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Riassunto del testo di Marc Auge: "Un etnologo nel metrò, Sintesi del corso di Antropologia

Riassunto dettagliato del testo un etnologo in metrò

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

Caricato il 28/04/2020

Utente sconosciuto
Utente sconosciuto 🇮🇹

4.3

(118)

43 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Riassunto del testo di Marc Auge: "Un etnologo nel metrò e più Sintesi del corso in PDF di Antropologia solo su Docsity! Anziché occuparsi di quelli che sono i tradizionali oggetti dell'etnologia, Augé questa volta svolge la stia ricerca sul campo in un ambito piuttosto inconsueto: la metropolitana parigina e i suoi «indigeni». Prova cioè ad applicare alla vita quotidiana di una società europea quell'approccio generalmente utilizzato per l'«altro» culturale. E ne esce un originale studio di tutte quelle storie individuali (di individui che passano, a seconda del giorno e dell'ora, dalla vita familiare alla vita professionale, dal lavoro al tempo libero) e collettive (i richiami storici cui rinviano i nomi delle stazioni del metrò) che si scorano, si sovrappongono, si coniugano in modi e forme che normalmente sfuggono all'occhio reso pigro dalla consuetudine. Un'antropologia della vita quotidiana che ci propone insieme la soggettività di chi la descrive e l'oggettività del rapporto con l'«altro». una perdita totale del referente. Non a caso di recente l'antropologo Clifford Geertz sembra avere ridotto l'antropologia a una scienza dell'interpretazione del testo (Roland Barthes, ma ancor più Paul Ricoeur, insegnano). Il percorso cui Geertz è giunto, e qualunque possa essere il giudizio che su di esso si esprime, trova la sua legittimità nella collocazione ambigua che il testo antropologico ricopre. Tutti hanno sempre avuto nei confronti del testo una sorta di rapporto conflittuale. Indispensabile alla sopravvivenza stessa della disciplina, esso è però sospettato di inattendibilità. La proposta di Geertz è articolata e fine, e questa breve osservazione non gli rende giustizia, ma quello che qui ha importanza ricordare è che il suo antropologismo (mi scuso per l'orribile neologismo) si risolve in un rapporto con il testo che trova la sua origine proprio in questa evidente ambiguità: chi parla nel testo? l'antropologo o l'informatore? I Nuer sono (erano) i Nuer dei Nuer o i Nuer di Evans-Pritchard? Di qui Geertz; di qui anche la metantropologia di James Clifford; ma dopotutto di qui l'intera gamma, etnometodologia compresa, di quelle indagini sociologiche e antropologiche che in qual-che modo nascono (non foss'altro che per aggirarlo o superarlo propositivamente) in funzione del problema di verità che il testo rappresenta. Dice Augé: se comprendiamo che la soglia fra l'Altro e me non solo è mobile, come tutte le soglie del resto, in funzione dello specifico che affrontiamo, ma è appunto una soglia fra me e l'Altro e non tanto fra noi e gli altri, gran parte degli aspetti irrisolti del problema spariscono, perdono di consistenza. La definizione sociologica dell'io (della persona) non è una definizione fattibile se non utilizzando elementi di definizione che condivido con altri. L'Altro, perciò, non è mai tanto altro da me da essermi incomprensibile, innanzi tutto perché, se così fosse, smetterei persino di percepirlo come altro in rapporto a me (in un certo senso non lo percepirei affatto); ma non mi è mai nemmeno così simile da generare un processo di identificazione che anch'esso (al pari del precedente) mi impedirebbe di discernerne e quindi di avvertirne la somiglianza. Lo stesso vale per le società e le culture. È chiaro che in questa antropologia della solitudine che si profila all'orizzonte finisce con non esservi un'altra dimensione del rapporto al me; in un certo senso ribalta la tradizionale vettorialità del problema. li problema non pare tanto essere quello della definizione dell'Altro quanto piuttosto quello della definizione del me. Ma si è ]ungi dal cadere in una sorta di monadismo leibniziano o di solipsismo cattolico-esistenzialistico in quanto per definizione, dice Augé nel suo viaggio fatto di notazioni quotidiane e apparentemente secondarie, tanto in sociologia quanto in antropologia il me è definito dalla partecipazione a coordinate sociali di cui anche gli altri sono partecipi. La permeabilità alla comprensione del me, della mia persona, è garantita dal fatto che essa si definisce socialmente e non è una torre senza finestre irriducibile al senso di altre torri, come ha voluto, per la verità con scarso successo, un certo iperrelativismo da rotocalco. La stessa definizione della persona non ha senso in assenza di questa alterità prossima che ci circonda. Se la conversazione cadeva sui principi della Casa di Francia: «Gente che né voi né io conosceremo mai, e ne facciamo benissimo a meno, non è vero?», diceva la mia prozia a Swann, che magari aveva in tasca una lettera da Twickenham; gli faceva spostare il pianoforte e voltare le pagine dello spartito le sere in cui la sorella della nonna cantava, usando, nel maneggiare quella creatura altrove così ricercata, la rozzezza ingenua di un bambino che gioca con un ninnolo da collezione senza precauzioni maggiori che con un oggetto da pochi soldi. Non c'è dubbio che lo Swann conosciuto negli stessi anni da tanti frequentatori del Jockey era assai diverso da quello al quale dava vita la mia prozia quando di sera, nel piccolo giardino di Combray, dopo che erano risuonati i due esitanti rintocchi del campanello, iniettava e irrobustiva con rutto ciò che sapeva della famiglia Swann l'oscuro e incerto personaggio che si disegnava, seguito dalla nonna, su un fondo di tenebre, e veniva riconosciuto dalla voce. Ma anche a livello delle cose più insignificanti della vita, noi non siamo un tutto materialmente costituito, identico per tutti di cui ciascuno non deve fare altro che prendere conoscenza come di un capitolato di appalto o di un testamento; la nostra personalità sociale è una creazione del pensiero degli altri. Persino l'atto così elementare che chiamiamo «vedere una persona conosciuta» è in parte un atto intellettuale. Noi riempiamo l'apparenza fisica dell'individuo che vediamo con tutte le nozioni che possediamo sul suo conto, e nell'immagine totale che di lui ci rappresentiamo queste nozioni hanno senza alcun dubbio la parte più considerevole. Pagina formidabile della Recherche proustiana non a caso affidata, nella sua radice concettuale contemporaneamente tardiana e durkheimiana, alla finzione del romanzo. Una volta, infatti, che si tenta il superamento del dilemma espresso così chiaramente tempo fa da Claude Lévi-Strauss quando diceva che dopotutto nelle relazioni dell'etnografo il primitivo avrebbe potuto non ritrovarsi affatto, la narrazione etnografica finisce con l'avere le stesse possibilità del romanzo. Nelle ultime pagine, quando ipotizza provocatoriamente che l'etnologo nel metrò non ci sia ancora entrato, Augé ne simula il percorso e le difficoltà e finisce con il darci una spedizione etnologica nel metrò unicamente e incontestabilmente a un romanzo. Sotto questo aspetto appaiono importanti, anche per comprendere appunto la modalità così prossima al romanzo (non a caso) autobiografico (il sé che si racconta per l'Altro), gli appunti mossi da Augé a Marce] Mauss (vero mostro sacro dei l'antropologia e dell'antropologia storica francese) prima e a certe conclusioni di Lévi- Strauss dopo. Augé trova fertile ricorrere in prima istanza al fatto sociale totale di Mauss, si sarebbe tentati di dire come ecosistema concettuale da cui trarre l'exemplum da proporre all'attenzione; sono le modalità attraverso le quali il sociologo francese costituiva l'esemplarità del fatto sociale totale a lasciarlo perplesso. Nella formulazione maussiana mancava (ma è fatto, aggiungo io, che manca a non poca sociologia francese) un elemento fondamentale: non vi era un percorso che consentisse di vedere come si verificasse e quale collocazione avesse il realizzarsi dell'individuale. Perché, dice Augé (ma tutto ciò è chiaramente esposto nel libro), l'individuo è sostituito da reificazioni cui nella realtà non corrisponde alcunché. Lévi-Strauss glissa nella direzione giusta, e dove Mauss parla di società egli parla di individuo. Una sintesi individuale ha un senso, una sintesi sociale è una vuota espressione retorica. Sennonché, aggiunge Augé, Lévi-Strauss fa nascere il bimbo solo per ucciderlo poco dopo invocando sistemiche culturaliste altrettanto efficaci sul piano della retorica dell'immagine intellettuale quanto fattualmente inesistenti come nell'approccio di Mauss. In questo senso, dunque, si trova qui rafforzata l'idea, già espressa in I giardini del Lussemburgo, che nell'indagine etnologica il romanzo, e l'arte (mi permetto di aggiungere), sono, come si era già detto da Lev Tolstoj ad Arnold Gelehn e come ha indirettamente suggerito il filosofo Hilary Putnam, (etno)fonti tanto quanto il racconto del pellegrino o le confessioni dell'informatore. Anzi, in un certo senso non vi è narrazione di una soggettività che non sia in qualche modo romanzo. Non meravigli dunque il fatto che alla fine di una trilogia etnologica biografico-romanzata scritta da Augé, di cui questo è il primo e compiuto volume*, * Il secondo titolo della trilogia è Domaines et châteaux (in italiano Ville e tenute, etnologia della casa di campagna, Elèuthera 1994) e il terzo è Non-Lieux (in italiano NonIuoghi, introduzione a una antropologia della surmodernità, Elèuthera 1993, nuova edizione 2010) (N.d.T.). l'antropologo, il lettore e lo studioso si trovano di fatto (condividano o meno le tesi sostenute) di fronte a tre saggi di antropologia teorica. Contrariamente, dunque, a quanto si legge più avanti, l'etnologo nel metrò c'è già entrato e ha fatto il proprio mestiere. Il suo messaggio è chiaro: Aggiungo che questi sforzi di immaginazione, indipendentemente dal rischio di errore che comportano, non risultano assolutamente da una sorta di disprezzo, poiché io non saprei compierli se non mi sentissi vicino a ciò che essi prendono per oggetto, se non mi sentissi accessibile alle loro ragioni e permeabile ai loro umori, al punto da provare a volte, negli interrogativi che mi pongo a loro riguardo, una specie di dubbio sulla esatta natura di ciò che ci separa. E non è poi così difficile anticipare che una volta ristabilita una corretta formulazione fra l'indagine etnologica e quella antropologica vi sarà un gran lavoro da svolgere per comprendere proprio che cosa sia e quale sia «l'esatta natura di ciò che ci separa». Riferimenti bibliografici Mare Augé, La traversée du Luxembourg, Hachette, Paris, 1985 (trad. it.: Igiardini del Lussemburgo, El, Roma, 2000). Id., Domaines et châteaux, Seuil, Paris, 1989 (trad. it.: Ville e tenute, etnologia della casa di campagna, Elèuthera, Milano, 1994). Id., Non-Lieux. Introduction à une anthropologie de la surmodernité, Seuil, Paris, 1992 (trad. it.: Nonluoghi, introduzione a una antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano, 1993). Roland Barthes, S/Z, Seuil, Paris, 1970 (trad. it.: S/Z, Einaudi, Torino, 1981). James Clifford, On ethnographic authority, «Representations», 2, 1983, pp. 118-146. Jean Copans et al., L'anthropologie: science des sociétés prímitives?, Éditions E.P., Paris, 1971 (trad. it.: Antropologia culturale, Sansoni, Firenze, 1973). Annemarie de Waal Malefijt, Images ofMan. A History of Anthropological Thought, Alfred A. Knopf, New York, 1974 (trad. it.: Immagini dell'uomo. Storia del pensiero antropologico, Armando, Roma, 1978). Michel Foucault, Les mots et les choses, Cali Paris, 1966 (trad. it.: Le parole e le cose. Un'archeologia delle scienze umane, BUR, Milano, 2004). Clifford Geertz, Works and Lives. The Anthropologist as Author, Stanford University Press, Stanford, 1988 (trad. U.: Opere e vite. L'antropologo come autore, il Mulino, Bologna, 1990). Arnold Gehlen, Der Mensch. Seine Natur und Seine Stellung in der Welt, Aula, Wiesbaden, 1978 (trad. it.: L'uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Feltrinelli, Milano, 1990). Pier Paolo Giglioli e Alessandro Dal Lago (a cura di), Etnometodologia, il Mulino, Bologna, 1983; con saggi di Harold Garfinkel, Don H. Zimmerman, Melvin Poliner, David Sudnowk, Harvey Sacks, Roy Turner. Alfred Irving Hallowell, The Beginnings of Anthropology in America, in Frederica de Laguna (a cura di), Selected Papers from «America, Anthropologist» 1888-1920, Harper & Row, New York, 1960, pp. 1-90. 