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Riassunto "del principe e delle lettere" di Vittorio Alfieri, Sintesi del corso di Letteratura Italiana

Riassunto "del principe e delle lettere" di Vittorio Alfieri

Tipologia: Sintesi del corso

2016/2017
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Caricato il 25/05/2017

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Scarica Riassunto "del principe e delle lettere" di Vittorio Alfieri e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! DEL PRINCIPE E DELLE LETTERE LIBRO PRIMO AI PRINCIPI, CHE NON PROTEGGONO LE LETTERE. “La forza governa il mondo, (pur troppo!) e non il sapere”: con queste parole Alfieri delinea già la struttura del primo libro della sua opera, ovvero che il principe che protegge le lettere, lo fa per mera vanità e per ambizioso lusso. Solo con le lettere e analogamente con gli scrittori, il principe avrà il massimo elogio e fama per le imprese mediocri, perché chi è grande non lo è per se stesso, ma per chi lo rende. E spesso i più rari ed alti ingegni si prostituiscano a dar fama ai più infimi; e tentando d’ingannare i posteri, gli scrittori disonorino la loro arte e se stessi. Il primo libro tratterà dell’aderenza del principe con le lettere. CAPITOLO PRIMO. SE IL PRINCIPE DEBBA PROTEGGER LE LETTERE. Per il principe le sacre lettere sono il mezzo migliore per fare guadagno, ma i letterati sono inutili al ben pubblico in quanto talvolta dannosi e nocivi alla perfetta obbedienza, simili a degli indagatori di cose che debbono rimanere nascoste. Nel primo libro Alfieri si propone di trattare le ragioni secondo le quali il principe debba o no proteggere le lettere. CAPITOLO SECONDO. COSA SIA IL PRINCIPE. Per Alfieri la la parola PRINCIPE comporta <Colui, che può ciò che vuole, e vuole ciò che più gli piace; che del suo operare non rende ragione a nessuno. Colui ì, che in mezzo agli uomini sta come starebbe un leone fra un branco di pecore, non ha legami con la società, se non quelli di padrone a schiavo; non ha superiori, nè eguali, nè parenti, nè amici. Si crede di una specie diversa da quella degli altri uomini; dovuto anche a coloro che obbediscono a lui ciecamente, in un rapporto di inferiorità. Il principe, poco propenso a ragionare, riconosce come unica distinzione tra gli uomini la “maggior forza”, non quella fisica ma quella di opinione degli uomini “venduti delle principesche volontà”. Dato che il principe vede il resto degli uomini dall’alto al basso, egli crede che il sommo è colui che comanda un maggior numero d’altri uomini, così da stimare se stesso sopra ogni cosa, e a proteggere nel suo branco coloro che di più gli obbediscono. CAPITOLO TERZO. COSA SIANO LE LETTERE. Le vere lettere sono difficili da definire, ma esse sono contrarie alla indole, ingegno, capacità, occupazioni, e desideri del principe: e infatti nessun principe fu mai un vero letterato, nè lo può essere. Come può il principe proteggere di una così alta cosa, di cui non è capace? Se le lettere sono l’arte di insegnare divertendo, e di commuovere, coltivare, e di indirizzare bene le passioni umane; come mai lo sviluppare il cuore dell’uomo, l’indurlo al bene, il distoglierlo dal male, l’ingrandir le sue idee, il riempirlo di nobile ed utile entusiasmo, l’inspirargli un bollente amore di gloria verace, il fargli conoscere i suoi sacri diritti, potranno avere questo effetto se subordinate ai voleri di un principe? E come promuoverà il loro sviluppo? Le lettere nate nel principato saranno caratterizzate da una grande eleganza espositiva, rispetto alla “forza del pensare”. Quindi, le verità importanti provenienti dai sommi letterati (la di cui grandezza è proporzionale all’utile che arrecassero agli uomini) non sono stati mai nate nel principato, perché la libertà li fa nascere, l’indipendenza le educa, il non temer li fa grandi; e il non essere mai stati protetti, rende i loro scritti poi utili alla più lontana posterità. Fra i letterati di principe saranno dunque da annoverarsi Orazio, Virgilio, Ovidio, Tibullo, Ariosto, Tasso, Racine, e molti altri moderni. Mentre quei lampi di verità, meno eleganti, sono assai meno letti, e che essendo più veritieri, incalzanti, e feroci, sono assai meno sentiti da tutti perché non sono mai graditi dal principe, ad esempio sono quelli di Demostene, Tucidide, Eschilo, Sofocle, Euripide, Cicerone, Lucrezio, Sallustio, Tacito, Giovenale, Dante, Machiavelli, Bayle, Montesquieu, Milton, Locke, Robertson, Hume, e tanti altri scrittori del vero, che se tutti non nacquero liberi, almeno vissero indipendenti, e non protetti da nessuno. CAPITOLO QUARTO. QUAL FINE SI PROPONGA IL PRINCIPE, E QUALE LE LETTERE. Il fine e l’interesse del principe sono opposti da quelli del vero letterato. Il principe vuole che i suoi sudditi siano ciechi, ignoranti, avviliti, ingannati ed oppressi; perché altrimenti egli cesserebbe di esistere in quanto perderebbe quel posto privilegiato rispetto ai suoi inferiori. Il letterato vuole che i suoi scritti portino agli uomini luce, verità e diletto. Il principe si propone come suo fine una illimitata ed eterna potenza; oppure potenza ed impero; il letterato solo la gloria, unita all’utile dell’universale. L’utile dei più però non può 5 essere l’utile del principe, il quale dipende dalla cecità e danno dei più. Quindi non possono ne devono concordare. Eppure spesso sono riuniti dal desiderio di gloria immeritata nei principi, e di falsi onori e di ricchezze non lecite nei letterati; quest’ultimi manifestandosi indegni dell’alto incarico di giovare all’universale col loro ingegno. CAPITOLO QUINTO. IN QUAL MODO I LETTERATI PROTETTI GIOVINO AL PRINCIPE. Il miglior mezzo per il principe di avere fama è quella di farsi accerchiare dagli scrittori, di proteggerli e onorarli ed essi sono alla base della letteratura cortigiana, cioè coloro che con una certa eleganza di stile si fanno ascoltare in ogni corte europea. Se sorge alcun scrittore più grande di loro, sono abili nel tenerlo avvilito, nell’avversarlo. Il principe, per naturale sua indole, pende sempre maggiormente per i mediocri; o come più vicini alla capacità sua, e perciò meno offendenti della sua ideale superiorità; o come più inclini al tacere, o al parlare a modo suo. Anche i più grandi ingegni si sono spesso adagiati alla vita di corte, grazie