Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Storia Medievale - Manuale di Giovanni Vitolo (Riassunto), Sintesi del corso di Storia Medievale

Storia romanaStoria Medievale EuropeaStoria dell'Europa antica

Riassunto del manuale "Medioevo. I caratteri originali di un'età di transizione", utile per studi di storia medievale e per l'esame di storia medievale ad UNIPA

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

In vendita dal 22/12/2022

Davidoski00
Davidoski00 🇮🇹

4.7

(11)

13 documenti

1 / 67

Toggle sidebar

Spesso scaricati insieme


Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica Storia Medievale - Manuale di Giovanni Vitolo (Riassunto) e più Sintesi del corso in PDF di Storia Medievale solo su Docsity! CAPITOLO 1 Il mondo ellenistico-romano e la diffusione del Cristianesimo I Romani cercarono di appoggiare la linea di confine a baluardi naturali, attestandola lungo il corso di grandi fiumi quali il Reno e il Danubio, e costruendo a ridosso di essi fortificazioni e accampamenti fortificati per le milizie di frontiera, i limitanei. Il limes segnava la separazione tra due sistemi di vita e due diversi equilibri tra uomo e ambiente: da un lato il mondo delle foreste e delle grandi valli fluviali dell’Europa centrale e settentrionale, dove i Germani, che avevano superato il nomadismo e l’economia basata sulla caccia e sulla raccolta di frutti spontanei, continuavano a spostarsi periodicamente da una radura all’altra sotto la guida di capi militari e inquadrati in strutture sociali assai semplici; dall’altro lato un mondo imperniato sulle città e abitato da popolazioni inquadrate in sistemi socio-culturali assai più complessi. Per i Romani il centro urbano vero e proprio, detto urbs, aveva più che altro funzioni amministrative, politiche e commerciali, di cui si avvalevano non soltanto i residenti, ma anche e soprattutto gli abitanti di un territorio più o meno vasto, che prendeva il nome di civitas e che era disseminato sia di case dei contadini sia di ville di grandi proprietari. La diffidenza verso i cristiani era di natura politica e nasceva principalmente dal fatto di essere stati in origine assimilati agli ebrei, i quali più volte si erano ribellati all’impero. Successivamente essa si fece sempre più forte e sfociò in ostilità aperta man mano che apparivano sempre più evidenti i segni di una crisi di enormi dimensioni. Tale fu quella che tra II e III secolo investì le fondamenta stesse della società romana. All’origine della crisi, più acuta in Occidente, c’era da un lato lo sviluppo abnorme delle città nelle quali si era venuta concentrando una quota di popolazione troppo alta rispetto alle loro capacità produttive, dall’altro l’abbandono da parte dei contadini di terre che dopo essere state sfruttate a lungo stavano diventando meno produttive. Il prelievo fiscale, riportando a Roma una parte dell’oro che il commercio trasferiva in Oriente, riusciva in qualche modo a frenare il fenomeno, ma alla lunga l’Occidente andava incontro a un progressivo impoverimento. I contraccolpi a livello sociale e politico non tardarono a manifestarsi. Carestie, epidemie, fecero da sfondo a sanguinose guerre civili tra pretendenti al trono imperiale, che misero seriamente in pericolo l’unità dell’impero, provocando la secessione di intere province. E tutto ciò, proprio mentre i Germani minacciavano le regioni periferiche del mondo romano. L’impero sembrava sul punto di sfaldarsi. Riuscì però a riprendersi grazie a una serie di imperatori di grande energia e di notevole spessore politico. Il personaggio chiave di questa vasta operazione politico-culturale fu Diocleziano, acclamato imperatore dall’esercito il 20 novembre 284. Per mantenere inalterato il gettito delle imposte e per frenare l’abbandono delle campagne, i contadini furono legati in maniera definitiva alla terra, per cui fu proibita loro ogni forma di mobilità. Lo stesso si fece con artigiani, commercianti e con quanti contribuivano con la loro attività a garantire la sopravvivenza delle città. Un decreto del 301, che fissava prezzi e salari, completò infine quella grandiosa opera di burocratizzazione dell’economia o di come è stato definito, di socialismo di Stato, che se pur non valse a risolvere in maniera duratura i mali profondi che affliggevano l’impero, ne ritardò tuttavia il crollo definitivo di quasi due secoli, producendo addirittura qua e là timidi segnali di rifioritura economica. Diocleziano vedeva il Cristianesimo come un elemento di pericolo per la pace e l’unità interna, perciò fu fatto oggetto di persecuzioni a partire dal 303. Il suo successore fu Costantino che invece pensava che il Cristianesimo potesse addirittura diventare un elemento di forza. La scelta di Costantino fu felice, in quanto l’adesione della Chiesa all’impero fu più rapida e piena rispetto alle sue aspettative. Pur essendosi limitato con l’editto di Milano a riconoscere alle chiese cristiane libertà di culto e restituzione dei beni confiscati, egli si trovò infatti a svolgere un ruolo decisivo nelle controversie dottrinali che laceravano la comunità cristiana. Il Cristianesimo si trovò di fronte al problema di darsi una sistemazione in un e vero e proprio corpus dottrinale, un credo. Il Donatismo proponeva il consolidamento della gerarchia ecclesiastica e dello stesso ordine politico-sociale. La seconda tendenza era caratterizzata da una maggiore comprensione per le debolezze e i bisogni dell’uomo; di qui l’esigenza per le comunità cristiane di istituzionalizzarsi, cioè darsi delle norme, con una gerarchia sacerdotale e formule di fede ben definite. E fu proprio l’elaborazione della dottrina cristiana il terreno più aspro dello scontro interno alla Chiesa. La polemica esplose agli inizi del IV secolo in seguito al diffondersi della dottrina del prete Ario di Alessandria, il quale sosteneva che il figlio di Dio incarnatosi in Cristo non aveva lo stesso grado di divinità del Padre, ma era a lui subordinato. Alla fine si trovò una soluzione per tanti aspetti gravida di conseguenze per il futuro. L’imperatore Costantino fu indotto a riunire nel 325 a Nicea quello che viene considerato il primo concilio ecumenico, cioè universale, dato che i trecento vescovi che vi parteciparono, pur provenendo in larghissima parte dalle province orientali, deliberarono in nome di tutte le comunità cristiane. In quella occasione la dottrina di Ario fu condannata all’unanimità, ma ciò avvenne non tanto per le capacità di persuasione dei vescovi antiariani, quanto piuttosto per le pressioni dell’imperatore. Quello che sarebbe potuto apparire un fatto episodico era destinato invece a diventare l’inizio di un processo, che vide procedere parallelamente da un lato la formazione di una nuova ideologia imperiale che assegnava all’imperatore la suprema responsabilità nella difesa dell’ortodossia, e dall’altro l’elaborazione definitiva di una dottrina, che ora può dirsi effettivamente cattolica, cioè dichiarata valida per la Chiesa universale. E’ da questo momento che si può legittimamente parlare di eresie, cioè di dottrine che si oppongono a verità proposte come tali dalla Chiesa. Ma l’Arianesimo era destinato a tornare prepotentemente alla ribalta nei primi secoli del Medioevo. Esso fu infatti recepito, attraverso missionari orientali, dalle popolazioni germaniche, che ne fecero un elemento della propria identità culturale. Un punto fermo nella contesa, che tuttavia non valse a sanare le discordie, fu dato dal Concilio di Calcedonia del 451, che dichiarò Cristo vero Dio e vero uomo, dotato di due nature distinte ma inseparabili. Alle origini del monachesimo si ebbero colonie di eremiti, che vivevano non lontani gli uni dagli altri, spesso intorno a una chiesa. Ad opera di Pacomio fu promossa la creazione di monasteri. Su questa linea si pose Basilio, egli non fondò un vero e proprio ordine basiliano, ma si limitò a promuovere la fondazione di monasteri sia in luoghi appartati sia in città. A essi indirizzò le sue regole, che non costituivano un vero e proprio codice di leggi, ma una serie di indicazioni e di ammaestramenti per i cristiani che vivevano in comunità e che egli visitava frequentemente. Per quanto riguarda Benedetto, egli scrisse intorno al 540 una regola che egli stesso non considerava né perfetta né definitiva. CAPITOLO 2 L’occidente romano-germanico Si possono individuare nell’ambito delle popolazioni germaniche tre grandi gruppi, destinati a differenziarsi sempre di più sotto la spinta di influssi culturali esterni: quello settentrionale in Scandinavia e Danimarca, quello orientale tra l’Oder e la Vistola, che si mise in movimento intorno al 200 a.C. verso l’area a nord del Mar Nero, e quello occidentale nell’attuale Germania a est del Reno. Il primo contatto con i Romani avvenne nel II secolo a.C., quando i Cimbri e i Teutoni, partendo dalla Danimarca, si spinsero fino in Spagna, in Gallia e in Italia, dove furono sconfitti da Mario. La conquista della Gallia da parte di Cesare rese definitivo il contatto tra Romani e Germani, che si fronteggiavano ormai dalle due rive del Reno, destinato a segnare il confine tra due sistemi di vita fino al 406, fino al tempo del balzo definitivo dei Germani verso le regioni del Mediterraneo. Quello però che ci interessa capire è l’organizzazione della società e del potere che ruotava tutta intorno alla guerra, talché il popolo germanico è per definizione un popolo di uomini in armi. L’unica Valentiniano, il quale a sua volta cadde l’anno dopo per mano di due seguaci di Ezio. La loro scomparsa creò ai vertici dello Stato una situazione sempre più confusa, con il succedersi rapido di imperatori privi di potere effettivo, quasi sempre nelle mani dei comandanti delle forze romano- barbariche che presidiavano la penisola. Tra essi ebbero una preminenza non effimera lo svevo Ricimero e lo sciro Odoacre. Odoacre, dopo aver deposto nel 476 il giovanissimo imperatore Romolo Augustolo, innalzato al trono appena l’anno prima dal generale Oreste suo padre, rimandò a Costantinopoli le insegne imperiali, dichiarando di voler governare quello che restava dell’impero d’Occidente in nome dell’imperatore d’Oriente con il solo titolo di patrizio; nello stesso tempo assunse il titolo di re degli Eruli, degli Sciri e degli altri Germani che avevano sostenuto il suo colpo di Stato. Teodorico, il re ostrogoto educato alla corte di Costantinopoli, nel 489, per incarico dell’imperatore Zenone preoccupato per l’espansionismo di Odoacre in Dalmazia, portò in Italia il suo popolo, formato da circa 100-125.000 persone, di cui 20-25.000 guerrieri. L’aristocrazia e l’episcopato cattolico si volsero subito dalla sua parte, perché videro in lui oltre che l’inviato dell’imperatore e l’uomo forte del momento, ancora più garanzie di rispetto degli equilibri sociali esistenti. E in effetti Teodorico mostrò subito di voler operare in pieno sia con l’aristocrazia sia con la Chiesa cattolica. Con gli Ostrogoti era la prima volta che si stanziava in Italia un intero popolo e che si operava un trasferimento di terre di grandi dimensioni. L’operazione non fu però traumatica perché il declino demografico, allora in atto in Italia, faceva aumentare la disponibilità di terre. Inoltre non si instaurò la dominazione degli Ostrogoti sulla popolazione romana, ma si realizzò la coesistenza di due comunità con distinti ordinamenti giuridici e unite soltanto nella figura di Teodorico. I Goti, gli unici ad avere il diritto di portare le armi, erano governati da comites (conti), i quali erano anche i governatori militari dei distretti in cui era diviso il territorio. I Romani, rigorosamente esclusi dall’esercito, continuavano a vivere secondo il diritto romano ed erano inquadrati nel tradizionale apparato politico-amministrativo egemonizzato dall’aristocrazia e da quello che era rimasto delle antiche elites cittadine. I Visigoti, mostrarono subito un certo dinamismo espansivo, allargandosi in Provenza e nella penisola iberica e accreditandosi come formazione politica in grado di assumere la guida dell’intero mondo germanico. Furono però bloccati dai Franchi, i quali li sconfissero duramente a Vouillé (a sud della Loira) nel 507, togliendo loro l’Aquitania e sospingendoli definitivamente verso la penisola iberica, che finirono con l’occupare in gran parte, incorporando anche il regno degli Svevi. Tutto lasciava presagire per il regno dei Visigoti un futuro di stabilità e di concordia interna, quando un accadimento improvviso ne provocò violentemente la fine: l’invasione araba del 711, classico esempio di evento che segna una frattura nel corso della storia. A questo stesso imprevisto fu sul punto di soggiacere anche il regno dei Franchi, che però ebbe la forza e la fortuna di fermare a Poitiers nel 732 l’onda lunga dell’espansione araba che stava tentando di stringere l’Europa da tutti i lati. I Franchi però, a differenza dei Visigoti, non avevano sempre fatto parte di un organismo politico unitario, essendo originariamente divisi in tanti piccoli aggregati, formatisi nel corso dei secoli IV-V lungo i bacini del basso Reno e della Schelda sotto la guida di capi militari. A partire dal 482, furono via via inglobati nel dominio di Clodoveo, re dei Franchi Salii e iniziatore della dinastia merovingia, detta così dal nome del suo, forse mitico, antenato Meroveo. Nel 511, alla sua morte, Clodoveo controllava, ad esclusione della Provenza, tutta la Gallia romana e anche una fascia di territori al di là del Reno. Alla base di questi successi c’era, oltre al dinamismo militare dei Franchi, la collaborazione con la colta e ricca aristocrazia gallo-romana e con l’episcopato cattolico. Clodoveo e i capi franchi si erano infatti convertiti intorno al 498. Ne risultarono accelerati la spinta alla formazione di uno Stato a carattere territoriale sul modello romano-imperiale e l’avvicinamento, fino alla fusione totale, tra l’aristocrazia franca e quella gallo-romana nonché fra i due popoli. L’influenza degli uomini di Chiesa nell’orientare la dinastia merovingia verso modelli politici estranei alla tradizione germanica e che portarono alla creazione di un ordinamento pubblico articolato in distretti (contee) governati da rappresentanti del re (conti) non impedì tuttavia che si affermasse una concezione patrimoniale dello Stato. Alla morte di Clodoveo, infatti, lo Stato venne diviso in parti uguali tra i suoi quattro figli, come se fosse stato un bene privato, anche se rimase l’idea di un regno unico attraverso il concentramento delle capitali (Reims, Parigi, Soissons e Orleans) nella regione gravitante sulla Senna, nel cuore del dominio franco. Per quanto instabili, queste divisioni territoriali fecero emergere tuttavia quattro realtà che non erano semplicemente geografiche e politiche, ma anche etniche e storiche. Il sistema di successione basato sulle spartizioni territoriali ad ogni generazione non evitò peraltro l’esplodere di violente lotte fratricide e di odi familiari, che, se non impedirono ai discendenti di Clodoveo di mantenere la corona per dieci generazioni, frenarono nondimeno il dinamismo espansivo del regno, provocandone anche un arretramento delle frontiere. I Franchi non furono perciò in condizione di esercitare nel contesto dell’Occidente quel peso che avrebbero raggiunto nel corso dell’VIII secolo, una volta ristabilita con Pipino il Breve, una direzione politica salda e unitaria. CAPITOLO 3 L’Oriente romano-bizantino e slavo Mentre in Occidente si veniva faticosamente, delineando una nuova realtà attraverso la fusione di elementi della civiltà germanica e di quella romano-cristiana, la parte orientale dell’impero mostrava una sorprendente capacità di resistenza di fronte a pressioni esterne e a tensioni interne, non meno forti di quelle che travagliavano il resto del mondo romano: resistenza alimentata da un lato da una tenace fedeltà alla tradizione e dall’altro dalla capacità di adattamento a situazioni sempre mutevoli sul piano politico e sociale. Le ragioni di questa diversità sono da ricondurre principalmente al differente livello di sviluppo che da sempre aveva caratterizzato le due parti dell’impero, ma che la crisi del III secolo aveva reso più evidente. L’Oriente infatti non aveva conosciuto quella concentrazione delle terre nelle mani dell’aristocrazia, che aveva portato in Occidente sia allo sviluppo del latifondo a conduzione schiavile sia al declino del ceto dei piccoli proprietari fondiari, che per secoli avevano formato il nerbo delle legioni romane. Le città, inoltre, non solo erano più numerose e popolate, ma avevano anche una struttura economica e sociale più complessa, con una larga presenza dei ceti mercantili, padroni incontrastati dei traffici del Mediterraneo. La conseguenza era che l’aristocrazia non godeva di una schiacciante superiorità sociale nei confronti del resto della popolazione e per giunta non formava una classe rigidamente chiusa, dato che non era difficile entrarvi per quanti emergevano nell’ambito della pubblica amministrazione, delle professioni e delle attività economiche. L’assenza di una grande aristocrazia, a sua volta consentì una maggiore libertà di azione al governo imperiale, che poté così attuare più efficacemente le riforme di Diocleziano, intervenendo, grazie a un efficiente apparato burocratico, in ogni settore della vita economica e sociale. Il punto singolare di quella singolare esperienza storica che fu lo Stato bizantino non può non essere l’11 maggio del 330, giorno in cui Costantino inaugurò, dandole il suo nome, la nuova capitale sul Bosforo, realizzata con grande intuito politico attraverso la ristrutturazione urbanistica di Bisanzio, una modesta colonia greca fondata probabilmente nel VII secolo a.C. e la città conobbe un vero e proprio boom, configurandosi inevitabilmente come concorrente di Roma. Roma del resto era in declino quale sede del potere, dato che dopo Massenzio, gli imperatori preferirono, a causa dei loro impegni militari, spostarsi da una città all’altro; si stabilirono poi definitivamente nel 404 a Ravenna, protetta dalle paludi e collegata via mare con Costantinopoli. Costantinopoli fu attrezzata ben presto a imitazione di Roma. La sacralizzazione del potere era il risultato anche dell’esaltazione del ruolo dell’imperatore quale difensore della genuina dottrina cristiana e responsabile del popolo cristiano. Finì così col diventare normale che fosse l’imperatore sia a convocare e a presiedere i concili ecumenici sia a decidere sull’elezione dei vescovi delle sedi più importanti, tra cui Costantinopoli e le chiese patriarcali di Alessandria, Antiochia e Gerusalemme. Non desta sorpresa perciò il fatto che il rito dell’incoronazione imperiale si distaccasse sempre di più dalla tradizione romana, configurandosi come una cerimonia religiosa, con la consegna della corona da parte del patriarca di Costantinopoli; successivamente si giunse a conferire all’imperatore anche un ordine ecclesiastico minore, alla stregua di quelli che erano destinati al sacerdozio. Mentre in Occidente ci si stava orientando verso un pieno inserimento dei Germani nell’esercito e nei quadri dirigenti dello Stato, in Oriente, a tutti i livelli della società e della Chiesa, si affermò una posizione di netta chiusura nei loro confronti. Ma quello che è più significativo è che si diede inizio a una politica sistematica di dirottamento verso Occidente dei Visigoti e degli altri Germani orientali, che diventavano sempre più inquieti sotto la pressione degli Unni. La liberazione della pressione germanica consentì prima a Zenone e poi al suo successore Anastasio I di concentrare le proprie forze nella soluzione di due difficili problemi interni: le rivolte degli Isauri, un popolo suddito dell’impero da cui proveniva lo stesso Zenone, e le continue agitazioni provocate dai contrasti a sfondo religioso, a cui non riuscivano a porre fine le deliberazioni dei concili ecumenici. Mentre però fu relativamente facile venire a capo della ribellione degli Isauri, ricorrendo alla loro deportazione in massa, la soluzione al problema religioso si rivelò praticamente impossibile. La riconquista dell’Italia avviata da Giustiniano nel 535 si inseriva in un più ampio progetto di riconquista dell’intero Occidente e di restaurazione dell’ordine sociale preesistente alle invasioni germaniche, avviato due anni prima nell’Africa settentrionale con la distruzione del regno dei Vandali, condotta a termine rapidamente dal generale Belisario. Prima ancora che finisse la campagna d’Italia, Giustiniano aveva già volto il suo sguardo alla Spagna dei Visigoti. L’occasione per intervenire gli fu fornita dallo stesso re Atanagildo, il quale, avendo preso il potere sull’onda di una rivolta dello schieramento filo-cattolico contro la politica filoariana del re Agila, si era rivolto proprio all’imperatore d’Oriente per averne aiuto. Un corpo di spedizione bizantina conquistò così un’ampia fascia costiera nella parte sud-orientale della penisola iberica, comprendente le città di Malaga e Cordova. Con il successo dell’intervento imperiale in Spagna, il Mediterraneo era tornato ad essere un lago romano, con piena soddisfazione degli operatori economici interessati al commercio internazionale, i quali avevano appoggiato Giustiniano nel suo programma di restaurazione dell’impero universale; tanto più che rientrava in esso il potenziamento complessivo delle attività commerciali e industriali, per mettere Costantinopoli in collegamento diretto con i centri orientali di produzione della seta grazie all’apertura di nuovi passaggi attraverso l’Arabia, il mar Rosso e l’Abissinia. Per portare avanti un programma così ambizioso, Giustiniano ebbe bisogno di grandi risorse finanziarie, che poté reperire potenziando l’apparato amministrativo e ponendolo sotto l’attento controllo dei funzionari centrali. Contemporaneamente Giustiniano avviò, avvalendosi dell’opera di un intelligente collaboratore, Triboniano, un progetto di riorganizzazione del ricchissimo patrimonio giuridico romano a partire dall’età repubblicana. Ne scaturì il Corpus iuris civilis, destinato non soltanto a restare alla base di tutta la legislazione bizantina, ma a influenzare anche, una volta riscoperto e studiato dai giuristi bolognesi del XII secolo, tutta la produzione giuridica europea dei secoli seguenti. L’opera di Giustiniano è stata ed è tuttora oggetto di contrastanti giudizi da parte degli storici, i quali tuttavia concordano nel vedere in essa l’estremo tentativo di restaurare l’impero universale di Roma non soltanto sul piano politico e militare ma anche su quello ideologico. I successi di politica estera mezzi per la sua politica espansionistica. Essi avevano però l’effetto di deprimere il morale delle già scarse truppe lasciate a difesa dell’Italia e di generare nella popolazione nostalgia per il passato regime