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Ebbene, nel metrò, che frequentavo fin dalla mia più tenera infanzia, ero un indigeno come un altro; solo che questo indigeno era un etnologo e mi veniva quindi offerta l'occasione di praticare una sorta di autoanalisi etnologica. Di questo dunque si trattava, e non di una conversione all'osservazione del mondo più sviluppato e di un addio all'Africa. Devo però sfumare quanto ho appena detto. Su due punti. Da una parte, l'indigeno che interrogavo in me parlava del metro, di ciò che ci vedeva allora; tale osservazione era quindi datata ed è per questa ragione che, recentemente, ho avuto il desiderio di attualizzarla per rendere conto di quello che era cambiato nel metrò, nella città e anche più in là nel mondo che ci circonda. L'esperienza soggettiva esprime qualcosa che la oltrepassa, e di molto. E questo mi conduce al secondo punto. Nell'indagine etnologica dei giorni nostri è cambiato il contesto. Ed è cambiato a tal punto che forse si sta invertendo Il senso stesso dell'osservazione etnologica. L'etnologia, in linea di principio, è l'analisi delle relazioni sociali nel loro contesto. Oggi il contesto si è nello stesso tempo ampliato (globalizzato) e interiorizzato (grazie socchiusa e sfuggire con un colpo di reni alla stretta della porta automatica, per esercitare poi un'insistente pressione con gli avambracci sulla massa inerte di quelli che, avendolo preceduto, non immaginavano che un altro potesse seguirli. Di questi virtuosismi legati all'abitudine si trova traccia anche al di fuori della stazione, in un uso dello spazio circostante contrassegnato da alcuni punti importanti: bistrò, panetteria, giornalaio, passaggio pedonale, semaforo a tre luci. Punti importanti attraverso i quali la persona esperta passa senza prestare troppa attenzione, anche se ha l'abitudine di fermarvici per riscaldarsi, informarsi o, nel caso degli ultimi due, di mettere alla prova, se è di umore un po' bizzarro e contestatario, i suoi riflessi e la sua capacità di accelerazione. Per la maggior parte i percorsi singoli nel metrò sono quotidiani e obbligatori. Non si sceglie di conservarli o meno nella memoria: se ne resta impregnati, come del ricordo del servizio militare. C'è solo un passo, che è capitato di fare a noi tutti, da qui all'immaginare che, all'occorrenza, se ne può avere un ricordo più o meno compiaciuto. Dopotutto essi non rinviano solo a se stessi, ma a un certo momento della vita percepito improvvisamente (illusoriamente, forse) nella sua totalità. Come se l'individuo che consulta una mappa del metrò riscoprisse, a volte, il punto di vista (in parte analogo a quello di cui André Breton postulava l'esistenza all'origine della visione surrealista) a partire dal quale si lasciano percepire in trasparenza, stranamente solidali a distanza, i meandri della vita privata e i rischi della professione, le pene del cuore e le congiunture politiche, le sventure del tempo e il piacere di vivere. È certamente alla nostra storia che ci mette di fronte la frequentazione del metrò, e in più di un senso. I nostri itinerari di oggi incrociano quelli di ieri, brano di vita di cui la mappa del metrò, nell'agenda che portiamo nel cuore, lascia vedere solo la parte esterna, l'aspetto simultaneamente più spaziale e più regolare; ma noi sappiamo bene che tutto è, più o meno, correlato, dal momento che nessuna paratia stagna separa, a volte con nostro estremo disagio, l'individuo da quelli che lo circondano, la nostra vita privata dalla nostra vita pubblica, la nostra storia da quella degli altri. La nostra stessa storia, infatti, è plurale: gli itinerari del lavoro quotidiano non sono i soli che conserviamo nella memoria e un nome di stazione che per molto tempo altro non fu per noi che un nome come un altro, un riferimento convenzionale in una serie invariabile, può all'improvviso assumere un significato senza precedenti, come simbolo di amore o di sventura. Presso gli ospedali si trova sempre un fioraio, un impresario di pompe funebri e una stazione di metro. A ogni stazione si applica anche una pluralità di ricordi irriducibili gli uni agli altri, ricordi di quei rari istanti «per i quali – diceva Stendhal – vale la pena di vivere». Le vie del metrò, come quelle del Signore, sono impenetrabili: non si smette di percorrerle, ma tutta questa agitazione assume un senso solo al termine, nella saggezza provvisoriamente disincantata di uno sguardo retrospettivo. Parlare del metrò significa, dunque, parlare anzitutto di lettura e di cartografia. Ricordo che negli atlanti storici della mia infanzia gli allievi venivano invitati a osservare l'alternarsi delle estensioni e degli assottigliamenti della Francia: la Francia prima della Rivoluzione, la Francia sotto il Primo Impero, la Francia nel 1815, la Francia sotto il Secondo Impero, la Francia dopo il 1870... C'è qualcosa di questo effetto fisarmonica nell'immagine che della mia vita mi presenta la mappa del metrò. Ma più ancora (e qui bisognerebbe riferirsi ad altre tavole dell'atlante: la Francia geologica, la Francia agricola, la Francia industriale...) si potrebbero distinguere svariati piani di lettura (vita amorosa, vita professionale, vita familiare...), Anch'essi beninteso riferiti a qualche data cardine. Tutte queste distinzioni noti impedirebbero qualche ricapitolazione, e allo stesso modo in cui nella carriera di un pittore si analizzano differenti periodi (blu o rosa, figurativo o astratto...), sarebbe sicuramente possibile distinguere nella vita di molti parigini dei «periodi» successivi, per esempio un periodo Montparnasse, un periodo Saint-Michel e un periodo Bonne-Nouvelle. A ciascuno di questi periodi corrisponderebbe (lo sappiamo bene) una geografia più segreta: la mappa del metro è anche la carta del paese dell'amore o la mano stesa che bisogna saper ripiegare e scrutare per aprirsi un passaggio dalla linea della vita alla linea della testa e del cuore. A questo punto si fa luce un paradosso. La prima virtù dei ricordi personali favorita dalla consultazione un po' sognante della mappa del metrò non è forse quella di farci provare qualcosa di molto prossimo a un sentimento di fratellanza? Se è certo vero che attraverso la frequentazione quotidiana dei trasporti parigini non smettiamo di sfiorare la storia degli altri (nelle ore di punta, tra parentesi, questa espressione è evidentemente un eufemismo) senza mai incontrarla, sta di fatto che non sapremmo immaginarla così differente dalla nostra. Questo paradosso sembra fatto per bloccare l'etnologo, poiché gliene ricorda un altro; ma può darsi, almeno così credo, che gli fornisca anche un mezzo per risolverlo o chiarirlo. Il paradosso al quale l'etnologo è abituato è il seguente: tutte le «culture» sono differenti, ma nessuna è radicalmente estranea o incomprensibile per le altre. O quanto meno, per quel che mi riguarda, è così che lo formulerei. Altri si atterrebbero alla prima parte di questa proposizione per mettere l'accento sia sul carattere assolutamente irriducibile e ineffabile di ogni singola cultura (adottando così un punto di vista relativista), sia sul carattere trasversale, approssimativo e vulnerabile di tutte le descrizioni, di tutte le traduzioni etnografiche (assegnando così al procedimento etnologico una lunga deviazione attraverso i metodi laboriosi ma sicuri di discipline sperimentali come la psicologia cognitiva). Nel suo periodo di espansione l'etnologia aveva meno scrupoli; sotto il nome di «cultura» riuniva elementi molto eterogenei (utensili e oggetti diversi, forme matrimoniali, pantheon e pratiche culturali...) e non disdegnava di elevarli a indici di evoluzione, anche quando ammetteva la circolazione di questi «tratti» da una società e da una cultura a un'altra. Essa invitava l'etnologo a diffidare tanto dell'etnocentrismo quanto dell'assorbimento da parte dell'ambiente, intimandogli allo stesso tempo di mantenere le distanze e di praticare l'osservazione partecipante, condannandolo insomma alla schizofrenia perché essa gli attribuiva il dono dell'ubiquità. l'esperienza del metrò (e qualche altra, l'ammetto, ma questa mi pare esemplare) mi invita a sostituire a ciò che si potrebbe definire il paradosso dell'Altro (con una «A» maiuscola perché si tratta dell'Altro culturale) il paradosso dei due altri (con una «a» minuscola perché, dal momento che gli altri sono due, questa dualità relativizza necessariamente il carattere assoluto del primo). Mi sia permesso qui di aprire una nuova parentesi e di sviluppare un esempio personale per farmi comprendere meglio. Io non ho mai capito che cosa significasse essere «credente». Mia madre è credente, le mie zie sono credenti, anche qualche zio, alcuni cugini e alcune cugine. lo no. Cerchiamo di capirci: io li amo, li rispetto, rispetto la loro credenza, non gliene voglio quando festeggiano la Pasqua o vanno a messa, ma nemmeno li invidio: la mia indifferenza è totale, animale e definitiva. Se avessi a questo riguardo il sentimento di un vuoto, potrei parlare di frigidità, poiché, beninteso, il cattolicesimo è la mia cultura: mi è stato fatto fare tutto quanto occorreva durante l'infanzia, senza un'eccessiva insistenza del resto, di modo che non posso nemmeno attribuire la mia incomprensione a un qualche effetto di sovraccarico metafisico, di overdose clericale o di sazietà liturgica. No, sono sempre restato senza immaginazione e senza idee davanti allo spettacolo di coloro che avevano l'aria di considerare come naturale che io dovessi credere. Le conversazioni che ho avuto con le persone che mi circondavano, all'epoca in cui, adolescente, avevo ancora conversazioni di questo tipo, hanno in qualche modo ulteriormente approfondito la mia incomprensione: che bisognasse pur credere a qualche cosa potevo anche ammetterlo, ma perché a questo dogma piuttosto che a un altro? E ancora! L'aspetto più penoso derivava dal fatto che io comprendevo molto poco sia il processo in sé sia il suo oggetto. Mi erano particolarmente incomprensibili coloro che mi spiegavano che con il dogma era questione di prendere o lasciare, e che dunque l'essenziale era la fede personale, ragionata, intima... Che dire? Quanto al resto, sono sempre stato piuttosto sensibile ai fasti della Chiesa, al fascino dei camici e al ricordo delle mie vacanze bretoni. Posso comprendere che si vada in chiesa per piacere. Ma i