ai doni e agli onori offertogli dal principe protettore. Astuto è quindi quel principe che protegge i mediocri perchè da essi ottiene la “sua glorietta”, mentre dai grandi ne ottiene spessissimo il disonore di se stessi, che gli arrecherebbero assai più danno di quanti onori possano contribuirgli i mediocri. CAPITOLO SESTO. CHE I LETTERATI NEGLETTI ARRECANO DISCREDITO AL PRINCIPE. Dunque i letterati protetti portano al principe “Glorietta”, splendore, lustro e quiete, mentre quelli avversi al principe solo discredito. Nel sistema settecentesco in Europa, quasi tutti i principi finanziano degli accademici. Quindi un principe che trascura le lettere, corre il rischio che qualche letterato trovi pane ed onore in casa di un altro principe. I letterati che lodano il principe, finiscono per lodare colui che opera in modalità avversa a ciò che predicano le lettere, oltraggiandole. Seppur però il principe svergogni le lettere sane veritiere, in quanto hanno fini diversi, il letterato protetto pone in discredito se stesso e la loro arte messa in secondo piano rispetto alla loro protezione. CAPITOLO SETTIMO. CHE I LETTERATI PERSEGUITATI RIESCONO D’INFAMIA E DANNO AL PRINCIPE. Il principe che perseguita i letterati sani, quelli che mirano alla verità, sbaglia, in quando reca più danno alla sua immagine. L’unico modo affinchè le lettere possano nuocere al principe è farsele nemiche, mostrando di temerle. Il principe si difende perseguitandoli come unico mezzo a sua disposizione per affrontare coloro che lo biasimano per iscritto; ma non vi sarebbe nessun guadagno per il principe in quanto rimarrà sempre un altro asilo in Europa dove il letterato perseguitato si scaglierà contro il principe. CAPITOLO OTTAVO. CHE IL PRINCIPE, QUANTO A SE STESSO, DEE POCO TEMERE CHI LEGGE, E NULLA CHI SCRIVE. Nel capitolo 8 Alfieri identifica il timore come norma silenziosa di ogni uomo che influenza l’arbitrio di molti altri e proprio per questo i moderni principi non dovranno perseguitare i letterati, in quanto quest’ultimi, per quanto esser possano caldi, ed anche entusiasti, rarissimamente sono da temersi per se stessi; o sia, perchè la loro vita molle e sedentaria li rende poco abili nell’agire. Da temersi dunque sarebbero soltanto i loro scritti. Ma chi è, che le legge? Non il popolo, che appena sa leggere; sepolto nei pregiudizi, avvilito dalla servitù, fatto stupido dalla povertà, non ha nè tempo, nè mezzi, nè aiuti, per imparare a riconoscere i propri diritti. Leggono veramente nel principato i pochi uomini rinchiusi nelle città; cioè quei pochissimi, che non bisognosi di lavorare per campare, non desiderosi di cariche, non influenzati dai vizi, non invidiosi dei grandi, cercano nei libri un dolce sollievo per l’anima “e un breve compenso alle umane miserie”. Questi pochi lettori non potrebbe spaventare il principe perché “leggere, secondo Alfieri, vuol dire profondamente pensare; pensare, vuol dire starsi; e starsi, vuol dir sopportare”. E lo dimostra la storia, si vedrà che tutti i popoli che passarono dalla servitù alla libertà, avvenne per “un qualche entusiasmo saputo loro inspirare da alcuna mente illuminata, astuta, e focosa: non una mente rinchiusa nell’ozio degli studi ma pensante per se stessa; un pensare che nasce da un sentimento naturale e profondo; ad esempio Giunio Bruto, Guglielmo Tell, Guglielmo di Nassau, Washington, e altri pochi grandi che idearono od eseguirono rivoluzioni importanti, non erano letterati di professione. Secondo Alfieri, paradossalmente, più sono i lumi sparpagliati fra gli uomini, e più parlano e meno agiscono, basti vedere Parigi (periodo prerivoluzionario). Alfieri non nega che a lungo andare, lo spirito dei libri non si inglobi nello spirito dei popoli e penetri negli 5 Virgilio le lodi di Augusto, a Tasso e Ariosto degli Estensi essi sarebbero giudicati <per la loro luce, diletto e utilità> mentre Alfieri rifiuta tale protezione da parte dei principi per far ottimizzare la scrittura; infatti se i principi seguissero la loro educazione e conoscessero gli uomini, essi mediante la loro indipendenza dagli altri, potrebbero essere degli scrittori per eccellenza perché nessun rispetto o timore lo porterebbe a tacere o ad alterare la verità; quella verità che sarebbe a loro dannosa, ma ciò non potrà mai accadere. Quell’uomo privato, che potrà in se stesso riunire la indipendenza tutta del principe e riunire in se la educazione del cittadino, l’ingegno, i costumi, la conoscenza degli uomini, l’amor del retto e del vero, egli sarà uno dei tanti ottimi scrittori che non ci siano mai stati. Ammettendo il principio che permette allo scrittore di riunire utile altrui e gloria per se, si noterà che il sublime scrittore non potrà essere uno stipendiato del principe o un abate aspirante di benefici, o padre o figlio o marito o militare o qualunque altro uomo che abbia bisogno del pane e che non abbia mai pensato alla <vergogna del mal scrivere o a desiderare fama e pregi>. Rimanendo esclusi dallo scrivere molti non-uomini, Alfieri si riferisce ai letterati veri che non possono lasciarsi proteggere dal principe; che devono seguire il loro dovere di professare sempre e dire con energia la verità. CAPITOLO SECONDO. SE LE LETTERE, CHE SEMBRANO INSEPARABILI DAI COSTUMI CORROTTI, NE SIANO LA CAGIONE, O L’EFFETTO. Atene sola riunì libertà e belle arti; valor militare e scienze; ricchezza e costumi, per poco tempo durò questo fermento di cose contrarie fra loro: le ricchezze il buon gusto e le arti aumentarono, la libertà il valore, i costumi poco a poco sparirono. Roma non ebbe eleganti e puri scrittori, prima di Cicerone, Catullo, Orazio, Virgilio: e, al sorgere di questi, ella vide a poco a poco sprofondare le virtù della patria, e a crescere la servitù e alle crescenti lettere e belle arti. Ma, quegli eleganti e perfetti scrittori erano essi ragione della crescente effeminatezza, del cessante coraggio, del vile pensare, del servir lietamente, del non conoscer più la patria, dell’egoismo? Oppure tutte queste cose furono le cause che permisero il fiorire di questi scrittori? Alfieri nel dire che il pregio di ogni scrittore si divide nel pregio della verità e forza dei pensieri che è unico e quello della eleganza, dell’eloquenza che muta a seconda delle età, dei governi e costumi, cerca di criticare quei