storico della lirica moderna, sia sulle caratteristiche del fenomeno. Si possono individuare 3 tipi di discorso: 1) La prima posizione mette in rilievo un solo filone della poesia moderna: quello che culmina da un lato nei versi dei poeti ermetici, dall’altro in alcune opere di Ungaretti e Montale. Essi si ispirerebbero ai simbolisti francesi nella ricerca di una parola pura, di uno stile poetico distaccato dagli altri e in grado di propiziare una conoscenza superiore, privilegiata. Ne deriva una pratica lirica che gioca tutte le carte sul piano della forma. Si tratta di un'idea restrittiva, attenta a quelle opere la cui parola sembra risolvere ogni contraddizione: un’idea ermetica, in sintesi, dove il termine va inteso più nella sua accezione esoterica (come conoscenza perfetta e superiore) che non come sinonimo di “difficile” o “oscuro”. 2) Una seconda posizione sottolinea con forza il valore avanguardistico e la sua capacità di distruggere regole e convenzioni, di ribellarsi all’ordine. La poesia d’avanguardia, infatti, implica una tensione politica che si manifesta con la valorizzazione dei gruppi e dei movimenti. Le poetiche avanguardiste sono selettive: tutte le poesie che non hanno il desiderio di distruggere le norme esistenti, tendono a essere sottovalutate. 3) Vi è una poi una terza posizione che non contrasta la precedente, ma l’allarga. Secondo gli studiosi è difficile tracciare una definizione unitaria della poesia moderna. Le grandi costruzioni teoriche hanno spesso escluso o dimenticato le scritture dialettali. Non sono pochi i lirici ostili all’idea che la poesia sia un assoluto, un mondo separato e autonomo. Non solo i dialettali, ma anche i poeti crepuscolari, Rebora e Saba, Sbarbaro e Pasolini e anche l’ultimo Montale, solo con molta fatica possono essere ricondotti alla linea centrale della modernità: la loro idea di poesia è troppo concreta e desublimata, troppo poco di rottura. Tra Sette e Ottocento In Italia, a differenza di altri paesi, tra il Settecento e l’Ottocento dominano poetiche conservatrici: gli autori neoclassici come Foscolo e gli autori romantici privilegiano un tipo di poesia ancora condizionato dalla tradizione e in particolare dalla tradizione dei generi letterari. I neoclassici si mostrano legati al mondo della classicità greco-latina sia sul piano dei contenuti sia su quello delle forme. I poeti romantici italiani sono ancora vincolati ad una nozione di genere a compartimenti stagni, regolata da una rigida ripartizione di forme e funzioni: un principio che implica l’obbligo di usare una forma codificata adeguata al tema affrontato (l’ode e l’inno di Manzoni sono due forme di poesia contraddistinte da una lingua e da uno stile convenzionali). L’unico episodio della lirica italiana del primo Ottocento che ha caratteristiche moderne è rappresentato dai Canti di Leopardi: “poesia senza nome affatto”. Una poesia libera da quasi tutte le norme di genere e forma, che ha il coraggio di fondere eredità lontane fra loro, riducendo al minimo indispensabile gli artifici formali esteriori. Il classicismo antiromantico di Leopardi lo induce a far piazza pulita di tutti gli appesantimenti esteriori che lo allontanano da una presa diretta sulle proprie autentiche intenzioni espressive. Il modello poetico moderno di Leopardi viene però quasi del tutto emarginato dalla poesia italiana nella seconda metà dell’Ottocento. Il maestro della lirica italiana post-romantica è Carducci che assume posizioni anti-leopardiane e uno dei suoi più importanti discepoli, D’Annunzio, rappresenta un esempio di una pratica poetica amante dell’artificio e della decorazione, lontana da quella particolarissima assolutezza lirica che fa dei Canti uno dei capolavori della letteratura mondiale. Tre “poeti vati” È a partire dagli anni Sessanta dell’Ottocento che in Italia si approfondisce il distacco dalla modernità internazionale. Nel 1855 viene pubblicato “Leaves of Grass” di Walt Whitman e nel 1857 “Le fleurs du mal” di Charles Baudelaire: sono due raccolte che determineranno, anche se in maniera assai diversa, conseguenze rivoluzionarie. Il primo è un libro formalmente liberissimo, condizionato dalle forme del linguaggio biblico, che suggerisce l’idea che la poesia possa recuperare un contatto spontaneo con la vita degli uomini. L’opera del secondo poeta, Baudelaire, esemplifica quasi l’esperienza opposta: la scissione dolorosa e irrisolta del soggetto poetico dal proprio mondo, e in particolare dalla vita della città, luogo amato e tuttavia ostile; e la scissione dalla propria funzione pubblica, dal proprio ruolo tradizionale, che è quello del mediatore fra i grandi valori condivisi e il lettore. Il poeta, sempre più un maledetto, accetta di degradarsi agli occhi del pubblico, e di erodere ogni credo collettivo. Nulla di tutto questo troviamo in Italia, almeno fino agli inizi del Novecento. Il lirico per eccellenza della nuova Italia, nata nel 1861, è Giosuè Carducci che appare come un restauratore delle antiche virtù e non come un innovatore della modernità. Da un lato, fa piazza pulita dei sentimentalismi romantici, proponendo un contatto più diretto e profondo con i grandi modelli classici. Dall’altro, proclama la supremazia del poeta sulla società. A livello politico, Carducci cerca di conciliare la monarchia e la sinistra repubblicana. Gabriele D’Annunzio incarna il poeta vate, una figura prestigiosa che ottiene il consenso dell’opinione pubblica e in particolare borghese. Diventerà figura di spicco soprattutto dopo il 1914 con la presa di Fiume. Le sue scelte stilistiche si propongono come classiche ed inimitabili, materializzazioni di un soggetto superiore, che hanno la funzione di esaltare la centralità dell’io e dell’autore. La percezione della