credenti, è probabile, pensano a un'altra cosa. L'incomprensione, apparentemente, era reciproca. «Ma allora, tu non credi a nulla?» mi aveva domandato un giorno una cugina alla quale non riuscivo a far capire che spettava a colui che credeva (perché chi crede crede «in qualcosa») di spiegarlo, se se ne sentiva capace. Non giurerei di non avere avvertito un qualche piacere malizioso nel recitare la parte del duro davanti ai miei cugini, ma non ho mai avuto la sensazione di forzare né di fortificare artificialmente il mio spirito: scoprivo vicinissimo a me, senza eccessivo sconvolgimento poiché dopotutto vi ero stato preparato dalla mia educazione, l'alterità. L'altro comincia accanto a me. Bisognerebbe anche aggiungere che in numerose culture (e tutte hanno espresso delle antropologie, delle rappresentazioni dell'uomo e dell'umanità) l'altro comincia dall'io senza che Gustave Flaubert, Victor Hugo o Jacques Lacan c'entrino qualcosa: la pluralità degli elementi che definiscono l'io coi-ne una realtà composita, provvisoria ed effimera – prodotto di eredità e influenze di-verse – sembra tanto essenziale che i lavori degli etnologi, relativisti o no, dedicano sempre alla nozione molto problematica di persona un capitolo assolutamente indispensabile per quelli che si occupano di organizzazione sociale e di economia. Ma abbandoniamo le sottigliezze parentali e le complessità dell'io per ritornare al metro. Tutti quelli che incontro sono «altri» nel senso pieno del termine: si può scommettere sul fatto che una parte considerevole dei miei compagni occasionali abbia credenze o opinioni di cui mi può sfuggire lo stesso linguaggio (le statistiche e i sondaggi potrebbero permettermi di precisare questa constatazione), e non parlo evidentemente degli stranieri e di tutti coloro il cui colore della pelle dice che appartengono ad ambienti culturali differenti dal mio. Sarei portato anche a suggerire (ma forse qui siamo di fronte alla presunzione di un etnologo troppo poco relativista) che potrei fare mie molto più facilmente le analisi, le paure, le speranze di un ivoriano della costa atlantica (ne conosco che come me scendono a Sèvres-Babylone) che non il pensiero profondo del mio vicino di pianerottolo, con il quale percorro a volte un pezzo di strada, che legge «La Croix». Che cosa si rimprovera il più delle volte agli etnologi? Di fare affidamento sulla parola di un ridotto numero di informatori, di non diffidare dell'oralità e di generalizzare per un insieme di società quanto non sono capaci di stabilire con certezza nemmeno per una sola di esse. Sorvolo sii quanto vi possa essere di ingiusto e di inesatto nel dettaglio – e dunque per l'insieme – di ciascuna di queste accuse, di cui non si può tuttavia contestare un certo grado di pertinenza; mi limito a osservare che in questo senso ogni individuo sarebbe perfetta-mente inconoscibile per l'altro e che a rigore non esisterebbe conoscenza possibile dell'uomo da parte dell'uomo. E se per caso mi si replica che mischio i generi, vale a dire che applico alle relazioni interindividuali una critica che vale per i rapporti interculturali, mi viene di rispondere con due domande: il relativismo culturale non poggia precisamente su una critica del linguaggio e specialmente della comunicazione tra informatore e informato, il che equivale a dire tra individui? Nel suggerire che le culture sono parzialmente o totalmente intraducibili le une alle altre, non le reifica ammettendo allo stesso tempo che all'interno di una stessa cultura la comunicazione è trasparente, le parole univoche e l'alterità assente? Lévi-Strauss faceva notare in Razza e storia1 che i selvaggi non potevano es-sere considerati come bambini (di un'umanità essa stessa concepita come evolutiva), molto semplicemente perché essi stessi avevano bambini e si sforzavano di farne degli adulti. Siamo convinti che in ogni società ci sono gli altri (va da sé), e questa semplice constatazione relativista relativizza sia la definizione di livelli o soglie strettamente «identitari» (generazioni, classi, nazioni) sia lo stesso relativismo. Gli altri non sono mai tanto irriducibilmente altri da non avere un'idea dell'alterità, dell'alterità lontana certamente (quella degli stranieri), ma anche dell'alterità immediata (quella dei loro prossimi). I segni dell'alterità immediata sono numerosi nel metro, spesso provocatori e anche aggressivi. E, ancora una volta, tralascio il caso di tutti coloro che attingono a un'alterna lonta-na testimoniando l'irruzione della storia mondiale nel nostro percorso quotidiano: asiatici che si recano a piace Maubert per fare le loro provviste o ritornano a place d'Italie, africani del Maghreb e dell'Africa nera che risalgono verso Anvers o puliscono i corridoi di Réaumur-Sébastopol, americani o tedeschi che partono in gruppi rumorosi per visitare l'Opéra. L'alterità immediata (ma, ahimè, già un po' lontana) è innanzi tutto quella delle persone giovani, dei «giovani» come si dice in televisione. Giovani: coloro la cui giovinezza significa per gli altri soprattutto che la loro si è allontanata. Alcuni portano un anello all'orecchio o si tingono di verde un ciuffo di capelli; sono allo stesso tempo i più fastidiosi e i più familiari: simili all'immagine che ci facciamo di essi – perché questa immagine è riprodotta in abbondanza nella stampa e nella pubblicità – e che essi vogliono dare di se stessi proprio per la medesima ragione. Le manifestazioni di questo processo di identificazione ci possono sconcertare, ma non dovrebbero sorprenderci, in quanto ne conosciamo di analoghe. Come ha ben detto Johnny Hallyday, vedette alla quale la già lunga carriera impone o imporrà presto un cambiamento di immagine (anche e soprattutto se ha la saggezza di non cambiare di look; il giorno in cui avrà la curiosità di consultare lo specchio che tende agli altri vi scoprirà persone della sua età): «Un idolo non è altro che un tipo a cui i ragazzini hanno voglia di somigliare» 2 Il metrò, proprio perché ci accosta all'umanità quotidiana, svolge il ruolo di una lente di ingrandimento e ci invita a considerare un fenomeno che in sua assenza rischieremmo o forse tenteremmo di ignorare: se il mondo, nella sua maggioranza, ringiovanisce è perché noi ce ne allontaniamo. Ciò che per noi appartiene ancora all'attualità, per altri è già storia. Indubbiamente è penoso essersi creduto l'idolo dei giovani e scoprirsi il Tino Rossi* * Cantante francese di origine corsa (1907-1983) il cui lungo successo lo ha esposto a critiche sulla sua continua voglia di restare giovane [N.d.T.]. dei quasi vecchi, dei nuovi anziani. È però un'esperienza fondamentale ed esemplare: nel momento stesso in cui la nostra storia ci riprende, quella degli altri ci sfugge. Dico «noi» per una sorta di simpatia verso le persone della mia generazione che prima o poi, come me, dovranno pur percepire i singolari effetti ottici creati dalla messa in parallelo di storie a velocità differenti: la nostra storia personale accelera («è pazzesco come il tempo passi ... ») laddove i giovani hanno tutto il tempo e addirittura vi si spazientiscono nei meandri iniziali (ma è vero che devono terminare gli studi, trovare un impiego, orientarsi, decidersi, sistemarsi...). Ma da un altro punto di vista tutto si inverte: essi prendono la rincorsa e noi avvertiamo, confusamente, che sono loro che fanno o stanno per fare la storia. Certamente la politica, l'economia, sono sempre, e lo saranno per qualche tempo ancora, in mani più rispettabili. Ma queste mani, se mi si permette l'espressione, si incontrano poco nel metrò, o vi si fanno discrete. Certo non tutti i giovani sono giovani allo stesso modo. Le loro rispettive possibilità non sono misurabili dal numero di anelli alle orecchie o dalle ciocche tinte: c'è comunque qualcosa di sconvolgente nel vedere il venerdì sera o il sabato dalle parti di République o di Richelieu-Drouot i giovani indiani delle classi popolari prendere il sentiero delle loro riserve, inalberando tutti i segni convenzionali di un'originalità stereotipata. Che cosa hanno questi in comune con quelle giovani donne sbucate fuori dai dintorni borghesi della mia adolescenza che incontro a volte dalle parti di Ségur o di Saint- Frangois-Xavier e che portano con una discrezione piena di senso giacche di lana blu su gonne scozzesi? Ciò che hanno in comune, e che evidentemente non impedisce loro di essere tanto differenti gli uni dagli altri quanto lo sono le loro origini e indubbiamente i loro rispettivi destini, è il rapporto con il tempo, che li distingue radicalmente, per esempio, dalle persone della mia età. Le persone della mia età: si potrebbe pensare che anch'esse costituiscano una falsa comunità, in qualche modo negativa, definita per difetto, dal numero degli anni già spesi, passati (come si dice di un colore sbiadito) e, relativamente a un'ideologia della modernità, superati. Ciascuno di noi ha i propri riferimenti, il proprio passato, tanto differenti quanto lo può essere il presente. Come quei navigatori solitari che la larghezza dell'onda nasconde Puri l'altro, ma ai quali la radio comunica che conducono la corsa quasi in parità «in un fazzoletto di mare», noi ci sentiamo vicini solo nella parola degli altri. Il passato che condividiamo è un'astrazione, nel migliore dei casi una ricostruzione: capita che un libro, una rivista o una trasmissione televisiva ci spieghino quello che abbiamo vissuto al momento della Liberazione o nel Maggio 1968. Ma chi è allora questo «noi» cui dovrebbe essere riportato il senso di quanto è accaduto? Chi, insomma, non è Fabrice a Waterloo? Certo, Waterloo poteva dare il nome solo a una stazione delle ferrovie o della rete metropolitana londinesi. Liberazione, percorre gli Champs Élysées dall'Étoile a Concorde, con il viso raggiante e lo sguardo altero rivolto a una città festante, è un'immagine abbastanza diffusa che ha simboleggiato, in modo spettacolare, le idee combinate di sbarco, liberazione e salvezza. Essa ha impressionato, nel senso fotografico del termine, svariate generazioni ivi comprese quelle che, non contemporanee all'avvenimento, l'hanno conosciuta solo tramite i documentari, che d'altronde restituivano al tutto la sua vera natura, insieme storica, fondatrice e mitica. In questo senso l'espressione «Charles de Gaulle-Étoile» è un modello di sovradeterminazione simbolica atta a sollecitare l'immaginazione di tutti e la memoria di molti. Bisogna però aggiungere che, se questa denominazione è effettivamente utilizzata, lo si deve innanzi tutto per il rispetto particolarissimo che portiamo ai nomi sacralizzati dal metrò anche quando ne ignoriamo il senso. Per restare ai nomi di individui, si può notare che, consacrando un uso sul quale ci si potrebbe peraltro interrogare, la RATP* La società che gestisce il metrò parigino [N.d.T]. utilizza tanto il cogno preceduto dal nome quanto il cognome da solo. Abbiamo cosi una serie del tipo Anatole France, Victor Hugo, Charles Michels, Félix Faure, e un'altra del tipo Garibaldi, Monge, oncourt, Mirabeau, Le Peletier. E se ci capita di dire Sèvres Al posto di Sèvres-Babylone (familiarità che rende omaggio all'importanza della stazione, perché va da sé che il solo Sèvres non potrebbe mai indicare Sèvres-Le Courbe, mentre Michel-Ange-Auteuil e Michel-Ange-Molitor hanno pari dignità) o Denfert al posto di Denfert- Rochereau, mai ci permetteremmo di trattare gli eroi del metrò come volgari colleghi e di chiamarli con il solo cognome, a meno di non esservi invitati dal pannello metropolitano, né tanto meno, a fortiori, con il solo nome: noi non scendiamo a Roosevelt, Faure o Hugo, ancor meno a Franklin, Félix o Victor. Resta il fatto che, se le coppie Charles de Gaulle-Étoile e Champs úysées-Clemenceau resistono meglio di Montparnasse-Bienveniie (malgrado la legittimità dell'omaggio così reso a Fulgence Bietiveniie in quanto eroe fondatore e civilizzatore**), ** Fulgence Bienvenüe è l'ingegnere che progettò la prima linea di metro [N.d.C]. bisogna cercarne le ragioni dalle parti della storia, di una storia cui siamo ancora sensibili e che non si apparenza alle immagini di Epinal eventualmente evocate da Alésia, Convention o léna, o, nel registro dei grandi uomini, da Saint-Paul, Étienne Marcell o Cambronne. Quanto alla fedeltà storica, essa si esprime nei nomi di certe stazioni che hanno rifiutato di mettersi al passo coni tempi, come Trocadéro, insensibile al modernismo datato del palazzo di Chaillot, o Chambre des Députés, la cui sonorità da Terza Repubblica si accorda bene con il decoro sostenuto del Faubourg Saint-Germain. E se passiamo spesso, senza pensarci, da Bastille ad Alésía, da Marx Dormoy a Pasteur o da Saint-Augustin a Robespierre, se l'abitudine può anche renderci insensibili a un immagine di Parigi che certi nomi dovrebbero bastare a evocare (Ménilmontant o Pigalle, Cité o Pont-Neuf, Mirabeau o Porte des Lilas), in quanto mescolano ai ricordi dei parigini quelli dei motivetti che hanno canticchiato, delle pagine che hanno letto o dei film che hanno visto, è però vero che il minimo evento può restituirci la coscienza della nostra appartenenza culturale e storica. 