grandi letterati che son stati tali perché appoggiati dal principe come Virgilio i quali hanno avuto successo (se lo hanno avuto) per la loro protezione e quindi dai posteri ma nessuno può assicurare che Catone, Ennio o Lucrezio siano stati meno apprezzati di Virgilio ed Orazio. Nessuno dirà che Lucrezio fosse meno bravo di Virgilio ma quella loro differenza che è riscontrata nell’armonia, eleganza si dovrà attribuire “alla ripulitura della favella, risponderanno i moderni; alla corruzione dei costumi, avrebbero risposto gli antichi; alla pestifera influenza di una assoluta dominazione”. Alfieri introduce il paragone tra 2 generali, il primo capo di un popolo rozzo e selvaggio che userà delle parole spontanee per incoraggiare il proprio popolo in battaglia, con la minima eleganza ma con la massima efficacia; mentre il capo di un popolo colto per infiammare l’animo del suo popolo dovrà usare mille parole più ornate e meno spontanee, così che cadrà ogni tipo di efficacia. Cercando il miglior oratore tra i 2, si riscontrerebbe che se fra il popolo rozzo vi fosse un oratore di popolo corto, egli sarebbe frainteso, mentre se in un popolo colto vi fosse un rozzo oratore ma energico ed appassionato, “questo per semplice forza della nuda verità otterrebbe qualcosa in più, essendo la semplicità una grandezza”. Da ciò Alfieri conclude che le lettere perfette per l’uso di noi popoli civili, colti, oziosi possono esistere solo nell’ozio e nella servitù ma le lettere che professavano i Greci che erano utili all’intero mondo, provenienti da un popolo libero, era caratterizzati da una severa verità esposta con energia. Si ridurrebbe così l’arte oratoria che persuade i cittadini; l’historia e poetica a narrare e descrivere imprese grandi, amori casti, amicizie generose, tenerezze paterne; ed infine la filosofia, che seguendo in comunanza le massime politiche e teologiche già stabilite in quel popolo libero e felice, continuerebbe solo a rettificare il giusto pensare, i puri costumi, e le savie leggi. Quindi “tutto il fiore del bel dire”, l’eloquenza non divengono mai utili per la verità, la quale spoglia di ciò sarò ritenuta mancante perché non compone uno stile adatto alle cose. Ma vi sono alcuni momenti, in cui un popolo, già stato libero nell’uscire dalla sua rozzezza ed onestà dei costumi e nell’entrare nella colta corruzione, riunisce in sé i 2 semi della passata potenza e della presente coltura. Diminuendo la virtù e passando all’eloquenza, la luce della verità svanisce. Così Roma ebbe scrittori sublimi sia nel pensare che nella eleganza in quel breve secolo che passò dalla perdita della libertà repubblicana alla servitù con Giovenale e Tacito, e poi non ebbe più nulla di grande. In questa decadenza, il potere assoluto dei tiranni fu distruttivo anche per l’eleganza dello scrivere, vuota ormai di pensieri veritieri, confermante che il principato 5 non possa essere il vero protettore delle lettere perché devia il loro scopo. Alfieri conclude che secondo lui la perfezione delle lettere può nascere più in un popolo di costumi corrotti e non libero che in un popolo libero e sano (ad eccezione di Atene). Ma se è così, allora tale perfezione delle lettere sia una conseguenza della corruzione di quel popolo; il quale pure per alcun tempo può ancora durare corrotto e libero. Ed ecco, che secondo Alfieri pare spiegata la contraddizione apparente fra Atene e tutte le altre nazioni colte da essa in poi conosciute: la corruzione divenendo totale ed estrema, oltre alla già spenta libertà, ella poi corrompe e spegne in breve del tutto anche le lettere stesse, come ogni altra utile cosa. Se le lettere possono sottrarsi a tale decadenza, esse si fanno ragioni di corruzione facendosi nemiche di verità: e sono esse, come falsificatrici delle politiche idee, la ragione di altri costumi più corrotti dei primi. Secondo le diverse epoche e posizioni di un popolo, e secondo la specie di gente che adopera le lettere, esse possono divenire sia effetto che causa di corrotti costumi: ma devono anche farsi causa di libertà e virtù. CAPITOLO TERZO. CHE LE LETTERE NASCONO DA SE, MA SEMBRANO ABBISOGNARE DI PROTEZIONE AL PERFEZIONARSI. Le lettere nascono da una passione innata nell’uomo il quale manifesta il suo desiderio di distinguersi dagli altri, e tale passione è alla base di ogni arte che serve per perfezionare le lettere. Alfieri fa l’esempio di un giovane talentuoso per lettere che però essendo nato da parenti non ricchi, viene indirizzato verso le leggi; però in realtà codesto giovane non lo fa per bisogno e inoltre ha ricevuto una ottima istruzione; e se egli avrà il genio dentro di lui, tale genio lo porterà a fare versi e non la necessità. Come fecero Petrarca, Tasso e Ovidio. Inoltre la protezione giova solo agli ingegni mediocri, i quali per mezzo di essa poco danno, ed è nociva per i sommi ingegni, in quanto questi darebbero di più se non l’avessero. E ritroviamo degli esempi. Dante non fu protetto: che cos’altro poteva dare? Forse più eleganza ma egli la ebbe di gran lunga superiore a tutti i suoi predecessori. Orazio e Virgilio furono protetti: e diedero perciò molto di meno perché la dipendenza e il timore ogni giorno toglievano loro energia; anzi se entrambi non furono protetti da Augusto forse non avrebbero scritto nulla perché il loro impulso era debole e secondario. Orazio lo disse ingenuamente che la necessità era lo stimolo del suo poetare e così ma infiammerà il cuore di chi lo legge. Orazio dunque con tale stimolo doveva scrivere con molta eleganza debolissimi pensieri; ma Dante, dall’oppressione e dal suo esilio, non fu impedito di pensare né di scrivere. Alfieri conclude che la proteione del principe può forse giovare, o almeno non nuocere, alla perfezione delle lettere sull’eleganza; ma che alla loro vera perfezione legata alla sublimità del pensare e alla libertà del dire nuoce ogni dipendenza cioè ogni protezione. Ad esempio un uomo che scrive per divertire il pubblico, può ricevere una ricompensa da esso; ma non dal potente che ha l’interesse opposto a quello del pubblico; a meno che lo scrittore abbia falsificato le cose agli occhi della moltitudine; cioè se avrà ridotto la verità per compiacere al potente: ovvero l’avrà mascherata e anche taciuta per non offenderlo. E così le lettere protette parlano e influiscono