politico, creando così le premesse per il crollo del dominio bizantino in gran parte della penisola in seguito all’invasione dei Longobardi. I Longobardi erano un popolo germanico originario della Scandinavia che, dopo aver vagato da un capo all’altro dell’Europa, nel 568 giunse in Italia attraverso il Friuli, sotto la guida del re Alboino. I Longobardi, fra tutti i popoli germanici, erano quelli che meno si erano allontanati dai loro usi tradizionali, per cui il re aveva ancora il carattere di un capo militare eletto dall’aristocrazia nei momenti di necessità (trasmigrazioni, guerre), ma il suo potere era fortemente limitato dall’ordinamento tribale del popolo. L’esercito si articolava in gruppi di guerrieri appartenenti a famiglie (fare) che si richiamavano a un antenato comune e che, sotto la guida dei loro duchi, si muovevano con una certa autonomia sia in pace sia in guerra, stanziandosi nei territori via via conquistati. Il corpo di spedizione che si spinse più a sud fu quello del duca Zottone, il quale nel 571 raggiunse Benevento costeggiando l’Adriatico fino a Pescara e da qui penetrando negli Abruzzi in direzione di Isernia. Queste conquiste però erano prive di continuità con il grosso dei territori longobardi, che erano concentrati nell’Italia padana, in Piemonte, nel Friuli, nel Trentino e nella Toscana. I Bizantini riuscirono infatti a mantenere il controllo di gran parte della Romagna e di una striscia di terra che, attraverso Perugia, collegava Ravenna e la Pentapoli con Roma. Conservarono inoltre, per qualche tempo ancora o definitivamente, le isole, tra cui Sicilia, Sardegna e Corsica, il litorale veneto, l’Istria, le coste della Liguria e della Toscana, una fascia più o meno larga di territorio lungo la costa tirrenica da Civitavecchia ad Amalfi (divisa tra il ducato di Roma e quello di Napoli), la Puglia centromeridionale e gran parte della Calabria. L’incompletezza della conquista, che segnò l’inizio della divisone politica dell’Italia destinata a durare fino al Risorgimento, non fu provocata solo dalla capacità di resistenza dei Bizantini, che si arroccarono in castelli ben muniti e nelle città costiere, dove potevano ricevere dal mare rifornimenti e aiuti militari. Vi contribuì anche lo spirito di autonomia dei duchi, i quali dopo la scomparsa di Alboino, vittima di un congiura nel 572, e del suo successore Clefio (574) rinunciarono per ben dieci anni (574-584) a darsi un nuovo re. E’ il periodo della cosiddetta anarchia militare. I Longobardi sconvolsero le circoscrizioni amministrative romane sia quelle ecclesiastiche, che sulle prime si erano modellate. Sconvolgimento di circoscrizioni amministrative ed ecclesiastiche non significa però anche disarticolazione della rete degli insediamenti urbani e di quelli rurali. I Longobardi, infatti, non solo ebbero come punti di riferimento le città romane, mostrando per giunta di saper cogliere i cambiamenti che si erano verificati in epoca gotica, con l’emergere, ad esempio, di centri quali Verona e Pavia. Continuità degli insediamenti urbani e rurali non significa però che nulla fosse cambiato rispetto all’età romana. Le strutture edilizie sia pubbliche sia private erano già fortemente degradate almeno dal IV-V secolo, per cui, Teodorico si era impegnato in un vasto intervento di recupero. Che l’invasione longobarda sia stata solo un fattore di aggravamento e non la causa del degrado, è dimostrato del resto dal fatto che ne erano investiti anche i centri urbani delle zone rimaste sotto il controllo dei Bizantini. I Longobardi, con la trasformazione in proprietari terrieri e la necessità di difendere i beni acquisiti da un possibile ritorno offensivo dei Bizantini, furono ben presto indotti a darsi un ordinamento politico più stabile ed evoluto. Finirono così per volgersi verso il modello romano, con conseguente rafforzamento del ruolo del re, che comportava a sua volta la ricerca dell’appoggio dell’episcopato cattolico e quindi del consenso anche della popolazione romana. Il punto di partenza è la restaurazione dell’autorità regia nel 584 a opera di Autari, il quale si fece cedere dai duchi la metà delle loro terre, per consentire alla monarchia di procurarsi i mezzi necessari al suo funzionamento. Per gestire i beni della Corona, furono creati degli appositi funzionari, i gastaldi, le cui competenze con il passare del tempo furono ampliate, al fine di limitare i poteri dei duchi, rispetto ai quali i gastaldi svolgevano una funzione di controllo per conto del re. Ad Autari successe Agilulfo, con il quale per la prima volta si pose in termini non conflittuali il problema del rapporto con la Chiesa cattolica, che era allora guidata da un grande pontefice, Gregorio Magno, che concepì il disegno di rendere autonomo il papato dall’impero bizantino, facendone la guida della Chiesa universale. Nello stesso tempo Gregorio Magno si preoccupò sia di assicurare alla Cristianità occidentale un’impronta unitaria, riordinando e diffondendo la liturgia romana, con il relativo canto, che da lui prese appunto il nome di canto gregoriano, sia di dare un ulteriore impulso all’opera di evangelizzazione delle popolazioni pagane e di quelle ariane. La sua attività a livello europeo non gli impediva di occuparsi direttamente anche del governo e della difesa di Roma, sostituendosi all’autorità imperiale. I tentativi di Gregorio di stabilire contatti regolari con la corte regia di Pavia ebbero successo grazie al fatto che la regina Teodolinda, era cattolica, oltre che influenzata dalla cultura romana. Il battesimo con il rito cattolico, nel 603, dell’erede al trono, Adaloaldo, non comportò però la conversione in massa dei Longobardi, a causa della resistenza dei duchi, tenacemente legati alle tradizioni nazionali. Accadde così che lo schieramento filocattolico e quello nazionalista si fronteggiassero ancora per tutto il VII secolo e che sul trono si alternassero re cattolici e re ariani. Tra questi i personaggi di maggiore spicco furono Rotari, il quale nel 643 fece mettere per iscritto le antiche leggi longobarde (editto di Rotari) e riprese con forza la guerra contro i Bizantini, conquistando la Liguria, e Grimoaldo, il quale essendo anche duca di Benevento, rese per la prima volta effettiva l’autorità del re sui territori longobardi dell’Italia meridionale. Il più grande dei re longobardi fu però probabilmente il cattolico Liutprando (712-744). Con lui può dirsi completata la conversione del suo popolo al Cattolicesimo nonché in fase assai avanzata il superamento della divisione etnica tra Longobardi e Romani, attraverso il progressivo inserimento dei secondi nella tradizione giuridica dei dominatori. Forte di questa coesione interna, e sperando anche nel consenso del papato, allora in contrasto con la corte di Costantinopoli per la questione del culto delle immagini, Liutprando pensò che fosse giunto il momento di completare la conquista dell’Italia, invadendo l’Esarcato e la Pentapoli, e giungendo fino alla porte di Roma. Papa Gregorio II gli andò allora incontro e, appellandosi al suo sentimento religioso, lo convinse non solo a rinunciare alla conquista delle città, ma anche a sgombrare le terre già conquistate del ducato romano. Nel rinunciare però al castello di Sutri, presso Viterbo, Liutprando lo restituì non all’autorità bizantina, bensì “ai beatissimi apostoli Pietro e Paolo”, vale a dire alla Chiesa romana. Era il 728, a questa donazione è stata attribuita nel passato un’importanza decisiva, considerandola l’atto costitutivo del potere temporale dei papi e segnava il riconoscimento della sovranità che praticamente il papa esercitava su Roma e sul territorio circostante, esautorando il governatore bizantino. E’ a Roma che i processi sociali e politici, messi in moto indirettamente dall’invasione dei Longobardi, ebbero gli sviluppi più clamorosi e duraturi, portando alla metà dell’VIII secolo alla fine della dominazione bizantina e alla sostituzione di essa con il dominio pontificio, riconosciuto e garantito dalla protezione dei Franchi. Questa convergenza si esprimeva nel senato, che continuò ad esistere, ma con un carattere nuovo, dato che in esso sedeva non più la vecchia aristocrazia cosmopolita da cui provenivano gli alti funzionari dello Stato, bensì la nuova aristocrazia cittadina legata al papato, al quale forniva il proprio sostegno politico militare e le risorse umane necessarie per la creazione di un vero e proprio apparato burocratico, modellato su quello della corte bizantina. In tali condizioni non desta sorpresa che la posizione del duca bizantino si indebolisse sempre di più, riducendosi a un ruolo di supplenza nei confronti del pontefice. La soppressione pura e semplice della carica e la sua sostituzione con il titolo di patrizio dei Romani (patricius Romanorum), che Stefano II conferì nel 754 a Pipino il Breve, era quindi solo la legittimazione formale di una realtà di fatto. Essa era venuta maturando nel corso di almeno un secolo e mezzo di resistenza della città alla pressione longobarda: resistenza che solo i pontefici, a partire già dal tempo di Gregorio Magno, si erano rivelati capaci di organizzare. CAPITOLO 5 Il mondo arabo e il Mediterraneo Mentre Bizantini e Persiani combattevano all’ultimo sangue quella che sembrava una guerra decisiva per le sorti del vecchio mondo, nella vasta distesa desertica dell’Arabia andavano maturando eventi che nel giro di pochi anni avrebbero sconvolto la storia dell’umanità, creando situazioni che per tanti aspetti costituiscono ancora una parte rilevante del mondo contemporaneo; eventi riconducibili alla nascita di una nuova religione, l’Islam, capace di imprimere coesione ideologica all’aggressività dei nomadi del deserto e di lanciarli alla conquista di un impero, che al momento della sua massima espansione si estese dalla Spagna all’Asia centrale. Henri Pirenne: la sua tesi, è che i Germani, insediandosi all’interno del mondo romano, non ne alterarono i caratteri fondamentali, per cui le città mantennero il ruolo di centri di scambio e della vita politica e amministrativa, mentre il Mediterraneo continuò ad essere un fattore di unità tra tutte le popolazioni che gravitavano su di esso. Furono invece gli Arabi a creare una situazione completamente nuova, mettendo fine all’unità del Mediterraneo e provocando in Occidente la crisi del commercio, la scomparsa delle città e la nascita di un’economia interamente agraria, di cui furono espressione sul piano sociale le istituzioni feudali. Alla tesi di Pirenne sono state mosse due obiezioni di fondo: da un lato, è stato osservato che l’urbanesimo e l’economia dell’Occidente erano in crisi già da tempo, anche se il punto più alto della crisi venne a coincidere proprio con l’espansione araba del VII-VIII secolo; dall’altro è stato dimostrato che anche dopo di essa i traffici tra le rive del Mediterraneo non cessarono affatto, dato che l’oro, le stoffe preziose, il papiro continuarono ad arrivare in Occidente. Al di là tuttavia di queste contestazioni, l’interpretazione di Pirenne resta valida in un aspetto non marginale. Non può infatti mettersi in dubbio che gli Arabi, portando un durissimo attacco all’impero bizantino e riducendone fortemente il raggio d’azione, abbiano creato nel Mediterraneo centro-occidentale un vuoto politico, che consentì maggiore libertà alla Chiesa di Roma e al dinamico regno dei Franchi. In base alle notizie più antiche, che risalgono al 1000 a.C. e ci sono fornite dalla Bibbia e da iscrizioni assire, la parte centro-settentrionale della penisola era abitata da tribù di nomadi beduini (da badawi= abitandi del badw, deserto), che praticavano l’allevamento, il commercio carovaniero e le razzie, nonché da tribù di sedentari che vivevano in centri cittadini o in poveri villaggi di contadini (fellahin). Sia pur con molto ritardo, anche nelle regioni dell’Arabia settentrionale più prossima alla Siria e all’Egitto il contatto con Egiziani, Macedoni, Persiani, Greci, Romani favorì il sorgere di forme di vita civile e quindi di importanti centri politici e culturali, come il regno dei Nabatei, conquistato da Traiano nel 105 d.C. e poi quello di Palmira, distrutto da Aureliano nel 273 d.C., proprio nel periodo del suo massimo splendore. La grande maggioranza della popolazione era formata dai Beduini, che attraverso la dura vita del deserto avevano imparato a coltivare i valori del coraggio e della fierezza, e a sviluppare sentimenti di solidarietà sia all’interno della famiglia sia nell’ambito della tribù, i cui membri si richiamavano in genere a un leggendario antenato comune. Non meno composito e frammentato era il quadro a livello religioso, caratterizzato dalla netta prevalenza del politeismo. Gli Arabi delle regioni meridionali adoravano divinità, che erano la personificazione dei pianeti e alle quali dedicavano templi e santuari officiati da religiosi. Quelli del Nord prestavano invece il loro culto sia a varie divinità sottomesse a una divinità suprema (Allah), sia a una gran quantità di spiriti. In Arabia erano però presenti, in misura minoritaria, anche l’Ebraismo e il Cristianesimo. Se la disgregazione politica e il carattere assai elementare dell’organizzazione sociale governo del terzo califfo elettivo, Othman, del clan degli Omayyadi. Egli si appoggiò ai membri del suo clan, di cui favorì l’ascesa ai vertici dell’amministrazione dello Stato. Gli Omayyadi, dopo averso perso temporaneamente il califfato a favore di Ali, tornarono al potere nel 660 con Muawija, il quale depose Ali e diede inizio a una lunga serie di califfi omayyadi (660-750). La stabilizzazione del potere nell’ambito della dinastia regnante, che dalla forza stessa delle cose veniva spinta ad accentuare l’aspetto politico della funzione di califfo rispetto a quello religioso, coincise con la ripresa dell’espansionismo e il rafforzamento dell’apparato statale, che si tentò di rendere uniforme in tutti i territori conquistati. Nonostante le rivolte sciite e episodi di insofferenza, gli Omayyadi riuscirono ad esercitare una fortissima spinta espansiva in tutte le direzioni. Gli Arabi cominciavano a correre in lungo e in largo il Mediterraneo orientale, attaccando ripetutamente le isole di Cipro, Creta e Rodi, e diventando poi padroni incontrastati del Mediterraneo occidentale. Nello stesso tempo fu ripresa l’espansione in direzione dell’Africa settentrionale e in meno di cinquant’anni fu interamente conquistata fino alla costa atlantica nonostante la resistenza di Bizantini e Berberi. Nel 711 poi gli Arabi passarono le colonne di Ercole, approdando sul promontorio di Gibilterra. Conquistata la Spagna in solo cinque anni grazie ancora una volta alla buona accoglienza della popolazione locale, gli invasori passarono in Gallia. E qui, pur essendo stati sconfitti nel 732 a Poitiers, mantennero per qualche anno il controllo della Provenza e della Linguadoca, ritirandosi poi in Spagna, dove era in atto una rivolta dei contigenti berberi. Intanto i califfi omayyadi lanciavano un’altra grandiosa offensiva in direzione dell’Asia centrale e dell’India, raggiungendo nel 710-14 il bacino dell’Indo a sud e quello del Syr-Daria a nord. In Asia centrale si rivelò difficile la convivenza dei nuovi convertiti con i dominatori arabi, che concentravano nelle loro mani la proprietà delle terre, per cui scoppiarono violente rivolte, destinate a rivelarsi fatali per la dinastia omayyade. La situazione precipitò nel 747 in seguito a un’insurrezione armata promossa dagli Abbasidi, che si ritenevano i legittimi successori di Maometto in quanto discendenti da al-Abbas, suo zio paterno. Impadronitisi del potere con l’appoggio degli sciiti e ucciso l’ultimo califfo omayyade, spostarono il centro dell’impero dalla Risia all’Iraq, per esercitare un maggiore controllo sulla regione più inquieta dal punto di vista politico e religioso. Qui fu fondata nel 762 Baghdad. Nello stesso tempo fu avviata una riorganizzazione dello Stato sul modello dell’assolutismo monarchico di stampo orientale. Ad esso aderiva la nuova configurazione del ruolo del califfo, considerato dagli Abbasidi non più vicario di Maometto, ma rappresentante di Dio in terra, e come tale, al di sopra dei comuni mortali. E così, mentre i califfi tendevano ad allontanarsi sempre di più dai sudditi, per vivere circondati da cortigiani all’interno del loro palazzo, il potere effettivo si veniva concentrando nelle mani di potenti funzionari, che riuscirono a volte a costituire vere e proprie dinastie. Tra questi innanzitutto il visir, al quale faceva capo l’amministrazione centrale dello Stato con la sua complessa gerarchia di funzionari. Novità furono introdotte anche nel reclutamento dell’esercito, che perse la precedente struttura di carattere tribale, risultando ormai formato in misura sempre maggiore da mercenari non arabi, iraniani, berberi ma soprattutto turchi. Le nuove forme di reclutamento sia dei funzionari sia degli eserciti si inserivano in un ampio processo evolutivo, tendente a ridurre il predominio degli Arabi e ad affermare l’uguaglianza davanti allo stato di tutti i musulmani. Espressione e nello stesso tempo fattore di unità religiosa e culturale si rivelò la lingua araba. Grazie infatti all’apporto di Iraniani, Indiani, Sabei e cristiani di varia origine, la cultura araba si sviluppò in campi nuovi, quali la medicina, la filosofia, la fisica, l’astronomia, la matematica e la geografia. Il principale settore produttivo era, come dovunque nel Medioevo, quello agricolo. Uno stimolo assai forte al mondo agricolo veniva dalle città, che ripresero e accentuarono ancora di più il ruolo centrale che avevano svolto nel mondo ellenistico-romano, talché può dirsi che la civiltà arabo- musulmana sia stata una civiltà eminentemente urbana. Allo sviluppo dell’artigianato si aggiunse, assumendo ben presto una posizione dominante, quello del commercio. Il mondo arabo, grazie al suo grande sviluppo, aveva una superiorità schiacciante nei riguardi del mondo cristiano. Ciò nonostante rivelava al suo interno elementi di debolezza, che ne avrebbero di lì a non molto minato la stabilità e l’unità. L’aumento della ricchezza aveva accentuato gli squilibri sociali all’interno del mondo musulmano. Lo stesso grandioso sviluppo delle città era avvenuto a spese delle campagne, con la conseguenza che queste si andavano spopolando, mentre nelle città si formavano gruppi sempre più consistenti di miserabili e di emarginati. I progressi notevoli dell’agricoltura erano concentrati nelle zone suburbane, il mondo agricolo nel suo complesso era invece alle prese con problemi drammatici quali mancanza di acqua e scarsità di manodopera. Ma non furono questi squilibri a mettere in crisi l’impero abbaside. Fu l’insorgere di fortissime spinte autonomistiche, alla base delle quali c’erano motivazioni di carattere etnico e religioso ma anche ambizioni di governatori locali e rivalità all’interno della dinastia regnante. Agli inizi del X secolo le tensioni interne si fecero più acute, il titolo di califfo fu rivendicato sia dalla dinastia dei Fatimiti, sia dall’emiro di Cordova. La dinastia abbaside tra XI e XII secolo fu addirittura in grado di intraprendere tentativi espansionistici in direzione del mondo cristiano, riuscendo a mantenere il potere fino al 1258, quando Baghdad fu messa a ferro e a fuoco dalle orde mongole di Hulagu Khan. La Sicilia ha fatto parte del mondo arabo per quasi 3 secoli. Gli arabi operarono incursioni contro la Sicilia fin dal 625, un’operazione di conquista fu avviata solo nel giugno dell’827. Dopo lo sbarco a Mazara e lo scontro vittorioso con i Bizantini, l’esercito si diresse verso Siracusa, che oppose una resistenza destinata a protrarsi per mezzo secolo. Nell’831 cadde Palermo e intorno all’840 fu completata la conquista della Sicilia occidentale. Siracusa cadde il 21 maggio 878 e poi cadde quasi tutto il resto dell’isola. Le ultime fortezze in mano bizantina, Taormina e Rametta, caddero solo tra il 962 e il 965. Costituitasi in emirato indipendente sotto la dinastia dei Kalbiti, l’isola conobbe per circa un secolo un periodo di floridezza e di benessere. Palermo in particolare, divisa in cinque quartieri, era ricca di splendidi edifici sacri e profani, e centro di attività commerciali e artigianali, assai intense nei quartieri in cui si concentravano i negozi e il mercato. A livello agricolo fu raggiunto un livello assai alto in tutta l’isola e furono introdotte nuove colture, come quella degli agrumi. E’ indubbio che i due secoli e mezzo di dominazione araba lasciarono un’impronta evidentissima almeno fino al pieno Duecento e questa impronta non scomparve mai del tutto. Va ribadito che l’espansionismo arabo non creò una frattura netta nella storia del Mediterraneo. Anche nei momenti più drammatici delle guerre e delle razzie continuarono i contatti diplomatici e gli scambi culturali. E’ da aggiungere che la civiltà araba, operò come fattore di stimolo sull’Occidente, quando esso trovò in se stesso le energie per andare alla ricerca di nuove forme politiche e di nuovi valori spirituali. CAPITOLO 6 Economia e società nell’Alto Medioevo Mentre il mondo bizantino riusciva a salvaguardare i tratti fondamentali della civiltà ellenistico- romana e quello arabo a elaborare una brillante civiltà urbana, l’Occidente cristiano conosceva tra VI e VIII secolo una grave decadenza dell’urbanesimo antico e un processo involutivo, che investiva tutti i settori della società. I segni dell’involuzione sono già evidenti nel paesaggio, di cui le scarse fonti del tempo ci trasmettono concordemente un’immagine di abbandono e di degrado. Ovunque le città scompaiono o vedono fortemente ridotta la loro estensione, nel senso che i loro abitanti ne occupano solo un’area ristretta, in genere quella meglio difendibile, come nel caso di Roma, oppure lasciano in piedi l’antica cinta muraria, come a Napoli, ma destinano all’interno di essa ampi spazi a orti e giardini. A scomparire non erano solo le città, ma anche quella fitta rete di villaggi, disseminata nei pressi delle vie di maggiore traffico, che avevano dato un’impronta caratteristica al popolamento e all’insediamento di età romana. A risentirne fu anche la rete viaria, che era stata il vanto dello Stato romano e che si era mantenuta efficiente non solo per gli interventi dei funzionari imperiali, ma anche per le cure delle popolazioni locali che ne avevano la manutenzione. Già indicata come deteriorata nel IV secolo, risulta nell’Alto Medioevo completamente sconvolta. A decretarne l’abbandono, non sono tanto le peggiorate condizioni di percorribilità, quanto piuttosto il venir meno degli scambi e dell’intensa vita di relazione. La vita economica e sociale, si svolgeva ormai intorno a nuovi centri di aggregazione, per cui fu inevitabile che la rete viaria si venisse ristrutturando attraverso l’abbandono di antichi