1 poteri pubblici, come è loro dovere (almeno nella concezione che ci si è fatti in Francia), si impegnano a mantenere desta questa coscienza arredando in modo intelligente alcune stazioni che, come Louvre, trasformano in spettatori sotterranei di riproduzioni quei viaggiatori che dovrebbero essere legittimamente tentati di vedere gli originali in superficie. Ma i turisti stranieri, soprattutto quelli che circolano in gruppo parlando a voce alta, sono sotto questo aspetto i più efficaci. Ascoltarli apprezzare le copie esposte sulla banchina della stazione Louvre, o esclamare con rapimento: «Opéra!», «Bastille!», nel momento in cui il convoglio si arresta in questi luoghi eccelsi, comporta qualche conseguenza non priva di ambiguità. Essi danno corpo alla nostra storia; questa esiste poiché essi la incontrano. In questo modo, noi facciamo un po' parte dell'arredamento, come un greco accanto al Parte-none o un egiziano accanto alle Piramidi: tutti individui che, allorché siamo noi i turisti, supponiamo pongano in cima alle loro preoccupazioni il Partenone o le Piramidi in quanto, almeno ai nostri occhi, questi monumenti Il definiscono nella loro specificità etnica e culturale. Nel tunnel, siamo noi a guardare i turisti con un'indulgenza un po' divertita; giunti alla stazione, e semplicemente perché il suo nome pronunciato con l'accento straniero di un osservatore esterno le restituisce tutta la sua aura storica, eccoci assegnati a fare da arredamento, ad avere il ruolo di testimoni di ufficio, condannati a suggerire con un'alzata di sopracciglia o con un vago sorriso il passato della Bastille o l'eleganza dell'Opéra, a rivendicare, perché ci viene imposto, l'originalità della nostra storia e della nostra cultura. E se per avventura uno di questi stranieri ci chiedesse l'origine e la ragione di uno dei nomi più conosciuti del metrò (Alma-Marceau, Denfert-Rochereau, La Motte-Picquet ... ), saremmo costretti a sottrarci alla domanda proprio come quei vecchi di villaggio ai quali l'etnologo si ostina a tentare di far dire perché le iniziate a un certo dio portano una piuma rossa nei capelli o perché il dio che servono si chiama come si chiama e non altrimenti. Anche noi rispondermi no al nostro interlocutore troppo curioso stando sulle generali, e senza una doppiezza o una cattiva volontà maggiori di quei vecchi di villaggio, diremmo che non ne sappiamo nulla, che Il abbiamo sempre conosciuti senza mai comprenderli, anche se ci sembra di ricordare, all'occorrenza, che Marceau era un generale rivoluzionario e che Alma ha qualcosa a che fare con una storia zuava. Non è dunque assolutamente vero che i viaggiatori dei metrò non abbiano mai nulla in comune o che non abbiano occasioni di percepire come condividano con altri riferimenti storici o briciole di passato. Ma questa esperienza è essa stessa di rado collettiva. Il metrò non è un luogo di sincronia nonostante molti abbiano una regolarità di orari: ciascuno vi celebra per proprio conto le sue feste e i suoi anniversari; ogni biografia è singola, e gli umori di uno stesso individuo sono troppo variabili perché un'effervescenza collettiva possa facilmente prodursi alle stazioni Concorde o Bastílle al di fuori dei momenti in cui una qualche celebrazione particolare (una manifestazione contro il razzismo, un'elezione) renda a questi nomi di luogo il prestigio e l'impatto emotivo che deriva loro dal passato. Nei giorni ordinari, è di sacralità polverizzata che bisognerebbe parlare (ognuno viaggia incontro alla propria storia) e di sacralità rituale, nella misura in cui il rito sopravvive a ciò che commemora, sopravvive alla memoria al punto da non prestarsi più alla minima esegesi, forma vuota che si potrebbe credere morta se la Storia (con la «S» maiuscola: la storia degli altri percepita per un istante come la storia di tutti) non venisse di tanto in tanto a ridarle un senso. Così, a volte vediamo in Africa o in America la religione cristiana impadronirsi di forme rituali arcaiche alle quali ridà una so-stanza, senza che sia per questo facile all'osservatore decidere quanto vi prevale di forma o di sostanza e dunque cogliere le caratteristiche della nuova religione, del tutto ovviamente irriducibile alla somma dei suoi elementi: fenomeno che corrisponde del resto al segreto di ogni nascita. Si può anche immaginare di prendere il metri solo per piacere, alla ricerca di emozioni che capita a tutti di avvertire fuggevolmente. Da anni, una corrente d'aria di origine sconosciuta spazza i corridoi di Ségur risvegliando, immagino, in più di un passante nostalgie marine o furori oceanici. A Concorde, nel lungo corridoio che unisce la linea Balard-Créteil alla linea Vincennes-Neuilly, un suonatore di fisarmonica immutabile suona arie del dopoguerra che avranno sempre, per coloro che le hanno ascoltate all'epoca della loro creazione, un gusto particolare. Ma bisogna ammettere che quotidianamente gli individui prendono soprattutto itinerari che non hanno la possibilità di evitare, vincolati ai ricordi che nascono dall'abitudine e che a volte la sovvertono, sfiorando, ignorando, ma spesso sondando la storia degli altri, passando per sentieri contrassegnati da una memoria collettiva banalizzata la cui efficacia si percepisce solo occasionalmente e a distanza. Un giorno, sulle rive del fiume Senegal, in uno di quei villaggi i cui tetti di lamiera, più solidi e durevoli della paglia, sono pagati dai salari dei lavoratori emigrati in Francia, sono stato abbordato cordialmente da un uomo che ci teneva a dirmi di avere vissuto parecchi anni non lontano da Barbès-Rochechouart. «Ah! Barbès-Rochechouart ... » ripetevo come uno scemo. Poi ci mettemmo a ridere tutti e due, tutti e due Mici, mi è sembrato, di questo istante di simpatia suscitato dalla sola virtù di nome. Note al capitolo 1. Claude Lévi-Strauss, Race et Histoire, Gonthier, Paris, 1961 (trad. it.: Razza e storia, in Razza e storia - Razza e cultura, Einaudi, Torino, 2002). 2 Riportato in «Jours de France», n. 1568, 19-25 gennaio 1985 3. Émile Durkheim, Les Formes élémentaires de la vie religieuse, PUF, Paris, 19794, p. 610 (trad. it.: Le firme elementari della vita religiosa, Meltemi, Roma, 2005). CAPITOLO SECONDO. Solitudini Se bisogna parlare di rito a proposito dei percorsi metropolitani (in un senso differente da quello che assume il termine nelle espressioni comuni in cui viene svalutato a semplice sinonimo di abitudine), è forse a partire dalla seguente constatazione, che riassume il paradosso e l'interesse di ogni attività rituale: ricorrente, regolare e priva di sorprese agli occhi di tutti coloro che la osservano o vi sono associati in modo più o meno passivo, essa è sempre unica e singolare per ognuno di quelli che vi sono implicati più attivamente. Paradosso e crudeltà dell'agenda, che consultiamo senza arrestarci fino al momento in cui, dandoci all'improvviso il nome familiare di un morto che credevamo vivo, ci restituisce la presenza di un viso nello stesso istante in cui ne elude la realtà, suscitando in noi un lampo di riconoscimento nel momento stesso in cui ce ne sottrae l'oggetto, abbandonando alla banalità del corso delle cose l'immagine spesso evanescente di qualche ricordo personale. Le regolarità del metrò sono evidenti e istituite. Il primo e l'ultimo convoglio godono forse di un qualche fascino poetico per il fatto di vedersi assegnato un posto immutabile nell'ordinamento del quotidiano, simboli del carattere ineluttabile delle scadenze, dell'irreversibilità del tempo e della successione dei giorni. In termini di spazio, i trasporti pubblici si prestano anche a una descrizione funzionale e più geometrica quantunque geografica. Per andare da un punto a un altro, il percorso più conveniente si calcola agevolmente; in certe stazioni si trova ancora una di quelle mappe automatiche che propongono alla curiosità del viaggiatore, con la semplice pressione del pulsante corrispondente alla stazione di destinazione, una successione di punti luminosi ove si può leggere il tracciato dettagliato e contrastato (a ciascuna linea il suo colore) dell'itinerario ideale*. * Per comprendere meglio questo passo si deve immaginare un pannello con più di venti tratte, ognuna di un colore diverso e con tante piccole spie luminose quante sono le stazioni corrispondenti [N.d.C.]