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riassunto del riassunto, Dispense di Diritto Italiano

interessante documento pieno di inutili inutilissime cose interessante documento pieno di inutili inutilissime cose

Tipologia: Dispense

2012/2013

Caricato il 06/10/2021

MeloneArnaldo
MeloneArnaldo 🇮🇹

8 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica riassunto del riassunto e più Dispense in PDF di Diritto Italiano solo su Docsity! Cronica dell’ Anonimo Romano Prologo e primo capitolo, dove se demostra le rascione per le quale questa opera fatta fu. Dice lo glorioso dottore missore santo Isidoro, nello livro delle Etimologie, che lo primo omo de Grecia che trovassi lettera fu uno Grieco lo quale abbe nome Cadmo. 'Nanti lo tiempo de questo non era lettera. Donne, quanno faceva bisuogno de fare alcuna cosa memorabile, scrivere non se poteva. Donne le memorie se facevano con scoiture in sassi e pataffii, li quali se ponevano nelle locora famose dove demoravano moititudine de iente, overo se ponevano là dove state erano le cose fatte: como una granne vattaglia overo vettoria [...] tristezze, disconfitte inscolpivano [...] e aitri animali in sassi overo iente armata, in segno de tale memoria. E queste sassa fonnavano in quelle locora dove le cose fatte erano, in segno de perpetua memoria. Livro non ne facevano, ché lettera non se trovava appo li Grieci. E questo muodo servaro li Romani per tutta Italia e in Francia e massimamente in Roma; ché, facenno asapere alli loro successori [...] loro fatti, fecero arcora triomfali in solifi]s con vattaglie, uomini armati, cavalli e aitre cose, como se trova mo' in Persia e in Arimino. Da poi che Cadmo comenzao a trovare le lettere, la iente comenzao a scrivere le cose e-Ili fatti loro per la devolezza della memoria, e massimamente li fatti avanzarani e mamnifichi: como Tito Livio fece lo livro dello comenzamento de Roma fino allo tiempo de Ottaviano, como scrisse Lucano li fatti de Cesari, Salustio e moiti aitri scrittori non lassaro perire la memoria de moite cose antepassate de Roma. Dunqua io, lo quale [...] mea ientilezza, como piaciuto ène a Dio, aio vedute cose de moita memoria per la loro granne escellenzia de novitate in questo munno, la araio passare queste cose senza alcuna scrittura? Certo non fora convenevole che de esse remanga tenebre de ignoranzia per pigrizia de scrivere. Anche ne voglio fare speziale livro e narrazione. L'opera ène granne e bella. Questo affanno prenno per moite cascione. La prima, che omo trovarao alcuna cosa scritta la quale se revederao avenire in simile, donne conoscerao che- Illo ditto de Salamone ène vero. Dice Salamone: “Non è cosa nova sotto lo sole, ché cosa che pare nova stata è”. L'aitra cascione de questo ène che qui se trovarao moito belli e buoni esempî; donne porrao omo alcuna cosa pericolosa schifare, alcuna porrao eleiere e adoperare, sì che lo leiere de questa opera non pa rao senza frutto de utilitate. La terza cascione ène che aio respietto alla magnificenzia de questa novitate, como de sopra ditto ène; ché cosa de poco essere omo non cura, lassala stare, cosa granne scrive. La quarta cascione ène quella che mosse Tito Livio. Dice Tito Livio nella prima decada e fao menzione de Alisantro de Macedonia: quanta iente abbe da pede e da cavallo, quanto tiempo durao soa signoria, quanto se stese per lo munno. E dice che soa grannezza fu nulla cosa in comparazione de Romani. Questo dicenno responne ad una questione la quale omo li potria fare e dicere: “Innello narrare le istorie de Romani como te impacci delli fatti de Alisantro?” Responne Tito Livio e dice: “Questo faccio per ponere requie allo animo mio”. Quasi dica: “Lo animo mio ène stimolato de scrivere questa materia. Voglione toccare. Puoi me se posa consolato lo mio animo”. Così dico io: “L'animo mio stimolato non posa finente dio che io non aio messe in scritto queste belle cose e novitati le quale vedute aio in mea vita”. La quinta cascione ène anche quella che scrive Tito Livio nello proemio dello sio livro, nella prima decada. Dice: “Mentre che sto occupato a scrivere queste cose, so' remoto e non veggo le crudelitati le quale per tanti tiempi la nostra citate hao vedute”. Così dico io: “Mentre che prenno diletto in questa opera, sto remoto e non sento la guerra e li affanni li quali curro per lo paese, li quali per la moita tribulazione siento tristi e miserabili non solamente chi li pate, ma chi li ascoita”. Quello che io scrivo sì ène fermamente vero. E de ciò me sia testimonio Dio e quelli li quali mo' vivo con meco, ché le infrascritte cose fuoro vere. E io le viddi e sentille: massimamente alcuna cosa che fu in mio paiese intesi da perzone fidedegne, le quale concordavano ad uno. E de ciò io poneraio certi segnali, secunno la materia curze, li quali fuoro concurrienti con esse cose. Questi segnali farrao lo leiere essere certo e non suspietto de mio dicere. Anche questa cronica scrivo in vulgare, perché de essa pozza trare utilitate onne iente la quale simplicemente leiere sao, como soco vulgari mercatanti e aitra moita bona iente la quale per lettera non intenne. Dunqua per commune utilitate e diletto fo questa opera vulgare, benché io l'aia ià fatta per lettera con uno latino moito [...] Ma l'opera non ène tanto ordinata né tanto copiosa como questa. Anche questa opera destinguo per capitoli, perché volenno trovare cobelle, senza affanno se pozza trovare. Cap. XVII Delli granni fatti li quali fece Cola de Rienzi, lo quale fu tribuno de Roma augusto. Cola de Rienzi fu de vasso lenaio. Lo patre fu tavernaro, abbe nome Rienzi. La matre abbe nome Matalena, la quale visse de lavare panni e acqua portare. Fu nato nello rione della Regola. Sio avitazio fu canto fiume, fra li mulinari, nella strada che vao alla Regola, dereto a Santo