diversamente dalle non protette, mentre le prime omettono o tacciono sulla verità, le seconde dicono la verità nuda e cruda. Alfieri conclude che sembra che le lettere abbia bisogno di protezione per perfezionarsi ma non è così in quanto per perfezione si intende (o intende Alfieri) che siano utili al maggior numero di uomini e ciò avviene in quelle non protette dove arrecano veramente utilità, invece quelle protette sono nocive poichè tolgono allo scrittore, e quindi al lettore, la facoltà di oltrepassare i limiti del suo pensare e ragionare. CAPITOLO QUARTO. COME, E FIN DOVE, GLI UOMINI SOMMI POSSANO ASSOGGETTARSI AGLI INFIMI. Vi è un desiderio che tormenta l’uomo per tentare di farsi superiori ai suoi simili per opere di ingegno ma anche in agi, ricchezza, lusso. La voglia di migliorare sorte può adattarsi, e non pregiudica nessun mestiere tranne che all’arte delle lettere. Perciò Alfieri consiglia di diventare scrittori solo per pochi, i quali non hanno bisogno o non vogliono migliorare il loro stato riguardante la ricchezza: per chi non può rispettare tali circostanze, è meglio scegliere un altro mestiere. Alfieri poi esamina se un letterato vero possa farsi proteggere da un uomo più potente di tutti e fino a quale punto: come e fin dove il più sommo uomo possa assoggettare se stesso al più infimo. Il principe può dare allo scrittore onori, parole, ricchezze: cose che non richiedono ne ingegno né che gli costano; mentre lo scrittore dà al principe, se poeta lodi, se storico menzogne; se filosofo, falsità; se politico, inganni: e così il letterato sarà in parità col principe solo sacrificando o interamente o in parte la verità, e quindi l’utile di tutti a favore del lustro e al potere di un solo. A dimostrare ecco i fatti: Socrate, Platone, e l’immensa cerchia di Greci filosofi; Omero, Eschilo, 5 Demostene, Sofocle, Euripide, e tanti altri scrittori non cercarono di piacere a nessun principe e quindi il loro ingegno fu salvo dalla protezione principesca. Così, fra i moderni che hanno veramente illuminato il mondo, sviscerando le facoltà e i diritti dell’uomo, Locke, Bayle, Rousseau, Machiavelli; e fra quelli che l’hanno dilettato con utile, Dante, Petrarca, Milton non ebbero nulla a che fare con principi. In alcuni scrittori come Moliere, Corneille, Racine, Ariosto, Tasso, si intravede una forte indignazione (nascosta) sia contro i principi che contro se stessi, perché avevano ciecamente venduto il loro intelletto, il loro tempo, i loro costumi, ai potenti in cambio della loro fama. Alfieri conclude dicendo che il letterato perde le sue intellettuali facoltà man mano che accresce la sua dipendenza; e più l’animo, il pensiero e lo scrivere aumentano e più il letterato è libero e svincolato da ogni riguardo o timore (tolto quello di non offendere le giuste leggi ed onesti costumi). Il letterato può anche essere protetto da un suo eguale perché non mina la verità, ma in nessuna maniera dal principe, il quale non ha né amici né eguali, senza guastare né sé né il suo libro né la sua fama e per questo per Alfieri non vi potrebbe mai essere un commercio onesto e legittimo fra il letterato ed il principe. Ma considerando l’esistenza di un principe proteggente e non inquirente, quel letterato protetto gli restituirebbe oltraggi (<perché scrivere il vero è un continuo oltraggiare chi vive del falso) in quanto non si può cercare di nuocere a chi ti protegge e inoltre non si potrebbe scrivere un libro sull’esistenza che va in contraddizione con il potere assoluto del principe perché lo offenderebbe e in definitiva gli recherebbe danno. Quindi tra principe e letterato vero non vi può essere né comunanza, nè reciprocità, nè armonia, nè assolutamente nessun legame. CAPITOLO QUINTO. DIFFERENZA TOTALE CHE PASSA, QUANTO ALLA PROTEZION PRINCIPESCA, FRA I LETTERATI E GLI ARTISTI. I letterati muti acquistano grande fame e diletto; sono imitatori e ritrattori della natura. Le loro opere vengono esaltate dall’opinione generale; i più grandi tra essi vengono paragonati ai maggiori letterati. Inoltre essi avrebbero lo stesso impulso degli scrittori, e l’unica differenza tra Michelangelo e Dante sarebbe la modalità cioè l’uno ha spiegato i suoi sensi con lo scalpello e pennello, l’altro con la penna e l’inchiostro”. Alfieri rifiuta ogni somiglianza di importanza e utilità tra scrittori e artisti: per primo le arti sono favorite perché chi le finanzia sono meno pericolose delle lettere che sono temute. Per Alfieri “un ottimo quadro non varrà mai il foglio” perché è minor sforzo di invenzione, composizione, condotta, giudizi, maturo pensare, e quindi minore l’effetto che produce nell’animo altrui. <Se invece dei libri antichi greci e latini, ci fossero pervenuti soltanto le pitture e sculture, noi saremmo ignoranti e barbari poiché la vera grandezza dei Romani sta nei racconti di Tito Livio, e non già nel Panteon, o nel Colosseo: anzi le opere grandiose sono sempre subordinate ad un’autorità assoluta, oziosa politicamente e corrotta>. Inoltre se si ammettesse lo stesso impulso tra scrittore e artista, l’opera del primo è più utile, durevole, difficile della prima. Inoltre un artista senza saper leggere, senza lettere non riconoscerebbe il significato della sua opera, anzi ignorerebbe i soggetti senza poterseli gustare. Alfieri affermando che “ogni bell’arte è figlia del molto pensare” cioè leggere, avere idee utili, tra lettere e arti vi è un divario tra < tra lo sviluppo intero della facoltà del pensare e l’esercizio della potenza degli occhi e delle mani>. Si può non aver mai visto un quadro ed essere Dante e fare delle meraviglie con poche righe di inchiostro, ma non si può essere Michelangelo senza avere in molti Danti imparato a pensare, inventare, e comporre. Per dimostrare ancora di più la superiorità delle lettere sulle altre arti, basti pensare che esse sono autosufficienti, ovvero non hanno bisogno del materiale come ad esempio l’arte. Per Alfieri Omero non avrebbe potuto essere Achille o Priamo perché egli è ancora più presente nella memoria degli uomini perchè, oltre la possibilità che si vede in lui di far cose grandi, riunisce in se la divina arte dell’invenzione e di ottimamente colorirle ed esprimerle. Per questo il grande scrittore è maggiore ad ogni altro uomo, perché oltre all’utilità che conferisce, vi è in lui