. Da bambino ero affascinato da quei giochi luminosi e approfittavo degli istanti di libertà lasciatimi da mia madre mentre conversava con una delle sue amiche, o della calma del traffico nelle ore morte, per inventare percorsi di cui misuravo la ricchezza in base all'abbondanza di serie monocrome che mi permettevano di collegare le une alle altre, simili alle ghirlande di lampadine accese nelle notti del 14 luglio. Ai nostri giorni, i bambini hanno altri giochi, molto più complicati rispetto agli elementari esercizi combinatoci ai quali mi abbandonavo un tempo, più per la gioia degli occhi che per il gusto di calcolare. Indubbiamente le mappe a pulsanti non esercitano più su di loro il fascino, poco o molto che fosse, che dovevano a un modernismo tecnologico oggi superato. Ma la mappa del metrò resta indispensabile a un'efficace circolazione sotterranea, e gli enunciati che autorizza si esprimono naturalmente in termini impersonali che sottolineano contemporaneamente la generalità dello schema, l'automaticità della sua messa in opera e il carattere ripetitivo della sua utilizzazione. Nella forma scritta, l'infinito con sfumature imperative conferisce a questa impersonalità il valore di una regola: «Per andare all'Arc de Triomphe prendere direzione Porte d'Auteuil- Boulogne, cambiare a La Motte-Picquet-Grenelle e scendere a Charles de Gaulle-Étoile». È il linguaggio di ogni tipo di guida, tanto del rituale ecclesiastico che delle istruzioni per l'uso, dei libri di cucina o dei trattati di magia. La stessa prescrizione orale («Per andare a Nation da Denfert cambi a Pasteur») assume il tono della generalità impersonale; non si sa bene se il «tu» o il «voi» designino una soggettività particolare (il nostro interlocutore del momento, colui che è intento a spiegare la direzione da prendere) o una classe di individui anonimi (tutti quelli che per ipotesi potrebbero voler prendere quella direzione), come nelle espressioni del tipo «Tu dai un dito... e loro si prendono la mano», o «Ti curi o non ti curi, prima o poi te ne devi andare». Sullo sfondo del metrò le nostre acrobazie individuali sembrano così partecipare, in modo felicemente appagante, alla sorte di tutti, alla legge del genere umano che qualche luogo comune riassume e che un peculiare luogo pubblico simbolizza, con il suo groviglio di percorsi di cui qualche proibizione esplicita («vietato fumare», «vietato l'accesso») accentua il carattere collettivo e regolamentato. È ben chiaro, dunque, che se nel metrò ciascuno «vive la sua vita», questa non può viversi in una libertà totale; non solo perché nessuna libertà potrebbe viversi totalmente in società, ma più precisamente perché il carattere codificato e ordinato della circolazione metropolitana impone a tutti comportamenti ai quali ci si potrebbe sottrarre solo subendo sanzioni da parte del potere pubblico o una riprovazione più o meno efficace da parte degli altri utenti. La democrazia avrà incontestabilmente fatto grandi progressi il giorno in cui i viaggiatori più precipitosi o meno attenti rinunceranno da soli a prendere il corridoio di ingresso per uscire, sensibili finalmente all'onore che viene loro fatto, con il richiamo a una morale senza costrizioni, attraverso la semplice scritta «vietato l'accesso». Alcuni restano insensibili, bisogna ammetterlo (la cosa più sorprendente è forse che non siano più numerosi), e corrono più o meno allegramente o innocentemente il rischio di ricevere, in occasione di un pigia pigia di cui essi sono la causa prima, un colpo di gomito vendicatore da parte di coloro che, come me, hanno ancora della libertà un'idea rousseauiana. Trasgressione o no, la legge del metrò inscrive il percorso individuale nel comfort della morale collettiva, ed è in questo che ben esemplifica ciò che potremmo definire il paradosso rituale: essa è vissuta sempre individualmente, soggettivamente, solo i percorsi singoli le danno una realtà, e ciononostante essa è eminentemente sociale, la stessa per tutti, in grado di conferire a ciascuno quel minimo di identità collettiva attraverso cui si definisce una comunità. L'osservatore preoccupato di esprimere al meglio l'essenza del fenomeno sociale costituito dal metrò parigino dovrà così rendere conto non solo del suo carattere istituito e collettivo, ma anche di ciò che, in questo carattere, si presta alle elaborazioni singole e alle immagina-zio ni intime, senza le quali non avrebbe alcun senso. Dovrà insomma analizzare questo fenomeno come un fatto sociale totale nel senso che Mauss dà al termine e che Lévi-Strauss precisa, rendendo allo stesso tempo più sempre le ragioni. Il limite qui è stretto tra l'immaginazione romanzesca, che si sente a proprio agio nell'interpretare, per esempio, il sorriso fugace che un viso di donna ha sembrato indirizzare a un qualche interlocutore interiore, e il malessere sentito da tutti allo spettacolo di un agitato (non sono rari nel metrò) le cui parole sconnesse, i sospiri, le risa o i furori senza oggetto mostrano bene come abbia perso il controllo del suo comportamento. Solitudine, questa volta, definitivamente ripiegata su se stessa: più egli sembra voler prendere i suoi vicini a testimoni del proprio sconforto, più i suoi vicini ne evitano lo sguardo, volgendosi l'uno all'altro con un'aria a metà fra l'imbarazzato e il complice. L'etnologia può dunque aiutarci a comprendere ciò che ci è troppo familiare per non restarci estraneo e, nel caso in questione, a chiarire il paradosso riassunto dalla nostra vaga e immediata intuizione: nulla è così individuale, così irrimediabilmente soggettivo come un percorso singolo nel metrò (anche se si trattasse solo di quello che effettua un adolescente dall'apparenza anodina, profilo anonimo di cui crediamo di riconoscerei gusti e i colori, i tic e le mode, la pettinatura e la musica); ma allo stesso tempo nulla è più sociale di un tale percorso, non solo perché si svolge in tino spazio-tempo sovracodificato, ma anche e soprattutto perché la soggettività che vi si esprime e che lo definisce in ogni circostanza (a ciascuno il suo punto di partenza, le sue coincidenze e il suo punto di arrivo) è parte integrante, come tutte le altre, della sua definizione in quanto fatto sociale totale. L'etnologia può certamente aiutarci, mi sembra, ma a condizione di. non fare dell'alterità vicina un caso a parte e nella misura in cui la sua riflessione sul fatto sociale totale si occupi essenzialmente del rapporto fra sociologia e psicologia. Propongo allora ai miei lettori un'escursione: un breve giro in qualche pagina del Saggio sul dono, poi un cambio che li condurrà ad abbandonare la direzione Mauss per seguire un istante quella Lévi- Strauss (c'è una coincidenza fra le due linee), prima di ritornare con me all'osservazione quotidiana del metrò, in una stazione di loro scelta. Mauss ha parlato di «fatti sociali totali» (espressione che preferiva a quella di «fatti sociali generali») relativamente a fenomeni come il potlach o le visite fra tribù che implicano la totalità della società e delle istituzioni. Egli non ha difficoltà, che si tratti di fatti melanesiani o americani, a mostrare come questi fatti siano allo stesso tempo religiosi, economici, estetici e morfologici. Nell'accezione strettamente durkheimiana, la morfologia fa riferimento al carattere permanente e ufficiale delle vie terrestri o marittime che li rendono possibili e al sistema di alleanze che garantisce ai partecipanti pace e sicurezza. Ma l'idea di totalità è più complessa di quanto si potrebbe credere; essa è l'asse portante di un'affermazione reiterata dalla sociologia francese durante tutto il ventesimo secolo: più è globale, più è concreto. Se il funzionamento generale si identifica così con il concreto, è perché un'istituzione non è mai più concretamente osservabile se non quando è messa all'opera, e a partire da quel momento essa non è più osservabile da sola, sia perché necessitano uomini per farla funzionare, sia perché il suo funzionamento presuppone e mette in moto, quello di altre istituzioni. Mauss può così affermare ciò che potrebbe a buon diritto passare per un paradosso: il concreto è il completo (i sociologi, dice, al contrario degli storici, hanno troppo praticato la divisione e l'astrazione: ora bisogna ricucire, «ricomporre il tutto») ed è questo sforzo di ricomposizione che autorizzerà la comparazione o piuttosto la messa in evidenza degli universali. «Questi fatti di funzionamento generale hanno la possibilità di essere più universali delle diverse istituzioni o dei diversi temi di queste istituzioni, sempre più o meno accidentalmente tinti di un colore locale»2 (nota 2). vantaggio di generalità e il vantaggio di realtà, come li chiama lui, si rinforzano reciprocamente. Paradosso, in effetti, poiché i due termini che lo definisco-no (generalità, realtà) non possono coesistere che a condizione di relativizzarsi reciprocamente. Donde l'idea di «medio» grazie alla quale è possibile la generalizzazione, ma che lascia dubbiosi sul fatto che possa esprimere concretamente il reale: «Bisogna fare come loro [gli storici]: osservare ciò che è dato. Ora, il dato è Roma, Atene, il francese medio, il melanesiano di questa o quell'isola, e non la preghiera o il diritto in sé» 3. Perbacco! Intuiamo bene la doppia difficoltà che qui si profila: una volta ricomposte queste entità storico-sociologiche, sarà poi facile affrancarle dal loro aspetto culturalista? E poi, anche supponendo che conservino qualcosa di concreto (che cos'è l'utente «medio» del metro se non l'utente astratto al quale si rivolgono le ingiunzioni dell'amministrazione?), questo qual-cosa prenderà necessariamente in prestito il suo colore da un luogo e da un'epoca? E lo spirito parigino del mio utente che darà la misura, se così posso dire, del suo carattere medio? Ma lasciamo per un momento da parte il metro e rivolgiamoci al commento che Lévi-Strauss fa delle analisi falsamente limpide di Mauss. Nella sua Introduzione all'opera di Marcel Mauss 4 Lévi-Strauss va, se mi si passa l'espressione, oltre gli argini; e si può capire, anche se non è causata solo da questo aspetto delle sue riflessioni, l'irritazione un po' affettata che nei loro riguardi manifesta Georges Gurvitch nell'avvertenza (termine ben appropriato...) che precede questa introduzione. Cito qui l'ultima frase per piacere e perché testimonia di una sorta di lucidità un po' collerica, come si diceva nella mia infanzia («Tuo zio è un po' in collera», modo per dire che il suo stato d'animo del momento si accordava in quella circo-stanza alla sua natura profonda), davanti alla falsa innocenza di un commento sacrilego: «II lettore troverà nell'Introduzione di Claude Lévi-Strauss un'immagine impressionante della ricchezza inesauribile dell'eredità intellettuale trasmessa da questo grande studioso, così come un'interpretazione molto personale della sua opera» 5 . Nel 1950 si sapeva bene come indorare la pillola. Che cosa c'è dunque di tanto sacrilego nel commento di Lévi-Strauss? Assolutamente nulla che non derivi da un gran-de rispetto dell'autore e del testo. Ma i peggiori commenti (intendiamoci: i più imbarazzanti) possono essere quelli che prendono precisamente il testo alla lettera. Mauss pone l'equazione concreto=completo e, come Durkheim, fa passare incontestabilmente la comprensione di questo completo-concreto attraverso la presa in considerazione dei sentimenti che sviluppano gli uomini in gruppo: «Abbiamo potuto — scrive — percepire l'essenziale, il movimento del tutto, l'aspetto vivo, l'istante fuggevole in cui la società prende, in cui gli uomini prendono, coscienza sentimentale di se stessi e della loro situazione di fronte agli altri» 6. La bellezza dell'espressione (chi non sente che questa allusione all'istante in citi gli uomini prendono «coscienza sentimentale di se stessi» va a segno, anche se non si saprebbe dire di quale segno si tratti?) maschera l'arbitrarietà di un'equazione che non è, in sé, dimostrata e che si potrebbe maldestramente riassumere così: se i fatti sociali possono essere considerati come cose, è perché la società può essere considerata come un insieme di uomini. Mauss procede simultaneamente a una reificazione e a una soggettivazione della società o del gruppo che possono prendere coscienza di se stessi (coscienza, beninteso, collettiva) distinguendosi dagli altri, dalle altre società o dagli altri gruppi. Osserviamo comunque che, forse al prezzo di un'incoerenza sintattica e logica, la sua frase («gli uomini prendono coscienza sentimentale di se stessi e della loro situazione di fronte agli altri») sarebbe stata molto più interessante se «altri» avesse fatto riferimento all'altro prossimo, agli altri che fanno parte dell'insieme degli uomini che prendono coscienza di se stessi. Basterebbe intercalare fra «prendono» e «coscienza» qualcosa come «ciascuno per proprio conto», reintrodurre insomma nell'analisi