percorsi e la creazione di nuovi. Come era stato possibile un così grande cambiamento dell’assetto e dell’organizzazione del territorio rispetto all’età antica? All’origine di tutto c’era lo spopolamento di città e campagne. A questo risultato non si era giunti all’improvviso, bensì attraverso un lento declino iniziato almeno nel II-III secolo, per cui i Germani furono accolti con la prospettiva di favorire il ripopolamento. I Germani tuttavia non erano in numero sufficiente per ribaltare la situazione. A livelli demografici tanto bassi si giunse per una serie di fattori. Guerre e devastazioni certamente provocarono vuoti nella popolazione, anche se sono da considerare esagerati i pochi dati che ci trasmettono le fonti del tempo. In condizioni normali questi vuoti sarebbero stati colmati in tempi più o meno brevi, ma ciò risultò impossibile in un periodo in cui le devastazioni si ripetevano e ad esse si sommavano grandi epidemie di peste, vaiolo, tubercolosi e malaria. Per quel che riguarda l’Italia, si considera che ai vuoti nella popolazione, provocati dalla guerra greco-gotica e dalla peste, si aggiunsero a partire dal 568-569 le devastazioni operate dai Longobardi, si comprende come si sia giunti di recente ad attribuire al nostro paese intorno ai 2 milioni e mezzo di abitanti per gli inizi del VII secolo, vale a dire circa un terzo della popolazione del I secolo, valutata a poco meno di 7 milioni e mezzo. La cristi demografica, tuttavia, non ebbe ovunque la stessa gravità. Il calo demografico, indipendentemente dal motivo che lo aveva determinato, aveva ovunque conseguenze immediate sull’economia e sul paesaggio agrario. Il primo elemento da prendere in considerazione è il livello assai basso della produttività, dovuto al carattere rudimentale degli attrezzi agricoli e alla perdita di buona parte di quelle conoscenze tecniche, che erano state accumulate in età romana. Queste non erano mai state elevate, dato che la larga disponibilità di schiavi non aveva fornito stimolo al progresso tecnologico; è indubbio però che ora la situazione era peggiorata di molto. Gli storici dell’agricoltura hanno individuato un modello organizzativo ben preciso, caratterizzato dall’esistenza intorno al villaggio di tre zone concentriche caratterizzate da una produttività, che diminuiva man mano che ci si allontanava dal centro. A ridosso del villaggio c’era una prima fascia di terre intensamente coltivate a orti e vigneti. Subito al di là di essa c’era un’ampia zona coltivata a cereali, dove dopo il raccolto gli animali di tutti gli abitanti del villaggio potevano liberamente pascolare, a prescindere dalla proprietà o dal possesso dei vari appezzamenti di terreno. Infine si aveva la fascia dei prati, dei boschi, e dell’incolto in genere, ugualmente accessibile a tutti per il pascolo, la pesca, la caccia e la raccolta di legna e dei frutti spontanei. L’integrazione dell’allevamento con l’agricoltura non era agevole. La scarsità di concime animale era in parte compensata con tecniche alterne quali il sovescio (interramento di parte delle piante) o il debbio (incendio delle stoppie) ma il sistema più usato era il maggese, vale a dire il riposo dopo ogni raccolto, sistema di rotazione biennale. Il contadino in genere non era proprietario della terra che coltivava e a volte neanche degli animali che allevava. Per spiegare tutto questo dobbiamo tornare indietro nel tempo agli ultimi secoli dell’età romana, quando i grandi proprietari fondiari cominciarono a ridurre la superficie delle loro aziende coltivata in gestione diretta. Di qui la tendenza ad accasare parte degli schiavi, cioè a dotarli chiaramente la differenza di potenziale bellico esistente tra i due regni. Astolfo fu travolto, trovando rifugio in Pavia e Pipino si accontentò della promessa di cedere al papa Ravenna e gli altri territori sottratti ai bizantini. Bastò però che Pipino lasciasse l’Italia perché Astolfo si rimangiasse la promessa, riprendendo gli attacchi a Roma. Nel 756 Pipino intraprese una nuova spedizione, questa volta sconfiggendo definitivamente Astolfo. Il nuovo re dei longobardi, Desiderio, mostrava la volontà di intrattenere rapporti di amicizia con i Franchi. A sancire ciò, i figli di Pipino, Carlomanno e Carlo (che sarà poi chiamato Magno), sposarono le principesse Gerberga e Ermengarda, figlie di Desiderio. Carlo, rimasto unico sovrano, ripudiò la moglie Ermengarda e scacciò la vedova del fratello coi figli, che si rifugiarono presso re Desiderio. Desiderio mosse un attacco alla stessa Roma, col pontefice Adriano I che chiese l’intervento di Carlo. Carlo sconfisse nel 773 Desiderio e conquistò il regno longobardo. Gli anni che seguirono videro Carlo impegnato in una serie di guerre. Nel 778 condusse una spedizione aldilà dei Pirenei per porre fine alla minaccia musulmana ma dovette tornare indietro a causa di una rivolta dei Sassoni. Durante la ritirata ebbe luogo la famosa imboscata a Roncisvalle. Su quel fronte non ritornò tuttavia prima dell’801, quando diede inizio a una nuova campagna, che si concluse nel 813 con la creazione di un nuovo distretto di confine. Al Nord ci vollero quasi trent’anni e massacri spaventosi per venire a capo dell’ostinata resistenza dei Sassoni. Il dominio di Carlo si estendeva su un territorio vastissimo, comprendente tutta l’Europa centrale, dalla Spagna al mare del Nord, al bacino inferiore dell’Elba, al medio Danubio, all’Italia centrale. Man mano che cresceva la sua potenza, Carlo vedeva attribuirsi dalla curia pontificia prerogative e funzioni che erano proprie dell’imperatore bizantino. Nello stesso tempo egli mostrava di ispirarsi al modello imperiale romano e in particolare a Costantino, che cercò di imitare nelle sue azioni più significative, tra cui la fondazione di Costantinopoli. Fondò infatti anch’egli una città capitale, Aquisgrana, ispirandosi ai modelli antichi nella disposizione e nella forma degli edifici. Carlo continuava nei suoi atti ufficiali a far uso dei titoli tradizionali di “re dei Franchi, re dei Longobardi e patrizio dei Romani”; ma sul finire dell’VIII secolo un concorso fortuito di circostanze gli consentì di conseguire un solenne riconoscimento del ruolo politico che si era conquistato in Europa. Dal 797 occupava il trono di Costantinopoli l’imperatrice Irene, che si era impadronita della corona facendo accecare e imprigionare il figlio Costantino VI, arrecando grave danno al prestigio della dignità imperiale. A questa situazione di sostanziale vacanza al vertice della massima istituzione politica della Cristianità si aggiungeva la debolezza dello stesso papato, retto dal 795 da papa Leone III, fortemente contestato da esponenti della nobiltà romana, che lo accusavano di spergiuro e adulterio. La situazione precipitò il 25 aprile del 799, quando il papa, che si stava recando in processione a S. Lorenzo in Lucina, fu aggredito e imprigionato nel monastero di Sant’Erasmo, dal quale poté uscire solo grazie all’intervento di due missi franchi. Raggiunto Carlo in Germania, e implorato il suo aiuto, fu sotto buona scorta riaccompagnato a Roma, dove il re stesso giunse il 24 novembre dell’800. Poiché le accuse contro il pontefice erano assai gravi, fu convocata per il 1° dicembre una grande assemblea di prelati e di laici, davanti alla quale il 23 dicembre Leone III giurò sulla propria innocenza, ottenendo così la riabilitazione. Il 25 dicembre, a San Pietro, durante la celebrazione liturgica del Natale, Leone III pose sul capo di Carlo una corona, mentre il popolo romano ripeteva per tre volte l’acclamazione “A Carlo augusto, coronato da Dio, grande e pacifico imperatore die Romani, vita e vittoria!”. La questione non è di poco conto in relazione allo sviluppo successivo dei rapporti tra Chiesa e impero. Quello che può dirsi con certezza è che nel dicembre dell’800 arbitro della situazione era Carlo Magno e che Leone III non era in grado di imporgli alcunché. Nello stesso tempo però, con l’atto dell’incoronazione, il papa riaffermava la supremazia religiosa della Chiesa di Roma, l’unica autorità capace di dare legittimità e quindi funzione sacrale a un potere, che ormai si imponeva a gran parte della Cristianità occidentale. Carlo Magno non aveva né i mezzi né la volontà di rendere perfettamente omogenei i vasti territori soggetti al suo dominio. In essi pertanto, rimasero in vigore gran parte degli ordinamenti e delle leggi preesistenti, soprattutto nell’ambio del diritto privato. Novità di carattere legislativo si ebbero per lo più in materia di diritto pubblico e di funzionamento dell’apparato ecclesiastico. Conti, marchesi e duchi erano reclutati a volte sul posto, ma là dove era necessario esercitare un più efficace controllo su popolazioni irrequiete si attingeva alla schiera dei vassalli diretti del re o alla famiglie in più stretto contatto con la corte franca. La loro opera era ricompensata non soltanto con il prestigio e la potenza che la carica comportava, ma anche con i proventi di multe e confische e con il reddito prodotto dai beni terrieri, che costituivano la normale dotazione della carica. Senza contare poi che il conte, marchese o duca spesso già deteneva dal sovrano terre in feudo o le riceveva posteriormente all’entrata in carica, volendo il re accoglierlo tra i suoi vassalli, per assicurarsene ancora di più la fedeltà. Il risultato di tutto questo fu che nelle mani del funzionario pubblico veniva a concentrarsi un vasto patrimonio, formato da terre che egli deteneva a titoli diversi, alcune in quanto beni di famiglia, altre come beneficio in quanto vassallo del re, altre infine a titolo di compenso per la carica (honor) pubblica che ricopriva. Quello che invece era possibile fare e si fece, fu di tenere sotto controllo i conti, insediando all’interno dei loro distretti un gran numero di vassi dominici (i fedeli diretti del re). Essi erano sottoposti alla giurisdizione dei conti, sotto il cui comando raggiungevano l’esercito regio, ma la loro presenza all’interno della contea costituiva pur sempre un fattore di equilibrio rispetto al potere dei funzionari pubblici. Per raggiungere lo stesso scopo, si fece un ricorso sempre più ampio all’immunità, per sottrarre al fisco le terre del demanio imperiale. All’originaria immunità fiscale ne era stata aggiunta però anche un’altra di carattere giurisdizionale, per cui nelle terre immuni non poteva entrare nessun funzionario pubblico per riscuotere imposte e per compiere arresti o altri atti di polizia, che erano demandati all’immunista, al titolare cioè di quella speciale concessione. L’amministrazione dell’impero faceva capo al palazzo, termine che indicava sia la residenza del sovrano sia l’insieme dei funzionari e dei dignitari di corte, che formavano il suo seguito e svolgevano compiti particolari. Tra essi avevano un ruolo di primo piano tre ufficiali, che erano i più stretti consiglieri dell’imperatore: l’arcicappellano, capo dei chierici del palazzo, il cancellerie, capo del personale addetto alla redazione di diplomi, lettere del re, testi legislativi ed il conte o più spesso i conti palatini, responsabili dell’amministrazione della giustizia, ma a volte incaricati anche di missioni speciali come delegati del re. Questi funzionari davano vita un’amministrazione che indubbiamente rappresentava un progresso rispetto ai precedenti regni romano-germanici. Carlo Magno cercò di dare un minimo di omogeneità all’impero attraverso un’intensa attività legislativa, di cui erano espressione i capitolari, leggi formate da brevi articoli (capitula) ed emanate nel corso di annuali assemblee dette placiti. La materia trattata nei capitolari riguardava soprattutto il diritto pubblico e l’organizzazione ecclesiastica ma frequenti furono gli interventi legislativi in campo economico, sia per migliorare la gestione delle ville appartenenti al fisco regio sia per proteggere le popolazioni rurali e il ceto dei piccoli proprietari fondiari dalla pressione della grande aristocrazia. Si trattava però di interventi che difficilmente riuscivano a sortire l’effetto sperato, perché l’imperatore non aveva i mezzi per far rispettare le sue decisioni e anche perché l’esiguo apparato amministrativo era infatti pur sempre formato da uomini provenienti da quella stessa classe sociale che i provvedimenti regi si proponevano di colpire. Non pochi capitolari furono dedicati alla riforma della Chiesa e dei monasteri. Si trattava di continuare l’opera di restaurazione ecclesiastica, intrapresa al tempo di Pipino il Breve da Bonifacio, e di estenderla a tutto l’impero. In essa Carlo si impegnò a fondo e lo stesso fece Ludovico il Pio, suo figlio e successore. Il motivo no nera solo di carattere religioso, ma anche politico: gli ecclesiastici di corte venivano infatti elaborando la concezione di un impero coincidente con la comunità cristiana e retto in piena unità di intenti dall’imperatore e dal papa, sulla base di principi enunciati da papa Gelasio agli inizi del V secolo. Non era un caso perciò che alla conquista di nuovi territori seguiva subito l’introduzione dei modelli organizzativi della Chiesa franca, articolata in province, diocesi e pievi. Carlo Magno avviò un’opera di restaurazione della disciplina monastica, che sarà portata a pieno compimento da Ludovico il Pio e dal suo consigliere Benedetto d’Aniane, e che fu attuata attraverso l’imposizione a tutti i monasteri della regola di san Benedetto, fino ad allora non ancora molto diffusa in Europa. Per attuare questo vasto progetto di riforma, fu considerato indispensabile elevare il livello culturale di monaci e chierici. Furono istituite perciò scuole presso le chiese cattedrali e i monasteri, nelle quali, oltre alle arti del trivio (grammatica, retorica e dialettica) e del quadrivio (aritmetica, geometria, musica e astronomia), si insegnavano anche la teologia, il canto gregoriano e le norme (canoni) che regolavano la vita della Chiesa. L’imponente costruzione politica di Carlo Magno entrò in crisi dopo la sua morte; ma questo non impedì che continuasse la rinascita culturale, che anzi raggiunse il suo culmine dopo la metà del IX secolo, a tempo di Carlo il Calvo. Ciò fu possibile, perché la sua base era costituita non tanto dai dotti della corte, quanto piuttosto dalle scuole e dai centri scrittori sorti presso monasteri e chiese vescovili. L’opera degli uomini di Chiesa andrà peraltro al di là dello stesso ambito culturale e religioso, dato che saranno essi a mantenere in vita anche nei momenti di più acuta crisi politica l’idea dello Stato come fonte di ogni potere di comando e dell’impero come garante della pace e superiore alle varie dominazioni territoriali. CAPITOLO 8 La crisi dell’ordinamento carolingio e lo sviluppo dei rapporti feudali Carlo Magno nell’806 divise i suoi domini tra i tre figli, rinviando a un altro momento la designazione del successore al titolo imperiale. Ad eliminare ogni certezza intervenne la morte prematura di Carlo e Pipino, per cui Ludovico (il Pio) nell’814 raccolse l’intera eredità del padre, compreso il titolo imperiale. Ludovico era diverso da Carlo Magno, essendo portato ad accentuare il carattere sacro del potere imperiale e ad attuare una più stretta compenetrazione tra Stato e Chiesa, accomunati nell’unica finalità di guidare la comunità cristiana verso la salvezza eterna. Nell’817 emanò perciò una costituzione (Ordinatio imperii) con la quale proclamò l’indivisibilità dell’impero, che veniva destinato al primogenito Lotario, mentre agli altri due figli assegnava territori periferici. Lotario venne subito associato al governo e mandato in Italia dove operò in maniera energica, emanando nuovi capitolari e imponendo nell’824 alla Sede pontificia la famosa Constitutio romana, con la quale si stabiliva che il papa, regolarmente eletto dal clero e dal popolo romano, avrebbe dovuto prestare giuramento di fedeltà all’imperatore prima di essere consacrato. Ludovico però non riuscì né ad attuare il proposito di non dividere ulteriormente il regno dell’impero né a tenere a bada i figli minori. Ne nacquero scontri armati che videro alla fine lo stesso Lotario ribellarsi al padre insieme ai fratelli Ludovico il Germanico e Carlo il Calvo. Agobardo arcivescovo di Lione e Giona vescovo di Orléans, enunciarono un principio nuovo, gravido di conseguenze per i secoli futuri: quando l’imperatore non era in grado di assolvere ai suoi compiti di garante della pace e della giustizia spettava alla Chiesa intervenire per guidarne l’azione e giudicarne il comportamento. In questo modo si ponevano le premesse per gli interventi dei pontefici nella sfera politica: interventi che porteranno alla rivendicazione di un vero e proprio dominio indiretto del pappa sulle cose temporali in quanto interprete qualificato della legge di Dio. La situazione precipitò con la morte di Ludovico il Pio, per cui si giunse allo scontro frontale tra Lotario e i fratelli Ludovico il Germanico e Carlo il Calvo. Dopo aver sconfitto l’imperatore a Fontenoy, i ribelli stipularono nell’942 a Strasburgo un patto solenne, promettendosi aiuto reciproco alla presenza dei loro eserciti. Per farsi capire dai soldati del fratello, provenienti dalle regioni dall’interpretazione che ne veniva data nella prassi corrente. Il primo, al quale dobbiamo fare riferimento, è il Capitolare di Quierzy, emanato da Carlo il Calvo nell’877, alla vigilia di una spedizione in Italia contro i Saraceni. Con esso l’imperatore stabilì che, in caso di morte di un conte o di un vassallo regio con un figlio minorenne o al seguito dell’imperatore, si sarebbe dovuto provvedere ad una amministrazione provvisoria della contea o del feudo, in attesa del suo ritorno, e lo stesso ordinava di fare ai vassalli, che lo stavano seguendo in Italia, nell’ambito dei loro rispettivi feudi. Dal testo emerge chiaramente che Carlo il Calvo non sanciva affatto né l’ereditarietà delle contee né quella dei feudi, dato che si riservava di decidere al suo ritorno. Dal momento però che l’ereditarietà dei feudi era già ormai in atto da tempo, il capitolare fu ben presto interpretato come formale sanzione al principio dell’ereditarietà dei feudi maggiori, di quelli cioè concessi direttamente dal re o imperatore. Per quelli minori, concessi dai vassalli ai loro fedeli (datti valvassori), bisognerà attendere invece la Constitutio de feudis, emanata nel 1037 dall’imperatore Corrado II. CAPITOLO 9 L’Italia fra poteri locali e potestà universali Il quadro politico della penisola era assai frammentato e di non facile definizione già sul piano giuridico-politico. L’Italia settentrionale (esclusa Venezia, formalmente dipendente da Bisanzio ma di fatto autonoma) e buona parte di quella centrale formavano il Regno d’Italia, cui fu unita, la dignità imperiale. Puglia, Basilicata, Calabria meridionale e buona parte della Campania costiera erano inserite nell’impero bizantino, che allora non era affatto in crisi, ma stava attraversando un periodo di rinnovato splendore e di slancio espansionistico. Questa divenne così terra d’incontro e di scontro dei due imperi, che rivendicavano entrambi diritti sui territori meridionali rimasti ai Longobardi. Il fattore di maggiore complicazione del quadro politico italiano era tuttavia rappresentato dal papato, che esercitava in maniera incerta e discontinua la sua signoria su buona parte di Lazio, Umbria e Marche, ma rivendicava una sua funzione universale in ambito sia religioso sia politico. La situazione cambierà radicalmente nell’XI secolo, quando, estromesso l’imperatore bizantino dalla scena politica italiana, resteranno a fronteggiarsi ancora a lungo papato e impero romano-germanico, condizionando fortemente la vita politica italiana. Il regno italico, dopo la deposizione di Carlo il Grosso nell’887, fu attribuito da un’assemblea di nobili a Berengario, marchese del Friuli, iniziatore di una serie di re, che si susseguirono in maniera assai rapida e a volte avventurosa. Con la deposizione di Carlo il Grosso e la crisi dell’impero, il papato, privo del sostegno del potere imperiale, vide ridimensionato il suo ruolo all’interno della Cristianità occidentale, non essendo in grado né di esercitare appieno la sua autorità sull’episcopato né di sostenere l’attività missionaria tra le popolazioni ancora pagane dell’Europa nord-orientale. Per giunta si trovava in difficoltà anche sul piano interno, essendo in balia dell’aristocrazia romana, che divenne arbitra dell’elezione papale e compì ampie usurpazioni del patrimonio fondiario della Chiesa. Erano quelli gli anni in cui occupava in città una posizione preminente la famiglia dei conti di Tuscolo. Già nel corso del X secolo cominciava a formarsi lentamente una coscienza nazionale tedesca, attraverso la consapevolezza delle varie stirpi germaniche di vivere all’interno di un regno comune. Ottone di Sassonia operò subito con estrema decisione per rendere effettiva la sua autorità all’interno di tutti e cinque i ducati. Una rivolta dei duchi di Lorena, Franconia e Baviera, ai quali si era unito lo stesso fratello del re, Enrico, fu stroncata nel 939, dopo che Ottone era riuscito a riconciliarsi col fratello, al quale assegnò la Baviera. Quella che sembrava una scelta occasionale, divenne tuttavia un principio consolidato di governo, per cui tutte le volte che gli fu possibile, sostituì i duchi e i maggiori funzionari pubblici con membri della sua famiglia. Più regolare si rivelò invece l’appoggio dei vescovi, che Ottone coinvolse appieno nel governo di città e contee, facendone dei signori territoriali in grado di disporre di consistenti nuclei armati, che all’occorrenza non esitavano a mettere a sua disposizione. A rendere meno depresso il quadro generale della vita religiosa in Germania, contribuiva inoltre l’impegno missionaria della Chiesa tedesca, che faceva capo alle diocesi di Magonza e Magdeburgo, quest’ultima fondata nel 968: impegno, che ovviamente Ottone sosteneva anche allo scopo di estendere la sua influenza sulle popolazioni slave ancora pagane. Nello stesso tempo veniva incoraggiata la ripresa degli studi, che vedeva impegnate soprattutto le grandi abbazie. Il naturale coronamento di un’attività a così vasto raggio fu l’incoronazione imperiale, che avvenne in San Pietro a Roma nel febbraio del 962. I contemporanei la considerarono una restaurazione dell’impero di Carlo Magno, viste le molte analogie tra i due regni sotto il punto di vista del connubio tra regno e sacerdozio, della consapevolezza della cultura e la missione di protettori della Cristianità e del papato. Sceso in Italia nel 961 per cingere prima la corona d’Italia e poi quella imperiale, Ottone vi rimase quattro anni, durante i quali cercò di risollevare le condizioni del papato. Dopo il soggiorno di un anno in Germania, nel 966 era di nuovo in Italia, dove rimase sei anni. Dopo aver fatto incoronare imperatore il figlio Ottone