Tomao, sotto lo tempio delli Iudei. Fu da soa ioventutine nutricato de latte de eloquenzia, buono gramatico, megliore rettorico, autorista buono. Deh, como e quanto era veloce leitore! Moito usava Tito Livio, Seneca e Tulio e Valerio Massimo. Moito li delettava le magnificenzie de Iulio Cesari raccontare. Tutta dìe se speculava nelli intagli de marmo li quali iaccio intorno a Roma. Non era aitri che esso, che sapessi leiere li antiqui pataffii. Tutte scritture antiche vulgarizzava. Queste figure de marmo lustamente interpretava. Deh, como spesso diceva: “Dove soco questi buoni Romani? Dove ène loro feriva in quella corona e sì-Ila partiva per mieso. Audacemente sallìo. Fatto silenzio, fece sio bello sermone, bella diceria, e disse ca Roma iaceva abattuta in terra e non poteva vedere dove iacessi, ca li erano cavati li uocchi fòra dello capo. L'uocchi erano lo papa e lo imperatore, li quali aveva Roma perduti per la iniquitate de loro citatini. Puoi disse: “Vedete quanta era la mamnificenzia dello senato, ca la autoritate dava allo imperio”. Puoi fece leiere una carta nella quale erano scritti li capitoli colla autoritate che-llo puopolo de Roma concedeva a Vespasiano imperatore. In prima, che Vespasiano potessi fare a sio benepiacito leie e confederazione con quale iente o puopolo volessi; anche che potessi mancare e accrescere lo ogliardino de Roma, cioène Italia; potessi dare contado più e meno, como volessi; anche potessi promovere uomini a stato de duca e de regi e deponere e degradare; anco potessi disfare citate e refare; anco potessi guastare lietti de fiumi e trasmutarli aitrove; anche potessi imponere gravezze e deponere allo benepiacito. Tutte queste cose consentìo lo puopolo de Roma a Vespasiano imperatore in quella fermezza che avea consentuto a Tiberio Cesari. Lessa questa carta, questi capitoli, disse: “Signori, tanta era la maiestate dello puopolo de Roma, che allo imperatore dava la autoritate. Ora l'avemo perduta”. Puoi se stese più innanti e disse: “Romani, voi non avete pace. Le vostre terre non se arano. Per bona fede che-Ilo iubileo se approssima. Voi non site proveduti della annona e delle vettuaglie; ca se la iente che verrao allo iubileo ve trova desforniti, le prete ne portaraco de Roma per raia de fame. Le prete a tanta moititudine non bastaraco”. Puoi concluse e disse: “Pregove che la pace con voi aiate”. Po' queste paravole disse: “Signori, saccio ca moita iente me teo in vocca per questo che dico e faccio, e questo perché? Per la invidia. Ma rengrazio Dio che tre cose consumano li medesimi. La prima ène la lussuria, la secunna lo fuoco, la terza ène la invidia”. Fatto lo sermone e desceso, da tutta iente fu pienamente laodato. In questi dìi usanno alli magnari colli signori de Roma, con Ianni Colonna, li baroni ne prennevano festa de sio favellare. Facevanollo sallire in pede e sì-Ilo facevano sermonare. E diceva: “Io serraio granne signore o imperatore. Tutti questi baroni persequitaraio. Quello appenneraio, quello decollaraio”. Tutti li iudicava. De ciò li baroni crepavano delle risa. Puo' questo adunao moiti Romani populari, discreti e buoni uomini. Anco fra essi fuoro cavalerotti e de buono lenaio, moiti descreti e ricchi mercatanti. Abbe con essi consiglio e rascionao dello stato della citate. Uitimamente adunao questa bona iente e matura nello Monte de Aventino e in uno luoco secreto. Là fu deliverato de intennere allo buono stato. Fra li quali esso fu levato in piedi e recitao piagnenno la miseria, la servitute e-Ilo pericolo nello quale iaceva la citate de Roma. Anco recitao lo stato pacifico, signorile, lo quale Romani solevano avere. Recitao la fidele subiezzione delle terre circustante perduta. Queste cose dicenno piagneva e piagnere faceva cordogliosamente la iente. Puoi concluse e disse ca se conveniva servare pace e iustizia, comenzanno con sollanieri. Puoi disse: “Allo presente comenzaremo con quattro milia fiorini, li quali hao mannati missore lo papa, e ciò sao lo vicario sio”. Puoi disse: “Signori, non crediate che questo non sia de licenzia e voluntate dello papa, ca moiti tiranni faco violenzia nelli bieni della Chiesia”. Per queste paravole accese li animi delli congregati. Anco moite cose recitao, donne piagnevano. Puoi deliverao de intennere allo buono stato, e de ciò ad onneuno deo sacramento nelle lettere. Fatto questo, la citate de Roma stava in grannissima travaglia. Rettori non avea. Onne dìe se commatteva. Da onne parte se derobava. Dove era luoco, le vergine se detoperavano. Non ce era reparo. Le piccole zitelle se furavano e menavanose a desonore. La moglie era toita allo marito nello proprio lietto. Li lavoratori, quanno ivano fòra a lavorare, erano derobati, dove? su nella porta de Roma. Li pellegrini, li quali viengo per merito delle loro anime alle sante chiesie, non erano defesi, ma erano scannati e derobati. Li prieiti staievano per male fare. Onne lascivia, onne male, nulla iustizia, nullo freno. Non ce era più remedio. Onne perzona periva. Quello più avea rascione, lo quale più poteva colla spada. Non ce era aitra salvezza se non che ciascheuno se defenneva con parienti e con amici. Onne dìe se faceva adunanza de armati. Li nuobili e li baroni in Roma non staievano. Ora prenne audacia Cola de Rienzi, benché non senza paura, e vaone una collo vicario dello papa, e sallìo lo palazzo de Campituoglio anno Domini MCCCXLVI[I]. Aveva in sio sussidio forza da ciento uomini armati. Adunata grannissima moititudine de iente, sallìo in parlatorio, e sì parlao e fece una bellissima diceria della miseria e della servitute dello puopolo de Roma. Puoi disse ca esso per amore dello papa e per salvezza dello puopolo de Roma esponeva soa perzona in pericolo. Puoi fece leiere una carta nella quale erano li ordinamenti dello buono stato. Conte, figlio