l’eroe di cui narra perché lo ritrova in se stesso. Ritornando al suo proposito, Alfieri dice che sé innegabile il fatto che lo scrittore abbia in se stesso i mezzi della sua arte, sarà innegabile il fatto che egli disonori la sua arte ricevendo protezione che non necessita in quanto i suoi mezzi sono poca carta, inchiostro, ed ingegno; mezzi che nessun principe gli può dare. Mentre le altre arti come la pittura ha bisogno di mezzi, di compratori e di opere da vendere, così rimarcando la dipendenza e la servitù di quest’arte. E se prima della stampa, i libri potevano anche essere non venduti, il pittore o scultore deve vendere le sue opere. La musica, nobilissima arte e prima ad esprimere tutte le passioni e gli affetti, potrebbe essere autosufficiente, ma essa viene esercitata per diletto; ed essa necessita di strumenti. Quindi queste arti si devono far proteggere dai principi perché non n grado di sussistere da sole, mentre le sacre lettere debbono sfuggire da ogni protezione in quanto pericolosa nei loro 5 filosofia non può essere protetta e promossa dal principe in quanto non pone egli stesso come causa prima, e vediamo che la seguente filosofia diffusa in Italia è precedente al periodo principesco di Augusto e troviamo Panezio, Varrone, Lucrezio, Catone; e Tullio. Investigatori i politiche e morali verità non vi furono in Italia fino a Machiavelli, il quale è un maestro per lo sviluppo del cuore umano anche se fu figlio di una Firenze repubblicana, e seppur qualche dedica ai Medici, egli non essendo protetto scrisse il vero. Nel suo periodo egli fu poco considerato e poco letto perché troppo libertario per un Italia serva, e dopo la morte fu anche screditato. Nel Principe egli introduce massime che dovrebbe servire ai principi come insegnamento ma che in realtà servono al contrario per svelare ai popoli le crudeltà immorali principesche. Alla lettura di Machiavelli come nei discorsi sopra Tito Livio, ogni sua parola respira di libertà, giustizia, verità, virtù; ma l’interpretazione che ve n’è stata fatta dai contemporanei descrive la figura di un precettore di tirannia e di vizi. L’unico filosofo che ha avuto l’Italia nella modernità non viene stimato e per questo per seguire le tracce della filosofia si va in Inghilterra, figli della libertà (bacone, Locke). In Francia non vi erano tracce di filosofi sommi sotto il dispotismo e basti vedere Bayle che fu costretto ad andare in Olanda. Montesquieu tacque per timore o intralciò quelle verità che egli nel cuore sentiva. Alfieri sottolinea il fatto che la filosofia, chiamata da lui come LA SCIENZA DELL’UOMO, che è la base della vera letteratura, viene perseguitata ed oppressa dal principato. Letterati nati in repubblica abbondano nell’antichità mentre i moderni oratori di principato sono pochi: i politici trattano di materia sacra o encomiastica; gli storici importanti erano Greci, Romani ed inglesi perché sempre liberi e non quelli moderni (Tucidide, Senofonte, Livio, Sallustio, Tacito, Hume, Gibbon contro i non apprezzati o poco letti Patercoli, Flori, Varchi ecc) che non meritano di essere conosciuti perché non recano utilità ai più. I poeti lo stesso, una classe di letterati contaminata, deviata e spogliata di ogni utilità dalla influenza del principato. Seppur Alfieri abbia attribuito il primato alla filosofia, reputa la classe dei poeti come la prima dei letterati in quanto per egli devono essere anche profondi filosofi e per questo la primizia fra i letterati. E se i poeti non sono liberi, conta essere liberi di animo, e nemici di ogni tirannide. Omero, Esiodo non erano protetti da nessun principe, la stessa situazione è presente in Grecia con la lirica di Orfeo, Saffo, Pindaro o il dramma di Eschilo, Sofocle, Aristofane e così ogni specie di poesia nacque e si perfezionò fra i greci senza l’aiuto di nessun potente. Se Virgilio non si sarebbe ispirato ad Omero, Esiodo, Teocrito cosa avrebbe realizzato con la sola protezione di Augusto? Tutti i poeti moderni e i teatri senza il modello della Grecia libera, non avrebbero avuto lo stesso effetto. Quindi si evince che tutte le lettere hanno avuto maggior successo nella repubblica rispetto al principato perché è maggiore l’inventare rispetto all’imitare. La ragione per cui solo la poesia può prosperare nel principato è il divertimento che aleggia anche sopra i duri cuori dei dominanti e anche perché la poesia non è l’arte del dimostrare ma del parlare di ogni cosa e quindi può essere più motrice di passioni che di pensieri, attraverso lo stile, l’eleganza, il gusto sottile perché conta il modo con cui lo dice. Questa è la situazione dei moderni poeti, essere strumenti per la grazia del principe e per questo solo essa può prosperare nel principato, ma mai quella sublime poesia che unisce il diletto all’utile della filosofia che fiorisce solo nella repubblica. Quindi il sommo poeta non è altro colui che sostituisce le immagini, affetti, eleganza con amore della verità, indipendenza, giusto pensare perché egli in un tempo potrebbe commuovere tutti gli affetti, dilettare i sensi ed accendere le virtù. Ma tale poeta vi fu ad Atene, ma non a Roma con Virgilio ed Orazio i quali hanno imitato l’eleganza greca. Alfieri conclude dicendo che il principato permette, intende ed assapora i mezzi poeti, cioè quelli imitanti e poco pensanti ed operanti, mentre gli interi poeti risiedono nella repubblica. Se lettere non sono ciò che dovrebbero essere, non è colpa delle lettere ma degli uomini che le trattano o meglio che le deviano o impediscono. CAPITOLO DECIMO. QUANTO IL LETTERATO È MAGGIORE DEL PRINCIPE, ALTRETTANTO DIVIENE EGLI MINORE DEL PRINCIPE E DI SE STESSO, LASCIANDOSENE PROTEGGERE. Se il letterato non si facesse proteggere dal principe, sarebbe più importante rispetto al principe perché con le sue opere recherà più utilità rispetto al danno del tiranno. Uno scrittore di tal genere non dovrà mai assecondarsi contro il suo nemico, contro colui che è privo di ogni virtù e lume; di chi ha una potenza che è la morte di ogni verità. Se il letterato ricevesse protezione o aiuto dal principe tradirebbe se stesso. I letterati protetti portano nel loro cuore l’orribile martirio di essere costretti a tenersi minori di quel principe, che essi disprezzano. CAPITOLO UNDECIMO. CHE TUTTI I PREMII PRINCIPESCHI AVVILISCONO I LETTERATI. 