II, volse la sua attenzione verso l’Italia meridionale, tentando di imporvi la sua autorità. E in effetti Pandolfo Capodiferro e il figlio Landolfo IV, principi longobardi di Benevento e Capua, si riconobbero suoi vassalli. Non ebbe invece fortuna con i Bizantini, per cui dopo un insuccesso nel 968 davanti le mura di Bari, preferì intavolare trattative con l’imperatore Niceforo Foca che non portarono a nulla. Le trattative ripresero con il nuovo imperatore Giovanni Zimisce, il quale nel 972 riconobbe a Ottone il titolo imperiale e acconsentì alle nozze tra Ottone II e la principessa Teofane, che avrebbe dovuto portare in dote i territori bizantini dell’Italia meridionale. Ottone I morì nel 973. Nel complesso la sua costruzione politica resistette, grazie soprattutto al sostegno dei vescovi. I dieci anni trascorsi in Italia contribuirono, però, a rendere tutt’altro che tranquillo il trapasso dei poteri al figlio, il quale impiegò ben sette anni per venire a capo delle resistenze dei duchi di Lorena, Svevia e Baviera, desiderosi di recuperare la loro piena indipendenza. Nel frattempo la situazione italiana gli sfuggiva di mano. A Roma l’aristocrazia romana aveva ripreso a imperversare, giungendo al punto di uccidere il papa filoimperiale Benedetto VI, al quale diede come successore Bonifacio VII; i principi longobardi di Benevento e Capua avevano ripreso la loro libertà di movimento; i Saraceni di nuovo facevano scorrerie in Calabria e lungo le coste; i Bizantini non mostravano nessuna intenzione di onorare i patti matrimoniali. Nel 980 Ottone II era già a Roma, intento a fare preparativi per una campagna in Italia meridionale, ma la morte lo colse l’anno dopo all’età di 28 anni. Lasciava come erede il piccolo Ottone III sotto la tutela, prima della madre Teofane e, edopo la sua morte nel 991, dell’ancora energica nonna Adelaide. Nel 996 Ottone, uscito di tutela all’età di 16 anni, poté raccogliere l’eredità paterna. Con lui giunsero a piena maturazione orientamenti già affiorati al tempo di suo nonno. Il suo primo atto di governo fu la nomina a pontefice di un suo parente e cappellano di corte, Gregorio V, al quale diede come successore il suo maestro Gerberto d’Aurillac. L’imperatore si proponeva di guidare la Cristianità alla felicità terrena e alla salvezza eterna, governando a stretto contatto con il pontefice, per cui appena asceso al trono, si trasferì a Roma, insediando la corte sull’Aventino e adottando un cerimoniale di tipo bizantino, che aveva appreso dalla madre. Il suo programma di restaurazione imperiale prevedeva inoltre la sottomissione di tutte le potestà terrene, comprese le monarchie fino ad allora indipendenti. In Germania cresceva tra l’aristocrazia lo scontento per la scarsa considerazione in cui l’imperatore teneva i problemi del paese; in Italia i grandi feudatari, abituati ad essere praticamente indipendenti, non gradivano che il loro re e imperatore vi avesse preso stabile residenza. Ancora più scontenta era l’aristocrazia romana, che si vedeva privata della tradizionale influenza sul papato. Il risultato fu una sollevazione di feudatari italiani, capeggiati dal marchese Arduino d’Ivrea nel 999. Ad essa seguì quella dei Romani nel 1001, che costrinsero Ottone III a lasciare la città. Nel gennaio dell’anno dopo, a soli 22 anni, moriva senza eredi diretti nel monastero di Monte Soratte, presso Roma. Gli successe il cugino Enrico II, che lasciò cadere subito i progetti di potere universale del suo predecessore, concentrando tutti i suoi sforzi sulla Germania. Intanto in Italia la lontananza di Enrico aveva favorito i progetti di quella parte dell’aristocrazia, che non gradiva né il legame definitivo del Regno d’Italia con quello di Germania né l’eccesiva concentrazione di poteri nelle mani dei vescovi. Venne così incoronato re a Pavia nel 1002 il già menzionato Arduino d’Ivrea, considerato nella storiografia romantica dell’Ottocento il primo re nazionale. Nel 1004 perciò Enrico II valicò le alpi e dopo aver sconfitto Arduino, ottenne a Pavia la corona di re d’Italia. Nel 1014 Enrico II si fece incoronare imperatore da papa Benedetto VIII. Il fatto che i conti di Tuscolo avessero ripreso il sopravvento al tempo di Enrico II, impegnato soprattutto in Germania, mostra come gli imperatori tedeschi avessero difficoltà a rendere effettivo il loro potere in Italia. Bastava che si allontanassero dalla penisola e riemergevano prepotentemente le tendenze autonomistiche dei signori locali, che solo formalmente riconoscevano l’autorità regia e imperiale. A rendere la situazione politica del regno italico particolarmente intricata contribuiva il fatto che non si era avuta in Italia la formazione di grandi principati territoriali capaci di coordinare e disciplinare le forze signorili locali. CAPITOLO 10 Splendore e declino di Bisanzio Alla fine dell’VIII secolo l’impero bizantino, ridimensionato dai continui attacchi di Arabi, Slavi e Bulgari, comprendeva in Asia poco meno della metà dell’attuale Turchia, e in Europa la Tracia orientale nonché le città greche di Atene, Patrasso e Corinto. L’impero ebbe però la forza di resistere e di passare addirittura al contrattacco verso la metà del IX secolo, recuperando parte dei territori perduti. In qualche misura vi contribuì anche l’attenuarsi dello slancio espansivo degli Arabi, ma il motivo principale è nel poderoso sforzo compiuto dalle varie dinastie che si succedettero sul trono, per rinnovare l’organizzazione statale e metterla in grado di far fronte alle difficoltà del momento, come ad esempio la riforma avviata dagli imperatori Maurizio ed Eraclio. Essa mirava a radicare nel territorio i soldati, rendendoli nello stesso tempo colonizzatori e proprietari delle terre, che avevano il compito di difendere e che potevano trasmettere ai loro figli insieme all’obbligo di prestare il servizio militare. Essi inoltre erano quasi completamente esentati dal pagamento delle tasse e ricevevano un piccolo stipendio. Intanto, l’impero fu costretto a rinunciare alle sue pretese di dominio universale ed il latino, fino ad allora lingua ufficiale dello Stato, fu sostituito dal greco. La grecizzazione investì anche il titolo imperiale, dato che i tradizionali termini latini di imperator, caesar, augustus, già da qualche tempo poco usati, furono sostituiti dal titolo greco basileus, adoperato da Eraclio. Lo stesso avvenne nell’ambito dell’attività legislativa, che vedeva un progressivo superamento del diritto romano e l’introduzione di consuetudini di origine orientale. Quanto si è detto finora costituisce la premessa per comprendere quel movimento ampio e complesso che fu la controversia iconoclasta, la lotta contro il culto delle icone. Il movimento partì dalle province orientali dell’impero, più influenzate dall’Islamismo e dal Giudaismo, e quindi più sensibili alle accuse di idolatria che musulmani ed ebrei, da sempre contrari alla raffigurazione della divinità sotto sembianze umane, rivolgevano ai cristiani. Queste province, essendo in prima linea nella resistenza contro gli attacchi dei nemici dell’impero, erano consapevoli della loro importanza e rivendicavano una maggiore autonomia dal governo centrale. Il movimento raggiunse la corte quando salì al trono Leone III l’Isaurico (717-741). Non è chiaro se egli fosse intimamente convinto delle motivazioni spirituali di coloro che avversavano il culto delle immagini o se invece volesse rafforzare l’unità dello Stato, accogliendo le richieste che venivano dalle province orientali e infliggendo un duro colpo alla potenza dei monaci, troppo indipendenti dal potere imperiale e dotati di grande influenza sul popolo. In un decreto del 726 proibì il culto di tutte le immagini, sia quelle riprodotte su tavole di legno sia quelle presenti in affreschi e mosaici, ordinandone la distruzione; e ciò nonostante l’opposizione del patriarca di Costantinopoli e di papa Gregorio III, che nel 731 contribuiva a migliorare i conti pubblici, dato che i contadini, per sottrarsi al fisco e agli abusi degli esattori, preferivano cedere le loro terre ai signori e mettersi sotto la loro protezione. L’impero si andava configurando nel corso del XII secolo come un’appendice di Venezia, che agli inizi del secolo seguente ne assumerà, sia pur temporaneamente, il controllo diretto. CAPITOLO 11 Incremento demografico e progressi dell’agricoltura nell’Europa dei secoli XI-XIII Nella seconda metà del secolo XI abbiamo visto comparire all’improvviso sulla scenda del Mediterraneo orientale nuovi soggetti politici, capaci di infliggere un duro colpo alla potenza dell’impero bizantino, allora all’apice del suo splendore. Tra essi, due venivano dall’Occidente, anzi dall’Italia: i Normanni e i Veneziani. Era questa la prima volta, dopo la fine delle conquiste romane, che l’Occidente andava alla conquista dell’Oriente. Né si trattava di un fatto occasionale, essendo anzi Normanni e Veneziani solo la punta avanzata di un movimento più ampio, che vedeva tutte le regioni dell’Occidente in crescita più o meno rapida e alla ricerca di nuovi sbocchi commerciali. Nel Settecento, in piena età illuministica, per spiegare l’improvvisa crescita del secolo XI, era stata ripresa la leggenda dell’Anno Mille. In base ad essa, sul finire del primo millennio si sarebbe arrestato lo sviluppo economico e sociale, essendo gli uomini in attesa della fine del mondo; solo all’apparire dell’alba radiosa del nuovo millennio, fugato ogni timore di una catastrofe, gli uomini si sarebbero dati da fare per recuperare il tempo perduto. Oggi invece, siamo in grado di capire il movimento molto più lento dei processi di lunga durata. Agli inizi del nuovo millennio è certo che la popolazione europea, dopo il calo dei secoli III-VI e la stagnazione di quelli seguenti, era di nuovo in aumento. Ovunque è in atto un ampliamento delle terre messe a coltura attraverso impegnative opere di dissodamento, disboscamento, bonifica. Le città si ripopolano e diventano centri di scambi e di attività produttive. Salgono i prezzi dei prodotti agricoli e c’è un aumento della durata media della vita. Le città e i villaggi fondati nei secoli XI-XII sono così numerosi, che non vi possono essere dubbi sul fatto che all’origine del fenomeno ci sia un aumento della popolazione. Accanto all’incremento demografico, un altro fenomeno di grandi dimensioni che coinvolse tutta l’Europa fu l’ampliamento dello spazio coltivato. Nelle aree già relativamente popolate l’espansione delle coltivazioni avveniva a spese di quelle zone incolte che costituivano parte integrante delle curtes e dei territori dei villaggi, per cui non si avevano spostamenti di popolazione e l’opera di dissodamento era il risultato di un contratto tra il proprietario terriero e il coltivatore. I più solleciti nello stipulare patti agrari appaiono gli enti ecclesiastici e soprattutto i monasteri, ma è da credere che l’impressione di minore attivismo da parte dei proprietari laici sia in parte legata alle perdite pià gravi, che ha subito nel corso dei secoli la documentazione delle famiglie nobili rispetto a quella conservata negli archivi ecclesiastici. Un ruolo assai importante nell’espansione dello spazio coltivato ebbero anche i nuovi ordini monastici fondati nel corso del secolo XII, i cistercensi e i certosini. Desiderosi, infatti, di riscoprire lo spirito originario della regola benedettina e insofferenti della ricchezza e della potenza conseguite dalle grandi abbazie del tempo, cercarono soprattutto la solitudine e la povertà, rifugiandosi nel cuore della foresta e in territori spopolati, dove erano costretti a provvedere direttamente al proprio sostentamento. Ben presto, tuttavia, i lavori più pesanti furono lasciati ai conversi, a quei monaci cioè che restavano allo stato laico, e intorno ai nuovi monasteri sorsero villaggi di contadini, desiderosi di iniziare una nuova vita sotto la guida e la protezione dei monaci. Si è parlato finora di dissodamenti, diboscamenti, opere di bonifica, condotte da singoli o da gruppi di coloni in aree già più o meno popolate; ma il fenomeno interessò anche vastissime aree fino ad allora quasi deserte, assumendo a volte dimensioni notevoli e modificando profondamente la natura stessa dei luoghi. E’ questo il caso delle aree costiere dei Paesi Bassi, nell’Alto Medioevo scarsamente popolate, perché disseminate di paludi e acquitrini, dai quali sorgevano isolotti di varie dimensioni, abitati da pescatori e produttori di sale. Nell’arco di due-tre secoli l’intera zona fu bonificata attraverso la creazione di grandiose dighe, capaci di impedire l’invasione del mare durante l’alta marea, e di canali di drenaggio per liberare le terre dalla acque, che venivano pompate anche con l’impiego di mulini a vento. Sulle aree recuperate e liberate dalla salsedine si procedette poi a impiantare aziende agrarie e di allevamento, raggiungendo livelli produttivi di grande rilievo, che consentivano di far fronte alla crescente richiesta di generi alimentari da parte delle numerose città della zona. Il paese che però produsse il più intenso slancio espansivo fu la Germania, prima al suo interno e poi al di là delle frontiere dell’impero, in direzione sia del Baltico sia dei territori slavi al da là dell’Elba, dove soltanto i due regni di Polonia e Boemia, ormai cristiani, erano in grado di arginare la pressione tedesca. Che cosa spingeva contadini fiamminghi, frisoni, tedeschi a compiere lunghi viaggi per trasferirsi in terre abitate da popolazioni ostili? All’origine di tutto c’era l’incremento demografico ma una spinta non meno forte era fornita dal desiderio di migliorare le proprie condizioni di vita, sottraendosi al potere dei signori fondiari. Flussi migratori così intensi ebbero notevoli conseguenze anche nelle terre di origine degli emigranti. I signori di quelle terre, infatti, si dovettero porre il problema di evitare la partenza dei loro contadini. All’inizio adottarono provvedimenti di natura poliziesca, tendando di riportare indietro con la forza i fuggiaschi, ma ben presto si resero conto che l’unico intervento possibile era quello di venire incontro all’esigenza di maggiore libertà, sia personale sia di iniziativa economica, espressa dal mondo rurale. In questo i contadini erano agevolati dal movimento complessivo dell’economia del tempo, che, essendo in fase di crescita, richiedeva maggiore libertà di iniziativa e quindi il superamento o, almeno, l’allentamento di quei vincoli che ostacolavano l’aumento della produzione. Dovunque la tendenza era quella di ridurre la riserva padronale e di estendere l’area a diretta gestione dei coltivatori, riducendo parallelamente il numero delle prestazioni d’opera. In questa maniera essi potevano impiegare meglio sulle loro terre il tempo che avrebbero dovuto dedicare al lavoro sulla riserva padronale, ricavandone di più e quindi mettendosi in condizione di pagare canoni in denaro sostitutivi delle corvées. All’origine delle trasformazioni in atto nelle campagne c’era anche l’introduzione di nuove tecniche agrarie e di nuove coltivazioni. Fondamentale importanza viene riconosciuta all’introduzione, nelle terre di nuova colonizzazione, di tecniche di aratura capaci di smuovere terreni pesanti nonché ricchi di radici d’albero e sassi, quali erano quelli appena sottratti ad acquitrini e foreste. Particolarmente adatto si rivelò per esse l’aratro pesante, munito di coltro e versoio, e reso stabile da due ruote, già noto da tre-quattro secoli, ma fino ad allora di impiego assai limitato. Data però la sua pesantezza, era necessario, per azionarlo, disporre di un traino animale più numeroso, non bastando la tradizionale coppia di buoi: ce ne volano almeno quattro, e ancora di più nel caso di terreni arati per la prima volta. Un’altra novità fu costituita dall’abbandono della tradizionale bardatura, formata da una cinghia di cuoio tenero, che stringeva l’animale alla gola, ostacolandogli la respirazione. Ad essa fu sostituito nell’XI secolo un collare rigido, che poggiava sulla spalla del bue, permettendogli così di respirare liberamente, mentre trascinava l’aratro. Questo sistema di bardatura consentì, inoltre, di impiegare nell’aratura il cavallo, molto più veloce del bue, ma che proprio per questo non avrebbe potuto sviluppare la sua forza con una cinghia di cuoio, che gli comprimeva la trachea. Viene introdotta inoltre la rotazione triennale. I vantaggi rispetto alla rotazione biennale erano molteplici. La superficie improduttiva si riduceva dalla metà a un terzo. Vennero a formarsi due modelli di agricoltura: quello dell’Europa centro-settentrionale, caratterizzata dalla rotazione triennale, dall’impiego dell’aratro pesante e dei campi aperti (openfield) e quella dell’Europa mediterranea, caratterizzata dalla rotazione biennale, dall’aratro leggero, da un più forte individualismo agrario e da campi di rado chiusi. Al di là delle diversità tra il modello mediterraneo e quello dell’Europa centro-settentrionale, è indubbio che tra X e XII secolo non solo si dilatò enormemente lo spazio coltivato (forse di almeno tre volte), ma aumentò anche la produttività del suolo, per cui il rapporto prodotto-semente passò da 2/3 a 1, a valori di 4 a 1, e nelle aree più fertili anche 5/6 a 1. CAPITOLO 12 La ripresa del commercio e della manifatture I progressi dell’agricoltura nei secoli XI-XIII valsero a creare le condizioni per la ripresa del commercio e dell’artigianato, nonché delle città che divennero sedi naturali di quelle attività. Le popolazioni più attive erano quelle che si trovavano nei punti di incontro tra aree economiche diverse, come ad esempio i Veneziano che mettevano in collegamento il mondo bizantino con l’Europa centrale. Importante fu anche il ruolo degli Ebrei che fecero da intermediari tra mondi lontani e diversi, dato che furono gli unici nell’Alto Medioevi ad avere un raggio d’azione intercontinentale, muovendosi, attraverso vari itinerari, dalla Germania all’Estremo Oriente e insediandosi numerosi nei centri più importanti posti lungo le direttrici di maggior traffico. La situazione comincia a cambiare già nel corso del X secolo, quando assistiamo a due fenomeni nuovi: l’ampliarsi del ceto dei mercanti di professione, con la comparsa sulla scena anche di Tedeschi, Boemi e Slavi, e la crescita di importanza delle fiere, che cominciano a superare l’ambito locale. Il risultato fu il formarsi di una certa circolarità di rapporti tra i vari segmenti del commercio altomedioevale, anche se in questa fase restano ancora distinte due grandi aree, quella mediterranea e quella nordica, entrambe con articolazioni interne. Nel corso dei secoli XI-XII non solo crebbe il movimento all’interno dei settori e delle aree, ma si attuò in maniera non episodica il collegamento tra l’area mediterranea e quella nordica, attraverso l’integrazione tra rotte marittime e itinerari fluviali e terrestri. Si faceva un grande commercio alle fiere di Champagne (Francia), il più grande mercato internazionale del tempo. Ogni fiera durava un paio di mesi ed al loro successo contribuì non soltanto la favorevole posizione geografica, nel punto d’incontro tra area mediterranea e area nordica, ma anche la politica lungimirante dei conti di Champagne. Essi garantirono a lungo la pace nella regione e fornirono ai mercanti scorte armate lungo le strade di accesso alle fiere nonché agevolazioni fiscali e garanzie di ogni genere. Le fiere di Champagne decaddero a metà del Duecento, quando vennero meno entrambe le condizioni che ne avevano determinato il successo: la regione perse la sua tranquillità e il ruolo di mercato permanente veniva ormai svolto da città quali Bruges, Venezia, Firenze e Genova. Nella fase di loro massima fioritura le fiere di Champagne svolsero un ruolo che è stato paragonato a quello delle olimpiadi del mondo greco: come infatti queste valsero a creare l’unità morale della Grecia, le fiere diedero il loro contributo alla formazione di un, seppur inconsapevole, spirito europeo. Nel corso del XI secolo si vennero però ridefinendo non soltanto le rotte e gli oggetti del commercio mediterraneo, ma anche le posizioni di forza all’interno del mondo della mercatura. Marinai e mercanti di Amalfi, Gaeta, Salerno, Napoli, Bari continuarono a frequentare come prima i porti del Vicino Oriente, ma ormai i più attivi e intraprendenti erano i Veneziani, che assicuravano anche il collegamento tra Alessandria d’Egitto e Costantinopoli. Il collegamento tra area mediterranea e area nordica fu perfezionato a partire dalla seconda metà del XIII secolo dalla creazione di rotte marittime tra Mediterraneo e mare del Nord attraverso lo stretto di Gibilterra e le coste dell’Atlantico: rotte sulle quali fin dall’inizio furono particolarmente attivi i Genovesi. L’individuazione di nuove rotte marittime e l’incremento della navigazione su quelle già esistenti andarono di pari passo con l’introduzione di alcuni miglioramenti tecnici. La prima di queste innovazioni è la bussola, introdotta nel XII secolo, probabilmente proveniente dalla Cina. Di uso generalizzato divennero invece, nel XIII secolo, i portolani, una sorta di guide per naviganti, compilate da esperti uomini di mare, che descrivevano con precisione le caratteristiche delle coste e dei porti. Ad essi si affiancarono le carte recente da principi e signori territoriali, erano poche e di piccole dimensioni. Fu solo più tardi, nel XIII-XIV secolo, che alcune di esse, per ragioni politiche o perché poste lungo importanti vie commerciali, ebbero un certo sviluppo. Il Medioevo occidentale non conobbe il fenomeno delle megalopoli. Le stesse aree a più intensa urbanizzazione (Italia centro-settentrionale e Fiandre) erano tali per il gran numero di città e non per la loro grandezza. Il massimo dell’estensione e del numero di abitanti fu raggiunto agli inizi del Trecento, quando città come Milano, Firenze, Parigi avevano già costruito una terza cerchia muraria. La loro popolazione si aggirava allora intorno ai 100.000 abitanti, addensati un una superficie compresa tra i 450 (Parigi) e i 600 errati (Firenze). Per cogliere in tutta la sua portata la crescita delle città europee tra XI e XIII secolo, basta qualche esempio: Milano nell’arco di meno di due secoli aumentò di due volte e mezzo la sua superficie, Firenze di sei. Una crescita così impetuosa fu resa possibile non tanto dall’aumento naturale della popolazione quanto piuttosto da una massiccia immigrazione di abitanti delle campagne, spinti non soltanto dalla necessità di alleggerire la pressione umana su antichi e nuovi mansi, sempre più insufficienti per una popolazione in continuo aumento, ma anche dal desiderio di sfruttare le opportunità di lavoro che fornivano le nascenti industrie cittadine, quella tessile in particolare. Era una società che si vedeva ancora divisa nei tre ordini: oratores, bellatores e laboratores. Un