de Cecco Mancino, la lesse brevemente. Moite aitre cose in quella carta erano scritte, le quale perché moito piacevano allo puopolo, tutti levaro voce in aito e con granne letizia voizero che remanessi là signore una collo vicario dello papa. Anco li diero licenzia de punire, occidere, de perdonare, de promovere a stato, de fare leie e patti colli puopoli, de ponere tiermini alle terre. Anco li diero mero e libero imperio quanto se poteva stennere lo puopolo de Roma. Puoi che queste cose, le quale in Roma fatte erano, pervennero alle recchie de missore Stefano della Colonna, lo quale staieva in Corneto nella milizia per grano, con poca compagnia senza demoranza ne cavalcao e venne a Roma. Ionto nella piazza de Santo Marciello, disse ca queste cose non li piacevano. Lo sequente dìe, la matina per tiempo, Cola de Rienzi mannao a missore Stefano lo editto e commannamento che se dovessi partire de Roma. Missore Stefano la cetola prese e sì-Ila sciliao e fecene milli piezzi e disse: “Se questo pascio me fao poca de ira, io lo farraio iettare dalle finestre de Campituoglio”. Quanno Cola de Rienzi questo intese, espeditamente fece sonare la campana a stormo. Tutto lo puopolo traieva con furore. Granne se apparecchiava pericolo. Allora missore Stefano cavalcao in sio cavallo. Solo con uno fante da pede ne fuìo fòra de Roma. A gran pena se fisse poco in Santo Lorienzo fòra le mura per poco de pane manicare. Vaone a Pellestrina lo veterano. Denanti allo figlio e allo nepote lamentanza fao. Allora Cola de Rienzi mannao commannamenti a tutti li baroni de Roma che se partissino e issino a loro castella; la quale cosa subitamente fatta fu. Lo sequente dìe li fuoro rennuti tutti li ponti li quali staco nello circuito della citate. Allora Cola de Rienzi fece suoi officiali. E mo' prenne uno e mo' prenne un aitro; questo appenne, a questo mozza lo capo senza misericordia. Tutti li riei iudica crudelemente. E puoi parlao allo puopolo, e in quello parlamento se fece confermare e fece fermare tutti suoi fatti, e domannao de grazia dallo puopolo che esso e-Ilo vicario dello papa fussino chiamati tribuni dello puopolo e liberatori. Allora li signori voizero fare una loro coniurazione contra lo tribuno e-llo buono stato: non fuoro in concordia; la cosa non venne fatta. Delle cose civile se renneva rascione espeditamente. In questo tiempo orribile paura entrao l'animi delli latroni, micidiari, malefattori, adulteratori e de onne perzona de mala fama. Ciasche diffamata perzona iessiva fòra della citate nascostamente, secretamente fuiva. Alla mala iente pareva che essi devessino essere presi nelle loro case proprie e essere menati allo martirio. Dunqua fugo li riei più là assai che non so' li confini della contrada de Roma. Non speravano salute in alcuno. Lassavano le case, li campi, le vigne, le moglie e- Ili figli. Allora le selve se comenzaro ad alegrare, perché in esse non se trovava latrone. Allora li vuovi comenzaro ad arare. Li pellegrini comenzaro a fare loro cerca per le santuarie. Li mercatanti comenzaro a spessiare li procacci e camini. In questo tiempo nella citate de Roma nato fu uno mostro. Nella contrada de Camigliano de una femina pedonessa nacque ad onne sala apparecchiao lo cellaro de vino nello cantone. Era la viilia de santo Pietro in Vincola. Ora era de nona. Tutta Roma, maschi e femine, ne vaco a Santo Ianni. Tutti se apparecchiano sopra li porticali per la festa vedere e nelle vie piubiche per vedere questo triomfo. Allora venne la moita cavallaria de diverze nazione de iente, baroni, populari, foresi a pettorale de sonaglie, vestuti de zannato, con banniere. Facevano granne festa, currevano iocanno. Ora ne viengo buffoni senza fine. Chi sona tromme, chi cornamuse, chi cerammelle, chi miesi cannoni. Puoi questo granne suono venne la moglie a pede colla soa matre. Moite oneste donne la accompagnavano per volerli compiacere. Denanti alla donna venivano doi assettati iovini, li quali portavano in mano uno nobilissimo freno de cavallo tutto 'naorato. Tromme d'ariento senza numero ora vedesi trommare. Po' questi venne gran numero de iocatori da cavallo, fra li quali Peroscini e Cornetani fuoro li più avanzarani. Doi voite iettaro loro vestimenta de seta. Puoi veniva lo tribuno e-Ilo vicario dello papa allato. Denanzi allo tribuno veniva uno lo quale portava in mano una spada nuda. Sopra lo capo un aitro li portava uno pennone. In mano portava una verga de acciaro. Moiti notabili erano in soa compagnia. Era vestuto con una gonnella bianca de seta miri candoris, inzaganata de aoro filato. La sera, fra notte e die, sallio nella cappella de Bonifazio papa, favellao allo puopolo e disse: “Sacciate ca questa notte me dego fare cavalieri. Crai tornarete, ca oderete cose le quale piaceraco a Dio in cielo, alli uomini in terra”. In tanta moititudine da onne parte era letizia. Non fu orrore, non arme. Doi perzone àbbero paravole. Adirati trassero le spade. 'Nanti che colpo menassino le tornaro in loro guaine. Onneuno vao in soa via. Delle citate vicine a questa festa vennero li abitatori, che più è, li veterani e-Ile poizelle, vedove e maritate. Puoi che onne iente fu partuta, allora fu celebrato uno solenne officio per lo chiericato. E po' lo officio entrao nello vagno e vagnaose nella conca dello imperatore Constantino, la quale ène de preziosissimo paragone. Stupore ène questo a dicere. Moito fece la iente favellare. Uno citatino de Roma, missore Vico Scuotto cavalieri, li cenze la spada. Puoi se adormìo in uno venerabile lietto e iacque in quello luoco che se dice li fonti de Santo Ianni, drento dallo circuito delle colonne. Là compìo tutta quella notte. Ora odi maraviglia. Lo lietto e-Ila lettiera nuovi erano. Como venne lo tribuno a sallire a lietto, subitamente una parte dello lietto cadde in terra et sic