la dimensione soggettiva individuale, per fare in modo che essa significhi che gli uomini prendono veramente coscienza di se stessi (coscienza individuale di se stessi come individui) solo nel momento in cui prendono coscienza della loro situazione di fronte agli altri (in altre parole della loro situazione sociale). In breve, che essi prendono coscienza di se stessi solo prendendo coscienza degli altri, che non esiste coscienza individuale che non sia sociale, cosa che a rigore potrebbe essere capovolta poiché una coscienza sociale non individualizzata sarebbe solo un'astrazione o un mito. Ora, Mauss non ha veramente detto questo, ma a rileggerlo si ha la sensazione che lo abbia quasi detto, anche se i termini «folla», «società», «sottogruppo» accompagnano sempre nel suo testo le nozioni di «sentimenti», «idee», «volizioni». L'altro, in rapporto al quale gli uomini si collocano a differenti livelli di organizzazione, è in effetti il se stesso relativo: l'altro di un altro sottogruppo non è più un altro se il gruppo si riunisce. Detto in modo diverso, anche nell'accettazione più oggettiva e istituzionale dell'alterità, uno stesso individuo può essere alternativamente considerato o meno come un altro; c'è l'altro nel sé e la parte di sé che è nell'altro è indispensabile alla definizione dell'io sociale, il solo che sia formulabile e pensabile. Là dove Mauss scrive «gli uomini», come se la generalità del plurale attenuasse il carattere concreto del termine, Lévi-Strauss si comporta come se avesse scritto «l'individuo»; poiché è solo presso l'individuo, ci dice, che può effettuarsi l'accostamento tra le tre dimensioni del fatto sociale totale: la dimensione sociologica coni suoi aspetti sincronici, la dimensione storica o diacronica e la dimensione fisio-psicologica. Lévi-Strauss non pensa semplicemente agli effetti che potrebbero avere certi avvenimenti sulla fisiologia o lo psichismo di coloro che li vivono. Mosso piuttosto da una preoccupazione che ha tormentato anche i romanzieri, egli lega il carattere particolare delle scienze sociali all'obbligo in cui esse si troverebbero di definire il loro oggetto contemporaneamente come oggetto e come soggetto, come «cosa» e come «rappresentazione» nel linguaggio di Durkheim e Mauss. La soggettività, insomma, di quanto osservato dall'etnologo fa parte del suo oggetto, e dato che Lévi-Strauss ha espresso la cosa meglio di tutti, sarà meglio citarlo: «Per comprendere adeguatamente un fatto sociale, bisogna coglierlo totalmente, cioè dal di fuori, come una cosa di cui tuttavia fa parte integrante l'apprensione soggettiva (conscia e inconscia) che noi ne afferriamo se, ineluttabilmente uomini, viviamo il fatto come indigeno in luogo di osservarlo come etnografo» 7. Vediamo bene lo spostamento che si è operato: fa parte del fatto sociale totale ]'interpretazione singolare che può darne ciascuno dei suoi attori, o più ampiamente ciascuno di coloro che vi sono implicati, e il problema che ne risulta è simultaneamente un problema di definizione e di metodo. Il problema di metodo è legato a ciò che Lévi-Strauss chiama d processo illimitato di oggettivazione del soggetto. Intendiamo con ciò che l'etnografo, condannato a rendere conto nei termini dell'apprensione esterna di quanto può immaginare o rivivere dell'apprensione interna dei fatti, dell'esperienza indigena, deve procedere per oggettivizzazioni successive di una parte di se stesso, compito che gli è facilitato dal fatto che il suo oggetto (le società o i gruppi umani) gli è allo stesso tempo familiare e lontano. Le migliaia di società che sono esistite sono umane «e, a questo titolo, noi vi partecipiamo in modo soggettivo». Ma, a un altro titolo, ogni esperienza sociale ci è oggetto: «Ogni società differente dalla nostra è oggetto, ogni gruppo della nostra propria società, altro da quello da cui proveniamo, è oggetto, ogni uso di questo gruppo, al quale non aderiamo, è oggetto» 8. Gli sforzi alternati o simultanei di identificazione, di proiezione al di fuori della soggettività e di reintegrazione nella soggettività, aggiunge Lévi-Strauss, correvano il rischio di pervenire a un malinteso (non avendo l'apprensione soggettiva dell'etnografo nulla in comune con quella dell'indigeno) se l'esistenza di un inconscio, con le sue regole, non permettesse il superamento dell'opposizione tra il me e gli altri. L'inconscio, «termine mediatore fra me e gli altri [...] ci mette in coincidenza con forme di attività che sono allo stesso tempo nostre e altrui». È noto, però, dove Lévi-Strauss va a cercare le tracce dell'inconscio: dalla parte dei sistemi e della loro organizzazione, si tratti del sociale o del linguaggio. Si pone così la questione di sapere se, trovando l'inconscio, egli non abbia perduto l'individuo, intendo dire l'individuo-individuo, uno di quelli che, vivendo il fatto sociale totale, è indispensabile alla sua definizione; di conseguenza, si ammetterà facilmente che questa è perfettamente asintotica, essendo la somma degli attori tanto poco effettuabile quanto interminabile è l'apprensione soggettiva di ciascuno di loro. Mi sembra d'altronde che, per limitare la sua critica di Mauss o dissipare la vertigine che poteva suscitare la teoria del processo illimitato di oggettivazione del soggetto, Lévi-Strauss nel 1950 avesse messo dei confini culturalisti alla sua salutare impresa di destabilizzazione. In effetti, dopo avere scritto che la sola garanzia che un fatto sociale potesse corrispondere alla realtà era che fosse afferrabile in un'esperienza concreta, egli illustrava quest'ultima con esempi presi a prestito da Mauss. L'esperienza concreta era quella «in primo luogo di una società localizzata nello spazio e nel tempo, 'Roma, Atene', ma anche di un individuo qualunque in una qualunque di queste società, 'il melanesiano di questa o quell'isola'» 10. Ora, il melanesiano di questa o quell'isola non ha mai definito «un individuo qualunque», un'individualità, se non un'individualità tipo o culturale; si sarebbe dovuto scrivere «questo melanesiano o qualunque melanesiano di questa o quell'isola». Ma Mauss (ho citato la sua formulazione esatta un po' più su) non ha scritto questo; egli parlava del melanesiano medio, come del francese dello stesso tipo, di cultura e non di individuo. Di modo che Lévi-Strauss gli forza un po' la mano (e forza un po' il testo), con qualche timidezza tuttavia, sia per scrupolo nei confronti del testo cui si riferisce, che non può oggettivamente permettere il commento che ne propone («il» melanesiano non è «un» melanesiano), sia perché, meno interessato di quanto non appaia al problema del rapporto fra individuo e società, fra l'io e gli altri, egli è già molto più affascinato dal modello linguistico che fa proprio questo rapporto a partire dalle sue forme istituite, la lingua, le regole o i miti. Come definire il parigino di questa o quella stazione, dove trovarlo? Come ammettere che possa essere la chiave del concreto e del completo? Io li vedo passare tutte le sere a Sèvres-Babylone, schiacciati nel vagone o di corsa nei corridoi (uomini e donne, giovani e vecchi, scolari, dattilografe, professori, impiegati, barboni, europei, africani, zingari, iraniani, asiatici, americani). Tutti questi viaggiatori sotterranei si differenziano gli uni dagli altri, anche se i loro movimenti quasi regolari (come quelli dell'oceano Atlantico, con le sue maree alte e basse e le sue fasi di tempesta o bonaccia) suggeriscono tuttavia che una stessa attrazione li anima e li muove, li riunisce e li disperde. Queste molteplici solitudini (visi irrigiditi da una preoccupazione tenace, profili febbrili, stanchezze senza appello o pigrizie senza angoscia, felicità e malessere frammisti di cui non osiamo immaginare l'infinita molteplicità, avvertita di volta in volta, in base all'umore del momento — il inondo sotterraneo può dopotutto essere metafora dei nostri mondi interiori — come l'espressione di un'immensa indifferenza o l'occasione di una segreta simpatia) non avranno in comune solo la coincidenza non interamente fortuita dei loro impieghi del tempo? Si potrebbe al contrario pensare che per la sua resistenza a ogni tentativo di definizione esaustiva, per l'incompiutezza essenziale sia dell'infinitamente grande sia dell'infinitamente piccolo, il fenomeno sociale del metrò — che accusa i limiti dell'analisi di Mauss (al di là dei quali si rivela contraddittoria o confusa) — può passare per un notevole esempio di fatto sociale totale. La necessità stessa in cui ci siamo trovati di parlare a suo proposito di «sacralità esplosa» sottolinea esemplarmente l'impossibilità di assimilare un qualsiasi fenomeno sociale all'azione e alla figura tipo di un soggetto medio. Ma la nozione di fatto sociale totale non si riduce alla tentazione culturalista che lo sguardo levistraussiano vi svela un po' distrattamente; e la prospettiva «in abisso» che egli vi scopre attraverso il metodo del «processo illimitato di oggettivazione del soggetto» — fedele o no al pensiero di Mauss è un'altra storia — offre una presa, poco comoda senza dubbio ma unica e forse decisiva, all'analisi sociologica. Mauss stesso aveva ammesso che un fatto sociale totale poteva riferirsi solo a un gran numero di istituzioni, non alla loro totalità, così come a individui più che a una collettività: «[I fatti sociali totali] coinvolgono, in certi casi, la totalità della società e delle sue istituzioni (potlach, clan che si affrontano, tribù che si visitano ecc.) e, in altri casi, solo un grandissimo numero di istituzioni, in particolare quando questi scambi e questi contratti concernono prevalentemente gli individui 11. Per il resto, e sempre attenendosi a Mauss, il fatto sociale totale possiede almeno due proprietà. La prima proprietà di un fatto sociale totale è che esso è contemporaneamente economico, giuridico ecc., il che vuoi dire che è irriducibile al linguaggio delle istituzioni. La seconda proprietà riguarda il suo carattere contrattuale o convenzionale, che presuppone esso stesso una formulazione esplicita e una coscienza almeno implicita, e mai totalmente inconsapevole, del rapporto con gli altri. Ora, il viaggio in metrò, se è definito in generale come individuale, è simultaneamente ed eminentemente l'inattraversabile, l'impercorribile, un po' come già morti. E l'idea dell'offerta a questi morti partecipa di una volontà evidente e immediata di restare all'interno delle nostre frontiere, né mendicanti anonimi, sprofondati sull'asfalto dei corridoi, né peraltro nessuno dei nostri compagni occasionali: né artisti emaciati che immagineremmo meglio nelle mansarde di un altro secolo che non nei labirinti di una corrispondenza ove l'eco del loro talento risuona come un rimorso, né barboni ubriachi di vino e di fatica, né nessuno di quelli che affianchiamo nei vagoni o nei corridoi e la cui età, sesso, abbigliamento, letture o qualunque altro dettaglio ci rivelano in primo luogo ciò in cui differiscono da noi. Così, all'etnologo nel metrò – etnologo della sua stessa società, anche se non si tratta per lui che di un'etnologia occasionale, di circostanza, storia stretta nel tempo di due stazioni – si impone, contemporaneamente, la necessità di cogliere ogni individualità come una ricapitolazione in sé del tutto del sociale (non fosse che perché un certo numero di segni esteriori, che prendono senso solo in un contesto culturale e storico preciso, permette almeno di immaginare la sua