realtà risulta strumentalizzata e a volte fatta scomparire, un feticcio manipolato dal poeta. Giovanni Pascoli è simile ai due per le forme artistiche: “antico sempre nuovo”, nel senso che l’esperienza poetica contemporanea deve contenere echi nascosti, ma percepibili, del passato. In Pascoli agiscono inquietudini non molto lontane da quelle della modernità: la ricerca di una poesia “della natura” e il perseguimento di una cifra nascosta. Anche in Pascoli, la poesia è esperienza privilegiata che crede che la funzione pubblica del poeta sia del tutto centrale in quanto la poesia è portatrice di valori irrinunciabili. Si spiega in questo modo la poetica del fanciullino: la voce del fanciullino è in grado di guidare e indirizzare le collettività, di dominare la sfera pubblica. Il primo Novecento L’entrata ufficiale nella modernità poetica in Italia avviene quando gli autori cominciano a non accettare più e a negare gli obiettivi di supremazia ideologica e sociale: smettono di subordinare la realtà alle leggi della poesia. A partire dal 1903, quelli che definiamo crepuscolari ovvero ironisti (Palazzeschi, Govoni, Moretti, Gozzano), fondano le loro 3) Secondo diversi studiosi, i testi letterari più complessi sono caratterizzati da una chiusura e compattezza strutturale che li differenzia da ogni altro tipo di realizzazione testuale. In particolare, i molti livelli che si possono riconoscere in una lirica convergono in una struttura solida e compatta, in cui ogni livello coopera con tutti gli altri per rafforzare la coerenza e la coesione del tutto. Ciò avviene grazie a una serie di ripetizioni, iterazioni dette isotopie: un testo sarà tanto più ricco è valido quanto più numerose saranno le isotopie. I discorsi che hanno giudicato e valorizzato il linguaggio poetico della modernità ne hanno esaltato soprattutto le caratteristiche di chiusura e autoreferenzialità. Forme del neoclassicismo e del romanticismo L’endecasillabo sciolto L'endecasillabo è il verso più importante della metrica italiana e si compone di 10 sillabe metriche. Si chiama così perché la sua realizzazione più diffusa è quella in cui dopo la decima sillaba figura una sola sillaba conclusiva. Tra i criteri che ci permettono di distinguere una sillaba linguistica da una sillaba metrica, ricordiamo la sinalefe: nel contare le sillabe, per lo più si fondono vocali contigue appartenenti a parole diverse. L'autorevolezza dell'endecasillabo è stata tale che, a partire dal Cinquecento, si è ritenuto possibile farne un uso assoluto: si parla in questi casi di endecasillabo sciolto, cioè libero dalla rima. Tuttavia tale libertà nasconde un vincolo con l'esametro latino. Nella seconda metà del Settecento, con Parini e Foscolo, lo sciolto va a incontro a un perfezionamento formale che mira a renderlo il più possibile armonico. Ciò avviene in 3 modi: 1) Evitando di chiudere il verso su se stesso e cioè grazie agli enjambements. 2) Facendo uso di figure retoriche riguardanti la disposizione delle parole nella frase (inversioni, dislocazioni) e il loro significato (metafore, metonimie, sineddochi). 3) Facendo ricorso a soluzioni ritmiche interne all’endecasillabo. L’ode-canzonetta La struttura della cosiddetta ode-canzonetta non è facilmente riconducibile a una formula unitaria perché in essa convergono due tradizioni differenti tra loro. L’ode, nella sua variante anacreontica, privilegia la tematica amorosa mentre, nel modello pindarico, è legata a temi più seri. Nella sua versione più leggera, l’ode assomiglia alla canzonetta in quanto componimento musicato. Ma l’ode-canzonetta è irriducibile a unità. In generale, i suoi tratti primari sono: 1) i versi brevi, dal quinario all’ottonario, 2) l'uso di strofe brevi (da 3-4 a 7-8 versi) spesso disposte in coppie. Tra Sette e Ottocento, questa forma è usata da tutti i più importanti poeti italiani (Parini, Foscolo, Monti, Manzoni, Tommaseo). Nella prima metà dell’Ottocento si trasforma assumendo una fisionomia articolata. Ciò avviene in Manzoni, sia nelle Odi sia negli Inni sacri. Nell'ode-canzonetta, caratteristica propria è la rima ritmica. Infatti, la rima è l'esatta identità fonica di due parole o di due versi a partire dall'ultima vocale tonica. I versi sdruccioli non danno luogo a rime vere e proprie ma realizzano la rima ritmica, priva di totale corrispondenza di suono. La canzone libera La canzone, forma metrica in uso sin dal Duecento, è caratterizzata da una strofa, detta stanza, di 10 o più versi, composta per lo più da endecasillabi e settenari che si distribuiscono in due parti, fronte e sirma. In una canzone vera e propria, questo tipo di stanza viene ripetuto almeno 5 volte. Dopo il Cinquecento, la canzone diventa abbastanza rara e la sua struttura tende a confondersi con quella dell'ode. Nel secondo decennio dell'Ottocento, Leopardi riprende questo genere. Dapprima propone lunghe strofe di settenari e endecasillabi che si ripetono eguali nel corso della poesia. A partire da A Silvia (1828), Leopardi decide di liberare la canzone trasformandola in un componimento formato da stanze, anzi lasse, di lunghezza diseguale entro le quali endecasillabi e settenari si alternano liberamente e anche le rime non rispondono ad alcuno schema precostituito. Risalta l'assenza di artifici retorici troppo esibiti e l'uso di una lingua in cui si fondono semplicità e alta letterarietà. Le dislocazioni sintattiche, soprattutto anastrofi, sono assai frequenti ma non producono un'impressione di innaturalezza. Tra nuovo classicismo e decadenza La metrica barbara Nel 1877 esce a Bologna una raccolta di poesie, intitolata Odi barbare, scritta da Giosuè Carducci. Il libro ha molto successo ma dà origine a una polemica intorno alla cosiddetta poesia barbara. “Barbara” è