5 Il premio più importante è la gloria; essa è la stima che la maggior parte degli uomini hanno di un singolo per l’utile che egli ha loro dato; quelle lodi che il mondo gli tributa ma secondo Alfieri la vera gloria non è quella riposta dagli altri ma quella dell’uomo che porta in sé morendo. Questo è il sublime premio in quanto esso è prodotto dell’ingegno. L’opera dello scrittore è un’opera di mente; della mente dunque deve essere il premio. Nessun principe al mondo può dare questo premio, ma solo un popolo libero con un semplice applauso. Mentre il guerriero che ha rischiato la vita accetta oltre la gloria, ance le ricompense, lo scrittore, che lavora solo con l’intelletto, egli non espone il suo corpo a nessun pericolo. Il guerriero serve alla patria e lavora per essa e per questo essi non sono sommi. Lo scrittore invece è eletto dalla sua arte, non serve a nessuno in particolare ma alla verità, e non solo per la sua patria ma per tutti gli uomini presenti e futuri. E verrà così ricompensato con la gloria donatagli da tutti, senza nessun altra ricompensa perché l’arte dei letterati è spontanea, svincolata da ricompense (almeno degli scrittori eccellenti) in quanto il suo fine non è altro che la gloria. Dunque i principi e i loro cortigiani, servi si ricompensano con ricchezze, onori ma la sola pura gloria è data da tutti gli uomini ai letterati. CAPITOLO DUODECIMO. QUAI PREMII AVVILISCANO MENO I LETTERATI. Alfieri nel capitolo 12 precisa che il suo volere non mira a privare gli scrittore da altri premi che non fossero la gloria, ma che questi siano pericolosi. I premi non pericolosi, oltre la gloria, sono onori dati a chi ne sia degno dalle repubbliche, in quanto essi manca la figura di un potere assoluto come nel principato. Se Sofocle, ad esempio, avesse ottenuto dalla sua città la possibilità di sedersi fra i più alti magistrati, era un onore vero datogli senza nessuna distinzione; ma se un solo uomo a cui nessuno può contraddire non conferisce onore ma favori e in tal modo macchia la vera virtù. Dunque le repubbliche possono onorare i loro scrittori mentre i principi non possono; inoltre essere scrittore onorato in repubblica, attesta l’aver giovato ai più, l’esserlo nel principato attesta l’aver forse dilettato i più ma poi averli traditi con false massime che giovano ad uno solo. Cicerone egli nacque in repubblica, e coltivando le sacre lettere diventò console (Alfieri critica in parte Cicerone per aver posto il primato di una carica sulle lettere, osservando che di consoli ve ne furono centinaia ma di scrittore pochi). Tolta ai letterati ogni ambizione di onori e ricchezze nel principato, ad essi non resta, oltre alla gloria, che premi “che non gli avviliscano”, fuorchè i semplici onori nelle repubbliche (semplici onori e non cariche perché si possono ottenere senza gareggiare, il quale suppone sempre un raggiro) come ad esempio Atene se avesse fatto sedere Socrate in mezzo ai conti senza esserlo o gli inglesi avessero collocato Locke e Milton in parlamento senza nessuna carica. L’unico premio che il principe può dare allo scrittore è “che il principe, non togliendo il pensare ed il dire, non impedisca e non legga i suoi libri”. CAPITOLO DECIMOTERZO. CONCLUSIONE DEL SECONDO LIBRO. In questo secondo libro Alfieri ha affermato come i veri letterati non possano farsi proteggere dai principi; in quanto porta danno alle lettere: infatti vi si creerà un tipo di relazione in cui il deboli ceda al più forte. Anche se la penna è un’arma più tagliente dello scettro del principe, è anche vero che la penna perde ogni sua forza se viene impugnata da uno scrittore non libero ed ingegnoso. Quindi se letterato e principe diventano amici, il principe comanda; se rimangono nemici il vincitore sarà lo scrittore. LIBRO TERZO: ALLE OMBRE DEGLI ANTIICHI LIBERI SCRITTORI Alfieri dedica il terzo libro agli antichi liberi scrittori come Socrate, Platone, Omero, Cicerone, Pindaro, Euripide, auspicando che si possa tornare al loro periodo in cui le lettere non avevano bisogno della protezione principesca per sopravvivere e perfezionarsi, dove le lettere siano fonte di rischiaramento degli uomini. In tal modo Alfieri è come se chiedesse aiuto (o forza) a tali scrittori affinchè egli possa uscire dalla schiavitù e rendere liberi i suoi contemporanei e posteri (“il destino mi volle nato nel 700 ma con la mente vive nell’antichità”). CAPITOLO PRIMO: INTRODUZIONE AL TERZO LIBRO Mentre nel primo libro Alfieri ha consigliato ai principi di proteggere le lettere a modo loro e nel secondo ai letterati di non sottoporle alla protezione principesca, in questo terzo libro si propone di conciliare 2 diversi pareri che sono già esplicite. Infatti egli ha consigliato ai principi di proteggere certe lettere ed in un certo modo, cioè quelle mezze lettere che non sono il sommo prodotto dell’ingegno umano; analogamente nel 5 consigliare e dimostrare ai letterati che non debbano lasciarsi proteggere dal principe, si è riferito a quei pochi i quali essendo svincolati dalla classe volgare, non devono contaminare la loro arte. CAPITOLO SECONDO. SE LE LETTERE POSSANO NASCERE, SUSSISTERE, E PERFEZIONARSI, SENZA PROTEZIONE. Alfieri cerca di rispondere a chi si chiede se le lettere possano nascere, sussistere e perfezionarsi senza protezione, anzi critica chi crede che Platone, Cicerone, Locke non sarebbero esistiti senza nessuna protezione; e questa idea viene dal fatto che in età moderna si pensa che senza Augusto, i Leoni ed i Luigi non ci sarebbero stati Virgilio, Orazio, Ariosto, Tasso, Bembo, Moliere. Alfieri è in disaccordo con tale opinione in quanto l’ingegno degli scrittori non è donato loro dal protettore ma anzi egli, come Augusto, somministra loro ozio, agi, pubblica stima, eleganza tipica delle corti. Se poniamo che Virgilio ed Orazio fossero nati cavalieri romani, essi senza Augusto non avrebbero potuto scrivere con la stessa eleganza e pensare qualcos’altro? Così come Ariosto ed il Tasso senza gli Estensi? Essi avrebbero avuto tutte la libertà di usare il proprio ingegno, senza nessuna costrizione e soprattutto quei 4 ingredienti che fanno di uno scrittore sublime come l’altezza di animo, libere circostanze, forte sentire ed acuto ingegno. Alfieri poi si chiede perché i mecenati, nobili che vivono nel principato, invece di