in nocte silenti mansit. Fatta la dimane, levase su lo tribuno vestuto de scarlatto con vari, centa la spada per missore Vico Scuotto, con speroni d'aoro, como cavalieri. Tutta Roma, onne cavallaria, ne vao a Santo Ianni, anco li baroni e foresi e citadini per vedere missore Nicola de Rienzi cavalieri. Faose granne festa, faose letizia. Staieva missore Nicola como cavalieri ornato nella cappella de Bonifazio papa sopra la piazza con solenne compagnia. Là se cantava Non ce mancao cantore, non apparato de ornamento. Mentre che tale solennitate se celebrava, lo tribuno se fece 'nanti allo puopolo, mise gran voce e disse: “Noi citemo missore papa Chimento che a Roma venga alla soa sede”. Puoi citao lo colleio delli cardinali. Anco citao lo Bavaro. Puoi citao li elettori dello imperio inla Alamagna e disse: “Voglio che questi vengano a Roma. Voglio vedere che rascione haco nella elezzione”; ca trovava scritto che, passato alcuno tiempo, la elezzione recadeva a Romani. Fatta tale citazione, prestamente fuoro apparecchiate lettere e currieri e fuoro messi in via. Puo' questo trasse fòra della vaina la soa spada e ferìo lo aitare intorno in tre parte dello munno e disse: “Questo è mio, questo è mio, questo è mio”. Era là presente a queste cose lo vicario dello papa. Stava como leno idiota. Non sentiva, ma stupefatto de questa novitate contradisse. Abbe un sio notaro e per sentenzia piubica se protestao e disse ca queste cose non se facevano de soa voluntate, anco senza soa coscienzia e licenzia de papa; e de ciò pregao lo notaro che ne traiessi piubico instrumento. Mentre che lo notaro gridanno ad aita voce queste protestazioni allo puopolo faceva, commannao missore Nicola che tromme, trommette, naccari e ceramelle sonassino, che per lo maiure suono la voce dello notaro non se intennessi. Lo maiure suono celava lo minore. Viziosa buffonia! Fatta questa cosa, la messa e soa solennitate finita fu. Intienni una cosa notabile. Continuamente in quello dìe, dalla dimane nell'alva fi' a nona, per le nare dello cavallo de Constantino, lo quale era de brunzo, per canali de piommo ordinati iessìo vino roscio per froscia ritta e per la manca iessìo acqua e cadeva indeficientemente in la conca piena. Tutti li zitielli, citatini e stranieri, li quali avevano sete, staievano allo torno, con festa vevevano. Puoi che palesato fu che vagnato era nella conca de Constantino e che citato avea lo papa, moito ne stette la iente sospesa e dubiosa. Fu tale che lo represe de audacia, tale disse che era fantastico, pazzo. Ora ne vaco allo solennissimo pranzo de varietate de moiti civi e nuobili vini signori e donne assai. Sedéo missore Nicola e-llo vicario dello papa soli alla tavola marmorea - menza papale ène - nella sala de Santo Ianni, la vecchia. Tutta quella sala fu piena de menze. La moglie colle donne manicao nella sala dello palazzo nuovo dello papa. In questo pranzo fu maiure carestia de acqua che de vino. Chi voize stare allo pranzo stette. Non ce fu ordine alcuno. Abbati, chierichi, cavalieri, mercatanti e aitra iente assai. Confietti de divisate manere. Funce abunnanzia de storione, lo pesce delicato, fasani, crapetti. Chi voleva portare lo refudio, portava liberamente. A tale convito fuoro li ammasciatori li quali ad esso erano venuti de diverze parte. Mentre lo manicare se faceva, senza li aitri buffoni moiti, fu uno vestuto de cuoro de vove. Le corna in capo avea. Vove pareva. Iocao e saitao. Fornito lo pranzo, cavalca missore Nicola de Rienzi a Campituoglio, vestuto de scarlatto con vari, con granne cavallaria. Non la: raio quello che ordinao nella soa salluta. Fece una cassa con uno forame de sopre quanno in prezzo, puoi devenne in vilitate. Anche se fece uno capelletto tutto de perne, moito bello, e su nella cima staieva una palommella de perne. Questi divierzi vizii lo fecero tramazzare e connusserollo in perdimento per questa via. Uno dìe convitao a pranzo missore Stefano della Colonna lo vegliardo, della cui bontate ditto ène de sopre. Como fu ora de pranzo, così lo fece menare per forza in Campituoglio e là lo retenne. Venuta la sera, li populari romani moito biasimavano la malizia delli nuobili e magnificavano la bontate dello tribuno. Allora missore Stefano lo veglio mosse una questione: quale era meglio ad un rettore de puopolo, l'essere prodigo overo avaro? Moito fu desputato sopra ciò. Dopo tutti missore Stefano, presa la ponta della nobile guamnaccia dello tribuno: “Per ti, tribuno, fora più convenevole che portassi vestimenta oneste de vizuoco, non queste pompose”. E ciò dicenno li mostrao la ponta della guarnaccia. Questo odenno Cola de Rienzi fu turbato. La sera era. Fece stregnere tutti li nuobili e feceli aiognere guardie. Missore Stefano lo veterano fu renchiuso in quella sala dove se fao lo assettamento. Tutta la notte stette senza lietto. Annava de là e de cà, toccava la porta, pregava le guardie che-Ili operissino. Le guardie non lo scoitavano. Crudele cosa fatta li fu in tutta quella notte senza pietate. Ora se fao dìe. Lo tribuno avea deliverato de troncare la testa ad onneuno nello parlatorio per liberare del tutto lo puopolo de Roma. Commannao che lo parlatorio fussi parato de panni de seta de colori rosci e bianchi, e fatto fu. Ciò fece in segnale de sangue. Puo' fece sonare la campana e adunao lo puopolo. Puoi mannao lo confessore, cioène uno frate minore, a ciasche barone, che se levassino a penitenza e prennessero lo cuorpo de Cristo. Intanto alcuni citatini romani consideranno lo iudicio che questo voleva fare, impedimentierolo con paravole dolci e losenghevile. Alla fine ruppero lo tribuno in soa opinione e levarolo de proponimento. Era ora de terza. Tutti li baroni como dannati, tristi, descesero ioso allo parlatorio. Sonavano le tromme como se volessino iustiziare li baroni denanti