quell’esperienza poetica che intende riprodurre con le forme delle lingue moderne le caratteristiche metriche dei versi classici, greci e latini. Tuttavia, poiché la prosodia, cioè il modo di regolare gli accenti, dell'italiano ha caratteristiche del tutto diverse da quella del latino, ogni tentativo di attualizzare quelle antiche cadenze produce un effetto “barbaro”. L'esempio più eclatante è l'esametro latino, composto da 6 unità metriche, dette piedi, individuate dalla particolare lunghezza delle sillabe e dalla distribuzione degli accenti ritmici, detti ictus. Questo particolare ritmo è incompatibile con la lingua italiana. Inoltre, se i piedi sono costanti, il numero di sillabe può variare a seconda della soluzione adottata per ognuno dei piedi. Carducci aveva deciso di introdurre un esametro in cui fossero allineati due versi italiani in grado di ottenere il sillabismo latino, il secondo dei quali riproducesse la clausola dell'esametro letto all’italiana. Nella prima parte l'esametro barbaro è aritmico. Per la morte di Napoleone Eugenio (1879): -due endecasillabi alcaici, versi tipici latini. -assenza di rima. -presenza di latinisimi. D’Annunzio e Pascoli D'Annunzio e Pascoli sono due continuatori dell'esperienza carducciana, due veri e propri classicisti attenti a stipare i propri componenti di artifici tradizionalistici. In loro agisce un conflitto tra forma e contenuto, tra impalcature letterarie e sostanza di pensiero. D'Annunzio lavora per lo più per accumulo di artifici, Pascoli preferisce una semplicità esteriore a volte disarmante, quasi infantile. Tra gli infiniti metri praticati da D'Annunzio, prendiamo ad esempio il sonetto. La statua, dalla raccolta Poema paradisiaco (1893): -schema metrico ABBA ABBA CDA CDA. -uso costante della parola "muta": nelle prime 4 volte è rima equivoca perché ogni volta assume un valore diverso. Nelle terzine finali riprende il significato delle ultime due occorrenze (vv. 5 e 8). D'Annunzio ricerca una musicalità esteriore che stupisca il lettore e renda più enigmatica la rappresentazione. Vagito, da Myricae (1891 prima edizione): -il metro adottato è il madrigale antico, una forma trecentesca facilmente musicabile. -endecasillabi disposti in due terzetti e una quartina, schema metrico ABA CBC DEDE. Pascoli usa parole in rima molto facili (bianco/stanco) e il discorso è semplice e frammentario. Se però guardiamo il fondo, scopriamo ritmi alternativi: un endecasillabo aritmico, un quinario adonio. La metrica libera nel Novecento Il verso libero Il verso libero è un metro non vincolato da rigide norme che ha dominato la contemporaneità. Sul piano della rima, già da tempo la tradizione italiana accettava la possibilità di non rimare, quindi non è un'innovazione vera e propria. Per quanto riguarda il sillabismo del verso, nella tradizione italiana aveva dominato l'isosillabismo cioè la lunghezza costante dei singoli versi contati in sillabe metriche. Era dunque vietato l'anisosillabismo, ad eccezione dei settenari e degli endecasillabi che potevano combinarsi tra loro. Nel verso libero possono alternarsi versi di differente misura. Meriggiare pallido e assorto, da Ossi di Seppia (1925), Gabriele D'Annunzio: -alternanza di novenario, decasillabo ed endecasillabo. -nessuno schema delle rime (solo consonanze). Lindoro di deserto, 1916, Ungaretti: -novenari, ottonari, endecasillabo ma senza simmetria. -ritmo dattilico (sillaba accentata seguita da due atone). -assonanze e consonanze. -il senso è determinato da una motivazione analogica (molte metafore). Il verso libero sintattico e informale Nel corso del Novecento, la fisionomia tendenzialmente aperta del testo poetico è stata variamente realizzata e contestata. Non tutti hanno accettato in pieno il versoliberismo. Verso e sintassi tendono a muoversi in parallelo: tale impulso ha dato origine a un verso chiamato verso sintattico, più lungo dell'endecasillabo e generato dal discorso. Desolazione del povero poeta sentimentale, 1906, Sergio Corazzini: -ripetizione, anafora, anadiplosi (iterazione ravvicinata) tipica della lingua parlata. Laborintus, 1954, Edoardo Sanguineti: -ritmo asintattico, assenza di interpunzione, versi lunghissimi. Un verso libero dialettale? Nel dominio della poesia dialettale è prevalente una specie di conservatorismo metrico ma anche in questo ambito il verso libero è piuttosto frequente. De là del mur, 1917-1933, Delio Tessa: -il riferimento principale è il settenario (anche settenari tronchi). -i settenari frantumati sono provocati dalla recitazione, creata dalle pause e dai puntini di sospensione. Fattore logico-sintattico. Mbàreche mi vó, 1975, Albino Pierro: -il metro di riferimento è l'endecasillabo. -impulso logico. LE FORME DELLA NARRAZIONE REALISTA Che cosa significa "realismo" Tra la metà del 700 e la fine dell’800 si è sviluppata una tradizione narrativa, costituita da opere appartenenti ai generi del racconto e soprattutto del romanzo, in cui è stata riconosciuta la realizzazione di un rapporto pienamente compiuto tra letteratura e realtà. Vale a dire la tradizione del romanzo realista. Siamo di fronte a due ordini di problemi: 1) La letteratura ci dice qualcosa della realtà, fornisce un’immagine riflessa variamente fedele o deformata. È difficile pensare ad un testo le cui parole non facciano presa in alcun modo sul mondo: sia esso il mondo coevo a tali parole (contesto storico) sia esso il mondo parla spesso di romanzi di formazione: un io narra le vicende della propria vita, illustrando le difficoltà e le peripezie prima di giungere alla consapevolezza della sua attuale maturità. L'esempio più caratteristico è fornito dalle Confessioni di un italiano di Ippolito Nievo. •Il narratore eterodiegetico impersonale Questa voce narrante