elemento che accomuna le città europee, è la tendenza che esse manifestarono tra XI e XII secolo a dotarsi di una certa autonomia nei confronti dei principi e dei signori territoriali: autonomia che si espresse attraverso una varietà grandissima di situazioni. Nelle Fiandre e nella Francia del nord il movimento comunale nacque dall’iniziativa dei cittadini, sotto la guida di personaggi eminenti per ricchezza e prestigio sociale. In Germania il movimento comunale presenta forti analogie con quello della Francia del Nord: ugualmente le autonomie comunali furono il risultato di trattative alternante a movimenti di rivolta e l’iniziativa politica fu nelle mani di un numero ristretto di famiglie di grandi mercanti e proprietari terrieri. Nel resto dell’Europa le comunità cittadine ebbero minori capacità di iniziativa politica, ma dovunque furono in grado di ottenere in qualche misura spazi di autonomia attraverso l’elezione di giudici e di organismi amministrativi. CAPITOLO 14 Il rinnovamento della vita religiosa e la riforma della Chiesa Il X secolo aveva conosciuto il massimo della crisi sia delle istituzioni politiche sia di quelle ecclesiastiche, le une e le altre in preda a un grave disordine. L’ordinamento pubblico si era frantumato in un groviglio di diritti signorili, che i sovrani non riuscivano a disciplinare, dato che gli stessi funzionari pubblici avevano incorporato le loro cariche nei propri patrimoni familiari. L’ordinamento ecclesiastico, privato del sostegno del potere politico in seguito alla crisi dell’impero, non riusciva a funzionare sia per l’ingerenza dei laici nelle nomine di papi, vescovi, abati e rettori di chiese sia per il livello culturale e morale assai basso di prelati e chierici, che trascuravano i loro compiti pastorali e sottraevano beni alle chiese, incorporandoli nel patrimonio delle loro famiglie o dandoli in feudo ai propri vassalli. Fu la convergenza tra rinnovate esigenze religiose e disponibilità di risorse di carattere culturale a mettere in moto un grande movimento di riforma della Chiesa, destinato a imprimere ad essa un volto completamente nuovo e un assetto organizzativo destinato a durare sostanzialmente fino ai nostri giorni. Non a caso fu nell’ambito dei monasteri che si manifestarono i primi segni di rinnovamento. Già nel corso del X secolo cominciarono ad essere sperimentati forme nuove di vita monastica e moduli organizzativi capaci di garantire ai monaci minori condizionamenti esterni. L’esperienza che si rivelò particolarmente feconda e che riassume in sé buona parte della storia monastica del periodo a cavallo tra primo e secondo Millennio fu quella del monastero di Cluny, fondato nel 910 in Borgogna dal duca Guglielmo d’Aquitania e dall’abate Bernone. Si sperimentava una formula nuova, di tipo centralistico: più monasteri sotto la guida di un solo abate, quello di Cluny, che reggeva le comunità locali attraverso dei priori, garantendo così una certa uniformità di governo e, soprattutto, una maggiore forza di resistenza ai condizionamenti esterni. Di non minore rilevanza erano le novità di carattere religioso e culturale. Già Benedetto di Aniane, il riformatore dei monasteri del tempo di Ludovico il Pio, aveva modificato l’equilibrio tra lavoro e preghiera, previsto dalla regola benedettina, dando più spazio alla preghiera e alle pratiche liturgiche. I cluniacensi fecero ancora di più: il lavoro manuale scomparve del tutto dalle occupazioni dei monaci, per essere affidato soltanto a servi e coloni. Nello stesso tempo venivano introdotti la lettura giornaliera di un gran numero di salmi, solenni funzioni liturgiche, nuovi culti di santi e riti di suffragio per i defunti, consistenti non soltanto in preghiere, ma anche nella distribuzione di pasti ai poveri. L’eremitismo era una forma di vita monastica praticata fin dai primi secoli dell’era cristiana, configurandosi come separazione totale dalla società. Intorno al Mille ebbe una grande ripresa, proprio come reazione alla crisi delle istituzioni ecclesiastiche e politiche e come espressione di una religiosità diversa, più intima e più aderente al modello della povertà evangelica: esigenza che non poteva essere soddisfatta da un tipo di monachesimo come quello cluniacense, caratterizzato dalla grandiosità dei riti e degli edifici sacri, e dalla disponibilità di grandi risorse economiche, anche se utilizzate per opere di misericordia. Un’altra componente importante del movimento di riforma della Chiesa fu costituita dalle comunità canonicali. I sovrani carolingi, Ludovico il Pio in particolare, avevano cercato di ripristinare la vita comune del clero, prescrivendo la costruzione di appositi edifici (claustra canonicorum), nei quali i chierici addetti all’officiatura delle chiese avrebbero dovuto vivere in comune. Quelle norme però non furono mai attuate appieno e ben presto furono dimenticate. Un’inversione di tendenza si manifestò tra X e XI secolo nell’ambito delle chiese cattedrali, e questo ancora una volta non ci sorprende, dato che anche presso di esse, come nei monasteri, si erano conservate buone tradizioni di cultura. Ben presto quelle che sembravano iniziative isolate divennero sempre più numerose, per cui si può parlare per il XI secolo di un vero e proprio movimento canonicale. Si formarono così comunità di chierici, rette da regole più o meno rigorose, tra cui quella di sant’Agostino, e chiamate perciò canoniche regolari. Esse non sono da confondere con le comunità monastiche. I monaci infatti erano dediti alla vita contemplativa e spesso non erano chierici; sarà solo a partire dal secolo XII che prenderanno abitualmente gli ordini sacri. I canonici regolari erano invece comunità di chierici, che vivevano in comune, per imitare gli apostoli e per prepararsi meglio, attraverso lo studio e la preghiera, all’esercizio del ministero sacerdotale. Gli imperatori tedeschi fin dal tempo di Ottone I erano stati fortemente interessati al corretto funzionamento dell’ordinamento ecclesiastico. Non sorprende perciò che quando l’esigenza di un profondo rinnovamento della Chiesa cominciò ad essere largamente diffusa, gli imperatori stessi se ne facessero interpreti e sostenitori. Significativa fu in particolare l’opera di Enrico III. Nel 1046 volse la sua attenzione alla Chiesa di Roma, allora in profonda crisi, perché le rivalità tra le famiglie dell’aristocrazia romana avevano portato all’elezione contemporanea di ben tre papi. Egli li depose tutti e tre, e al Concilio di Sutri fece eleggere un suo candidato, che prese il nome di Clemente II. Nello stesso tempo tra gli intellettuali impegnati nell’opera di riforma cominciava a diffondersi l’idea che non era possibile un’opera di vero rinnovamento senza la libertas Ecclesiae, senza cioè eliminare l’ingerenza dei laici, e quindi anche dell’imperatore, nella scelta di papi, vescovi, abati, rettori di chiese. Intanto il papato, approfittando della minorità di Enrico IV (erede di Enrico III), si rafforzava politicamente e attuava con Niccolò II e Alessandro II una serie di interventi assai importanti in ambito disciplinare e organizzativo. Il primo perfezionò l’intesa coi Normanni, arrivando nel 1059 alla stipula dell’accordo di Melfi con il più forte dei capi normanni, Roberto il Guiscardo, che ottenne in qualità di vassallo della Chiesa di Roma, il titolo di duca di Puglia e Calabria. Nello stesso anno riunì un concilio nel Laterano, accelerando la riforma. Vennero modificate le procedure per l’elezione papale, che fu sostanzialmente riservata al collegio dei cardinali, riducendosi a un fatto puramente formale l’intervento finale del clero e del popolo romano. Fu rinnovato inoltre l’obbligo del celibato degli ecclesiastici e fu proibito loro di ricevere chiese dai laici, anche a titolo gratuito. I due successivi concili del 1060 e 1061 si espressero in maniera definitiva sul problema della simonia: i vescovi simoniaci furono deposti ma le ordinazioni da loro compiute fino a quel momento, purché non ci fosse stato versamento di denaro, furono ritenute valide. Enrico IV, uscito di minorità nel 1066, si rese subito conto delle conseguenze che i recenti provvedimenti adottati dal pappato avrebbero avuto sul piano politico, privandolo del controllo delle sedi vescovili e delle grandi abbazie, indispensabile per controbilanciare la potenza dell’aristocrazia laica. Nel frattempo saliva sul trono pontificio, con il nome di Gregorio VII, l’uomo di punta dello schieramento riformatore. Dotato di forte personalità e di una concezione altissima della dignità papale, introdusse un elemento di forte novità nel panorama del movimento di riforma, rivendicando il primato romano, cioè la suprema autorità del papa all’interno della Chiesa e nell’ambito della società cristiana. Ne scaturì una profondo e violenta spaccatura del movimento riformatore, che portò a un rimescolamento generale delle forze in campo. Dalla parte dell’imperatore vennero a trovarsi non solo i vescovi ostili alla riforma, ma anche ecclesiastici di notevole levatura morale e non meno di Gregorio VII. Già nel 1075, in un testo noto come dictatus papae, il pontefice mostrava di ritenere la sua giurisdizione estesa anche all’ambito temporale, attribuendosi la facoltà di deporre non solo i vescovi, ma anche l’imperatore. Si affacciava così l’idea di una monarchia universale incentrata sul pontefice romano, al quale avrebbero dovuto far capo tutti i poteri, sia spirituali sia temporali: una concezione che apparve inaccettabile a un sovrano quale Enrico IV, non meno risoluto ed energico del pontefice. Ne nacque una lunga lotta, passata alla storia come “lotta per le investiture”, che i due contendenti combatterono sia con le armi sia attraverso quelle che noi oggi definiremmo “campagne di stampa”. Le prime mosse del pontefice furono l’emanazione di alcuni decreti nel 1074 e la convocazione di un concilio l’anno dopo. In esso si vietò ai laici, pena la scomunica, di concedere l’investitura di vescovati e abbazie, e agli arcivescovi, pena la deposizione, di consacrare chiunque fosse stato investito da laici. Enrico convocò a Worms nel 1076 un’assemblea (dieta) di nobili ed ecclesiastici. In essa, con il consenso di quasi tutti i vescovi tedeschi e della Lombardia, depose e fece scomunicare il pontefice. Per tutta risposta Gregorio VII non solo scomunicò a sua volta i vescovi presenti alla dieta, ma depose e scomunicò anche l’imperatore, sciogliendo i sudditi dal dovere di fedeltà. Mai era accaduto qualcosa del genere, e l’impressione fu enorme in tutto l’impero. Enrico si rese conto della pericolosità della situazione che avrebbe dato legittimità all’opposizione dell’aristocrazia tedesca, che infatti riesplose subito più forte di prima. I rivoltosi gli imposero di sottoporsi al giudizio del papa, convocando per il gennaio del 1077 un’apposita dieta ad Augusta. Gregorio si mise in marcia e si fermò nel castello di Canossa, ospite della contessa Matilde, sua alleata, in attesa dell’arrivo della scorta promessagli dai principi tedeschi; senza di essa non avrebbe attraversato la Lombardia a causa dell’ostilità dell’episcopato lombardo. Enrico, ritenendo troppo umiliante per lui il giudizio del papa in una pubblica assemblea, lasciò segretamente la Germania e si presentò a Canossa per implorare l’assoluzione della scomunica. Il papa all’inizio rifiutò di riceverlo, ma dopo che Enrico passò tre giorni a piedi nudi in mezzo alla neve e in abito da penitente, cedette e gli concesse il perdono. La decisione permise a Enrico di riprendere l’iniziativa, ma i principi tedeschi non desistettero dalla lotta e elessero un nuovo re nella persona di Rodolfo di Svevia, che però non riuscì a imporsi. Enrico, una volta spezzato il fronte dei suoi oppositori, rinnovò nel 1080 la scomunica al papa e fece eleggere papa Clemente III. Approfittando del fatto che il Guiscardo, alleato del papa, era impegnato nei Balcani, scese in Italia dirigendosi verso Roma, dove giunse il 21 maggio del 1081, dopo aver sbaragliato le truppe della contessa Matilde. Dopo un lungo assedio la città fu presa nel marzo del 1084, mentre Gregorio si asserragliava in Castel Sant’Angelo. Qualche giorno dopo Enrico fece lingua d’oil a Nord e la lingua d’oc a Sud. Uguale prestigio fuori dalla Francia ebbero anche la narrative e la trattatistica in lingua d’oil, che si impose definitivamente dopo il declino politico- culturale della Provenza agli inizi del Duecento (ne parleremo più avanti). Questo fece sì che i primi poeti e trattatisti italiani, facessero uso della lingua d’oc e della lingua d’oil piuttosto che del volgare italiano, il quale acquistò dignità solo nei primi del Duecento grazie soprattutto all’attività della Scuola poetica formatasi alla corte siciliana di Federico II e a quella successiva dei poeti toscani. A rendere sempre più larga la pratica della lettura e della scrittura contribuì una precisa scelta delle autorità cittadine che si preoccuparono di creare scuole aperte a tutti. L’aumento del numero di colo che sapevano leggere creò le premesse per l’immissione sul mercato di un nuovo tipo di produzione libraria di nessun pregio artistico ma di costo assai basso. CAPITOLO 16 Rapporti feudali e processi di ricomposizione politico-territoriale. L’impero e l’Italia dei comuni Il rinnovato dinamismo della società europea, in piena crescita sul piano demografico ed economico, richiedeva condizioni di maggiore sicurezza per mercanti e contadini impegnati in grandi lavori di dissodamento. Una prima risposta fu data, già a partire dalla fine del X secolo, dalla Chiesa attraverso il movimento delle paci di Dio, nato in Aquitania, nella Francia sud-occidentale. Ne furono protagonisti i vescovi, i quali organizzarono grandi assemblee pubbliche di clero e popolo, per promuovere una mobilitazione collettiva a difesa dell’ordine pubblico, ma soprattutto delle chiese, dei chierici, dei monaci nonché delle categorie più deboli. Ben presto si cercò non solo di proteggere dalla guerra determinate categorie di persone e i beni della chiesa, ma anche di garantire a tutti una maggiore sicurezza, proibendo qualsiasi attività bellica in determinati giorni, quali la domenica, le festività religiose e i giorni precedenti, per cui teoricamente si poteva combattere solo un paio di giorni alla settimana. Ovviamente prescrizioni così vincolanti furono rispettate solo in parte, anche perché di rado era possibile punire i trasgressori. E’ questo il periodo in cui coloro che esercitavano funzioni militari e a vario titolo avevano poteri di comando e di governo si stavano chiudendo in un ceto privilegiato, la nobiltà, cui si poteva accedere soltanto per volontà del sovrano o di coloro che già ne facevano parte. A dare coesione a questo ceto contribuì anche il modello di comportamento cavalleresco elaborato dagli ecclesiastici francesi, i quali nella seconda metà del secolo XI trasformarono l’investitura, vale a dire la cerimonia di ingresso nella cavalleria, in un rituale a carattere religioso. Nel corso del XII secolo il codice di comportamento cavalleresco si venne ulteriormente arricchendo ad opera dei “giovani”, vale a dire dei cavalieri non sposati e privi di feudi. Essi, alla perenne ricerca di un generoso signore e di un buon matrimonio, elaborarono l’ideale di una vita gioiosa e avventurosa, in cui trovavano posto, accanto a giostre e tornei, anche le conversazioni amorose e la lettura di poesie e romanzi cavallereschi. Ne risultò così completa e arricchita l’ideologia cavalleresca, che esercitò un notevole fascino anche sulle altre classi sociali, soprattutto nell’Italia dei Comuni, dove la borghesia fu perennemente attratta dallo stile di vita nobiliare. Gli ideali cavallereschi non devono farci dimenticare che nella realtà lo stile di vita dei cavalieri restava fortemente impregnato di violenza. Quando nel corso del XII secolo, anche sul piano politico si avviò una lenta ripresa e si tentò di coordinare e disciplinare la congerie dei poteri locali, lo strumento sul quale si fece leva furono i rapporti feudo-vassallatici che nell’opinione corrente ne sono considerati la causa principale. A partire dalla seconda metà del secolo XI i rapporti feudo-vassallatici persero il carattere esclusivamente militare che avevano avuto in origine, per trasformarsi soprattutto in strumenti di governo e di coordinazione politica nell’ambito di territori più vasti. Nel 1037 l’imperatore Corrado II aveva sancito l’ereditarietà dei feudi, nei fatti già operante da tempo. L’assoluta garanzia nel possesso del feudo, e la possibilità per un grande proprietario fondiario o per il proprietario di un castello di stabilire un collegamento con un signore più forte, senza che questo comportasse una diminuzione di potere e di prestigio nell’ambito delle proprie terre, crearono le condizioni per un’ulteriore diffusione dei rapporti feudali. Questi conobbero pertanto il massimo di espansione proprio tra XI e XIII secolo. A questo esito contribuirono i giuristi: essi avviarono una profonda riflessione sulla natura e sulle attribuzioni del potere pubblico. Arrivarono a individuare nello Stato la fonte del diritto e di ogni potere, per cui l’esercizio di qualsiasi funzione di comando e di qualsiasi potestà legislativa non era concepibile senza una formale delega da parte dell’autorità sovrana. Nasce così l’immagine della piramide feudale, vale a dire della società in cui la delega dei poteri procede dal vertice verso il basso, fino a raggiungere attraverso valvassori e valvassini, i ceti rurali. L’efficacia dei rapporti feudali come strumento di governo fu sperimentata in maniera abbastanza precoce in Inghilterra e in Italia meridionale ad opera dei Normanni. In Italia le comunità cittadine non erano formate solo da mercanti e artigiani, ma anche da esponenti della piccola e media nobiltà, dotata di beni fondiari e di diritti giurisdizionali su villaggi e terre delle campagne circostanti. La situazione politica all’interno della città era però tutt’altro che chiara, perché le funzioni pubbliche non erano svolte tutte dal vescovo, ma erano per lo più ripartite tra diversi soggetti politici: il vescovo e il conte innanzitutto, ma a volte anche il capitolo cattedrale e i grandi monasteri urbani. Un quadro politico-istituzionale così frammentato, se consentì alle forze sociali di svilupparsi in maniera abbastanza libera, si rivelò a un certo punto inadeguato a disciplinare le tensioni sociali e i contrasti familiari che inevitabilmente sorgevano all’interno di comunità cittadine sempre più numerose e composite. Si trattava tuttavia di un equilibrio assai precario, reso ancora più fragile dalle tensioni religiose e politiche, provocate dal movimento di riforma della Chiesa e dalla conseguente lotta per le investiture. Quest’ultima in particolare si rivelò un’occasione assai favorevole allo sviluppo delle autonomie cittadine, data la necessità in cui si trovavano imperatori e pontefici di guadagnarsi il sostegno delle comunità locali, in favore delle quali largheggiarono in concessioni e privilegi. Non è un caso perciò che proprio nel vivo della lotta per le investiture, nel 1097, appaia documentata per la prima volta a Milano la nuova magistratura dei consoli, espressione di un nuovo ordinamento politico. Era accaduto che, approfittando dell’indebolimento del potere vescovile, contestato dai riformatori, e facendosi interprete del desiderio di pacificazione interna, largamente diffuso nel popolo, alcune famiglie più in vista avevano dato vita a un’associazione giurata (coniuratio), per garantire appunto la pace all’interno della città, assumendone direttamente il governo. La nascita del Comune avvenne in ogni città con modalità particolari, che non coincidono appieno con l’esempio fornito da Milano. Il periodo in cui compaiono le nuove istituzioni comunali coincide con il quarantennio 1080-1120, vale a dire con il periodo della lotta per le investiture. L’iniziativa appare in genere nella mani del ceto aristocratico, ma in alcune città della Toscana e del Piemonte a più intenso sviluppo mercantile sembra che sia stato prevalente il ruolo degli esponenti del mondo commerciale e imprenditoriale. Elementi che si ritrovano sostanzialmente uguali dappertutto sono gli organismi di governo, le modalità delle elezioni e la durata delle cariche. Gli organi di governo erano dovunque l’Arengo, cioè l’assemblea generale dei cittadini, cui spettava decidere in merito ai problemi di interesse generale, e il Collegio dei consoli, cui spettava il potere esecutivo. I consoli restavano in carica per un periodo assai breve (sei mesi o al massimo un anno), per evitare l’affermarsi di regimi di tipo personale, il che consentiva una continua rotazione e quindi l’arrivo al vertice del potere di tutti gli esponenti delle famiglie che avevano il controllo del Comune. Le modalità dell’elezione variavano da una città all’altra, ma tutti i sistemi elettorali erano congegnati in maniera da garantire il predominio dei notabili. Un ultimo elemento è l’ambiguità dell’ordinamento comunale delle origini. Il Comune era indubbiamente un fatto nuovo, ma esso non nasceva da una rivoluzione violenta contro l’assetto politico e istituzionale precedente. Anzi, i notabili che ne avevano il controllo, già da tempo svolgevano funzioni di governo in quanto collaboratori del vescovo o del conte, rispetto ai quali i nuovi organismi dirigenti restavano in una situazione giuridica non ben definita. Particolarmente ambiguo era il rapporto con il vescovo, le cui prerogative giurisdizionali venivano progressivamente ridimensionate all’interno della città, ma strenuamente difese al di fuori di essa e nel resto del territorio della diocesi, dove per allora il Comune poteva far arrivare la sua influenza solo operando a sostegno dell’autorità vescovile. In questo proiettarsi verso le campagne circostanti, per affermare la sua autorità sull’intero territorio diocesano, il Comune si inseriva in quel più ampio processo di superamento del particolarismo politico altomedievale, allora in atto dovunque in Europa. Anche in questo caso però tempi e modi furono diversi da una città all’altra. In generale può dirsi che una politica sistematica di sottomissione del contado si ebbe solo sul finire del XII secolo, ma qualche comune economicamente più florido e con un ceto dirigente particolarmente esuberante e ricco di tradizioni militari si avviò con largo anticipo in questa direzione. L’autorità imperiale era uscita fortemente scossa dalla lotta con il papato. Il concordato di Worms del 1122 formalmente era un compromesso, ma nella sostanza privava l’impero del suo carattere sacro, costringendolo a trovare altre basi teoriche sulle quali fondare la sua esistenza. Protagonista di questa svolta fu Federico I, detto in Italia Barbarossa. Prima di parlare di lui è necessario fare un passo indietro