allo puopolo. Lo tribuno, mutato dello sio proponimento, sallìo nella aringhiera e fece uno bello sermone. Fonnaose nello paternostro:" Dimitte nobis debita". Puoi scusao li baroni e disse ca volevano essere in servizio dello puopolo, e pacificaoli collo puopolo. Ad uno ad uno inchinaro lo capo allo puopolo. Alcuni de loro fece patrizii, alcuni fece profietti sopra la annona, alcuni duca de Toscana, alcuni duca de Campagna. E deo a ciascheuno una bella robba forrata de varo, adorna, uno confallone tutto de spiche de aoro. Puoi li fece pranzare con esso e cavalcao per Roma e menaoselli dereto. Puoi li lassao ire in loro viaii salvi. Questo fatto moito despiacque alli descreti. Disse la iente: “Questo hao anco tornao e entrao la porta se per via alcuna poteva lo sio figlio liberare. Non se approssimao, ca conubbe che muorto era. Intenneva a campare la perzona. Tornava in reto tristo. Nello iessire che faceva della porta, venne de sopra dallo torriciello una grossa macina e percosse esso nelle spalle e-Ilo cavallo nella groppa. Ora lo sequitano le lance lanciate de-Ilà e de cà. Lo cavallo, feruto nello pietto de lancia, iettava caici, e sì spesso che, non potennose mantenere a cavallo, cadde per terra. Veo lo puopolo senza rascione e sì-Ilo occide in fronte della porta, in quello luoco dove stao la maine nello parete, in mieso alla strada. Là iacque nudo in veduta ad onne puopolo, a chi passava. Non aveva uno delli piedi. Moite ferute avea. Fra lo naso e-Ili uocchi avea una feruta e sì terribile opertura, che pareva lo guado delle gote dello lopo. Lo sio figlio Ianni abbe sole doi ferute nello pettignone e nello pietto. Ora iesse lo puopolo furioso senza ordine, senza leie; cerca a chi dea morte. Scontraro li iovini Pietro de Agabito della Colonna che dereto fu prepuosto de Marzilia, lo quale chierico fu. Mai vestute non se aveva arme se non allora. Era caduto da cavallo. Non poteva liberamente annare, perché la terra era scivolente. Fugìose in una vigna vicina. Calvo era e veterano. Pregava per Dio che perdonassino. Non vaize lo pregare. In prima li tuoizero soa moneta, puoi lo desarmaro, puoi li tuoizero la vita. Stette in quella vigna nudo, muorto, calvo, grasso. Non pareva omo da guerra. Appriesso da esso in quella vigna iaceva un aitro barone delli signori de Bellovedere. Fuoro de muorti in poco de spazio da dodici. Alla supina iacevano. Tutta l'aitra moititudine, sì de pedoni sì de cavalieri, lassano l'arme de-Ilà e de cà senza ordine con granne paura. Non se voitavano capo dereto. Non fu chi daiessi colpo. Missore Iordano levao la fronnosa, non se retenne fi' a Marini. Sconfitta fu onne moititudine. Abattuti fuoro li nimici e iacquero muorti in terra, in veduta delli passanti e de onne puopolo, quelli li quali fuoro senatori illustri si' ad ora nona. Da vero che- lo stennardo dello tribuno gìo per terra. Lo tribuno sbaottito staieva colli uocchi aizati a cielo. Aitra paravola non disse se non questa: “Ahi Dio, haime tu traduto?” Puoi che-Ila vittoria fu per lo puopolo, lo tribuno fece sonare soie tromme de ariento e con granne gloria e triomfo recoize lo campo e pusese in capo la soa corona de ariento de fronni de oliva e tornao con tutto lo puopolo triomfante a Santa Maria dell'Arucielo e là rassenao la verga dello acciaro e-Ila corona della oliva alla Vergine Maria. Denanti a quella venerabile maine appese la bacchetta e-lla corona in casa delli frati minori. Da puoi mai non portao bastone né corona né confallone sopra capo. Po' questo parlao allo puopolo in parlatorio e disse ca voleva convertere la spada nella guaina. E trasse la spada e sì-Ila forviva colle vestimenta soie e disse: “Aio mozzato recchia da tale capo che non lo potéo tagliare papa o imperatore”. Quelle tre corpora fuoro portate in Santa Maria delli frati, copierti de palii de aoro, nella cappella de Colonnesi. Vennero le contesse con moititudine de donne scapigliate per ululare de sopra li muorti, cioè sopra le corpora de Stefano, Ianni e Pietro de Agabito. Lo tribuno le fece cacciare e non voize che-Ili fussi fatto onore né esequio e disse: “Se me faco poco de ira quelle tre corpora maladette, facciole iettare nello catafosso delli appesi, ca soco periuri, non soco degni de essere sepelliti”. Allora queste tre corpora fuoro secretamente de notte portate nella chiesia de Santo Silviestro dello Capo e là senza ululato fuoro sepellite dalle monache. Qui voglio un poco delongare dalla materia. Scrive lo faconno recitatore Tito Livio che de Africa se mosse uno capitanio, lo megliore che mai fusse nello munno: Aniballo de Cartaine abbe nome. Questo Aniballo ruppe la pace a Romani e desfece la citate de Sagonza in Spagna a despietto e onta dello senato de Roma. Puoi passao l'Alpi de cà in Pedemonti e venne in Lommardia, e là sconfisse Sempronio consolo de Roma ad uno fiume che se dice Tesino, canto Pavia. Puoi ne venne in Toscana e là, allo laco de Peroscia, sconfisse lo esercito de Roma e tagliao la testa a Fiaminio consolo. Puoi voize commattere Spoleti e no-Ilo potéo avere. Puoi deo la voita in Campagna a Montecasino, e là li venne alla frontiera Fabio lo saputo con granne oste e tennelo ad abaio anni tre. Po' li tre anni fuoro mutati li capitanii. Fabio fu casso. Li capitanii fuoro doi: per li nuobili fu capitanio Emilio Pavolo, per li populari fu capitanio Terenzio Varro. Lo sapere e-lla industria de Aniballo fu tanta che levao questi doi capitanii dalli piedi loro e connusseli con onne loro potenzia de cavalieri e de pedoni fi' in Puglia ad uno fiume lo quale se dice Volturno. E là sconfisse lo puopolo de Roma, sconfisse doi osti. Là morìo uno delli imperatori, Emilio Pavolo. Fuoronce muorti ottanta senatori. Morìoce Servilio, lo quale l'anno passato era stato consolo. Morieronce tribuni e bona iente assai. Morieronce