caratterizza il romanzo del realismo italiano e inoltre è una narrazione che è stata resa celebre dai Malavoglia di Verga (1881), I viceré di De Roberto (1894) e il Marchese di Roccaverdina (1901) di Capuana. Il narratore dei Malavoglia è esterno, eterodiegetico: non è riconducibile ai personaggi della storia. Tuttavia, la voce che racconta il romanzo, è in qualche modo coinvolta nei fatti, ne ha una conoscenza molto particolare, molto interna. Solo una persona che ha preso parte alle vicende e soprattutto che condivide i valori del mondo rappresentato è in grado di presentarci i fatti in questo modo. È come se quel narratore fosse insieme interno ed esterno: interno perché idealmente fa parte del mondo narrato, esterno perché privo di personalità, voce astratta che parla senza ancorarsi a una persona. Focalizzazione Focalizzazione interna e non focalizzazione I termini focalizzazione e punto di vista sono equivalenti. La focalizzazione si occupa di capire da quale prospettiva è percepito il fatto che ci viene narrato in un certo momento del racconto, chi percepisce una determinata scena. Questo non riguarda unicamente il senso percettivo ma anche la sfera morale, quella dei valori, dei modi in cui interpretiamo e giudichiamo il mondo. Promessi Sposi, due esempi: -gli eventi sono narrati molto dall’alto, il narratore si allontana dalla sua scena e tende a tratteggiarla in una prospettiva molto più allargata. La voce narrante sceglie di non focalizzare la sua rappresentazione, di restituircene una percezione il più possibile accurata e oggettiva: il narratore esterno dei Promessi Sposi vede i fatti con precisione maggiore rispetto a qualsiasi personaggio. - una serie di indicatori percettivi e spaziali suggeriscono un lento cambiamento prospettivo. Scena presentata dal basso, dal punto di vista di fra Cristoforo. Quindi il racconto può presentarci i fatti in una prospettiva neutra, senza esplicitare alcun punto di vista (racconto non focalizzato) oppure può restituirne la percezione di uno o più personaggi: parliamo in questo caso di una focalizzazione interna. Nel primo caso il narratore conosce la storia meglio dei suoi personaggi, nel secondo conosce della storia quanto ne conoscono i personaggi. Focalizzazione e voce narrante: il caso Nievo Non si devono confondere voce e punto di vista. La voce esterna del narratore manzoniano può benissimo assumere una prospettiva interna. Il fatto che sia una voce esterna non implica per nulla una focalizzazione esterna. Ancora una volta fa capolino il concetto di onniscienza: il narratore esterno può assumere una duplice posizione riguardo al punto di vista. Può guardare i fatti da lontano fornendone una ricostruzione neutra, non focalizzata, oppure li può filtrare attraverso la sensibilità di un personaggio, e quindi realizzare una focalizzazione interna. Più complicato è il quadro relativo al narratore interno; egli dovrebbe garantire l’esistenza di una focalizzazione interna: nel senso che chi narra, avendo preso parte o assistito agli eventi narrati, tende a manifestare la prospettiva di un personaggio testimone. Carlino Altoviti, narratore interno delle Confessioni di Nievo, non può che mostrare la propria percezione degli eventi, esaltandone la parzialità tipicamente individuale. E tuttavia non di rado il narratore interno assume una prospettiva non focalizzata, osserva gli avvenimenti con quel distacco obiettivo che è proprio del racconto gestito da un narratore esterno. -il narratore assume una focalizzazione interna, raccontando la storia nella prospettiva del proprio io narrato. -racconta senza attuare alcuna focalizzazione, senza assumere alcun punto di vista, e si limita a riferire i fatti in maniera obiettiva. Questo tipo di sdoppiamento è tipico della narrativa realista: l’esistenza di un narratore interno non implica un'incontrollata soggettivizzazione del discorso, e anzi la voce che racconta i fatti è sempre in grado di recuperare una dimensione impassibile, di presentarci gli eventi in modo responsabile, non parziale. Focalizzazione e voce narrante: il caso Verga Nel realismo ottocentesco il narratore più instabile e fazioso è quella voce esterna e interna, come il Verga dei Malavoglia. Il narratore si identifica con uno o più abitanti di Aci Trezza, assumendone i valori e la prospettiva percettiva. La focalizzazione è interna ma non è facile capire qual è l’esatto fulcro prospettico. 1) Adotta costantemente focalizzazione interna (il narratore conosce la storia come i personaggi) 2) Focalizzazione che comunque chiamiamo variabile perché interpreta il punto di vista di più di un abitante. 3) Lascia spazio a margini di ambiguità. Focalizzazione esterna Non è molto frequente nel romanzo italiano dell’800. Quando il narratore, esterno, ha un grado di conoscenza più limitato di quello che hanno i protagonisti della sua storia, conosce gli eventi meno dei personaggi. Nel romanzo realista, effetti di focalizzazione esterna avvengono in 2 contesti: a) Quando il narratore prende temporaneamente e localmente le distanze dalla storia che racconta, palesando una sorta di incoscienza rispetto ai fatti rappresentati. b) Quando il narratore cerca di annullare quasi del tutto la sua voce e lascia parlare i fatti. La prima possibilità è abbastanza rara nel romanzo italiano dell’800. Un esempio abbastanza chiaro è L’assedio di Tortona di Tommaseo (1844). In casi come questi si mira a ottenere un effetto straniante, emotivo. Della seconda possibilità, ovvero la scomparsa quasi totale del narratore (mimesi) è esempio un verista quale Federico De Roberto, autore di una raccolta intitolata Processi verbali (1890). La narrazione è oggettiva, impassibile, si affida addirittura al genere non letterario del verbale, cioè