situazione, i suoi gusti, le sue origini) e la necessità di mettere in opera, a proposito di ciascuna di esse, il «processo illimitato di oggettivazione del soggetto» al quale pensava Lévi-Strauss. Lasciando scivolare il suo sguardo dalla massa cieca e quasi minerale dei mendicanti nei corridoi al profilo familiare di un collega sulla banchina, egli può con l'immaginazione e il ragionamento avere la misura relativa di tutte le oggettività possibili. Indubbiamente, anche se non abbandona la banchina della stazione dove prende abitualmente il metrò, gli sarà difficile costruire come oggetto unico la somma delle emozioni, dei calcoli e degli interessi che l'attesa del convoglio rappresenta, in un momento dato, per ognuno e per l'insieme dei viaggiatori; tuttavia questi elementi soggettivi e oggettivi non sono mai veramente totalizzabili; mai nessun fatto sociale sarà percepito totalmente nel senso in cui lo intendeva Lévi-Strauss. Lo spettacolo del metrò ci fornisce, più di altri, l'occasione e il mezzo per apprezzare ciò che può essere non la personalità media dell'utente, ma l'insieme delle sollecitazioni, delle immagini e delle suggestioni alle quali tutti gli utenti devono reagire, anche solo per rifiutarle o fare finta di ignorarle. Infatti, qualunque sia l'originalità delle risposte o delle reazioni, essa rimanda in definitiva al carattere stereotipato di questo insieme, che ben delinea una specie di media – l'immagine ideale del consumatore, della donna seducente, della giovane coppia simpatica o dell'uomo virile – di cui è difficile dire se modelli la realtà o la rifletta. Questo spettacolo non si guarda solo lungo i corridoi del metrò o sulle sue banchine, ma trova posto anche nelle strade e più ancora, la sera, alla televisione. Ma nel metrò, modello o copia, io lo colgo più da presso, incarnato dai miei vicini del giorno dei quali credo di poter immaginare, al solo guardarli, l'appartamento, i mobili, le distrazioni e anche il prossimo voto o, per lo meno, le ragioni che ne daranno. Aggiungo che questi sforzi di immaginazione, indipendentemente dal rischio di errore che comportano, non derivano assolutamente da una sorta di disprezzo, poiché non saprei compierli se non mi sentissi vicino a ciò che essi prendono per oggetto, se non mi sentissi accessibile alle loro ragioni e permeabile ai loro umori, al punto di provare a volte, negli interrogativi che mi pongo a loro riguardo, una specie di dubbio sulla esatta natura di ciò che ci separa. Note al capitolo 1.Georges Perec, Penser/Classer, Hachette, Paris, 1985 (trad. it.: Pensare/classificare, Rizzoli, Milano, 1989). 2.Marcel Mauss, Essai sur le don, in Sociologie et Anthropologie, PUF, Paris, 1950, p. 276 (trad. it.: Saggio sul dono, Einaudi, Torino, 2002). 3. Ibid 4. Claude Lévi-Strauss, Introduction à l'oeuvre de Marcel Mauss, in M. Mauss, Sociologie et Anthropologie, cit., p. ix (trad. it.: Introduzione all'opera di Marcel Mauss, in M. Mauss, Teoria generale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino, 2000). 5.Georges Gurvitch, Avertissement, in M. Mauss, Sociologie et Anthropologie, cit., p. viii (trad. it.: Avvertenze all'edizione francese, in M. Mauss, Teoria generale della magia e altri saggi, cit.). 6.M. Mauss, Essai sur le don, cit., p. 274. 7.C. Lévi Strauss, Introduction à l'oeuvre de Marcel Mauss, ci t., p. XXVIII. 8.Ibid., p. xxix. 9.Ibid., p. xxix 10ibid., p. xxvi. 11.M. Mauss, Essai sur le don, p. 274. 12.Ibid., p. 169. 13. Ibid. CAPITOLO TERZO. Corrispondenze* * Se a p. 32 l'Autore trova il termine italiano «coincidenza» più evocatore di quello francese «corrispondenza», va però precisato che per ragioni testuali evidenti proprio all'inizio di questo capitolo nel caso del metrò parigino è il termine francese che bisogna conservare. La struttura del metrò è infatti tale da condurre a porre l'accento molto più sulle corrispondenze, vale a dire sui percorsi che portano a prendere quella che in italiano definiamo «coincidenza», che non sulla coincidenza stessa fra due convogli [N.d.C.]. Se un diavolo zoppo adatto ai tempi scoperchiasse con un sol colpo l'agglomerato parigino in tutta la sua superficie, scoprirebbe uno strano concatenamento, un gigantesco gioco di società, un labirinto dagli innumerevoli sbocchi, quasi dei dispositivi scenici ma moltiplicati. In effetti, svariate decine di palcoscenici non solo si sviluppano a rete sii tutta l'estensione della zona urbana e periurbana, ma si dispongono su più livelli, invasi, a intervalli regolari, da una folla più o meno compatta di figuranti di ogni ordine che obbediscono a un misterioso regista, dio architetto di questo universo sotterraneo. Il suo sguardo si rivolgerebbe innanzi tutto, come ha fatto il nostro, al sapiente groviglio delle linee. Forse in seguito, fantasticando, un po' cinico, sulla probabile uniformità delle solitudini umane, contemplerebbe un istante con l'indulgenza rassegnata di un dio omerico, come anche noi abbiamo tentato di fare, il volto incerto di questo o quel passeggero prigioniero nel suo vagone. Indubbiamente, però, egli sarebbe ben presto attirato e catturato dallo spettacolo brulicante dei nodi complicati che legano le linee l'una all'altra, nodi di corridoi e di scale percorsi in tutti i sensi da individui che danno l'impressione di sapere dove vanno. «A che cosa corrisponde ciò?» si chiederebbe giocando sulla parola «corrispondenza», e preso dal gioco forse aggiungerebbe: «A che cosa corrisponde cambiare tutti i giorni, ricominciare tutti i giorni a cambiare per prendere la stessa direzione?». Ma l'etnologo, quanto a lui, diffida del punto di vista di Sirio; egli sa che a una certa distanza tutto perde di senso e che un cosmonauta eternamente in orbita, senza speranza di ritorno, avrebbe poco interesse sia per la Terra sia per la Luna. Il nostro etnologo aspira invece all'intimità e rientra sottoterra, anche se non è insensibile, di tanto in tanto, soprattutto se c'è bel tempo, al colpo di follia che spinge il metrò a credersi aereo e scavalcare la Senna per filare verso l'Étoile*. * Su molte linee il metrò parigino diventa di superficie per brevi tratti. li più suggestivo di questi tratti, che si trova sulla linea n. 6, è quello che sbucando improvvisamente dal suolo diventa aereo in pochi metri passando sopra la Senna [N.d.C.]. Detto per inciso, questi voli sono perturbatori sotto vari aspetti. In primo luogo, rompono l'intimità del percorso sotterraneo; una volta passata la stazione di Sèvres-Lecourbe, tutti si atteggiano, si mettono in posa: i vicini diventano testimoni – questione di luce verosimilmente. Quando il percorso si prolunga un po', è lo stesso statuto del passeggero a mutare un po': sopporta meno lo sguardo degli altri e osa meno guardarli. Il voyeurismo muta di prospettiva: parallele al percorso del metrò le finestre dei secondi e dei terzi piani sono spesso chiuse, con le tende tirate, come se i felici abitanti di questi luoghi fossero tenuti a giocare al metrò a domicilio e godersi tutto il giorno la quiete di una stanza imbottita ove la luce resta accesa. Altri, più estroversi, più astuti, o semplicemente situati più in alto, si appoggiano alla finestra e guardano passare il metrò come si guarda il treno o le auto sugli svincoli delle autostrade. Costoro capovolgono la prospettiva, come il mio diavolo immaginario, e profittano della situazione per osservare lo spettacolo, certo fuggevole ma ricorrente, del metrò e dell'irrequietezza umana. Dall'interno del convoglio, coloro che non si mettono gli occhi in tasca e non si immolano alla lettura o alla meditazione restituiscono lo sguardo vedendo sfilare l'intimità spezzettata di vite private, l'ostruirsi delle arterie del xv arrondissement e il lento affrettarsi – dovuto alla differenza delle rispettive velocità che provoca un effetto quasi al rallentatore – di coloro che corrono a prendere il metrò alla stazione seguente. C'è poco da fare, ma all'aria aperta è il metrò lo spettacolo. E lo sguardo dei perdigiorno, che non vi colgono l'estraneità notturna captata da Jean-Luc Godard, vi si attarda con simpatica indolenza, al punto che, se non fosse per la folla, il rumore, l'ingorgo delle strade, essi leverebbero volentieri le braccia per salutarlo, come a volte fanno ancora i bambini al passaggio del treno o delle auto. Un buon giorno e un arrivederci lanciati a persone che non potranno rivedere non foss'altro che perché non le hanno mai viste : gesto sorprendente e naturale, sorprendente per la naturalezza, gesto di ospitalità che non ha il tempo di proporsi, socialità allo stato puro. Occorre davvero tanta cultura per creare qualcosa come un secondo stato di natura e perché i prodotti dell'industria umana possano simboleggiare i grandi temi antropologici: l'identità, la relazione, il destino. Si pensi alla quartina di Armand Camargue da Croquis parisiens: Il buvait un blanc sec au Canon de Grenelle En regardant passer les métros aériens. Le soleil par instants agaçait sa prunelle Il pensait à l'amour, à la mort, à des riens*. * Beveva un bianco secco al Canon de Grenelle / Guardando passare i metrò sopraelevati. / Il sole a tratti giocava con la sua pupilla / Pensava all'amore, alla morte, a cose da niente. o a Charles Trenet in Ya de la joie (anche se quest'ultima rivela una certa approssimazione poetica): Miracle: à Javel On voit le métro qui sort de son tunnel**. Miracolo: a Javel / si vede il metrò che esce dal suo tunnel. Dal metrò simbolo occorre ora, seguendo il nostro etnologo sotterraneo, passare al metrò simbolico, passare cioè alla pratica sociale del metrò poiché essa mette i n gioco ciò che Lévi-Strauss, nel testo al quale si è già fatto riferimento, definisce «sistemi simbolici». Mi si vorrà scusare se questa volta userò un tono più didattico. Per passare da un'attività a un'altra occorrono sia tempo sia spazio; che è appunto quanto esprimono i percorsi metropolitani, la cui intensità è funzione dell'impiego del tempo da parte di coloro che li effettuano perché, cambiando attività a certe ore, essi cambiano anche di luogo. Ora, questi cambiamenti di attività non sono semplici cambiamenti tecnici; essi possono comportare veri cambiamenti di ruolo quando, per esempio, corrispondono a un passaggio dalla vita che definiamo professionale alla vita che definiamo privata. L'opposizione vita privata/vita professionale da sola non rende conto di tutti i cambiamenti di attività: vi sono forme più o meno pubbliche di vita non professionale (capita che ci si rechi, soli o con amici, in luoghi pubblici per distrarsi, che si vada allo stadio, a una sfilata, a vedere i fuochi d'artificio, al teatro o al cinema) e forme multiple di vita privata, ufficiali o segrete, familiari o solitarie, giuridiche o religiose. Ma lo spettacolo del metrò ha altresì un carattere romanzesco, specialmente nei corridoi di corrispondenza percorsi da passeggeri che cambiano linea come si cambia sistema e pratica simbolica, che cambiano di vita a orari regolari, in mancanza di cambiare la vita come si diceva nel 1968, a meno che in via eccezionale qualche «avventura» o qualche avvenimento particolare noti li trascini decisamente fuori dai sentieri battuti e dalle linee abituali. Sicuramente alcuni metrò sono più romanzeschi di altri: nel pomeriggio verso le tre o le quattro, quando i comuni mortali sono in ufficio, in officina, in fabbrica o a scuola, i metrò non sono vuoti. Sono allora possibili incontri meno anonimi che nell'ora di