e tornare rapidamente all’imperatore Enrico V. Anch’egli non era riuscito ad assicurare in maniera definitiva alla sua dinastia la successione al trono di Germania, per cui alla sua morte i principi tedeschi ignorarono la sua designazione di un esponente della casata sveva degli Hohenstaufen ed elessero Lotario di Supplimburgo, della casa di Baviera. Alla morte di Lotario, i principi fecero ugualmente valere le loro prerogative, e scegliendo questa volta un esponente della casa degli Hohenstaufen, Corrado III. I due schieramenti che vennero a formarsi all’interno della nobiltà tedesca, presero il nome di ghibellino (dal castello svevo di Weiblingen) e guelfo (dal castello bavarese di Welf). La situazione di equilibrio creatasi tra di loro, con la prevalenza ora dell’uno ora dell’altro, contribuiva a indebolire ulteriormente il potere imperiale, il quale non fu in grado neanche di avvalersi delle prerogative in materia di elezione dei vescovi, previste dal concordato di Worms per la Germania. La situazione cominciò a sbloccarsi il 4 marzo del 1152, quando i principi tedeschi, accogliendo la raccomandazione di Corrado III, elessero re di Germania e designarono come imperatore il duca di Svevia, Federico, la cui madre Giuditta apparteneva alla casa dei duchi di Baviera. Il giovane sovrano, mostrò subito di voler ridare forza all’autorità imperiale, utilizzando tutti i mezzi a sua disposizione. Indisse una dieta a Costanza, dove espresse la sua convinzione che potere politico e potere spirituale dovessero collaborare su un piano di parità e ribadì i suoi diritti in materia di elezione dei vescovi tedeschi. A Costanza comparvero anche due inviati della città di Lodi, venuti a implorare la giustizia imperiale contro la prepotenza dei Milanesi, che dopo aver distrutto Lodi ne impedivano la riedificazione. La richiesta, alla quale si aggiunsero altre città lombarde, costrinse l’imperatore a volgere subito la sua attenzione all’Italia, dove lo sviluppo dei comuni aveva creato una situazione che la corte imperiale faceva fatica a capire, perché del tutto diversa rispetto a quella della Germania. Nell’ottobre del 1154 il Barbarossa era già in Lombardia, dove indisse una dieta a Roncaglia. Gli ambasciatori di Milano vi si presentarono con una grossa somma di denaro, sperando di poter ottenere il riconoscimento dei diritti regi, che il Comune esercitava da tempo nonché la signoria su Como e Lodi. Federico non solo rifiutò l’offerta, ma mise la città al bando, privandola di tutte le regalie. Si diresse quindi verso Roma, per cingere la corona imperiale. Prima dell’incoronazione, così come era stato convenuto col pontefice, abbatté il regime comunale formatosi a Roma nel 1143 e allora capeggiato da Arnaldo da Brescia, un riformatore che contestava il potere temporale dei papi. Nel settembre del 1155 Federico tornava in Germania, ma nel 1158 era di nuovo in Italia, questa volta alla testa di un grande esercito e con le idee più chiare. l’amministrazione delle finanze, ma anche con competenza in materia giudiziaria, fu creata la “Camera dello scacchiere”, dal nome di una tavola coperta da un tappeto a riquadri, intorno alla quale i suoi membri si riunivano. Guglielmo il Conquistatore fece anche redigere il Domesday Book, un vero e proprio catasto del regno, che consentì alla monarchia di avere un quadro chiaro dei beni della corona e della distribuzione della proprietà fondiaria. Mentre Guglielmo il Conquistatore guidava la sua spedizione alla conquista dell’Inghilterra, altri cavalieri provenienti dalla Normandia erano impegnati da qualche decennio nella creazione di una salda dominazione politica al centro del Mediterraneo. Fra i due eventi c’era però una grande differenza. I Normanni in Italia meridionale non giunsero come un esercito di conquistatori, ma a piccoli gruppi e con la speranza di farvi fortuna, mettendo la loro abilità militare al servizio delle formazioni politiche locali, in perenne lotta tra di loro. Tra i capi dei vari gruppi, che operavano indipendentemente l’uno dall’altro, il primo a emergere fu Rainulfo Drengot. Combattendo a favore del duca di Napoli Sergio IV contro il principe di Capua Pandolfo IV, ottenne da lui in feudo nel 1029 on il titolo di conte il piccolo centro di Aversa, che divenne ben presto una città sede vescovile. Contemporaneamente andavano emergendo altri capi tra le bande normanne che operavano al servizio dei principi di Salerno contro i Bizantini, ai quali finirono col togliere parte della Puglia e della Basilicata. Fra i Normanni impegnati nella lotta contro i Bizantini in Puglia emersero ben presto i fratelli Altavilla, prima Guglielmo Braccio di Ferro e Unfredo, e infine Roberto, detto il Guiscardo, che fu il vero artefice delle fortune normanne in Italia meridionale. Intanto, sia ormai verso la metà del XI secolo, la minaccia normanna cominciava a diventare evidente a tutti, ma fu il pontefice Leone IX a farsi promotore di una coalizione contro i temibili cavalieri francesi. La coalizione antinormanna fu rovinosamente sconfitta nel 1053 a Civitate, in Puglia, e lo stesso pontefice fu fatto prigioniero. Fu liberato dopo quasi un anno, quando si decise a riconoscere le conquiste di Riccardo Quarrel e di Unfredo in cambio del loro appoggio politico e militare. L’intesa fu perfezionata nell’agosto del 1059 a Melfi, dove il successore di Unfredo, il già citato Roberto il Guiscardo, e Riccardo giurarono fedeltà al nuovo pontefice Niccolò II, ottenendo, il primo il titolo di duca di Puglia, Calabria e Sicilia (quest’ultima ancora da conquistare), e il secondo quello di principe di Capua. Forte dell’investitura papale, il Guiscardo cercò di consolidare il suo dominio in Puglia e Calabria, avviando nel 1061 anche la conquista della Sicilia musulmana, che poi affidò, con il titolo di conte al fratello minore Ruggero, soprannominato in seguito il “Gran Conte”. L’isola era allora in piena fioritura economia e culturale, ma in crisi sul piano politico a causa delle tendenze autonomistiche delle signorie locali; il che favorì la conquista normanna, che tuttavia durò quasi un trentennio. Mentre il Gran Conte era impegnato nella conquista della Sicilia, Roberto il Guiscardo completava quella del Mezzogiorno continentale. La scomparsa del Guiscardo rimise in discussione la fragile costruzione politica da lui creata, con le città che avevano accettato il dominio normanno ma conservando ampi spazi di autonomia. A imprimere una svolta decisiva alla storia dell’Italia meridionale fu il figlio del Gran Conte, Ruggero II. Padrone incontrastato della Sicilia, alla morte senza eredi del nipote Guglielmo rivendicò il titolo di duca di Puglia e Calabria, scontrandosi con l’ostilità dei baroni meridionali e del pontefice Onorio II, ma nel 1130, approfittando della crisi scoppiata all’interno della Chiesa dopo la morte del papa, riuscì a farsi incoronare re di Sicilia dall’antipapa Anacleto II. Si formava così un regno destinato a durare fino al 1860, sia pur attraverso crisi, divisioni interne e cambi di dinastie, che più volte ne sconvolsero l’assetto interno e ne modificarono la collocazione all’interno del quadro politico europeo e mediterraneo. Eliminata l’ultima sacca di resistenza con la conquista di Napoli nel 1139, Ruggero II poté concentrarsi sull’organizzazione del suo regno, che si configurò in breve tempo come uno dei meglio organizzati del tempo. I Normanni dell’Italia meridionale, sul finire del XI secolo, furono anche tra i protagonisti delle crociate, uno degli avvenimenti più importanti dell’età medievale. Al Concilio di Clermont-Ferrand del novembre 1095, il pontefice Urbano II, dopo aver deplorato le lotte fratricide fra i cristiani, esortò chi vi era stato coinvolto a intraprendere un pellegrinaggio in Terrasanta come mezzo di purificazione dei peccati e come occasione per recare aiuto alla Chiesa orientale minacciata dagli infedeli. Del discorso del papa abbiamo quattro versioni di altrettanti cronisti, i quali però scrivevano tutti alcuni anni dopo, quando i cristiani avevano già conquistato Gerusalemme. E’ possibile perciò che essi, conoscendo al momento in cui scrivevano lo sviluppo degli eventi, abbiano caricato le parole di Urbano II di un significato più forte di quello che esse effettivamente ebbero. Si sarebbe trattato invece di una generica esortazione del pontefice al pellegrinaggio, la quale avrebbe prodotto un risultato, che egli stesso non era in grado di immaginare. Se le parole del pontefice ebbero una vasta risonanza, fu perché la società europea della fine del XI secolo era pervasa da un forte slancio espansivo, il tutto era poi condito da un miscuglio confuso di ottimismo e di profonda inquietudine religiosa: non tenendo ben presente tutto questo si rischia di dare eccesivo credito a fatti o inesistenti o di portata assai limitata. Anche l’oppressione dei Turchi sulle comunità cristiane dell’Oriente e sui pellegrini diretti a Gerusalemme, spesso presentata come causa delle crociate, non può essere considerata un elemento decisivo. Nei territori a loro sottomessi i musulmani assicuravano ai cristiani libertà di culto e forme di autonomia, che i loro correligionari residenti nei territori cristiani non si sognavano neppure. E’ vero che in particolari circostanze non mancavano casi di esplosione di violenza e di intolleranza. Inoltre i Turchi, da poco convertiti all’Islam, erano certamente meno tolleranti degli Arabi; niente però autorizza a credere che le condizioni dei cristiani di Terrasanta si fossero talmente aggravate da muovere a compassione i fieri e bellicosi cavalieri dell’Europa feudale. Dicendo questo, dobbiamo contemporaneamente mettere in guardia dal rischio di sottovalutare la componente religiosa del movimento crociato. Nel Medioevo la religione permeava la vita dell’uomo in una misura che noi oggi abbiamo difficoltà a cogliere. Dell’entusiasmo religioso suscitato dal movimento crociato si fece interprete un predicatore itinerante, Pietro di Amiens, meglio noto come Pietro l’Eremita, il quale nel 1095 promosse la cosiddetta crociata dei poveri. Ne furono protagonisti gruppi numerosi di poveri ed emarginati che, male armati e privi di qualsiasi forma di organizzazione, si misero in viaggio verso l’Oriente attraverso le valli del Reno e del Danubio. Il loro passaggio fu segnato dovunque da saccheggi e massacri di Ebrei, che suscitarono la reazione violenta di vescovi e signori locali. Quelli che sopravvissero alle stragi e alla fatica del viaggio, tra cui vecchi, donne e bambini, furono massacrati dai Turchi. Pietro di Amiens fu uno dei pochi che riuscirono a salvarsi e che attesero a Costantinopoli l’arrivo della crociata “ufficiale”. Questa iniziò nel 1096 su pressione di Urbano II, preoccupato per quelle partenze indiscriminate di pellegrini fanatici, i quali minacciavano di sconvolgere l’ordine sociale e si sottraevano a qualsiasi controllo del potere sia politico sia ecclesiastico. All’appello del pontefice rispose il fior fiore della feudalità, soprattutto francese. I vari contingenti armati si concentrarono a Costantinopoli, dove l’imperatore Alessio Comneno fece di tutto per farli ripartire al più presto, giudicando, non a torto, rischiosa la concentrazione attorno alla città di tanti Franchi. La spedizione si mosse nel giugno del 1097 e procedette in mezzo a gravi difficoltà. La stagione estiva non era la più propizia per un esercito di cavalieri armati in maniera inadeguata alle condizioni climatiche di quelle regioni, oltre che impreparati ad affrontare un nemico che si spostava velocemente e faceva largo impiego di arcieri e di cavalieri armati alla leggera. A ciò si aggiungevano gli odi e le rivalità, che dividevano i personaggi che si erano uniti alla crociata, e che Goffredo di Buglione, nominato capo dell’esercito, non era in grado di tenere pienamente a freno. Ciò nonostante il 15 luglio del 1099, dopo cinque settimane di assedio e tanti atti di eroismo dall’una e dall’altra parte, si giunse alla conquista di Gerusalemme, che fu accompagnata dal massacro quasi totale della popolazione musulmana ed ebraica. La presa di Gerusalemme fu tanto più sorprendente se su considera che i crociati erano a digiuno di poliorcetica (arte degli assedi) e che le loro fila si andavano assottigliando man mano che si procedeva alla conquista di centri importanti. I capi dei vari contingenti dell’esercito, desiderosi com’erano di ritagliarsi un proprio dominio, preferivano infatti fermarvisi e lasciare agli altri il compito di andare avanti. Il successo dei crociati fu reso possibile anche dalle lacerazioni esistenti all’interno del mondo musulmano. La situazione cambiò agli inizi del XII secolo grazie all’intraprendenza dell’emiro di Mossul e Aleppo, Imad al-Din Zinki, il quale si ritagliò un vasto dominio tra i Tigri e l’Oronte, e fu in grado di esercitare una forte pressione sugli Stati crociati, che si mostrarono militarmente e politicamente impreparati a farvi fronte. La prima a cadere fu Edessa nel 1144. La notizia destò preoccupazione in Occidente. Se ne fece interprete Bernardo di Chiaravalle. Fu lui a organizzare una nuova crociata, mobilitando i più potenti sovrani dell’Occidente. L’iniziativa si risolse in un completo fallimento, perché ogni sovrano perseguiva i propri obiettivi. Solo alla fine si giunse a una forma di coordinamento, ma non valse a evitare loro ripetute sconfitte. La piena riscossa musulmana si ebbe qualche decennio dopo ad opera di un curdo di nome Salah ed-Din Yusuf, noto in Occidente come il Saladino, il quale si rese completamente indipendente da Baghdad, creando un sultanato che andava dall’Egitto al Tigri. Il 4 luglio del 1187 sconfisse i Franchi a Hattin e il 2 ottobre entrò trionfante in Gerusalemme. La gravità dell’evento provocò in Occidente una mobilitazione ancora più grande. Scesero in campo questa volta l’imperatore Federico Barbarossa, il re d’Inghilterra Riccardo Cuor di Leone e il re di Francia Filippo Augusto. Il Barbarossa perse addirittura la vita nel 1190 annegando mentre attraversava il fiume Salef in Anatolia. Gli altri due sovrani continuarono l’impresa, ma a impegnarsi effettivamente fu solo Riccardo, che riuscì a recuperare San Giovanni d’Acri e a strappare ai Bizantini l’isola di Cipro. Gerusalemme rimase invece in mano ai musulmani. Il clima di entusiasmo religioso, che aveva reso possibili i successi dei primi crociati, si era ormai definitivamente dissolto e la crociata si avviava a diventare un elemento di un più complesso gioco politico, che coinvolgeva il papato, l’impero e tutte le altre formazioni politiche del tempo. La terza crociata si concludeva nel 1192. Allora era già da un anno sul trono imperiale il figlio del Barbarossa, Enrico VI, al quale il padre aveva dato in sposa Costanza d’Altavilla, erede dell’ultimo re di Sicilia Guglielmo II, morto nel 1189. Sua intenzione era quello di usare il regno di Sicilia come base di partenza per una grandiosa politica mediterranea. I suoi ambiziosi progetti furono però troncati dalla sua improvvisa morte nel 1197 a 32 anni d’età. La scomparsa di Enrico VI impediva ai cristiani di Terrasanta di sfruttare la situazione favorevole creatasi con la morte del Saladino, in seguito alla quale il suo impero si era frantumato in varie formazioni politiche in lotta tra di loro. Di ciò si aveva piena consapevolezza in Occidente, e il papa Innocenzo III si fece promotore di una grande crociata, con il duplice obiettivo di recuperare Gerusalemme ai cristiani e di ricondurre la Chiesa d’Oriente sotto la sovranità pontificia. La situazione economica era inoltre tutt’altro che florida, data la posizione di predominio conseguita dai Veneziani. Gli imperatori tentarono allora di ridimensionare l’influenza di Venezia, facendo ampie concessioni anche e Genovesi e Pisani, ma questo valse soltanto a mettere in allarme Venezia, che concepì l’ardito disegno di trasformare il controllo economico che esercitava sullo Stato bizantino in egemonia politica. L’occasione fu fornita proprio dalla crociata bandita da Innocenzo III. I crociati si erano radunati a Venezia nel 1202, per raggiungere l’Oriente via mare, ma erano privi dei mezzi necessari per pagare il noleggio delle navi. Il doge Enrico Dandolo offrì allora il trasporto gratuito delle truppe a patto che si facesse scalo a Zara, per aiutare i Veneziani a riprendere possesso della città, che si era data al re d’Ungheria. Ripreso il viaggio dopo la tappa a Zara, il doge riuscì a convincere i capi crociati a fare un altro cambiamento di programma e a puntare direttamente sulla conquista di Costantinopoli, tanto più che c’era un precedente al trono imperiale, Alessio, il quale prometteva lauti compensi, partecipazione alla crociata e riunificazione delle due Chiese sotto egemonia papale. I crociati, allettati da tali proposte, si impadronirono di Costantinopoli nel 1203 e misero sul trono Alessio, il quale però non fu capace di territorio soggetto al dominio diretto della corona si era triplicato rispetto a quello trasmessogli dal padre. Dopo la sconfitta di Bouvines, Giovanni Senzaterra dovette affrontare la reazione dell’opinione pubblica e della nobiltà inglese, irritate per il carico fiscale che diventava sempre più pesante e che era finalizzato a una politica di potenza sul continente priva di risultati concreti. Grande era il malumore anche per la decisione del re di dichiarare il regno feudo della Chiesa. Quando nel 1215 l’onda crescente della protesta investì la stessa Londra, baroni e ecclesiastici passarono alla rivolta aperta, imponendo al re la concessione della famosa Magna charta libertatum ecclesiae et regni Angliae (meglio nota come Magna Charta), confermata e redatta in forma definitiva da Enrico III nel 1217. Con essa il sovrano si impegnava a rispettare i diritti di cui godevano i nobili, gli ecclesiastici e tutti i liberi del regno, le concessioni operate nel passato dai suoi predecessori a favore di Londra e delle altre città, il diritto dei sudditi di condizione libera di essere giudicati da tribunali di loro pari nonché le consuetudini vigenti in materia di libera circolazione dei mercanti. Si obbligava inoltre, a non imporre nuove tasse senza l’approvazione della nobiltà e del clero, riuniti nel “Consiglio comune del regno”, e a farsi assistere negli affari di governo da una curia di venticinque baroni. La promulgazione della Magna Charta non migliorò ma anzi peggiorò la situazione di Giovanni Senzaterra, dato che egli si trovò ad essere sconfessato da Innocenzo III, il quale avvalendosi delle sue prerogative di signore del regno, annullò tutte le concessioni da lui operate. La domenica di Bouvines costituì anche la premessa della vicenda umana e politica di Federico II. Quella domenica era in Germania dopo un viaggio avventuroso in cui aveva più volte rischiato di perdere la vita a causa dell’ostilità dei sostenitori italiani e tedeschi di Ottone. Decisivo si rivelò l’appoggio dei vescovi e dei principi ecclesiastici, i quali gli fornirono aiuti militari e contribuirono fortemente a orientare verso di lui l’animo dei Tedeschi, per cui il 9 dicembre del 1212 fu possibile all’arcivescovo di Magonza incoronarlo re di Germania. Non si trattava però di un aiuto disinteressato, dato che già il 12 luglio 1213 Federico dovette emanare la Bolla d’oro di Eger con la quale rinunciò ai diritti che il concordato di Worms del 1122 aveva riconosciuto al potere imperiale nelle elezioni di vescovi e abati. Nel frattempo Innocenzo III si era fatto promettere dal suo antico pupillo che avrebbe rinunciato al trono di Sicilia a favore del figlio Enrico, che allora aveva solo cinque anni. La scomparsa del pontefice due settimane dopo indusse invece il giovane sovrano a ritenersi sciolto dalla sua promessa. In questo modo Federico, prima ancora di essere incoronato imperatore, designava il suo successore al trono, mostrando chiaramente di voler introdurre anche nella carica imperiale il principio dell’ereditarietà, allora in via di affermazione definitiva nell’ambito delle monarchie europee. La disinvolta e audace politica del giovane sovrano svevo era stata resa possibile dal carattere remissivo e bonario del nuovo pontefice Onorio III, già avanti negli anni e con una sola idea fissa nella mente: la riconquista di Gerusalemme. Gli fu possibile così, in cambio della promessa solenne di partire per la crociata, ottenere dal papa di mantenere l’unione delle due corone, sia pur con la precisazione che si trattava di una concessione straordinaria, fatta solo a lui e non trasmissibile agli eredi. Sulla base di questi accordi, il 22 novembre del 12220 Federico, fu incoronato imperatore in San Pietro e subito dopo tornò nel Mezzogiorno, dove mancava da otto anni. La situazione che trovò era difficile. Durante gli anni della sua minorità e permanenza in Germania il regno era rimasto in balia dei comandati militari tedeschi, che vi erano giunti al seguito di Enrico VI. Inoltre feudatari e comunità cittadine avevano approfittato della debolezza della monarchia per estendere i loro domini e le loro autonomie. Il primo obiettivo che egli si pose fu, pertanto, quello di rivendicare tutti i diritti regi che erano stati usurpati nel trentennio precedente. Ci fu naturalmente la resistenza dei baroni, che il giovane sovrano superò a prezzo di due anni di aspre lotte e giocando d’astuzia. Riuscì infatti a mettere i feudatari minori contro quelli più potenti, per poi disfarsi anche di quelli al momento opportuno. Dopo, affrontò i Saraceni di Sicilia. Dopo numerose campagna tra 1222 e 1224, i ribelli furono sconfitti e deportati a Lucera, in Puglia, dove poterono vivere secondo le loro usanze e professando liberamente la loro religione. Si trattò di un atto di tolleranza del tutto inconsueto nell’Europa cristiana. Contemporaneamente Federico adottava una serie di misure per risollevare le condizioni economiche del regno. Nel 1224 fondò a Napoli quella che è da considerare la prima Università statale del mondo occidentale. Intanto il 18 marzo del 1227 moriva il mite Onorio III e gli succedeva l’intransigente cardinale Ugolino da Ostia, che prese il nome di Gregorio IX. Pur essendosi dimostrato in precedenza amico e fautore di Federico, egli assunse subito verso di lui un atteggiamento di grande fermezza, imponendogli di partire subito per la Terrasanta. Questa volta l’imperatore si rese conto che non poteva più sottrarsi all’impegno che aveva assunto. Immediatamente convocò crociati e pellegrini a Brindisi, tradizionale punto di imbarco per la Terrasanta, ma nel caldo dell’agosto scoppiò un’epidemia che fece molte vittime. Lo stesso Federico ne fu colpito e dovette tornare indietro per curarsi ai bagni di Pozzuoli. Il papa però non credette alla sua malattia e il 29 settembre del 1227 lo scomunicò dalla cattedrale di Anagni. Federico, appena guarito, riprese