la fredda registrazione dei soli fatti. Personaggi Una classificazione contenutistica Una delle caratteristiche del romanzo realista è la straordinaria capacità di costruire personaggi che sembrano veri. L’illusione o effetto di realtà, che secondo alcuni critici caratterizza specificatamente il romanzo tradizionale ottocentesco, si realizza con la maggior evidenza nella dimensione del personaggio. Un importante narratore inglese, Edward Morgan Forster, nel suo “Aspetti del romanzo” del 1927, ha proposto una definizione chiara e utile dei tipi di individui in cui ci possiamo imbattere nel romanzo. Forster dichiara che i personaggi in senso pieno e forte che meglio caratterizzano il romanzo moderno, sono i cosiddetti personaggi “a tutto tondo”. Tali figure rivelano la complessità e l’imprevedibilità, la possibilità di evolvere nel corso del romanzo, di andare incontro a trasformazioni. In altri termini, sono in grado di sorprendere il lettore, rivelando aspetti inattesi della loro personalità. I personaggi cosiddetti “piatti”, invece, posseggono caratteristiche opposte: i loro atteggiamenti sono decisamente scontati e prevedibili, si legano per lo più agli opposti toni del comico e del tragico. È importante avere “bei” personaggi a tutto tondo; come Jacopo Ortis, Carlino Altoviti o i protagonisti di Fede e Bellezza del 1840 di Tommaseo. I personaggi veristi sono dotati di bella personalità ma non sono “a tutto tondo”: nei Malavoglia i personaggi sono veri, ma piatti; la loro stessa entrata in scena si accompagna a veri e propri tic verbali e stilistici. L’unica eccezione nei Malavoglia è quella del personaggio di ‘Ntoni che, infatti, non a caso risulta infine un escluso, come quello che ha cercato di fuggire dalla logica di vita elementare cui era destinato. A volte la piattezza dei personaggi è frutto dei complessi meccanismi sociali in cui sono invischiati. L’attenzione al contesto, lo studio e la caratterizzazione delle leggi sociali ridurrebbe di molto l’autonomia del personaggio, la sua possibilità di stupire il lettore, di mostrare aspetti reconditi della propria persona. Non per forza un personaggio prevedibile è meno affascinante: per esempio il Gesualdo Motta del Mastro don Gesualdo verghiano appare un personaggio molto affascinante anche se prevedibile e limitato da vincoli sociali. Una classificazione funzionale È impossibile in un orizzonte realista fare osservazioni sensate su un personaggio trattandolo in modo astrattamente individuale. L’homo fictus della narrativa per essere adeguatamente compreso deve essere inserito in un sistema strutturato, tendenzialmente chiuso, chiamato sistema dei personaggi. I meccanismi elementari dell’intreccio, ovvero gli schemi primari che mettono in relazione tra loro i personaggi, sono gli attanti: vere e proprie funzioni che solo in parte possono essere ricondotte a individui riconoscibili, e che sono generate piuttosto da meccanismi interni della narrazione. Vladimir Propp aveva individuato una serie circoscritta di ruoli assolti dai numerosissimi personaggi in gioco (eroe, falso eroe, antagonista, donatore, aiutante, mandante, principessa e re). Questo schema funzionale è stato ridotto ulteriormente, fino a trarne schemi sempre più basici, costituiti da un pacchetto di pochissimi fattori: destinatore/destinatario, adiuvante/oppositore, oggetto/soggetto. L’esempio in questi casi più citato è fornito dallo schema dei personaggi dei Promessi Sposi proposto da Franco Fido in un articolo del 1974. Esso si fonda su una classificazione primaria in cui sono in gioco i ruoli di vittima, mediatore e oppressore. Nel caso di individui narrativi maggiormente legati a dinamiche sociali, di personalità che non hanno grande spessore psicologico e vanno considerate piatte, disegnare un attento sistema dei personaggi può essere della massima utilità. Si riesce, in questo modo, a render conto di un meccanismo davvero interno alla narrazione: a descrivere i condizionamenti strutturali, oltre che sociali, che hanno portato alla definizione dei personaggi. Per esempio nei Vicerè di De Roberto, i personaggi sono tutti piatti nonostante riescano a dare origine a una storia di grande ricchezza e complessità. Discorsi riferiti: diretto e indiretto libero Discorso diretto e dialogismo dal rapporto con il protagonista. Nella narrativa di Vittorini in “Conversazione in Sicilia”, 1914, a fianco del protagonista-narratore Silvestro, agiscono delle allegorie, più che dei personaggi: i personaggi secondari sono ridotti a caratteristiche etniche e fisiche, il cui senso è solo quello di interagire con il protagonista alla stregua di occasionali comparse. Nello scorso secolo vi è anche il tentativo di abolire il rapporto tra personaggi piatti e personaggi a tondo, scegliendo di ridurre questi a quelli, di produrre opere fatte di personaggi unidimensionali, funzionali perfettamente all’intreccio. Qualcosa del genere si è verificato nella narrativa verista e anche nei Viceré di De Roberto. Rappresentazione dei discorsi e dei pensieri. Monologo interiore e flusso di coscienza A fianco del discorso diretto e indiretto legati, e a fianco del discorso indiretto libero, esiste anche il discorso diretto libero. Esempio Nanni Balestrini dal romanzo Tristano, 1966. Discorsi diretti privi di alcuna introduzione e di virgolette. Il discorso diretto libero nella grande narrazione del Novecento, ha ora la funzione di veicolare il monologo interiore: il resoconto delle parole pensate da un personaggio. Esempio Mosche del capitale (1989) di Paolo Volponi. In Italia l’uso del discorso diretto libero con lo scopo di restituire un monologo interiore non è molto frequente. Gli esempi di analisi intima più caratteristici si realizzano con lo strumento del