essere protettori inetti di lettere, non diventano scrittori e quindi protettori della verità; ma essi sono fermati dal timore nei confronti di chi ha il potere. Alfieri afferma così che le lettere protette nel principato non vi possono sussistere, se non male, appunto perché richiedono protezione, diverso da dire che non sussistono perché senza protezione. La seconda questione si basa principalmente sul fatto che la perfezione delle lettere siano nata dalla libertà e la protezione dei principe ha portato una deviazione delle lettere: basti vedere Virgilio ed Orazio i quali da Augusto trassero tutto quello che non riguarda le lettere, mentre l’eleganza proveniva dal Greco; ed ecco che la più nobile arte di questi 2 scrittori proveniva dalla libertà greca mentre la peggiore dalla servitù verso il principe. Lo stesso Ariosto e Tasso che ripresero da Dante, Boccaccio, Petrarca i metri, l’eleganza e dai loro protettori presero il timore, le adulazioni, il poco e debole pensare. Quei 3 sono l’emblema delle lettere senza principe, dello sviluppo dell’eleganza in Italia, come avvenne in Grecia, senza nessuna protezione; mentre Tasso ed Ariosto senza quegli esempi nulla avrebbero scritto e non per merito degli Estensi e ciò è dovuto anche ad una diversità dei principi: Roberto di Napoli ai tempi di Petrarca era più un amico e compagno rispetto ad un protettore e così non erano fissati dei vincoli che limitavano il poeta. Ecco quindi che scrittori come Virgilio, Orazio possono nascere e sussistere anche senza nessuna protezione, anzi sarebbe per loro un privilegio, come per Dante e Petrarca, i quali con la loro libertà di pensare e scrivere, siano diventati sommi come i Greci, nell’eleganza, energia, brevità, delicatezza; cioè caratteristiche che non potrebbero sussistere sotto protezione principesca. CAPITOLO TERZO. DIFFERENZA TRA LE BELLE LETTERE E LE SCIENZE, QUANTO AL SUSSISTERE E PERFEZIONARSI SENZA PROTEZIONE. Alfieri analizzala differenza e il perché non abbia menzionato gli uomini sommi come Euclide, Archimede, Galileo, Newton i quali fanno parte delle SCIENZE, definite da lui come leggi della natura dei corpi, investigate e spiegate, per quanto possa l’intelletto dell’uomo; esse sono una parte della letteratura e distinte dalle belle lettere definite come le leggi e le passioni del cuore umano, sviluppate e indirizzate verso l’utile e la verità. Dunque è diverso il tema: le prime investigano i corpi sensibili e scoprono le verità oggettive; le seconde investigano le passioni, mettono in luce le verità morali, nascoste sempre dalla malizia degli uomini. Anche le scienze nacquero in Grecia da uomini liberi ed esse riescono a influenzare in minor modo la politica rispetto alle lettere e perciò non vengono impedite dalla tirannide; esse, seppur siano nate in libertà, non necessitano di essa per ampliarsi: infatti le scienze ebbero uno sviluppo maggiore nei moderni principati (protette) rispetto al periodo di massima libertà (Grecia e Roma). Le scienze essendo leggi dei corpi, necessitano di molte generazioni di uomini affinchè una legge sia dimostrata; sono necessarie molte spese, infiniti esperimenti, viaggi e protezione per gli osservatori; quindi che trova una maggior possibilità nel principato e non nelle repubbliche le quali mirano ad un utile verificato. Quindi la protezione che richiedono, portano al deterioramento delle lettere in età moderna, a dimostrazione di ciò troviamo lo sviluppo di numerose accademie di scienze e di lettere nei principati, dove le prime creano scoperte, e le seconde uomini veri. Mentre quindi le leggi dei corpo non offendono il principato; le leggi e passioni dell’uomo che indirizzano verso il vero, lo annullano; e per questo vengono protette per essere deviate ed oppresse, 5 carica nobiliare e militare, per potersi consacrare alle lettere; ed essi conoscendo le infamie di corte potrebbero annunziare la verità ed essendo ricchi, famosi, il principe non potrà metterli in cattiva luce, quindi non opprimere. Solo attraverso tali uomini liberi è possibile coltivare le lettere nel principato, in quanto vengono solo i nobili possono essere rispettati dal popolo; non temono il principe perché non infrangono le sue leggi. Inoltre tali nobili vengono ispirati anche da coloro che furono esiliati, i quali sono protetti solo dalla libertà, e quindi preferiranno tematiche di libertà come la liberazione di Roma da Bruto che esaltare le gesta di Goffredo a Gerusalemme o quelle di Augusto. “Gli uomini preferiscono più l’utile al diletto”: ovvero la commedia deve tornare a combattere i vizi e non a divertire come avviene invece nel principato; le satire cercheranno di distruggere il pubblico vizio; gli oratori loderanno la virtù e non la potenza, cercando di persuadere i popoli a cercare nelle leggi la giustizia e non nella clemenza del principe; così le storie non descriveranno le leggende dei principi ma le vittore degli uomini liberi, le contese tra plebe e nobili, le sconfitte tirannidi; così la poesia canterà non più l’amore ma anche la virtù e il coraggio, tali da trasfigurare schiavi in cittadini, spingerli a crearsi una patria, da rendere eterni i nomi dei guerrieri morti per essa; così i filosofi potranno scrivere liberamente senza nascondere la verità o quello che credono sia tale, e seppur si sbagliassero nessun errore sarà fatale agli uomini come quello di non cercare la verità stessa o di nasconderla. Queste potrebbero essere lettere nei tempi moderni, cioè quando usate da liberi ingegni e coltivate in libertà. CAPITOLO NONO QUALE RIUSCIREBBE UN SECOLO LETTERARIO, CHE, SFUGGITO NON MENO ALLA PROTEZIONE CHE ALLA PERSECUZIONE DI OGNI PRINCIPE, NON VENISSE QUINDI A CONTAMINARSI COL NOME DI NESSUNO DI ESSI. Per Alfieri è degno di nota che il secolo di Atene, ovvero di massimo splendore letterario sia riferito ad una città e non ai nomi dei principi come Pisistrato, Alessandro, o Pericle e da ciò si evince l’importanza di massime politiche e morali; però nei 3 secoli letterati successivi, invece di intitolarsi da Roma, Firenze o Parigi, si appellano ad Augusto, Leone o Ludovico perché tali scrittori scrissero per i loro principi e non per le loro città. Le lettere non prosperarono a Roma perché protette da Augusto ma proprio la protezione di Augusto non permise che esse giovassero ai