quarantaquattro migliara de pedoni. Morieronce otto milia e ottociento cavalieri. Dieci milia fuoro li presonieri. Fonce guadagnata robba infinita, cavalli e arme, aoro e ariento. Li freni e-Ile coperte delli cavalli de Romani erano tutte de aoro lavorate. Roma fu terribilemente vedovata. Fatta cotale sconfitta, era ora tarda, calava lo sole. Aniballo vittorioso staieva forte alegro. Li principi dell'oste soa li fecero intorno rota e facevanolli festa e alegrezza dello triomfo che avea in tale dìe. Puoi li domannaro de grazia che quella notte e-Ilo dìe sequente daiessi posa a si e alla soa cavallaria, perché erano lassi e stanchi. Staieva fra questi principi uno prodissimo omo, lo quale avea nome Maharbal. Questo era duca e connucitore della cavallaria. Fecese 'nanti Maharbal e disse queste paravole: “Aniballo, la opinione mea non è che tu dei posa né a ti né alli tuoi cavalieri. Vòi tu sapere que hai guadagnato oie in questa sconfitta? De qui a cinque dìi tu vincitore manicarai e farrai festa in Campituoglio se senza demoranza esequisci la toa fortuna. Dunque lo posare non fao per ti. Muovi tuoi cavalieri e toie masnate, non li dare posa. Passemone a Roma. Roma trovaremo desfornita colle porte aperte. Serrai signore a queto. Meglio è che Romani dicano:" Aniballo è venuto" che:"Aniballo deo venire"”. A queste paravole Aniballo respuse e di: “Mabharbal, io moito laodo la toa bona voluntate, ma la notte hao consiglio. Vogliomene alquanto penzare e consigliare”. Respuse Maharbal e disse: “Aniballo, Aniballo, tu sai con tuoi ignegni vencere, ma non sai usare la vettoria”. Dunque dice Tito Livio: “Quella demoranza fu salutifera allo puopolo de Roma, ca liberao Romani da servitute e retrasse lo imperio de mano de Africani, alli quali decadeva”. Ora allo preposito, se Cola de Rienzi tribuno avessi sequitata la soa vittoria, avessi cavalcato a Marini, prenneva lo castiello de Marini e desertava in tutto missore Iordano, che mai non levava capo, e-Ilo puopolo de Roma fora remaso in libertate senza tribulazione. Vengote a dicere como lo tribuno cadde dalla soa signoria. La dimane po' la sconfitta fuoro chiamati tutti li cavalieri romani, li quali appellava"sacra milizia", e disseli: “Vogliove dare la paca doppia. Vengate con meco”, Non sapeva alcuno que volessi fare. Sonanno le tromme, gio a quello luoco dove fi fatta la sconfitta. Menao seco un sio figlio Lorienzo. Nello luoco dove fu muorto Stefano remase una pescolla de acqua. Ionto, fece scavalcare lo figlio e asperzeli sopra l'acqua dello sangue de Stefano in quella pescolla e disse: “Serrai cavalieri della vittoria”. Maravigliatisi tutti li aitri, anco stordienti, commannao che-Ili conestavili da cavallo ferissino lo figlio piattoni colle spade là dallo lommo. Questo fatto, tornao a Campituoglio e disse: “Iate la via vostra. Opera commune ène quella che avemo fatta. Avemo tutti sire romani. A noi e a voi spettao pugnare per la patria”. Questo ditto forte turbao l'animo delli cavalieri. Da puoi mai non voizero arme portare. Allora lo tribuno comenzao ad acquistare odio. La iente ne sparlava e diceva ca soa arroganzia era non poca. Allora comenzao terribilemente deventare iniquo e lassare le vestimenta della onestate. Vestiva panni como fussi uno asiano tiranno. là mustrava de volere tiranniare per forza. Ià comenzao a tollere delle abadie. Ià prenneva chi pecunia aveva e tollevala. A chi l'aveva imponevali silenzio. Sì spesso non faceva parlamento per la paura che avea dello furore dello puopolo. E prese colore e carne e meglio manicava, meglio dormiva. Allora lassao lo profietto, perché non era sano della perzona; tenne in staio lo figlio. Allora li puopoli lo comenzaro ad abannonare e-Ili baroni, e non tanti tanti ivano a corte per la rascione como solevano. Allora impuse la data dello sale; voleva pecunia per sollati. Nientedemeno missore Iordano de Marini non cessava de infestare onne dìe, e prenneva e derobava la iente. De presure se mormorava. Era lo tiempo dello autunno, là dopo le vennegne. Lo grano era caro, valeva lo ruio sette livre de provesini. Questo tolleva la pecunia a chi l'aveva. Missore Iordano predava. Lo puopolo male se contentava. Lo legato cardinale, dello quale de sopra ditto ène, lo maledisse e iudicaolo per eretico. Puoi compuse colli signori, cioène con Luca Saviello, Sciarretta della Colonna, e davali in tutto favore. Allora le strade fuoro chiuse. Li massari delle terre non portavano lo grano a Roma. Onne dìe nasceva uno romore. Fu renchiuso in una torre grossa e larga. Una iusta catena teneva in gamma. La catena era legata su alla voita della torre. Là staieva Cola vestuto de panni mezzani. Aveva livri assai, sio Tito Livio, soie storie de Roma, Abibia e aitri livri ai. Non finava de studiare. Vita a: i sufficiente della scudella dello papa, che per Dio se daieva. Fuoro esaminati suoi fatti e fu trovato fidele cristiano. Allora fu revocato lo prociesso e-Ila sentenzia de don Bruno e dello cardinale de Ceccano, e fu assoluto. E venne in grazia dello papa e fu scapulato. Quanno iessìo de presone fu lo primo dìe de agosto. Deveva venire in Italia uno legato, don Gilio Conchese, cardinale de Spagna. Apparecchiavase e scriveva sia famiglia. Cola de Rienzi con questo legato iessìo de Avignone purgato, benedetto e assoluto. Tornata l'oste, granne partita de Romani trasse a vedere Cola de Rienzi: uomini populari, granne lengue e core; maiure proferte, poche attese. Dicevano: “Torna alla toa Roma. Curala de tanta infirmitate. Sinne signore. Noa te darremo sobalimento, favore e forza. Non dubitare. Mai non fusti tanto demannato né amato quanto allo presente”. Queste vessiche li populari de Roma li daievano: non li daievano denaro uno. Per queste paravole mosso Cola de Rienzi, anco per la gloria, la quale naturalemente affettava, penzava