discorso indiretto libero. Esempio Piccola borghesia (Quindici minuti di ritardo, 1931) di Vittorini. All’inizio abbiamo una breve descrizione, in cui il narratore adotta una focalizzazione interna, poi si passa ad una prospettiva non focalizzata, nel secondo capoverso abbiamo un indiretto libero che riferisce i pensieri del personaggio. Vittorini si avvicina ad una particolare tecnica introspettiva che viene detta flusso di coscienza. A differenza del monologo interiore, che mantiene una forma anche sintattica sostanzialmente razionale, il flusso di coscienza è un’elencazione di stati mentali e percettivi (pensieri insieme a sensazioni) che tende a disporsi in modo disordinato, tale da violare le tradizionali strutture del discorso scritto. Pensieri e sensazioni, pertanto, sono accostati secondo la legge delle libere associazioni. Nella cultura italiana novecentesca, a differenza di quelle in lingua inglese, la pratica del flusso di coscienza è abbastanza rara. Deve essere notato che la teoria marinettiana delle Parole in libertà (enunciata nel 1912) ha molto in comune con il flusso di coscienza. Marinetti per un verso trascura la distinzione tra mondo interiore ed esteriore, e anzi tende a ridurre anche le percezioni a cose, e, per un altro, pratica una sintassi assolutamente non convenzionale (rifiuta la coniugazione dei verbi e la punteggiatura, usa frequenti onomatopee e impiega i caratteri tipografici in modo espressivo. Tempo e spazio L'ordine degli eventi: fabula e intreccio Alla base di un romanzo, d’una novella, d’un poema epico… c’è sempre la dimensione temporale, ogni storia si svolge nel tempo, così come nel tempo si svolge l’atto di raccontarla. Il problema temporale forse più interessante è costituito dall’ordine in cui sono raccontati gli eventi. È sostanzialmente impossibile narrare rispettando in modo del tutto rigoroso l’esatta successione degli avvenimenti. Una perfetta cronologia non è rispettata da nessun racconto. Si può affermare che la mancata consecuzione cronologica si attua nei seguenti tre modi principali: 1) Il narratore (tipicamente quello dei Promessi Sposi) non potendo seguire due storie che si svolgono in parallelo (Renzo a Milano e Lucia a Monza), si muove da una storia all’altra in maniera arbitraria. 2) Il narratore, di fronte ad un certo personaggio o evento, fa un passo indietro e ne ricostruisce la storia passata: si pensi al racconto della vita di fra Cristoforo o Gertrude. 3) Il narratore (tipicamente quello della Coscienza di Zeno) non si sente vincolato alla cronologia dei fatti narrati, si muove con una certa libertà nei vari tempi della sua storia, senza preoccuparsi di sottolinearne le interne scansioni. La prima tecnica è detta entrelacement: è caratteristica, in origine, soprattutto dei poemi cavallereschi. La seconda tecnica è detta analessi, ovvero flash-back, e implica un passo all’indietro nel corso del racconto, che il narratore tuttavia segnala con una certa chiarezza. La terza tecnica, che scompagina la cronologia senza darne una giustificazione esterna pienamente razionale, è legata alla modernità, in particolare al romanzo novecentesco. In tutti e tre i casi tocchiamo con mano la differenza tra la sequenza cronologicamente ordinata degli eventi raccontati e il suo effettivo arrangiamento nel testo che leggiamo. Il primo fenomeno è detto fabula (trama), il secondo concetto è detto intreccio. Nel romanzo novecentesco tende ad imporsi una gestione cronologica della storia profondamente condizionata dalla soggettività della voce narrante. Per far questo, il narratore negli ultimi 100 anni, non di rado ricorre a quella che viene chiamata prolessi (o flash-forward) cioè l’esatto contrario dell’analessi: la narrazione di eventi che secondo la corretta cronologia della fabula avrebbero dovuto essere narrati in un tempo successivo. Questo procedimento si affianca ad un altro effetto speciale della narrazione, cioè all’ellissi, al silenzio intorno a un avvenimento che tuttavia è idealmente presente nella fabula della nostra opera. Un esempio di prolessi si può vedere all’inizio del Fu Mattia Pascal di Pirandello: il narratore interno, Mattia, si congeda dai lettori dopo aver dichiarato di "esser morto, sì, già due volte, ma la prima per errore, e la seconda… sentirete". Le ellissi sono importanti nel romanzo del realismo, dove hanno spesso valore ideologico: si pensi al silenzio del narratore dei Promessi Sposi intorno al peccato di Gertrude; e si pensi al trattamento scorciato riservato alla fine di Lia nei Malavoglia. In entrambi i casi è esplicitamente rimossa e insieme sanzionata la colpa femminile. Tutti questi procedimenti (prolessi, analessi, ellissi) sono detti anacronie. La sfasatura nei tempi del romanzo, che essi introducono, viene per lo più compensata dalla collaborazione del lettore che colma le lacune, riordina i tempi, dà il giusto peso a eventi situati nel passato o nel futuro. Non sempre però l’autore implicito del romanzo che leggiamo ci chiede di allineare con rigore la sequenza dei fatti narrati. Abbiamo visto che esistono narratori, come Zeno della Coscienza sveviana, i quali giocano a tal punto con le anacronie da rendere possibile, almeno tendenzialmente, una dimensione acronica, cioè una storia in cui la rigida distinzione prima/durante/dopo entra in crisi. Ciò determina una confusione, una sovrapposizione dei differenti piani temporali, che ci impedisce di cogliere l'esatta successione dei fatti raccontati. Tra racconto e storia: problemi di durata Vi è una distinzione tra storia (i contenuti effettivamente narrati, l’avventura) e racconto (atto di raccontare, detto anche discorso). Questa opposizione implica la separazione fra ciò che nel romanzo è enunciato e ciò che è enunciazione, la separazione tra i fatti narrati e il modo di raccontarli, tra contenuto e forma. È importante sottolineare la differenza tra storia e racconto perché essi si sviluppano in tempi diversi dentro i singoli testi narrativi. Pensiamo alla parte iniziale dei Promessi Sposi dove don Abbondio incontra i bravi: sul piano della storia, Don Abbondio percorre sessanta passi circa che lo separano dai due: un tempo quindi brevissimo. Mentre, sul piano del racconto abbiamo una sensibile dilatazione, ben 5 pagine di testo, dense di riferimenti storici ai bravi e di pensieri e gesti del curato. I rallentamenti di cui abbiamo parlato sono riconducibili a diverse tecniche: 1) Gli interventi di indole storico-giuridica, con cui Manzoni ci spiega chi erano i bravi costituiscono una pausa, ovvero una digressione: in questo caso la storia si ferma, mentre il racconto procede, trattando temi non strettamente narrativi. 2) L’indugio del narratore ad osservare dall’interno e dall’esterno i comportamenti e i pensieri di Don Abbondio è una forma di analisi: in questo caso la storia procede, ma più lentamente rispetto al racconto. 3) La storia può procedere più velocemente del racconto. Il narratore riassume in poche righe fatti successi in un tempo lungo. Si parla in questi casi di riassunti o sommari. Nell’ultimo capitolo dei Promessi Sposi si riassumono anni di vita matrimoniale di Renzo e Lucia in poche righe. 4) Può infine realizzarsi un rapporto massimamente equilibrato tra storia e racconto, nella situazione denominata solitamente come scena, cioè una sequenza narrativa in cui tra tempo del discorso e tempo dell’avventura non c’è sfasatura. In questi casi, per lo meno idealmente, il tempo della storia e quello del racconto solo uguali. Quando parliamo di scena e quando dichiariamo che in essa i due tempi coincidono, ci riferiamo a qualcosa di convenzionale, ad una sorta di unità di misura. Nel Novecento entra in crisi l’equilibrio realizzato dalla pratica della scena. Al suo posto, tenderà a generalizzarsi il rallentamento dell’analisi, entro la quale elementi cronologicamente limitati sono raccontati in modo dilatato, talvolta ipertrofico. In parte è pure documentata la tendenza opposta: cioè la propensione per improvvise accelerazioni del discorso rispetto alla storia, nella forma del sommario. Caso importante è quello della Cognizione del Dolore (1963) di Carlo Emilio Gadda tra quinto e sesto capitolo della seconda parte. Qui, il protagonista Gonzalo è appena arrivato alla villa di famiglia dove la madre lo accoglie e prepara la cena: quasi 40 pagine di racconto per una storia durata in realtà pochi minuti. Rappresentazioni dello spazio Il rapporto tra storia e racconto è molto utile per introdurre il tema dello spazio nel romanzo. Uno degli indugi più caratteristici di cui il discorso si fa portatore, è la cosiddetta descrizione. È importante distinguere tra sequenze di testo narrative, cioè quelle in cui la storia avanza, e sequenze descrittive, quelle in cui il racconto procede e la storia si ferma, poiché viene analizzato l’aspetto esterno di un luogo, un oggetto o una persona. La contrapposizione tra sequenze narrative e descrittive è solo in grosso modo corretta: la descrizione è un rallentamento della narrazione, ma è anche funzionale e serve a renderla più incisiva. La dimensione spaziale permette di contestualizzare gli eventi, dando loro spessore. Questo avviene in maniera particolarmente visibile nel romanzo della tradizione realista. Le descrizioni di luoghi sono uno sfondo imprescindibile, arrivando a costituire quasi la cifra di interi romanzi o di episodi centrali. I colli Euganei di Ortis, il lago di Como e il castello dell’Innominato nei Promessi Sposi… sono spazi del tutto inscindibili dalla storia e dai personaggi, con cui infatti istaurano un rapporto quasi biunivoco. Senza quel luogo, un certo comportamento è impensabile. Una prima crisi di questo modello fondato sulla reciprocità si ha nella narrativa verista, soprattutto di Verga, e con particolare evidenza nei Malavoglia. Qui infatti la focalizzazione postmoderno e si illustra il conflitto delle interpretazioni implicito nell’opposizione postmoderno/postmodernità. 1) Il pensiero postmoderno ha avuto una valida legittimazione nella riflessione del filosofo Michel Foucault (Storia della follia nell'età classica, Le parole e le cose). È stato uno straordinario critico delle ideologie e istituzioni sociali che hanno dominato l’occidente. Abbiamo un continuo riferimento a fenomeni e luoghi nevralgici (carcere, manicomio); centri di potere e anzi di dominio, percepiti non tanto alla stregua di fatti oggettivi quanto alla stregua di strategie discorsive. Si verifica pertanto una specie di rovesciamento del normale rapporto tra sostanze e apparenze: le apparenze (le parole, i simboli, i discorsi, le immagini, le narrazioni), piuttosto che rispecchiare le sostanze, finiscono per condizionarle, modellandone i tratti principali. In questo modo si abolisce una distinzione troppo netta tra materiale e immaginario, tra evento e racconto, tra fatto e interpretazione. Foucault spesso preferisce parlare di “produzione di senso”, proprio per indicare che il fenomeno sociale e il suo resoconto si inseriscono in una trama unificante, sono attraversati dalla medesima logica. Questa attenzione ai discorsi è presente anche nel pensiero decostruzionista. Questo pensiero tende a mettere in discussione ogni tipo di certezza ermeneutica, la propensione per un freeplay della lettura e dell’interpretazione, capace di negare ogni gerarchia di senso e valore. Il pensiero decostruzionista estende questo metodo alla totalità delle operazioni intellettuali, analizzando con tali strumenti la globalità dei comportamenti sociali. Tende a spostare e dislocare l’oggetto del discorso. 2) L’odierna discussione sul postmoderno è riconducibile a due ordinamenti ben definiti e radicalmente contrastanti: -gli apologeti: sono coloro che ritengono giusto e necessario accogliere con piena fiducia le trasformazioni indotte dalle nuove forme di organizzazione sociale. Nella loro prospettiva, la nostra è una vera e propria postmodernità; siamo giunti alla fine di un percorso, quello del moderno, e persino alla fine della storia, dal momento che la postmodernità è concepita sia come il punto d’arrivo d’un processo, una specie di eterno presente in cui le attuali discontinuità e disuguaglianze sociali sono destinate a durare eterne. -alcuni studiosi (il più noto è Fredric Jameson) si rifiutano di accettare l’irriducibilità totale del mondo postmoderno all’orizzonte della modernità. L’arte e le forme d’esistenza oggi dominanti non rinvierebbero a una società affatto diversa da quella del passato, me ne sarebbero solo un’evoluzione: si parla di “tardo capitalismo”. La differenza di questa profonda prospettiva rispetto alla prima consiste pure nel fatto che se in quella è quasi impossibile prendere le distanze da un universo che ci domina e ci impone le sue norme, in questa il ruolo critico del soggetto resta ancora vivo. Credere che il postmoderno sia una fase del moderno, permetterebbe di mantenere in vita una prospettiva di giudizio per certi versi più ricca e sfaccettata. Riflessi letterari La fine della modernità sembra essere stata preannunciata da trasformazioni interne al mondo della letteratura e delle arti. Negli ultimi 40 anni circa i sociologi hanno cominciato a prendere coscienza di un mutamento radicato ben più in profondità. La nozione del postmoderno e la prospettiva d’una postmodernità sono state almeno in parte dedotte dalla fine del modernismo. Se badiamo alla letteratura italiana degli ultimi 40 anni, vediamo dei sintomi che sembrano suggerire un mutamento del quadro modernistico di concepire la produzione artistica: 1) Crisi della novità in quanto valore: se nel modernismo l’opera era valida quando si dimostrava diversa dalle opere che l’avevano preceduta, nel postmoderno domina il principio della citazione e della contaminazione. È anzi ritenuta pregevole la consapevole ripresa di stili e convenzioni in qualche modo firmati, usati, rimontati dall’autore e in maniera a sua volta non provocatoria ma piuttosto ludica. Il citazionismo moderno, il suo rifiuto del paradigma innovativo, si oppone alla pratica dell’avanguardia. Nonostante questo ci sono diversi fenomeni che fanno pensare all’esistenza di strategie postmoderniste attive anche all’interno della neoavanguardia italiana: il Gruppo 63 (movimento che cerca di riattivare le avanguardie storiche) ha ripreso una serie di tecniche caratteristiche dell’avanguardia. Aldo Nove in Woobinda (1996) ha ripreso tecniche diffuse da Nanni Balestrini: la costruzione del racconto per paragrafi chiusi fortemente scanditi, l’imitazione di linguaggi bassi con ridotto uso della punteggiatura, la possibilità di troncare il testo con un taglio secco che interrompe bruscamente un discorso non concluso ecc. Per quanto riguarda il citazionismo basta ricordare “Il nome della rosa” (1980) di Umberto Eco, romanzo postmoderno per eccellenza, con i continui riferimenti a testi medievali e l’uso accortissimo del genere del giallo alla maniera di Sherlock Holmes, con enfasi sull’indagine. 2) Il fenomeno letterario postmoderno è fornito dal superamento della distinzione tra una letteratura alta e una letteratura bassa e quindi della loro reciproca contaminazione (alto e basso intesi come dominio letterario e paraletterario). La distinzione in oggetto non ha più ragione d’essere, perlomeno da quando le strutture dei generi paraletterari sono state fatte proprie da scrittori istituzionali. Il giallo, la fantascienza, il rosa, l'horror e altri generi vengono sempre più accettati ai piani alti del sistema letterario, sono abilmente manipolati da scrittori che ne rispettano le norme, caricandole però di sensi e valori in parte diversi da quelli originali. Oggi è possibile persino che i talenti letterari forse più autentici si formino nei domini denominati paraletterari. Si inseriscono pienamente in questa dinamica i fenomeni del cult e del camp. Il cult è la tendenza a rivalutare aspetti più degradati della cultura di massa fino a coltivarli con una particolare predilezione affermandone l’eccellenza. In Italia il cult riguarda soprattutto il cinema e la canzone. Il camp è da intendersi come una moda, un modo di vestire eccentrico, in cui il cattivo gusto esibito è in grado di rovesciarsi in un paradossale e snobistico buon gusto. 3) Il postmoderno sostituisce alla tensione drammatica, al senso della crisi tipici del modernismo, una visione disincantata e ironica della realtà. Questo significa da un lato eludere la verità e l’autenticità ed esaltare una sorta di trionfo dell’artificioso e dell’artificiale; dall’altro lato teorizzare una totale frantumazione dell’esperienza, la disseminazione del soggetto che con essa entra in contatto, la sua resa di fronte alla pluralità delle parvenze. 4) A mostrare l’istanza disseminante tipica del postmoderno, si può additare il fenomeno del metaromanzo: un romanzo che contiene altri romanzi, e che su di essi, insieme, riflette. La sua è una tradizione iniziata nel modernismo, che trova nel postmodernismo una notevole fortuna. “Se una notte d’inverno un viaggiatore” di Calvino è il capolavoro italiano di questo sottogenere. È un’opera che si compone di 10 romanzi, tutti incompiuti, e che tematizza l’impossibilità di leggerli da parte del protagonista, il Lettore appunto.
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