punta. Capita allora di chiedersi chi erano o dove andavano la sconosciuta o lo sconosciuto che per un istante hanno attirato la nostra attenzione. A volte negli annunci a pagamento su «Libération» ci sono anche appelli un po' sciocchi e molto commoventi di giovani che scoprono le gioie crudeli del senno di poi: «Eri bella, bruna e dolce; ero piccolo, timido e stupido; tu portavi una camicetta rossa; io ero seduto di fianco a te; sei scesa a Concorde chiedendomi scusa. Te ne ricordi?». Ancora una volta la scomposizione di Perec potrebbe mostrarsi utile: quanti minuti per cambiare una vita? E tuttavia c'è da scommettere che l'emozione del lettore di «Libé» deriva soprattutto dalla sparizione di colei che egli vorrebbe veder ritornare; le avesse potuto rivolgere la parola, non ne avrebbe conservato un ricordo così tenace. Egli in realtà ama il movimento che sposta le linee, l'istante in cui, riguadagnando la sua libertà, un profilo elegante rivela la realtà della propria esistenza sparendo, persona, vita, corpo che si identificano, all'improvviso, con la necessità del loro itinerario. Ancora Camargue: Elle descend toujours à Sèvres-Babylone Et j'admire sa grâce indolente et félonne Quand pensive un instant elle marque le pas A l'ángle du couloir de la correspondance Avant de s'élancer de sa marche qui danse Vers des plaisirs pervers que je ne connais pas*. * Lei scende sempre a Sèvres-Babylone / E io ammiro la sua grazia indolente e ingannatrice / Mentre si attarda un istante pensosa / All'angolo del corridoio verso la sua corrispondenza / Prima di lanciarsi con il suo andamento danzante / Verso piaceri perversi che io non conosco. Mi scuso per questa nuova digressione e torno ai sistemi simbolici. Per Lévi-Strauss, è noto, ogni cultura «può essere considerata come un insieme di sistemi simbolici» 1. Questi sistemi, che esprimono alcuni aspetti della realtà, intrattengono tra loro delle relazioni, che si tratti del linguaggio stesso, delle regole matrimoniali, dei rapporti economici, dell'arte, della scienza o della religione. Essi restano nondimeno incommensurabili, sia perché ogni sistema ha il proprio ritmo di evoluzione e la sua vulnerabilità specifica a contatto con le altre culture, sia perché i simbolismi rispettivi di ogni sistema non sono comunque integralmente traducibili gli uni negli altri. Una società è dunque comparabile «a un universo ove masse discrete sarebbero altamente strutturate» 2. Infine, Lévi-Strauss nota, a questo proposito, che l'edificazione di una struttura simbolica di insieme è possibilità di essere efficace (ovvero di incitare gli uomini o le loro donne a comprare slip o jeans) se la semplice giustapposizione di immagini, che implica da parte dell'artista pittore o fotografo un senso molto realista della forma e del modello, non determinasse la nostra convinzione per un effetto di contiguità che qualifichiamo come magico quando lo incontriamo presso gli altri. L'immagine del corpo si espande sino alle dimensioni di un'arte del vivere e dell'essere felici quando vengono associati altri temi: la Grecia, la Tunisia, il Marocco e il loro sole; le assicurazioni e la tranquilla maturità che queste sembrano promettere ad adulti massicci come attori americani; le case stereotipate con prato verde all'inglese, garanzia di salute e prosperità, che fanno da sfondo, sul davanti, a un corpo splendente e sano e, sul retro, a rappresentazioni più intime che esprimono una propensione al piacere e al desiderio. Certamente il metro non ha il monopolio di queste immagini né di questi temi, esso non è il solo luogo ove si diffonde se non proprio «una visione del mondo», certamente un'immagine dell'individuo e della vita. Ma è altrettanto certo che, da un lato, queste immagini traggono una forza particolare dal fatto di accompagnare ogni giorno sottoterra tutti coloro il cui percorso li isola giusto il tempo per passare da una forma di socialità a un'altra e, dall'altro, che la natura stessa di queste immagini (corpi slanciati e desiderabili, certo, ma più ancora stati d'animo, atteggiamenti, andature, sguardi) deve essere presa in particolare considerazione in un'epoca il cui punto debole è l'antropomorfismo con la sua incessante creazione di soggetti storici (il Signor Capitale, la Signora Terra, hanno vita dura), le cui immagini e il cui chiacchiericcio tendono a suggerire che la verità dell'essere è nel sembrare: qual è la firma del presidente, quale lo stato dell'opinione o la salute dell'impresa? Come nelle società di cui l'etnologia ha lungamente privilegiato lo studio credendole differenti dalla nostra, siamo oggi sempre più sensibili all'apparenza degli esseri e delle cose, la sola suscettibile a dare senso: così prestiamo attenzione più al tono della voce che non al contenuto del discorso, alla determinazione dello sguardo più che a quella del pensiero, al look, al muscolo, alla «mascella». Da questo punto di vista, ciascuno scopre nel metrò ciò che vi porta (la rivolta o la fascinazione e, più in generale, una sottile combinazione delle due) e allo stesso tempo una specie di conferma oggettiva della realtà del mondo che lo circonda e dei valori che vi si dispiegano spettacolarmente: l'immagine continua a confermare l'immagine. Questo gioco di immagini definisce l'universo che tutti frequentano e condividono. Ma l'etnologo, come chiunque altro, sa che non esiste un universo sociale indifferenziato e che i valori, come tutto il resto, non vengono condivisi in modo uniforme. Il suo lavoro dovrebbe dunque esplorare una seconda direzione e, nel caso in questione, l'insieme delle di-rezioni che corrispondono nella sua stazione. La geografia dei quartieri non coincide infatti con quella delle stazioni e i più lussuosi fra questi durante la giornata sono spesso frequentati da persone che vi lavorano ma non vi abitano: così, Franklin D. Roosevelt è una stazione popolare dove sale e scende una gran quantità di impiegati, di quadri intermedi e di segretarie. E c'è da scommettere che all'altezza di questa stazione (al l'altezza solamente, poiché un certo numero di coloro che vi passano non vi scendono mai) si incrociano molte persone che non si rincontreranno. Non poche osservazioni interessanti potrebbero ancora essere fatte a questo riguardo sulla stazione o sui suoi dintorni; il nostro etnologo potrebbe così osservare che svariati commerci si installano a poco a poco, autorizzati o abusivi, in quei crocevia detti corrispondenze e immaginare la progressiva sacralizzazione di un luogo in cui si concentrano tutte le componenti e tutte le allegorie del mondo moderno (la stampa e l'attualità, il commercio e la moda, la pubblicità e gli ideali che essa sostituisce e modella, la funzione pubblica dietro i suoi sportelli, la legge e i suoi rappresentanti – forse più visibile a République che a Franklin D. Roosevelt – e anche la gioventù, il lavoro, le prossime vacanze affisse sui muri come una promessa, lo straniero turista o immigrato). I luoghi di questo genere (piazza, mercato, incrocio) non sono stati in tutte le civiltà luoghi di culto? A quale Ermes facciamo sacrifici? A seconda degli umori del momento, l'etnologo potrebbe allora pensare che la silhouette informe del mendicante senza volto o l'entusiasmo del musi-cista sconosciuto rappresentino, in questo incrocio dei destini umani, la presenza del dio al quale si fa l'elemosina perché la vita continui; o, più prosaico ma non meno durkheimiano, ottimista e laico fino all'entusiasmo, egli potrebbe convincersi che l'esistenza di un crocevia senza dèi, senza passioni, senza battaglie, rappresenti oggigiorno lo stadio più avanzato della società e prefiguri l'ideale di ogni democrazia. Non gli resterebbe che cambiare punto di vista e lasciare la sua stazione testimone per seguire, come un poliziotto, un innamorato o un curioso, qualcuno di coloro il cui itinerario aveva fino a quel momento solo immaginato o ricostruito. Con molta pazienza e talento, potrebbe forse arrivare a rintracciare i percorsi, moltiplicando le descrizioni, a comprendere le con-dotte, a provare o esaurire simpatie e sentimenti, ad abbozzare per la modernità ciò che Oscar Lewis era riuscito a fare per la povertà: il ritratto fragile ma vivo, forse più reale che vero, di una «cultura», vale a dire di tutto ciò per cui ciascuno si sente allo stesso tempo come gli altri e differente dagli altri, ma non così differente da non manifestarsi irrevocabilmente solidale una volta posto di fronte a essi. Note al capitolo 1. C. Lévi-Strauss, Introduction à l'oeuvre de Marcel Mauss, cit., p. xix. 2. Ibid., p. xx. 3. Ibid., p. xxi. Conclusioni Sul metrò in senso lato Metrò, lavoro, nanna*: In francese: métro, boulot (lavoro), dodo (nanna), dunque con una cantilena che non si può rendere in italiano [N.d.T.]. solo un'ironia un po' pigra poteva prendersela cori questa sequenza come simbolo dell'alienazione moderna. I vincoli che le corrispondono sono quelli di ogni vita sociale; si potrebbe anche, per restare in questo registro, fare osservare che il negativo un po' alterato della sequenza (niente lavoro, niente metro, niente nanna) sarebbe un simbolo più corrispondente alle difficoltà dell'epoca, la quale farebbe del tempo libero e dell'insonnia una risultante della disoccupazione. Metrò, lavoro, nanna: l'interessante è al contrario di comprendere come il senso della vita individuale nasca da vincoli globali che sono quelli di ogni vita sociale. Tranne qualche dettaglio culturale e qualche aggiustamento tecnologico, ogni società ha il suo metrò, impone a ogni individuo itinerari ove prova singolarmente il senso della sua relazione con gli altri. Che il senso nasca dall'alienazione, l'etnologia, fra altre discipline, lo ha segnalato da molto tempo, e questa verità resta paradossale solo perché le resiste una certa idea di individuo, ancorata alle evidenze sensibili del corpo, che definisce, a sua volta e di rimando, i limiti e il senso del sociale. Sul metrò parigino in particolare Quando ero in terza, il nostro professore di francese ci aveva fatto notare che l'alessandrino più bello della lingua francese era scritto sui vetri delle porte del metrò. Ancora qualche anno fa (poiché questa scritta, nella sua formulazione originale, è oggi scomparsa), la RATP in effetti motivava in questi termini il senso dei suoi divieti: Le train ne peut partir que les portes fèrmées* Il treno può partire solo con le porte chiuse [N.d.T.]. La perfezione raciniana di questo alessandrino, al quale la «e» muta imprimeva una vibrazione prolungata, incantava il nostro professore, molto meno soddisfatto di quello successivo, malgrado il suo tono di squisita urbanità, a causa della collocazione incongrua della sua cesura e del fatto che, nonostante l'ultima sillaba femminile, non rimava con il precedente: Prière de ne pas gêner leur fermeture** ** Si prega di non ostacolarne la chiusura [N.d.T.] Nello stesso tempo il professore ci spiegava Pascal («nous sommes embarqués»), così che l'immagine del metrò parigino è sempre stata per me associata al carattere ineluttabile e irreversibile del percorso umano individuale. Era l'anno della tragedia classica e del giansenismo: avevo ancora davanti a me il diciottesimo secolo in seconda e il diciannovesimo in prima. Ma già il metrò mi aveva insegnato che si può sempre cambiare linea e che, se non si sfugge alla sua rete, si può por sempre fare qualche bella deviazione. 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