latini, portando alla decadenza di ogni costume e virtù. Lo stesso vale per i Medici che non furono la causa che portò Dante, Petrarca e Boccaccio; e neanche la rilettura dei greci, latini, per Alfieri, non portò a felicità o ricchezze durante il periodo dei Medici. Ludovico ha aumentato la servitù degli uomini moderni e l’accrescimento della monarchia francese è dovuto più alla forza che alle lettere e accademie, le quali di poco accrebbero la luce degli uomini. Per Alfieri neanche i filosofi francesi riuscirono a dare utilità perché ripresero scrittori antichi e inglesi, liberi e non protetti. Solo il popolo greco fu prodotto delle loro lettere, perché esse non erano prodotte dai principi ma dalla LIBERTA’. Alfieri non crede che possa esservi un quinto secolo letterario perché l’influenza dei 4 secoli letterati hanno ormai appianato tutte le vie; fissate le lingue, introdotto un certo gusto di scrivere. Per Alfieri i moderni scrittori che vogliano essere padri di verità, di padri di alto divertimento e fondatori di un nuovo secolo letterario, dovranno essere figli del loro stesso secolo. Ma tali scrittori non avendo la proteggente libertà come gli Ateniesi, dovranno superare nell’utile gli scrittori Ateniesi, dovranno sviluppare verità importanti, e liberarsi dal servaggio moderno dei principi. E non si deve pensare che il tutto sia già stato detto perché le verità dei Greci potrebbero riapparire diversamente con moderne composizioni. Pe ottenere ciò gli ingegno moderni debbono prima conoscere se stessi; e che vivano lontano da ogni corte. Così le lettere torneranno pure e sublimi. E si chiamerà successivamente quel secolo della virtù che li fece nascere come IL SECOLO DELL’ INDIPENDENZA. CAPITOLO DECIMO. CHE DA TALI NUOVE LETTERE NASCEREBBERO A POCO A POCO DEI NUOVI POPOLI. Alfieri analizza i popoli romani e quelli inglesi, osservando come essi giunsero a periodi di libertà dovuto anche ad una consapevolezza e conoscenza dei propri diritti. Diritti che era sorvegliati dai tribuni a Roma, e dalla camera dei comuni in Inghilterra. Dunque la libertà viene conservata da quegli uomini che insegnando ai popoli i loro diritti, danno loro i mezzi per difenderli. Fra i popoli servi moderni, dovrebbero essere gli scrittori a insegnare a conoscere i propri diritti. L’interesse e lo scopo dei popoli deve essere usare le proprie facoltà per il maggior vantaggio di ciascuno e di tutti. Alfieri individua gli scrittori come i tribuni del popoli non liberi, eletti perché scolpiscono nel cuore dei popoli l’amore per la verità, per l’utile, per la libertà da cui 5 tutto deriva. Tali libri potrebbero essere perseguitati; ma per Alfieri tali scrittori debbano scrivere nonostante il timore per il principe. Tali tribuni- scrittori dovrebbero giovare a tutti i popoli, così le lettere siano necessarie per creare nuovi popoli liberi; ma Alfieri si chiede come sia possibile che nonostante i popoli conoscano il vero, seguano il principe, cioè l’utile di uno, loro oppressore e nemico e si risponde credendo che l’opinione non si sia fata educare dagli insegnamenti dei letterati sulla ragione e sul vero. Inoltre l’influenza degli scritti rinnovano la sana opinione perché convince e non costringe come invece accade con le leggi. “La ragione ed il vero sono quei tali conquistatori, che, per vincere e conquistare l’opinione, non devono usare altre armi se non le semplici parole”. Perciò le religioni diverse e la cieca obbedienza si sono sempre insegnate con le armi; ma la sana filosofia e i moderati governi con i libri. CAPITOLO UNDECIMO. ESORTAZIONE A LIBERAR LA ITALIA DAI BARBARI. Alfieri esorta che l’Italia ad assumere un nuovo assetto politico affinchè possa liberarsi da popolazioni stranieri come affermava Machiavelli nell’ultimo capitolo del suo PRINCIPE. Alfieri è come se riprendesse la storia dell’Italia dal periodo romano caratterizzato dalla conquista di tutto il mondo conosciuto, per poi giungere all’Umanesimo, periodo di ripresa delle lettere e scienze; ovvero mostra come l’Italia sia stato luogo prediletto di scrittori che cercarono la gloria nelle imprese alte, spinti dall’impulso naturale. Per Alfieri l’Italia moderna, divisa in molti principati, è debole così separata e non potrà sopravvivere senza riunirsi almeno sotto pochi principi che poi tramite matrimoni o guerre diventa unico. L’Italia inoltre ha sempre racchiuso in se alcune repubbliche, le quali benché lontane da ogni vera libertà, avranno sempre insegnato agli Italiani che si può esistere senza re. Inoltre l’Italia ha sempre avuto un certo amore per il bello e il grande, che si mostra negli edifici. Secondo Alfieri, gli italiani saranno i primi a dare in Europa un nuovo e importante aspetto alle lettere e i primi a ricevere un sistema politico durevole, e non i Francesi i quali corteggiano il re e che non pensano alle generazioni future come invece avviene per chi sente e riflette davvero. Questo se nasceva ai tempi dei Deci e dei Regoli avrebbe pianto per la corruzione dei costumi che subiranno i nipoti invece di innalzare se stesso e allegrarsi. Alfieri conclude il capitolo affermando che “la virtù è quella cosa che il molto lodarla, insegnarla, amarla, sperarla e volerla la fanno essere; e nulla la rende impossibile quanto reputarla impossibile”. CAPITOLO DUODECIMO. RICAPITOLAZIONE DEI TRE LIBRI, E CONCLUSIONE DELL’OPERA. Alfieri ammette che il suo libro non sia nato da nessuna dottrina ne impulso se non l’amor del bello, dell’utile e del giusto. Conclude che le sublimi lettere (cioè la verità sotto mille diverse rappresentazioni) vengono solo corrotte e comandate dal principe, così da obliare le vere lettere. Il letterato che si lascia proteggere o non ha propria forza o non la usa, diventando traditore del vero. Dato che lo scopo delle lettere è il diletto accompagnato dall’utile e se vi è utile, vi è verità; ogni verità essendo nemica di ogni potere assoluto, conseguenza di ciò è che “le vere lettere possono fiorire solo in Libertà”. La pubblica libertà dovrebbe proteggere le lettere ma debolmente lo fa. La privata libertà politica e civile dello scrittore viene ad essere la libertà protettrice delle vere lettere: ed essa può solo creare sublimi scrittori che si facciano poi col sublime nome di cittadini. 5
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