de fare alcuno fonnamento donne potessi avere iente e su dio per Roma entrare. Dissene collo legato. Non li deo denaro uno. Sumpto cibo, mette mano Cola de Rienzi a favellare della potenzia de Romani. Mistica soie storie de Tito Livio. Dice soie cose de Bibia. Opere la fonte de sio sapere. Deh, como bene parlava! Tutta soa virtute opere in lo rascionare. E sì de ponto dice, che onne omo abafa soa bella diceria, leva de piedi onne omo. Teo la mano alla gota e ascoita con silenzio Missore Arimbaldo. Maravigliaose dello bello parlare. Ammira la magnitudine delli virtuosi Romani. Incalescente vino, monta lo animo in aitezze. Lo fantastico piace allo fantastico. Missore Arimbaldo senza Cola de Rienzi non sao demorare: con esso stao, con esso vao. Uno civo prienno, in uno lietto posano. Penzano de fare cose magne, derizzare Roma e farla tornare in pristino sio. A ciò fare bisognava moneta. Senza sollati non se po' fare. Puoi che Cola de Rienzi abbe li quattro milia fiorini, vestìose riccamente de più robbe, adobaose a senno dello savio sio ornatamente: gonnella, guarnaccia e cappa de scarlatto forrata de varo, infresata de aoro fino, pistiglioni de aoro, spada ornata in centa, cavallo ornato, speroni de aoro, famiglia vestuta nova. Quanno fu denanti allo legato, faceva dell'altiero. Mustravase gruosso con sio cappuccio in canna de scarlatto, con cappa de scarlatto, forrati de panze de vari. Stava supervo. Capezziava. Menava lo capo 'nanti e reto, como dicessi: “Chi so' io? Io chi so'?”’ Puoi se rizzava nelle ponte delli piedi; ora se aizava, ora se abassava. Maravigliase lo legato e deo alquanto fede alle soie paravole. Puro non li deo denaro uno. Allora parlao Cola e disse: “Legato, famme senatore de Roma. Io vaio e parote la via”. Lo legato lo fece senatore e mannaolo via. A potere venire a Roma bisognava iente. Per questa iente avere mannao Cola de Rienzi sio messaio. Lo messaio trovao li conestavili e disse così: “Prennete suollo per doi mesi. Recepate per uno la paca. Averete suollo in perpetuo. Connucerete missore Nicola de Rienzi a Roma, senatore per lo papa”. A queste paravole li conestavili fuoro in consiglio. La sentenzia delli Todeschi fu de non ire. Assenavano tre cascioni. La prima: “Romani soco mala iente, supervi, arroganti, non haco paro”. La secunna: “Questo ène omo popularo, povero, de vile connizione. Non averao da pacare. Dunqua a chi serviremo noa?” La terza: “Li potienti de Roma non voco lo stato de questo omo. Tutti ne serraco nimici, ca-Jli despiace mo'. Dunqua questo suollo non prennamo. La annata a Roma non fao per noa”. Da vero questa fu la resposta delli Todeschi, e fu vera. Soco Todeschi como descengo dalla Alamagna semplici, puri, senza fraude. Como se allocano fra Italiani deventano mastri coduti, viziosi, che siento onne malizia. Alli Todeschi respuse uno conestavile borgognone e disse: “Prennamo questi denari novielli sollacciati per uno mese. Tornaremo lo buono omo in soa casa. Scorgamolo in Roma. Guadagnaremo la perdonanza. Chi vorrao tornare tornarao, chi vorrao remanere remanerao”. Questa sentenzia venze. Le sedici banniere presero suollo da Cola de Rienzi. Questa iente da cavallo abbe. Abbe anco alquanti Peroscini, figli de buoni uomini. Abbe anco da ciento fanti toscani masnadieri con corazzine da suollo, nobile e bella brigata. Con questa iente descenne per Toscana, passa valli e monti e locora pericolose. Senza reparo ionze ad Orte. Allora la soa venuta fu sentuta a Roma. Romani se apparecchiavano a receperelo con letizia. Li potienti staievano alla guattata. Da Orte se mosse e ionze a Roma, anno Domini MCCCLIMI[I]. La cavallaria de Roma li iessìo denanti fi' a Monte Malo colle frasche delle olive in mano in segno de vettoria e pace. Iessìoli lo puopolo con granne letizia, como fussi Scipione Africano. Fuoro fatti archi triomfali. Entrao la porta de Castiello. Per tutta piazza de Castiello, per lo ponte, per la strada fuoro fatte arcora de drappi de donne, de ornamento de aoro e de ariento. Pareva che per la letizia tutta Roma se operiss . Granne ène la alegrezza e-Ilo favore dello puopolo. Con questo onore fu menato fi' allo palazzo de Campituoglio. Là fece sio bello e luculento parlare e disse ca sette anni era ito spierzo fòra de soa casa, como gìo Nabuccodonosor, ma per la potenzia dello virtuoso Dio era tornato in soa sede senatore per la vocca de papa. Non che esso fussi sufficiente; la soa vocca lo poteva sufficiente fare. Aionze che intenneva rettificare e relevare lo stato de Roma. Era questo omo fortemente mutato dalli primi suoi muodi. Soleva essere sobrio, temperato, astinente. Ora deventato destemperatissimo vevitore, summamente usava lo vino. Ad onne ora confettava e veveva. Non ce servava ordine né tiempo. Temperava lo grieco collo fiaiano, la malvascia colla rebola. Ad onne ora era dello vevere più fiesco. Orribile cosa era potere patere de vederlo. Troppo veveva. Diceva che nella presone era ato accalmato. Anco era deventato gruosso sterminatamente. Aveva una ventresca tonna, triomfale a muodo de uno abbate asiano. Tutto era pieno de carni lucienti como pagone, roscio, varva longa. Sùbito se mutava nella faccia, sùbito suoi uocchi se-Ili infiammavano. Mutavase de opinione. Così se mutava sio intellietto como fuoco. Aveva li uocchi bianchi: tratto tratto se-Ili arrosciavano como sangue. Ora voglio contare la morte dello tribuno. Aveva lo tribuno fatta una gabella de vino e de aitre cose. Puseli nome"sussidio". Coize sei denari per soma de vino. Coglievase la moita moneta. Romani se-Ilo comportavano per avere stato. Anco stregneva lo sale per più moneta avere. Anco stregneva soa vita e soa famiglia in le spese. Onne cosa penza per sollati. Repente prese uno citatino de Roma nobile assai, perzona sufficiente, saputa: nome avea Pannalfuccio de Guido. Omo virtuoso, assai desiderava la signoria dello puopolo. E sì-Ili troncao la testa senza misericordia e cascione alcuna. trovava. Dunque se spogliao le insegne della baronia, l'arme puse io' in tutto. Dolore ène de recordare. Forficaose la varva e tenzese la faccia de tenta nera. Era là da priesso una caselluccia dove dormiva lo portanaro. Entrato là, tolle uno tabarro de vile panno, fatto allo muodo pastorale campanino. Quello vile tabarro vestìo. Puoi se mise in capo una coitra de lietto e così devisato ne veo ioso. Passa la porta la quale fiariava, passa le scale e-Ilo terrore dello solaro che cascava, p: a l'uitima porta liberamente. Fuoco non lo toccao. Misticaose colli aitri. Desformato desformava la favella. Favellava campanino e diceva: “Suso, suso a gliu tradetore!” Se le uitime scale passava era campato. La iente aveva l'animo suso allo palazzo. Passava la uitima porta, uno se-lli affece denanti e si-llo reaffigurao, deoli de mano e disse: “Non ire. Dove vai tu?” Levaoli quello piumaccio de capo, e massimamente che se pareva allo splennore che daieva li vraccialetti che teneva. Erano 'naorati: non pareva opera de riballo. Allora, como fu scopierto, parzese lo tribuno manifestamente: mostrao ca esso era. Non poteva dare più la voita. Nullo remedio era se non de stare alla misericordia, allo volere altruio. Preso per le vraccia, liberamente fu addutto per tutte le scale senza offesa fi' allo luoco dello lione, dove li aitri la sentenzia vodo, dove esso sentenziato aitri aveva. Là addutto, fu fatto uno silenzio. Nullo omo era ardito toccarelo. Là stette per meno de ora, la varva tonnita, lo voito nero como fornaro, in iuppariello de seta verde, scento, colli musacchini inaorati, colle caize de biada a muodo de barone. Le vraccia teneva piecate. In esso silenzio mosse la faccia, guardao de-Ilà e de cà. Allora Cecco dello Viecchio impuinao mano a uno stuocco e deoli nello ventre. Questo fu lo primo. Immediate puo' esso secunnao lo ventre de Treio notaro e deoli la spada in capo. Allora l'uno, l'aitro e li aitri lo percuoto. Chi li dao, chi li promette. Nullo motto faceva. Alla prima morìo, pena non sentìo. Venne uno con una fune e annodaoli tutti doi li piedi. Dierolo in terra, strascinavanollo, scortellavanollo. Così lo passavano como fussi criviello. Onneuno ne-sse iocava. Alla perdonanza li pareva de stare. Per questa via fu strascinato fi' a Santo Marciello. Là fu appeso per li piedi a uno mignaniello. Capo non aveva. Erano remase le cocce per la via donne era strascinato. Tante ferute aveva, pareva criviello. Non era luoco senza feruta. Le mazza de fòra grasse. Grasso era orribilemente, bianco como latte insanguinato. Tanta era la soa grassezza, che pareva uno esmesurato bufalo overo vacca a maciello. Là pennéo dìi doi, notte una. Li zitielli li iettavano le prete. Lo terzo dìe de commannamento de Iugurta e de Sciarretta della Colonna fu strascinato allo campo dell'Austa. Là se adunaro tutti Iudiei in granne moititudine: non ne remase uno. Là fu fatto uno fuoco de cardi secchi. In quello fuoco delli cardi fu messo. Era grasso. Per la moita grassezza da sé ardeva volentieri. Staievano là li Iudiei forte affaccennati, afforosi, affociti. Attizzavano li cardi perché ardessi. Così quello cuorpo fu arzo e fu redutto in polve: non ne remase cica. Questa fine abbe Cola de Rienzi, lo quale se fece tribuno augusto de Roma, lo quale voize essere campione de Romani. In cammora soa fu trovato uno spiecchio de acciaro moito polito con carattere e figure assai. In quello spiecchio costregneva lo spirito de Fiorone. Anco li fuoro trovati pugillari dove aveva scritti Romani, la coita che voleva mettere. Lo primo ordine, ciento perzone da cinqueciento fiorini; lo secunno ordine, ciento perzone da quattrociento fiorini; lo terzo, da ciento fiorini; lo quarto, da cinquanta fiorini; lo quinto, da dieci fiorini. Quanno questo omo fu occiso currevano anni Domini MCCCLUI[I], alli otto dìi de settiembro in ora della terza. Non solamente questo fu muorto in furore de puopolo, ma tutta soa forestaria fu derobata de tutto arnese. Perdiero cavalli e arme. Fuoro lassati nudi sì quelli che se trovaro a Roma, sì quelli che staievano de fore per le fortezze a guerriare. Vogliome stennere sopra questa materia. Franceschi entraro in Roma e assediaro Tarpeia, lo monte de Campituoglio. Per la paura Romani se erano redutti là. Puoi che viddero che in Tarpeia non era sufficienzia de fodero, deliveraro de mannare fòra li veterani, como perzone inutile, per avere più fodero, per salvare la ioventute. Così fu. Li veterani, 'nanti che issiro fòra de Tarpeia, fuoro in consiglio. Dissero così: “Noi gimo alle case nostre. Fra li Franceschi per carnario muorti serremo senza dubio. Meglio ène che moramo in abito de virtute che de miseria. Onneuno se vesta le ornamenta soie”. Così fi. Li veterani ne iro alle case. Ciascheuno se adobao con quelli ornamenti li quali avevano auti nelle onoranze delli offizii. Tale se vestìo a muodo de pontefice, tale a muodo de senatore, chi de consolo. Allocarose nelli facistuori adornati, colle bacchette in mano, adorni de prete preziose e de aoro. Fra li aitri uno aveva nome Papirio. Forte adorno staieva denanti la soa casa, cum pretexta, cum trabea indutus. La matina li Franceschi se maravigliaro de tale novitate, curzero a vedere como cosa nova. Uno Francesco prese la varva a questo Papirio e disse: “Ahi vegliardo, vegliardo!” Allora Papirio se desdegnao, perché lo Francesco non li favellava con reverenzia, como l'abito sio mustrava. Destese la bacchetta e ferìo lo Francesco nello capo, e non teméo de morire per salvare la onoranza della maiestate soa. Lo buono Romano dunqua non voize morire colla coitra in capo como Cola de Rienzi morìo.
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