i preparativi della crociata e nel giugno del 1228 partì di nuovo, sbarcando ad Acri il 7 settembre. Poiché parlava perfettamente l’arabo, e conosceva bene la cultura araba, trovò subito un intesa con il sultano Malik al-Kamil, con il quale già il 18 febbraio del 1229 giunse a stipulare il trattato con il quale otteneva Gerusalemme. Questo non valse a placare l’ira del papa che anzi trovava scandalosi i buoni rapporti stabiliti da Federico con gli infedeli, e al suo ritorno Federico dovette fronteggiare una crociata bandita contro di lui. Vinti i nemici interni, raggiunse un compromesso con Gregorio IX, sancito dalla pace di Ceprano del luglio 1230. L’imperatore fu prosciolto dalla scomunica ma dovette rinunciare a ogni forma di controllo sull’elezione dei vescovi. Federico consolidò il regno emanando nel 1231 le Costituzioni di Melfi, con le quali dotò il regno di un codice organico di leggi, ispirato alla tradizione giuridica romana e alla legislazione normanna. Lo stesso fece in Germania con la Costituzione di pace imperiale. Nel 1238 arrivò lo scontro con la Lega lombarda, alla quale inflisse una sconfitta a Cortenuova. Fece però l’errore di imporre condizioni di pace eccessivamente dure, che spinsero le città a una resistenza a oltranza. A incoraggiare le città c’era la possibilità che il papa si schierasse con loro vista l’irritazione per la politica dell’imperatore, e i calcoli dei ribelli furono esatti. Gregorio IX diede inizio a un’intensa attività diplomatica per mettere fine alle divisioni esistenti tra i potenziali nemici dell’imperatore e coalizzarli contro di lui. Il 20 marzo del 1239 il pontefice lanciò la seconda scomunica contro Federico. Cominciava così la fase finale di un’inesorabile guerra, destinata a diventare sempre più aspra col passare degli anni e con l’avvento al soglio pontificio di Innocenzo IV. Gli ultimi anni di vita di Federico furono terribili. Scomunicato di nuovo e dichiarato decaduto dalla dignità imperiale nel Concilio di Lione del 1245, si impegnò freneticamente per contrastare i suoi nemici sia sul piano militare che ideologico, appellandosi ripetutamente agli altri sovrani europei. A sua volta il papa, come ai tempi della lotta tra Gregorio VII ed Enrico IV, scatenò una campagna diffamatoria contro l’imperatore, additandolo come l’incarnazione dell’Anticristo e mobilitando contro di lui francesi e domenicani. Il 13 dicembre del 1250 Federico moriva all’età di 56 anni a Castel Fiorentino, presso Lucera. Fu sepolto nel duomo di Palermo, dove riposa tuttora accanto ai genitori Enrico VI e Costanza, e al nonno Ruggero II. Dopo la morte del figlio Corrado IV nel 1254, il trono imperiale rimase vacante fino al 1273, quando fu eletto imperatore il debole Rodolfo d’Asburgo, ma nell’antico Regno di Sicilia l’eredità di Federico II non andava perduta. Se ne fece continuatore il figlio naturale Manfredi, il quale prima ne assunse la reggenza in nome del piccolo Corradino, figlio di Corrado IV, e poi, dopo aver diffuso la falsa notizia della sua morte, si fece incoronare re a Palermo l’11 agosto del 1258. Il papato era però deciso a eliminare definitivamente gli Svevi dalla scena politica e contro di lui chiamò in Italia Carlo d’Angiò, fratello di Luigi IX di Francia. Manfredi cercò di bloccarlo ma abbandonato al momento decisivo da buona parte dei suoi feudatari, fu sconfitto e morì combattendo a Benevento il 26 febbraio del 1266. Il cambio di dinastia al vertice del Regno di Sicilia non ne segnò affatto il declino; il nuovo sovrano, proseguì l’opera degli Svevi di consolidamento dell’apparato burocratico- amministrativo dello Stato. Fra X e XI secolo il movimento espansivo assunse maggior vigore, favorito dalla crisi politica del califfato di Cordova, che nel 1031 scomparve, frantumandosi in una serie di piccole entità politiche. Fu allora che la reconquista, pur conservando il duplice aspetto di conquista militare e di colonizzazione, venne connotandosi anche come impresa politica e religiosa, acquistando poi nel corso del XI secolo, il carattere quasi di una crociata. Numerosi cavalieri normanni e francesi arrivarono così in Spagna per combattere i musulmani. Verso la metà del Duecento la reconquista potevi dirsi sostanzialmente conclusa, essendo rimasto ai musulmani solo un piccolo territorio di circa 30.000 Kmq alle pendici della Sierra Nevada, tra Granada, Almeria e Malaga, dove essi rimasero fino al 1492 come tributari del re di Castiglia. CAPITOLO 19 Le origini della Russia e l’impero mongolo Tra VIII e IX secolo pirati-mercanti provenienti dalla Scandinavia (cioè Vichinghi), si mossero lungo le due vie commerciali che collegavano il mare Baltico con i grandi impero bizantino e arabo: la prima metteva capo al mar Nero attraverso i bacini dei fiumi Dvina e Dniepr; la seconda raggiungeva il mar Caspio attraverso il fiume Neva e il corso del Volga. Le popolazioni slave chiamavano Rus questi stranieri. Verso la metà del IX secolo i Rus presero a imporsi alle popolazioni locali, assumendo il controllo di Novgorod e di Kiev, dando vita, sotto la guida di Oleg, a una vasta dominazione territoriale, il principato di Kiev. I principi di Kiev strinsero con Bisanzio rapporti commerciali, regolamentati nel 944 da un apposito trattato. Una svolta si ebbe con il principe Vladimir. Per stringere intorno a sé tutte le tribù slave unendole nel culto a un dio comune, egli promosse la conversione del suo popolo al Cristianesimo ed egli stesso ricevette il battesimo la domenica di Pentecoste del 19 maggio 989, cui seguì il 5 agosto quello degli abitanti di Kiev nel fiume Dnepr. A partire dalla metà del XI secolo il principato di Kiev cominciò a decadere sia per i continui attacchi da parte di Peceneghi e Cumani, tribù di ceppo turco stanziate tra il mar Nero e il mar Caspio, sia per il declino delle vie commerciali russe in seguito alla ripresa dei traffici mediterranei. Un terzo fattore del decadimento fu rappresentato dalle lotte dinastiche, vista la consuetudine di dividere il potere tra i vari membri della famiglia del principe. Vecchie e nuove formazioni politiche erano destinate ad essere travolte dai Mongoli. La prima ondata arrivò nel 1223, ma si trattò di un episodio: l’attacco vero e proprio sarebbe avvenuto una quindicina d’anni dopo. Ma come si trovavano i mongoli così lontani dalle loro sedi? Tradizionalmente tutto viene ricondotto alla figura di Gengis Khan, il grande guerriero che per primo organizzò militarmente quel popolo di nomadi e pastori, lanciandolo alla conquista del mondo. Vissuto sessanta-settant’anni (nacque tra il 1155 e il 1167, morì nel 1227), nel 1206 aveva già inglobato nel suo dominio tutte le tribù mongole; nel quindicennio successivo si spinse a nord fin oltre il lago Baikal, a est fino alle coste del Pacifico, a sud fino alla fascia della Cina settentrionale compresa tra la regione del Sinkiang e Pechino, a sud-ovest fino all’Afghanistan, a ovest fin quasi all’attuale Kazakistan. Intorno al 1220 tutti i suoi sforzi si concentrarono sul fronte occidentale, con scorrerie che raggiunsero la Mesopotamia, la Georgia e, come abbiamo visto, la Russia meridionale. Nel 1226-1227 si volse di nuovo verso la Cina, per completarne la conquista, ma la morte non gli consentì di realizzare il suo progetto. Nei confronti delle popolazioni soggette Gengis Khan ebbe un atteggiamento improntato a grande duttilità. Quelle che si sottomisero spontaneamente non dell’accanimento con cui fu condotta da entrambe le parti e del carattere di guerriglia che impressero ad essa le truppe mercenarie impiegate dagli Aragonesi (gli Almugaveri). Le imprese degli Almugaveri in Italia meridionale non erano destinate a restare un fatto isolato, ma prefiguravano il nuovo tipo di guerra che di lì a poco si sarebbe diffuso ovunque in Italia e in Europa: una guerra combattuta soprattutto da milizie mercenarie e volta ad annientare l’avversario attraverso la distruzione delle sue risorse, finendo con il configurarsi a volte come una vera e propria guerra economica. Ciò nondimeno esse rappresentavano un deciso superamento degli eserciti feudali. Un modello alternativo a quello feudale era fornito dagli eserciti comunali italiani. Essi però, rappresentando un recupero della tradizione germanica dell’esercito di popolo, entrarono in crisi quando all’interno dei Comuni cominciarono a restringersi gli spazi di democrazia e quindi di partecipazione per l’affiorare di tendenze oligarchiche, che culminarono poi nel sorgere delle signorie. La convergenza tra la domanda di servizi militari di tipo nuovo da parte degli Stati e l’offerta di un numero sempre crescente di bande armate capeggiate da esponenti della nobiltà feudale portò, nel corso del Trecento, a una vera e propria esplosione del fenomeno delle milizie mercenarie, con conseguenza di non poca importanza per le popolazioni locali. Innanzitutto la necessità di far fronte a spese militari sempre crescenti per accaparrarsi i condottieri di maggior prestigio e, costrinse gli Stati ad aumentare la pressione fiscale. Dovunque in Italia e nel resto dell’Europa, gli Stati vissero nel corso del Tre-Quattrocento in una condizione di perdurante precarietà finanziaria, che rendeva sempre più affannoso il reperimento dei mezzi necessari per il pagamento del soldo ai soldati. Questi, che già in condizioni normali non facevano molta differenza tra le popolazioni che erano chiamati a difendere e quelle dei territori nemici, su tutte gravando con saccheggi e vessazioni di ogni tipo, diventavano poi del tutto incontrollabili in caso di ritardo del pagamento del soldo. Le loro fortune furono legate allo stato permanente di guerra che venne a caratterizzare l’Italia tra la metà del Trecento e quella del Quattrocento a causa, dei continui tentativi di egemonia portati avanti dagli Stati italiani. Guerre e carestie avevano un’incidenza diretta sulla vita delle popolazioni sia rurali sia urbane, contribuendo a far esplodere, da un capo all’altro dell’Europa, rivolte contadine e tensioni sociali. La più famosa è certamente la jacquerie francese, che esplose nel maggio del 1358. Il moto contadino che prese nome da Jacques Bonhomme, capo dei rivoltosi, partì dall’Ile-de-France e si estese rapidamente in una vasta area, trovando anche l’appoggio del ceto mercantile di Parigi, che perseguiva il progetto di ridurre i privilegi e quindi il potere politico della nobiltà. Questo non valse a impedire la violenta reazione della nobiltà delle campagne, la quale nel giro di pochi giorni ebbe la meglio sui rivoltosi, che lasciarono sul campo circa 20.000 morti. Anche la rivolta inglese del 1381 ebbe nei contadini l’elemento propulsivo. L’esito fu diverso da quella francese: il re Riccardo II e i nobili si videro costretti ad accogliere buona parte delle richieste dei rivoltosi e a concedere un’amnistia generale, dalla quale furono esclusi soltanto i più radicali, che si mantennero in armi, finendo poi con l’essere massacrati. In forme del tutto diverse e originali si espresse invece il malessere del mondo contadino in Italia meridionale. Già agli inizi del Trecento si verificarono un po’ dovunque rivolte contro i signori laici ed ecclesiastici, ma esse mantennero sempre un carattere episodico e locale, senza mai dar vita a moti insurrezionali a più vasto raggio, per cui in genere non ci fu bisogno dell’intervento del potere politico. Rispetto al quadro europeo delineato finora, l’Italia centro-settentrionale presenta alcuni caratteri peculiari, riconducibili alla straordinaria fioritura urbana dei due secoli precedenti. In non poche città c’era stato un forte incremento dell’artigianato e a volte un vero e proprio sviluppo industriale nell’ambito del settore tessile. A rendere inquieti i lavoratori contribuiva la mancanza assoluta di ogni forma di tutela sindacale, non essendo loro consentito di organizzarsi in associazioni di mestiere, così come avveniva invece per i loro datori di lavoro, riuniti nelle Arti (o Corporazioni). La più nota delle rivolte urbane del Trecento scoppiò a Firenze ai primi di luglio del 1378 ad opera dei Ciompi, gli operai dell’industria tessile così chiamati dai loro padroni e nemici in senso dispregiativo. La novità del tumulto consistette nel fatto che i rivoltosi non si limitarono a chiedere aumenti salariali e concessioni di portata limitata, ma si proposero di modificare in maniera definitiva le loro condizioni di vita e i rapporti di potere all’interno della città. Chiesero perciò la creazione di un’arte di operai tessili che li tutelasse dalle pretese dei padroni e la loro partecipazione al governo cittadino, alleandosi con le arti minori, le quali pur partecipando al governo erano discriminate nell’attribuzione delle cariche pubbliche. La strategia dei rivoltosi diede all’inizio i frutti sperati. Si ottenne perciò la creazione di tre nuove arti (tra cui quella dei Ciompi) sia la presenza paritetica di tutte le arti all’interno del Priorato, la massima magistratura cittadina. I rivoltosi avanzarono richieste politiche, quali l’abolizione delle gabelle sui cereali e l’abbassamento dei prezzi dei generi di prima necessità, cercando anche di limitare la libertà di iniziativa dei mercanti-imprenditori attraverso l’elaborazione di una sorta di programmazione economica, volta a garantire investimenti certi nel settore laniero. I datori di lavoro ricorsero alla serrata, chiudendo cioè le loro botteghe, e poi alla riduzione della produzione. A quel punto si ruppe l’alleanza con le arti minori, interessate alla ripresa delle attività produttive, e i rivoltosi rimasero soli a fronteggiare la violenta reazione dei datori di lavoro e del Comune. La loro corporazione, dopo appena sei settimane da che era stata creata, fu soppressa, e più di trecento furono le condanne inflitte, di cui almeno una trentina alla pena capitale. CAPITOLO 21 Il consolidamento delle istituzioni monarchiche in Europa L’ampliamento della base territoriale e il consolidamento interno degli organismi politici dell’Europa del Tre-Quattrocento non fu un fenomeno rapido e omogeneo, bensì un processo lungo e contrastato, che si svolse nei singoli ambiti territoriali con caratteri ed esiti particolari. Il problema del ruolo di impero e papato nella politica europea si venne chiarendo agli inizi del Trecento grazie anche al rapido succedersi di eventi, che suscitarono viva impressione nell’opinione pubblica del tempo. Il primo ebbe come protagonisti il re di Francia Filippo IV il Bello e il pontefice Bonifacio VIII, della nobile famiglia romana dei Caetani, il quale era asceso al trono pontifico in mezzo ad aspri contrasti di natura politica e religiosa. La sua elezione era stata contestata sia dalle altre famiglie della nobiltà romana, tra cui soprattutto i Colonna. Il nuovo pontefice non si lasciò intimidire dalle accuse e dai sospetti, e si mosse con determinazione contro i suoi oppositori abbattendo le fortezze dei Colonna e gettando in carcere i più noti esponenti dei francescani spirituali. Nel 1300 poi, a coronamento di una serie di iniziative volte a riaffermare il ruolo centrale del papato e della Chiesa come unica dispensatrice di salvezza, indisse l’anno santo o giubileo, concedendo un’indulgenza plenaria a tutti coloro che avessero visitato le tombe degli apostoli in stato di grazia, vale a dire a dopo essersi confessati e comunicati. L’iniziativa ebbe un enorme successo, richiamando a Roma folle di pellegrini da ogni parte della Cristianità occidentale, ma di lì a qualche anno gli eventi avrebbero dimostrato che ormai il prestigio religioso non si associava più necessariamente con la capacità di intervento sul piano politico. Filippo si era impegnato in una coraggiosa opera di consolidamento dello Stato, che aveva coinvolto anche il clero, al quale nel 1296 erano stati imposti dei tributi senza l’autorizzazione della Santa Sede. Il conflitto che ne era derivato era stato risolto con un compromesso, essendo stato concesso al re il diritto di tassare il clero, in caso di grave necessità, senza il consenso di Roma. Di lì a poco il conflitto riesplose più aspro che mai, in seguito all’imprigionamento da parte di Filippo del vescovo Bernardo Saisset, assai legato al papa. Questi prima annullò la concessione fatta in precedenza al re, e poi emanò nel 1302 la bolla Unam Sanctam. Con essa riaffermava in maniera solenne la sottomissione al sovrano pontefice di ogni creatura umana: le due spade, o chiavi, simbolo del potere spirituale e temporale, erano da considerare entrambe appannaggio della Chiesa. Il pontefice, che portava così alle estreme conseguenze gli ideali teocratici di Gregorio VII e di Innocenzo III, era confortato nell’elaborazione del suo pensiero da una fitta schiera di teologi e canonisti. Filippo il Bello a sua volta, si era circondato di collaboratori dotati di buona preparazione giuridica, tra cui Guglielmo di Nogaret. Così, dopo una violenta campagna scandalistica contro il pontefice, accusato perfino di essere un materialista ateo, Filippo concepì l’ardito disegno di tradurlo davanti a un tribunale francese, per sottoporlo a giudizio. Della missione si incaricò lo stesso Nogaret, che alla testa di un manipolo di uomini, nell’autunno del 1303 raggiunse il papa nel suo palazzo di Anagni, coprendolo di insulti prima di accingersi a trascinarlo via. A quel punto però la popolazione insorse e, con l’aiuto di rinforzi giunti da Roma, riuscì a liberarlo, costringendo i Francesi a battere in ritirata. La condanna dell’azione sacrilega fu generale, ma senza nessuna conseguenza per Filippo il Bello, che anzi, essendo morto Bonifacio VIII pochi giorni dopo l’affronto subito ad Anagni, si trovò addirittura in condizione di esercitare un diretto controllo sul papato in seguito al trasferimento della sede pontificia da Roma ad Avignone. Era successo infatti che, dopo il breve pontificato di Benedetto XI, era diventato papa con il nome di Clemente V l’arcivescovo di Bordeaux, che temendo un’accoglienza ostile da parte dei Romani, preferì stabilirsi ad Avignone, dove la corte pontificia si insediò nel 1309 e dove resterà fino al 1376. Nel 1308 divenne re di Germania Enrico VII il quale tentò di restaurare l’autorità regia unendo di nuovo ad essa la dignità imperiale, per cui nell’autunno del 1310 giunse in Italia per cingere la corona di imperatore, suscitando l’entusiasmo di chi, come Dante, vedeva in lui il restauratore della pace e della giustizia. Enrico VII registrò un totale fallimento, dato che egli, dopo aver cinto con difficoltà la corona imperiale a Roma nel 1312, dovette ritirarsi a Buonconvento, presso Siena, dove morì l’anno dopo. Nel 1356, il nuovo imperatore Carlo IV, con la celebre Bolla d’oro, diede sanzione definitiva alla volontà espressa dai principi tedeschi, precisando che il diritto di elezione spettava a sette grandi elettori, tre ecclesiastici e quattro laici. In questa maniera l’impero rinunciava alle sue pretese di potere universale, configurandosi ormai sempre più come uno Stato a carattere decisamente germanico: uno Stato, tuttavia, alquanto debole, data la sua perdurante difficoltà ad attuare un’efficace opera di coordinamento degli organismi politici esistenti al suo interno. Rafforzamento del potere monarchico e riorganizzazione dello Stato erano invece in atto in Inghilterra fin dal Duecento. Negli anni seguenti Enrico III cercò a più riprese di svuotare di contenuto le concessioni operate dal suo predecessore, suscitando una rivolta dei baroni, ai quali si unirono la piccola nobiltà e le maggiori città del regno. Il risultato fu un rafforzamento delle conquiste sancite dalla Magna charta, dato che del Consiglio comune del regno furono chiamati a far parte anche due rappresentanti della piccola nobiltà (gentry) per ogni contea e due borghesi per ogni città direttamente dipendente dalla corona. Il Consiglio, che intanto aveva preso il nome di Parlamento a aveva cominciato a riunirsi sempre più di frequente, nel 1340 si articolò in una Camera dei pari, comprendente tutti i grandi nobili e gli alti ecclesiastici del regno, e in una Camera dei comuni (cioè della gente comune), che accoglieva i rappresentanti della piccola nobiltà, del basso clero e delle città. Il contemporaneo consolidamento delle istituzioni politiche in Francia e in Inghilterra e l’aspirazione di entrambi i regni a dare continuità e compattezza al proprio territorio si scontravano con la realtà di una monarchia, quella inglese, il cui titolare, in quanto detentore di grandi feudi in Francia, si trovava a essere vassallo del re di Francia. A ciò si aggiungeva la concorrenza che le due monarchie si facevano nel controllo delle Fiandre, ed un terzo terreno di scontro era la Scozia, che i re inglesi volevano sottomettere mentre i re francesi volevano tutelarne l’autonomia. giungesse nel 1295 al Trattato di Anagni, col quale il nuovo re d’Aragona Giacomo II, in cambio dell’investitura del regno di Sardegna e Corsica, accettò il ritorno della Sicilia agli Angioini di Napoli. Ma i Siciliani si ribellarono ancora una volta e offrirono la corona a Federico, figlio di Giacomo. La rinnovata pressione diplomatica del pontefice portò nel 1302 alla stipula del Trattato di Caltabellotta, in base al quale Federico fu riconosciuto re, ma con il titolo di “re di Trinacria” e con l’intesa che alla sua morte l’isola sarebbe tornata agli Angioini. Le cose andarono diversamente perché dopo la sua morte la Sicilia rimase ancora al ramo cadetto della dinastia aragonese, con la dinastia angioina sempre più in crisi. CAPITOLO 23 Chiusure oligarchiche e consolidamento delle istituzioni in Italia centro- settentrionale Nel corso del Trecento si generalizzarono dei processi che all’inizio sembrava dovessero interessare solo alcune città e che portarono molto presto a una semplificazione del quadro politico. Alla base di essi c’era anche l’intraprendenza di grandi famiglie dell’aristocrazia feudale, che facendo leva sia sulle clientele vassallatiche dei loro domini rurali sia su collegamenti con potenti consorterie nobiliari delle città, diedero una forte spinta alla crisi delle istituzioni comunali e alla loro evoluzione in senso signorile. Non dovunque il passaggio dal Comune alla Signoria fu un atto definitivo e irreversibile. Gli esempi più numerosi sono offerti dalla Toscana, dove le istituzioni comunali mostrarono una certa vitalità ancora per tutto il Trecento, per cui si ricorse alla signoria solo per brevi periodi e per far fronte a circostanze eccezionali. Nel settembre 1342 fu la volta di Firenze. Artefice dell’operazione fu uno spiantato avventuriero francese, Gualtieri di Brienne, che era protetto da Roberto d’Angiò e si attribuiva il titolo di duca di Atene. Impadronitosi del potere, concepì l’ardito disegno di instaurare una sua personale signoria, eliminando dal governo della città non soltanto il “popolo grasso”, ma anche i “grandi” che lo avevano sostenuto: fu cacciato già nel luglio dell’anno dopo con un’insurrezione generale che vide la mobilitazione di tutti i gruppi sociali. Il fatto è che l’avvento del popolo al governo del Comune, là dove si era realizzato, aveva comportato un allargamento degli spazi di iniziativa politica, che si era rivelato troppo ampio rispetto alle possibilità di società, che, nonostante lo sviluppo dei commerci e delle attività produttive, continuavano in larghissima parte ad essere suggestionate dai valori e dallo stile di vita aristocratico. Il fenomeno più diffuso nel corso del Tre-Quattrocento fu la nascita di un patriziato cittadino, risultante della convergenza di vecchio ceto cavalleresco e alta borghesia, tendenzialmente chiuso e compatto nel frenare l’ascesa sociale e politica di nuove famiglie, ma nello stesso tempo con un più alto livello culturale e con un gusto per il lusso e il mecenatismo, che sarà una delle componenti fondamentali della civiltà del Rinascimento. Il caso più notevole è quello di Venezia, nella quale il ceto dirigente aristocratico-borghese non solo cominciò a chiudersi, ma addirittura diede sanzione istituzionale a quella che sembrava solo una linea di tendenza, attuando nel 1297 la cosiddetta Serrata del Maggior consiglio, grazie alla quale l’acceso al principale organo di governo della repubblica veniva praticamente riservato alle famiglie che già ne avevano fatto parte nei precedenti quattro anni; i nuovi ricchi e quanti avessero fatto fortuna nel futuro avrebbero potuto entrarne a far parte solo su proposta del doge e del suo consiglio. Il patriziato fiorentino nella seconda metà del Trecento ancora scarsamente solidale al suo interno e la cui egemonia nella società e nel Comune era continuamente scossa da difficoltà di ogni genere, in gran parte di origine esterna: crollo delle grandi banche, peste nera del 1348, agitazioni di salariati culminate nella rivolta del 1378. Queste ultime crearono le condizioni perché alcune famiglie potenti tentassero in occasione del tumulto dei Ciompi nel 1378 un colpo di mano, sposando la causa del popolo minuto. Il fallimento della rivolta rafforzò le Arti maggiori e la coesione del patriziato cittadino, anche se questo non pose fine alle lotte tra le varie famiglie e ne uscì annientata la famiglia degli Alberti. Allo stesso destino sembravano avviati i Medici, che si erano esposti troppo con Salvestro, che fu condannato solo all’esilio e non anche alla confisca dei beni come gli Alberti. Intanto, mostrando apparentemente distacco nei riguardi delle rivalità interne al gruppo degli oligarchi, i discendenti di Salvestro dei Medici erano fortemente impegnati ad accumulare ricchezze e beni fondiari nel Mugello, cercando nello stesso tempo di accrescere il loro prestigio di mercanti- banchieri. Artefice delle fortune della famiglia fu Giovanni e suo degno erede fu Cosimo, il quale mostrava di volersi dedicare soprattutto agli affari e di preferire la pace delle sue proprietà del Mugello ai contrasti e alle tensioni della vita politica cittadina. Le gravi difficoltà finanziarie in cui si dibatteva il governo degli oligarchi, provocarono l’emergere all’interno del patriziato di una corrente moderata incline ad attribuire a Cosimo de Medici un ruolo di maggiore influenza nel governo di Firenze. Rinaldo degli Albizzi allora, rendendosi conto della sua difficile posizione, ai primi di settembre del 1433 fece arrestare Cosimo, ma non riuscì a condannarlo a morte, quindi lo mandò in esilio a Padova. Quello che doveva essere un provvedimento punitivo diventò un trionfo per Cosimo, che il 29 settembre 1434 fu richiamato in patria. Cosimo de Medici dava inizio alla sua “criptosignoria”, destinata a durare trent’anni, durante i quali esercitò il potere senza ricoprire cariche e senza assumere atteggiamenti dittatoriali, ma lasciando in vigore le istituzioni comunali e collocando nei posti di comando amici e fautori. La formazione delle Signorie coincise in Italia con l’avvio di una serie di tentativi espansionistici, che portarono alla semplificazione del quadro politico della penisola attraverso la creazione di organismi politici di più vaste dimensioni. Il Ducato di Milano appariva proiettato, sul finire del Trecento, ad assestarsi su un territorio coincidente a un di presso con l’attuale Lombardia. La tendenza alla formazione di Stati a dimensione regionale affiorava fra Tre e Quattrocento non solo in area lombarda ma anche nel resto dell’Italia centro-settentrionale, e questo a prescindere dal tipo di governo, signorile o repubblicano. Significativo è il caso di Firenze che dopo essersi a lungo battuta contro i Visconti in nome della libertà dal tiranno, imboccò essa stessa la strada delle conquiste territoriali, arrivando intorno al 1450 a controllare un territorio che comprendeva gran parte dell’attuale Toscana. L’espansionismo di Venezia cominciò un po’ più tardi e fu il risultato di una svolta nella sua politica estera. E’ vero che già verso la metà del Trecento la “Serenissima Repubblica di San Marco” era stata costretta a impegnarsi più volte sulla terraferma, per bloccare l’avanzata degli Scaligeri, ma questo non l’aveva distolta dal suo obiettivo principale, che era il dominio del Mediterraneo orientale e dei mercati che su di esso gravitavano: obiettivo che la pose in aperto conflitto con Genova. La lunga guerra che ne seguì fu combattuta dalle due repubbliche con alterna fortuna, finché negli anni 1380-1381 sembrò volgere decisamente a favore dei Genovesi, che si insediarono a Chioggia. Contemporaneamente Venezia veniva minacciata anche da terra da una forte coalizione che vedeva uniti i Carraresi di Padova, il patriarca di Aquileia, il duca d’Austria e il re d’Ungheria. Nell’ora del pericolo i Veneziani investirono la base genovese di Chioggia, capovolgendo la situazione. Fu possibile così nel 1381, grazie alla mediazione di Amedeo VI di Savoia, stipulare a Torino un trattato di pace. Contemporaneamente cresceva in Piemonte la potenza dei conti di Savoia, con quasi l’intero Piemonte che si ridusse sotto il loro controllo. Anche lo stato pontificio mirò alla creazione di una salda dominazione territoriale, giustificata dall’esigenza di tutelare la libertà della Chiesa. A farsene promotore era stato Innocenzo III, ma il progetto si andò realizzando nel corso del Duecento, portando alla fine del secolo all’individuazione di un territorio, destinato a mantenersi sostanzialmente stabile nei suoi confini fino all’Unità d’Italia e comprendente grosso modo le attuali Lazio, Umbria, Marche e buona parte dell’Emilia-Romagna. Contemporaneamente si cercò di trasformare il dominio papale in governo effettivo, dividendo il territorio in sette province, ognuna delle quali retta da un preside o rettore. Si trattava di un equilibrio assai precario, continuamente scosso dalla vitalità dei maggiori centri urbani e delle più aggressive dinastie signorili. La situazione peggiorò di molto con il trasferimento della curia papale ad Avignone. Particolarmente agitata era la situazione a Roma, in balia delle fazioni cittadine e immiserita dalla riduzione del flusso dei pellegrini. Il contrasto tra la realtà misera del presente e i ricordi dell’antica grandezza crearono le condizioni per la singolare avventura di Cola di Rienzo. Facendo leva sull’esasperazione del popolo, riuscì nel maggio del 1347 a sollevarlo contro la nobiltà e impadronirsi del potere, convocando per il 1° agosto un’assemblea dei signori italiani e dei rappresentanti dei Comuni. L’entusiasmo che queste iniziative suscitarono non valsero però a fargli perdonare gli eccessi della sua dittatura, per cui, trovandosi indifeso davanti alla reazione della curia avignonese e della nobiltà, fu costretto nel dicembre seguente a lasciare la città. Si recò allora in Germania presso l’imperatore Carlo IV di Boemia, ma fu arrestato e condotto ad Avignone da papa Innocenzo IV. Inaspettatamente il papa lo accolse bene, decidendo addirittura di usarlo nel tentativo di riprendere il controllo di Roma. Nell’agosto del 1354 pertanto Cola, investito del titolo di senatore, fece ritorno a Roma. La sua seconda avventura fu ancora più breve e tragica della prima, perché privo com’era di reali capacità di governo, si alienò ancora una volta le simpatie del popolo. CAPITOLO 24 Al di là dei confini dell’impero. Le altre realtà politiche del continente euro-asiatico Sotto l’alta sovranità dell’impero fu per qualche tempo anche il territorio dei Cavalieri teutonici, un ordine religioso-cavalleresco che dalla Palestina si era trasferito in Europa quando ormai appariva segnata la sorte degli Stati crociati, per impegnarsi nella colonizzazione ed evangelizzazione dei territori oltre l’Elba e lungo le coste del Baltico, ancora abitati da popolazioni pagane. I membri dell’ordine si dividevano in quattro categorie: i cavalieri, provenienti dalla nobiltà e dall’ambiente dei ministeriali; i preti, che dovevano essere in ogni convento in un numero pari alla metà dei cavalieri. La cellula di base era il convento, abitualmente collocato in un castello, in cui dovevano risiedere almeno dodici cavalieri e sei preti. C’erano poi i capitoli provinciali, tra cui quello della Prussia, che si configurò ben presto come un vero e proprio organo di governo di uno Stato sovrano. Il territorio prussiano fu diviso in circoscrizioni, ognuna delle quali era governata da un economo (komtur), che era anche il superiore del locale convento. L’avanzata dei Cavalieri teutonici proseguì nel corso del Trecento lungo le coste balcaniche fino all’Estonia. I metodi spesso assai brutali, da loro adoperati nei confronti dei Lituani e delle popolazioni soggette in generale, rese però il loro dominio sempre più inviso. Questo facilitò la controffensiva dei Polacchi, che il 15 luglio del 1410 inflissero loro una terribile sconfitta a Tannenberg, nella Prussia orientale. Una volta infranto il mito della superiorità militare dei Cavalieri teutonici, fu tutto un susseguirsi di rivolte di città e signori laici, che preferirono porsi sotto la sovranità della Polonia. Nel 1466, con la pace di Thorn, l’ordine dovette cedere a questa la Prussia orientale con città di Danzica, conservando il resto della Prussia in condizione di vassallaggio. Tentò una riscossa agli inizi del Cinquecento, ma ancora una volta fu sconfitto. Avvenne allora un fatto del tutto inatteso: il Gran maestro Alberto del Brandeburgo aderì al Protestantesimo, sciolse l’ordine e si proclamò duca, sotto l’alta sovranità del re di Polonia. Un’altra grande costruzione politica fu quella del principato di Mosca, che agli inizi del Quattrocento era impegnato a risollevarsi dalla sconfitta subita dai Tartari nel 1382 e a estendere il suo predominio sugli altri principati russi del bacino dell’alto e medio Volga. Il concilio di Firenze del 1439 sancì l’unione fra Chiesa greco-ortodossa e Chiesa latina sotto l’autorità del pontefice di Roma. Ad esso partecipò anche il metropolita russo Isidoro, ma al suo ritorno a Mosca nel 1441 fu arrestato su ordine del principe Vasilj il Cieco, il quale temeva che il riconoscimento dell’autorità papale comportasse una riduzione della sua influenza sull’episcopato russo e un rafforzamento di Polonia e Lituania, da tempo legate a Roma. Nel 1459 il sinodo dei vescovi russi, approfittando anche della caduta di Costantinopoli in mano ai Turchi nel 1453, riservò a sé la scelta del metropolita di Mosca, a dare nuova linfa alla lotta degli eretici contro la “carnalità” della Chiesa. La soluzione fu trovata alla fine nella convocazione di un concilio universale che, deponendo l’uno o l’altro papa o entrambi, riportasse l’unità tra i cristiani. Ed effettivamente un concilio fu convocato nel 1409 a Pisa, dove furono deposti sia Gregorio XII sia Benedetto XIII, dichiarati scismatici ed eretici, e fu eletto un nuovo papa, Alessandro V. Ma l’iniziativa si rivelò tutt’altro che felice: l’autorità del concilio pisano non fu riconosciuta dalla maggior parte del mondo ecclesiastico, per cui ai due pontefici, se ne aggiunse un terzo. Il modo poco efficace in cui era stato organizzato il Concilio di Pisa non tolse vigore alla convinzione sempre più diffusa tra teologi e canonisti che fosse il concilio la sede più idonea per risolvere lo scisma, ma anche per avviare l’opera di riforma della Chiesa. I padri conciliari si riunirono a Costanza, in Germania, il 5 novembre 1414: il 6 aprile 1415 fu approvato il decreto Haec Sancta, secondo il quale il concilio universale, in quanto rappresentante della Chiesa militante, deriva il suo potere direttamente da Cristo e quindi ha autorità su tutti i cristiani, compreso il papa. Successivamente fu deposto prima Giovanni XXIII, poi Benedetto XIII, mentre Gregorio XII, dimessosi spontaneamente, fu nominato cardinale. Un conclave di brevissima durata procedette all’elezione di Martino V. Il 30 ottobre del 1417 fu approvato il decreto Frequens: in base ad esso i concili generali si sarebbero dovuti riunire ogni dieci anni, ad eccezione del primo, da convocare dopo cinque anni, e del secondo dopo sette, ed effettivamente i concili si svolsero. Nel frattempo a Martino V era succeduto Eugenio IV, il quale vista la piega che stava prendendo il concilio e ritenendosi impotente a mantenerne il controllo, ordinò ai partecipanti di sospendere i lavori e di trasferirsi in Italia, indicando come sede Firenze, dove sarebbero convenuti anche prelati e teologi greci per la riunificazione della Chiesa orientale con quella romana. La decisione papale non fece però che ridare vigore alle tesi dei conciliaristi più animosi, che erano in maggioranza e che si rifiutarono di obbedire al papa. Restarono perciò a Basilea e come prima cosa processarono Eugenio IV, dichiarandolo decaduto e dandogli come successore nel novembre del 1439 Felice V. E così, mentre a Firenze si celebrava effettivamente l’unione delle due Chiese, e si metteva fine, sia pur temporaneamente, allo scisma d’Oriente, un’altra scissione si operava nella Cristianità d’Occidente. Si trattò però questa volta di uno scisma di breve durata, dato che i padri conciliari non riuscirono a risolvere i contrasti che nel frattempo erano sorti al loro interno, per cui, trasferitisi a Losanna, finirono nel 1449 con il riconoscere nuovamente il pontefice romano Niccolò V, mentre Felice V tornava nel suo monastero. La crisi del movimento conciliarista mostrava chiaramente come fosse arduo mettere mano a un’effettiva opera di riforma della Chiesa e come i problemi aumentassero al posto di diminuire quando si tentava di indebolire la monarchia papale, sovrapponendo ad essa assemblee ingovernabili di dotti e di prelati. Gli stessi principi si resero conto che la strada migliore per il rafforzamento del loro potere era quella di stabilire con il papato degli accordi, scritti o taciti, che salvaguardassero i loro reciproci interessi, delimitando in maniera chiara le rispettive sfere di influenza. In questa direzione già si stavano muovendo da tempo le più forti monarchie europee, le cui Chiese si vennero configurando fin dagli inizi del Quattrocento come delle entità dotate di una certa autonomia nei confronti di Roma. CAPITOLO 26 Alla ricerca di un difficile equilibrio. Politica e cultura nell’Italia del Quattrocento La caduta di Costantinopoli, se suscitò in Europa un’enorme impressione, non valse a far adottare misure concrete per scongiurare il pericolo di un’ulteriore espansione dei Turchi. I maggiori regni europei erano infatti alle prese con gravi problemi di riassetto interno dopo le crisi dinastiche e i conflitti sociali, che li avevano sconvolti fra Tre e Quattrocento, mentre gli Stati italiani apparivano esausti dopo i ripetuti quanto inutili tentativi, compiuti ora dall’uno ora dall’altro, per stabilire la propria egemonia sulla penisola. Dopo più di venti anni di guerre il Ducato di Milano si ritrovava in preda al marasma più completo, perché numerose città e signorie locali si affrettarono a recuperare la loro autonomia, mentre Firenze, nonostante le ingenti somme investite, non aveva conseguito vantaggi territoriali. Chi invece poteva ritenersi pienamente soddisfatta era Venezia, che, diversamente da Genova, si era già da tempo impegnata in una politica espansionistica a vasto raggio sia in Italia sia in Dalmazia. Il doge Francesco Foscari pensò di trarre vantaggio dalla crisi di Milano. Vistisi alle strette, i Milanesi non trovarono di meglio che affidare la difesa della repubblica a Francesco Sforza, il quale effettivamente respinse i Veneziani, sconfiggendoli a Caravaggio nel 1448; di lì a poco, sfruttando il successo conseguito e appellandosi ai diritti che gli derivavano dal matrimonio con Bianca Maria Sforza, si fece proclamare duca nel 1450. Venezia tuttavia non si diede per vinta e, stretta un’alleanza con il duca di Savoia e il re di Napoli, riprese l’offensiva contro Milano. La guerra si trascinava ormai da tre anni quando giunse la notizia della caduta di Costantinopoli, seguita dall’appello del papa alla crociata contro i Turchi. Venezia allora ne approfittò per mettere fine alla guerra e concentrare di nuovo la sua attenzione sul Mediterraneo orientale, dove l’avanzata dei Turchi avrebbe prima o poi investito i suoi possedimenti. Si giunse così alla pace di Lodi, firmata il 9 aprile del 1454, che sancì definitivamente l’ascesa di Francesco Sforza al Ducato di Milano e il riconoscimento delle conquiste veneziane in Lombardia. A rendere più salda la pace raggiunta, Milano, Venezia e Firenze diedero vita a una Lega italica, estesa l’anno seguente al papa, al re di Napoli e a Borso d’Este, che si riprometteva di mantenere gli equilibri politici esistenti nella penisola. Nella politica italiana della seconda metà del Quattrocento Firenze svolse un ruolo di gran lunga superiore alla sua forza militare e alla sua consistenza territoriale. Il merito fu tutto dei suoi governanti, prima Cosimo de Medici poi il nipote Lorenzo il Magnifico, che seppero condurre una politica estera assai abile. Quella dei Medici era solo una supremazia di fatto e non una signoria legittima, perciò non mancavano a Firenze famiglie che ritenendo i giochi ancora aperti, non si sentivano escluse dalla lotta per il potere. Già il padre di Lorenzo aveva dovuto fronteggiare nel 1466 una congiura che faceva capo al ricchissimo Luca Pitti; ora un nuovo e molto più pericoloso colpo di mano fu tentato contro Lorenzo e il fratello Giuliano attraverso il collegamento tra oppositori interni e nemici esterni. All’origine di tutto è da porre la politica nepotistica di Sisto IV, il quale pretendeva dai Medici il denaro per riscattare Imola dal duca di Milano e darla in signoria al nipote Girolamo Riario. Essendosi essi rifiutati, tolse loro la gestione delle finanze papali, affidandola alla famiglia dei Pazzi, che acconsentì a versare la somma richiesta. La situazione peggiorò di lì a poco, quando il pontefice nominò arcivescovo di Firenze Francesco Salviati, parente dei Pazzi. In seguito all’opposizione di Lorenzo, Salviati fu trasferito a Pisa, ma i Pazzi non si diedero per vinti e ordirono una congiura in accordo con Salviati e con Girolamo Riario, che vedeva nei Medici un ostacolo all’ingrandimento della sua signoria romagnola. Il colpo fu fissato per il 26 aprile 1478, giorno dell’arrivo a Firenze del cardinale Raffaele Riario Sansoni, anch’egli nipote di Sisto IV. Durante la funzione liturgica nel duomo alcuni sicari si avventarono sui due fratelli: Giuliano rimase ucciso, mentre Lorenzo fu ferito e riuscì a rifugiarsi in sacrestia, le cui porte furono sbarrate dal poeta e umanista Angelo Poliziano. La reazione popolare ce ne seguì provocò la morte di molti dei Pazzi e dello stesso arcivescovo Salviati, mentre Sansoni, sospettato di complicità, fu trattenuto in ostaggio. La reazione del papa fu immediata. Lorenzo, considerato responsabile della violenza contro i due cardinali, fu scomunicato e Firenze fu colpita dall’interdetto. Sisto IV riuscì poi a trarre dalla sua il re di Napoli e Siena, e a sconfiggere Firenze a Poggio Imperiale senza però chiudere la partita. Lorenzo si recò allora a Napoli, riuscì a portare il re Ferrante dalla sua parte e a lasciare solo il papa, che fu costretto a scendere a patti, per cui nel marzo del 1480 fu firmato un accordo che prevedeva il ritorno alla situazione anteriore allo scoppio della crisi. Con la morte di Lorenzo il Magnifico e di Innocenzo VIII nel 1492, seguita due anni dopo da quella di Ferrante, finì il periodo in cui fu possibile circoscrivere e risolvere rapidamente i conflitti locali, e iniziò un’età drammatica di guerre e invasioni per il predominio in Italia da parte delle maggiori potenze europee; e ciò proprio in un periodo in cui il paese viveva in una straordinaria fase di fioritura culturale, dando con l’Umanesimo e il Rinascimento un contributo fondamentale alla civiltà moderna, grazie anche all’opera di personaggi di cui abbiamo parlato finora soltanto come uomini di Stato. L’ideale della nuova cultura umanistica era quello di riprendere il colloquio con gli autori antichi, per farne i nuovi modelli di formazione e quindi per imitarli. Lorenzo il Magnifico si pose l’obiettivo assai ambizioso di giungere a una fusione tra Umanesimo e Cristianesimo, un’elaborazione di una cultura universale, valida per tutti i popoli. Il fatto è che l’Umanesimo recava in sé un’ambiguità di fondo: l’esaltazione del mondo classico e quindi della cultura pagana andò inevitabilmente al di là dell’ambito letterario, configurandosi come una componente non secondaria di quell’altissima considerazione della dignità dell’uomo e delle sue molteplici capacità. Ne derivava un problema di rapporti con il Cristianesimo, che i più tendevano a eludere, essendo portati a credere che nella religione colta delle elites, sapienza antica e messaggio cristiano si integrassero in maniera spontanea e che il popolo potesse continuare a praticare una forma inferiore di religione. Il movimento umanistico, anche se coinvolse i dotti di ogni parte d’Italia, ebbe tuttavia i suoi punti di forza in alcuni centri e in alcuni gruppi di intellettuali. Innanzitutto Firenze, culla dell’Umanesimo. La protezione che il Magnifico assicurò a letterati e artisti fu un elemento non secondario del suo apparato di potere, che generò consenso all’interno e prestigio all’esterno. Solo Roma riuscì a tenere il passo con Firenze, e poi a sopravanzarla agli inizi del Cinquecento, grazie al mecenatismo dei papi e alle opere grandiose da loro intraprese. Inoltre, dalle proprie corti, i mecenati traevano anche gli ambasciatori: si trattava di una figura nuova nel panorama politico della penisola, destinata nel secolo seguente a diventare familiare all’intero sistema degli Stati europei.
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved