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Riassunto del testo Evidence-Based Education e pedagogia speciale – Principi e modelli per, Sintesi del corso di Didattica Pedagogica

riassunto completo per un totale di 59 pagine di word.

Tipologia: Sintesi del corso

2015/2016

In vendita dal 24/09/2021

cinzia.bono
cinzia.bono 🇮🇹

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Scarica Riassunto del testo Evidence-Based Education e pedagogia speciale – Principi e modelli per e più Sintesi del corso in PDF di Didattica Pedagogica solo su Docsity! Evidence-Based Education e pedagogia speciale — Principi e modelli per l’inclusione Introduzione Il modello dell’Evidence Based Education (EBE), applicato all’educazione speciale, si concentra su tre elementi fondamentali: 1. L’efficacia degli interventi (efficacy research), in modo da rispondere al quesito “Che cosa funziona?”; 2. L’effetto prodotto dagli stessi interventi (effectiveness research) “Quando funziona e per chi?”; 3. Le modalità di applicazione (implementation) “Come possiamo fare per farlo funzionare?” “Sta funzionando?” Parte prima- I principi e i modelli dell’ Evidence-Based Education 1. Evidence-Based Education e didattica speciale: un inquadramento Fino agli anni Settanta la ricerca educativa è stata prevalentemente di tipo quantitativo, nomotetica e sperimentale; dopo di che si è cominciata ad affiancare alla ricerca qualitativa, tipica dell’approccio fenomenologico, maggiormente legato alle pratiche narrative,di ricerca-azione e di riflessività sulla professionalità docente. Oggi nella ricerca educativa è difficile capire quale sia la tendenza tra le due che va per la maggiore, visto anche l’emergere di approcci misti alla ricerca (mixed methods) che coniugano i benefici di entrambi i tipi di analisi. Indipendentemente dalla prospettiva la ricerca deve promuovere una conoscenza sempre più avanzata e appropriata su questi temi, avvalendosi di un approccio rigoroso e coerente col modello teorico di partenza. Nella scuola, tutti gli insegnanti sono costantemente chiamati a prendere decisioni e assumersi responsabilità, ma molto spesso decidono quale azione educativa e sulla base della ripetitività dell’esperienza (“ho sempre fatto così e continuo a farlo”), del buon senso (“credo che vada bene perché ai miei allievi piace”) o a volte, del mero trasferimento, in altri contesti, di pratiche di successo realizzate da altri (“ho visto il mio collega in quella classe fare così ottenendo buoni risultati, provo a farlo anche io con i miei allievi”). Così, come afferma Slavin, nel corso della storia dell’educazione sono state molto spesso ideologie, fissazioni, mode e politiche a generare l’adozione di specifici programmi e pratiche educative, piuttosto che evidenze scientifiche vere e proprie. 1.1 Il modello dell’Evidence-Based Medicine: uno specchio per l’Evidence-Based Education Dal confronto tra l’ambito medico e quello educativo, nasce, intorno agli anni Novanta, il dibattito internazionale rispetto alla questione delle evidenze in educazione, l’EBE. L’esordio del dibattito si può ricondurre all’intervento del 1996 di Hargreaves, studioso inglese il quale affermò che l’ambito educativo non si potesse e dovesse differenziare molto da quello medico, poiché aveva bisogno anch’esso di avvalersi di modelli e conoscenze adeguati, capaci di migliorare l’insegnamento. Hargreaves inoltre durante l’intervento criticò le debolezze della ricerca in ambito educativo, auspicando una sua maggiore fondatezza su criteri di scientificità. La sua proposta era in definitiva quella di avvicinare la ricerca e la pratica educativa a quella medica, che doveva rappresentare uno specchio per orientarle verso conoscenze sempre più condivise e affidabili. Il concetto di intervento basato sulle evidenze, era in uso in medicina fin dagli anni Settanta e anche in ambito psicologico venivano impiegate espressioni come trattamento empiricamente validato o empiricamente supportato; soprattutto dagli anni Novanta emerge prima in ambito clinico e poi in psicologia il concetto di Evidence-based Practice. Maggiore problematica degli insegnanti era secondo Hargreaves la mancanza di una conoscenza scientifica di base che gli consentisse di valutare gli effetti delle pratiche didattiche ed educative di modo da scegliere le più efficaci in base alle specificità degli alunni. Si auspicava anche in educazione, quella corrispondenza tra prassi e ricerca che in ambito medico ha fatto si che le pratiche più efficaci abbiano progressivamente soppiantato quelle meno efficaci alimentando i progressi. La prima definizione ufficiale di Evidence-Based Education fu di Coe (1999), il qiale la definì come un approccio che sostiene che la politica e la pratica dovrebbero poter essere giustificate in termini di prove attendibili sui loro possibili effetti- Secondo Coe la cultura dell’evidenza in educazione deve essere attuata di modo che sia i professionisti dell’educazione, sia i decisori politici, possano fare scelte derivate da evidenze scientifiche. Whitehurst (2003) definisce l’EBE in termini di integrazione tra conoscenze -derivanti da risultati di ricerca-, competenze professionali e capacità di giudizio di ciascun insegnante ritenendo di primaria importanza le competenze dell’insegnante, che gli consentono di coniugarle conoscenze derivati dalla ricerca con il contesto di riferimento. Il movimento di riforma verso l’utilizzo di programmi e pratiche evidence-based, ha cominciato a diffondersi non solo grazie al dibattito scientifico ma anche attraverso il sostegno di alcune politiche federali sorte negli Stati Uniti alla fine degli anni Novanta. Ancora oggi il governo americano mira e obbliga all’adozione delle scuole di strategie didattiche che siano risultate scientificamente affidabili. La diffusione internazionale dell’evidence-based è stata supportata anche grazie all’ampio utilizzo della rete sotto forma di banche dati, articoli, progetti ed esperienze messi a disposizione gratuitamente per ricercatori, insegnanti, educatori, professionisti del settore educativo e decisori politici. Numerosi anche i contributi di Hattie attraverso i suoi scritti, in particolare il suo “Visible Learning” rappresenta il culmine di 15 anni di ricerca in cui sono presentati più di 50.000 studi e oltre 800 meta- analisi, si tratta della più grande raccolta di ricerca evidence-bader rispetto a ciò che funziona nelle scuole. 1.1.1. Procedure metodologiche evidence-based : randomized controlled trials (RCT) Prevalentemente si definisce evidence-based ciò che raccoglie un corpus organico di conoscenze scientifiche, relative a trattamenti, azioni preventive, approcci di intervento o pratiche di servizio, testati tramite studi randomizzati (RCT) che utilizzano un gruppo sperimentale (che realizza un certo intervento educativo) e un gruppo di controllo (che non effettua alcun intervento), risultati equivalenti prima dell’inizio dell’intervento (piano sperimentale a due gruppi) per valutare l’entità degli effetti prodotti dall’intervento proposto. Hargreaves (1997) definisce lo studio controllato randomizzato il gold-standard della ricerca evidence-based. Elemento caratterizzante dell’RCT è la randomizzazione, ovvero l’assegnazione casuale dei soggetti al gruppo sperimentale e di controllo, di modo da garantire che tutti i fattori, noti e non, si distribuiscano in maniera omogenea tra i due gruppi. Lo stesso bias di selezione può diventare un errore sistematico, dunque nei RCT deve essere accuratamente documentato il metodo (o metodi) di randomizzazione. La modalità più semplice da realizzare nei contesti educativi è la randomizzazione semplice, che consiste nell’utilizzo di tabelle di numeri random presenti nei libri di statistica, nell’uso di software specifici, o più semplicemente nell’impiego di criteri random funzionali (es. alternando i soggetti per data di nascita o usando una cifra che faccia da codice identificativo per ognuno di loro). Si ha così un campionamento probabilistico, poiché ciascun soggetto ha la stessa probabilità di far parte del campione. La numerosità di quest’ultimo è condizionata dall’eterogeneità della popolazione: più è eterogenea (come nel caso delle classi scolastiche) più è necessario un campione numeroso per avere una fotografia quanto più esatta della popolazione di partenza e una maggiore generalizzazione dei risultati ottenuti (validità esterna). Per campione di grandi dimensioni si intende almeno 10 classi e 250 studenti, e studi condotti per almeno 12 settimane. Se la randomizzazione è efficace e l’intervento educativo condotto e analizzato correttamente, l’eventuale differenza di esiti tra i due gruppi sarà attribuita all’efficacia dell’intervento stesso, entro un certo livello di precisione statistica (le differenze rilevate sono statisticamente significative con p<.01 oppure p<.0$). 1.1.2 Procedure metodologiche evidence-based: Meta-analysis e Systematic review La meta-analisi e la revisione sistematica sono due metodologie di comparazione e sintesi, tramite le quali produrre delle sintesi metodologicamente fondate dei risultati di ricerche rispetto a un determinato oggetto di studio, al fine di acquisire un corpus di conoscenze più generali e trasferibili rispetto a quello delle singole ricerche. 2. Dell’effetto che gli interventi producono (effectiveness research), con riferimento ali esiti, sempre rilevati sperimentalmente, dell’utilizzo di quella particolare procedura nel mondo reale, nel lavoro quotidiano in classe (Quando funziona?); 3. Delle modalità di applicazione (implementation), intese sia come controllo delle variabili durante l’azione educativa, per far si che la stessa possa avere successo, sia come monitoraggio sistematico dell’evoluzione dell’intervento (come possiamo fare per farlo funzionare? Sta funzionando?). La sola efficacy research, da sola, non è sufficiente per fornire agli educatori un solido ancoraggio per il loro lavoro quotidiano; è necessaria una ricerca applicata nel contesto specifico (effectiveness research) di modo da considerare tutte le variabili che potrebbero inficiare l’efficacia dell’intervento e la sua generalizzazione. Tale tipologia di ricerca si deve collegare strettamente con la pratica educativa (implementation) : si devono pianificare programmi e percorsi educativi che abbiano le caratteristiche della ricerca applicata. Per operare il cambio di rotta nel campo dell’educazione speciale è necessario innanzitutto tenere un approccio meno restrittivo, evitando la dicotomia tra ricerca qualitativa e quantitativa, ma ricorrendo alternativamente ad entrambe, anche contemporaneamente (mixed methods); bisogna inoltre considerare ulteriori modelli di ricerca quali la metodologia sul soggetto singolo. E’ inoltre fondamentale per la promozione di un modello evidence-based definire quali risultati dovranno essere considerati. Le ricerche non possono considerare solo apprendimenti specifici e particolari, ma valutare anche come queste acquisizioni migliorino sostanzialmente l’integrazione, l’inclusione e la qualità della vita degli individui (es. per valutare gli esiti di un progetto finalizzato a migliorare le competenze linguistiche dell’allievo non si deve valutare solo la competenza linguistica ma anche le eventuali migliorie che questa apporta nelle competenze sociali e nelle interazioni coni compagni). Infine per la reale costruzione di un modello di EBE deve essere messa in primo piano la figura del pedagogista speciale, come ricercatore in grado di coniugare le tre dimensioni dell’efficacy, dell’effectiveness e dell’implementation. 2.2 La ricerca per valutare l’efficacia del modello italiano di inclusione totale La ricerca sul processo di integrazione scolastica in Italia si può suddividere in tre principali filoni in cui le ricerche hanno differenti scopi: e Descrivere e fotografare la prassi dell’integrazione in un dato momento (come si sta operando?); e Evidenziare gli esiti del processo di integrazione scolastica (che risultati sono stati ottenuti?); e Indagare quali siano le strategie che possono risultare più efficaci (cosa funziona e quando funziona?). Le ultime due, che maggiormente collegano con l’EBE, sono ad oggi le meno praticate. 2.2.1 Ricerche descrittive sulle prassi d’integrazione Si tratta di studi condotti attraverso interviste o questionari somministrati a insegnanti, dirigenti e famiglie per appurare, in quel dato momento, le procedure che vengono messe in atto, l’organizzazione didattica, il livello di soddisfazione, le risorse impegnate, il coinvolgimento dei diversi attori ecc.e verificare se gli indicatori di qualità prefissati vengono soddisfatti. Una ricerca sull’integrazione scolastica degli allievi con sindrome di Down (Gherardini, Nocera, AIPD — associazione italiana persone down, 2000) ha preso in considerazione tre indicatori per valutare la qualità del processo inclusivo: indicatori di struttura, di processo e di risultato. Il campione era rappresentato da 385 allievi residenti su tutto il territorio nazionale di scuola primaria e secondaria. L'ampio questionario è stato somministrato solo agli operatori scolastici senza coinvolgere le famiglie. Risultati Indicatori di struttura> si è rilevata una buona dotazione di insegnanti di sostegno (nonostante ritardi nelle nomine), poche opportunità di aggiornamento sui temi dell’integrazione. Sono stati redatti, come richiesto dalla normativa, la diagnosi funzionale e il profilo dinamico funzionale anche se non entro i tempi di formulazione e anche se a compilare il piano educativo individualizzato nella metà dei casi è stata tutta l’equipe deputata alla sua definizione, mentre in un quarto delle scuole è stata realizzata solo dall’insegnante di sostegno. Sono stati evidenziati buoni livelli di disponibilità di spazi adibiti a laboratori e alla dotazione di attrezzature, ausili ecc. Indicatori di procedura superata la concezione dell’insegnante di sostegno come strumento di emarginazione; è stata però evidenziata la discordanza tra insegnanti curricolari e di sostegno circa la qualità del lavoro comune (i primi la sostengono e i secondi no); carente si è rivelata la collaborazione nella programmazione degli interventi educativi. Indicatori di risultato circa le abilità basilari che gli allievi con sindrome di Down dovrebbero acquisire alle diverse età (autonomia, competenza linguistica, logico-matematica, socio affettiva ecc.) con risultati confortanti. Vianello e collaboratori (Vianello, 2006) hanno invece analizzato gli atteggiamenti dei genitori nei confronti dell’integrazione scolastica di allievi con sindromi di Down somministrano loro un questionario. Il campione era composto di 240 genitori di scuola primaria e secondaria, divisi equamente tra genitori di figli con sindrome di Down, genitori con figli tipici aventi in classe un bambino con sindrome di Down e genitori con figli tipici senza compagni con disabilità in classe. Dai risultati è emerso che tutti i genitori presentano un atteggiamento molto favorevole nei confronti dell’integrazione scolastica, ma anche che l’esperienza diretta favorisce una migliore predisposizione ad accettare positivamente la presenza in classe di un compagno con disabilità. Nel biennio 2007-08 il gruppo coordinato da Canevaro, D’ Alonzo e Ianes (2009) ha condotto una ricerca finalizzare a fotografare lo stato dell’integrazione scolastica in Italia nei primi trent'anni di applicazione (dal 1997 al 2007) coinvolgendo 1877 persone con disabilità o familiari di queste, che hanno descritto la loro carriera scolastica e quello che si è verificato al termine della scuola mediante la compilazione di un questionario a risposta chiusa con scale di stima (per esprimere il proprio apprezzamento per le varie situazioni vissute) e suddividendo il campione in sette gruppi di età. E’ risultato che la frequenza dei vari ordini di scuola è andata sensibilmente aumentando nel tempo e che assieme ad esso è cresciuto anche il livello di soddisfazione espresso dai genitori. Per tutti gli ordini di scuola si assiste ad una progressiva diminuzione negli anni della percentuale di percorsi di inclusione totale, a vantaggio di situazioni miste, con parte del tempo trascorsa in classe e parte in ambienti separati. Dopo la scuola, quasi il 42% si trova inserito in strutture protette (soprattutto centri occupazionali diumi), il 23% resta a casa e il 22% dichiara di essere impegnato il lavoro che non vengono specificati; il 9% risulta occupato in azienda e meno del 7% in cooperative sociali. Lo stesso gruppo di lavoro ha poi analizzato lo stato dell’integrazione scolastica attraverso le opinioni di 3200 insegnanti attraverso un questionario online. E” emerso che gli insegnanti non credono nella capacità del sistema scolastico di dare risposte efficienti ai bambini con disabilità. Nonostante ciò sono tutti convinti che la presenza di allievi speciali nelle classi faciliti loro l’apprendimento e la socializzazione e sia anche un’opportunità di crescita professionale per gli insegnanti stessi. Viene fortemente enfatizzata l’importanza di un percorso coordinato tra insegnanti curriculari e specializzati. La stragrande maggioranza si è rivelata contraria al ritorno di fatto alle classi speciali, nonostante il 25% si dimostra d’accordo. Altra analisi interessante è quella messa in atto dall’ Associazione TreeLLLe, dalla Caritas italiana e dalla Fondazione Agnelli (2011),la quale ha cercato di fare un bilancio sul funzionamento della politica di integrazione, proponendo anche un modello organizzativo profondamente diverso da quello attuale. Il rapporto fomisce dati statistici aggiornati, i quali evidenziano il progressivo aumento del numero di allievi certificati e di quello degli insegnanti di sostegno, con un impegno di risorse estremamente importante, pari al 10% dell’intero budget scolastico nazionale. Nonostante l’investimento molto significativo però vi sono ancora varie carenze che andrebbero corrette per garantire maggiore efficacia ed efficienza al sistema. Dagli studi descrittivi emerge un’analisi dello stato dell’arte dell’integrazione scolastica che è sicuramente interessante, poiché fotografa questa realtà nei suoi aspetti qualitativi e quantitativi, i suoi punti di forza e le sue criticità. Questi studi rispondono a quesiti del tipo cosa si sta facendo, come lo si fa, con quali risorse e vincoli strutturali. Sebbene da questi si possa ricavare qualche informazione indiretta però, si è sostanzialmente lontani dalle dimensioni di efficacy, effectiveness e implementation del modello EBE, il quale richiede specifiche ricerche empiriche che purtroppo ad oggi sono limitate nella nostra letteratura. 2.2.2 Ricerche sugli esiti del processo di integrazione scolastica Gli studi in questo settore sono assai limitati e quasi interamente ridotti a descrizioni di buone prassi, alcune delle quali inquadrabili come esperienze di ricerche azione che non sono in grado di fornire riscontri probanti sull’efficacia del modello inclusivo; mancano di un disegno sperimentale in grado di isolare le variabili e di un sistema condiviso e validato di valutazione dei risultati. Aver promosso questo approccio nella scuola ha sicuramente contribuito a promuovere il tentativo di coniugare teoria e pratica, tuttavia vi è il rischio di confinare gli insegnanti all’interno di un circolo vizioso ristretto e autoreferenziale, il cui risultato è spesso quello di trovare convalidati gli schemi e le convinzioni già posseduti, senza andare oltre. Esistono grosse difficoltà: -dal punto di vista metodologico + il problema riguarda la definizione di “esito positivo” dell’integrazione: quando possiamo affermare che il processo di integrazione ha dato risultati soddisfacenti? Sulla base dei livelli di autonomia personale, dei processi di apprendimento curricolari, delle competenze comunicative, sociali, la frequenza alle interazioni, il bisogno di sostegno, l’inserimento lavorativo, la qualità di vita di allievi e insegnanti ecc. Altro problema è la modalità di valutazione che può essere adottata. Bisogna evitare i due estremi: valutare solo con test standardizzati somministrati da figure esterne da un lato e ritenere che solo un’osservazione descrittiva in situazione, arricchita dalla discussione con altri colleghi sia sufficiente, dall’altro. -dal punto di vista pratico> difficoltà di pianificare le ricerche con metodologia classica sul gruppo. L’impossibilità, in molte situazioni, di selezionare campioni con procedure randomizzate e individuare i gruppi di controllo, costringe a orientare la ricerca, almeno gran parte di essa, verso studi longitudinali, utilizzando la metodologia sul soggetto singolo e alcune procedure di ricerca qualitativa. Questi limiti di ordine pratico non sono presenti nella quasi totalità degli altri paesi, nei quali per gli allievi con disabilità sono previste sia esperienze inclusive in classi comuni, che situazioni di inserimento in contesti speciali. Gli esiti da valutare sono quelli sugli allievi con disabilità, sugli altri attori nel processo inclusivo (compagni, genitori, insegnanti, famiglia e comunità) e sul miglioramento delle procedure didattiche per tutti. Gli esiti del’integrazione valutati direttamente sugli allievi L’indagine condotta da Gherardini e Nocera, in collaborazione con l’ Associazione italiana persone Down (2000), la quale analizza anche il parametro della qualità dei risultati nella valutazione dell’integrazione scolastica con la sindrome di Down. Gli autori mettono correttamente in evidenza che i resoconti ottenuti possono essere condizionati dalla soggettività degli intervistati. Gli insegnanti curriculari e di sostegno sono stati chiamati a rispondere a quesiti relativi alle acquisizioni di abilità da parte degli allievi. La ricerca evidenzia buoni potenziali di sviluppo da parte degli allievi, carenze maggiormente localizzate a livello linguistico e logico-matematico. La percentuale di ragazzi competenti negli apprendimenti scolastici aumenti al progredire dell’età e della fascia scolastica. Vianello e Lanfranchi (2009) hanno studiato l’effetto surplus, che rappresenta un fenomeno opposto a quello di deficit e considera come gli allievi con disabilità possano avere prestazioni superiori in alcune aree rispetto a quelle di bambini a sviluppo tipico con la stessa età mentale. Le prestazioni di lettura e scrittura di un campione italiano di allievi con sindrome di Down, che si è rivelato superiore a quello di altri paesi e che autorizza a pensare alla politica dell’integrazione totale degli allievi nelle classi comuni come variabile cruciale in grado di giustificare il risultato. Unito inoltre si registrano difficoltà soprattutto a capire in quale categoria far rientrare gli studenti con BES non facenti parte della categoria disabilità. Pur considerando le significative differenziazioni che limitano la possibilità di generalizzare i risultati della ricerca in questo campo, questa non deve essere del tutto ignorata. Saltati 3.2 e 3.3 (ricerche varie) 3.4 Le questioni in primo piano: riflessioni e prospettive Alla luce delle differenze fra il nostro contesto e quello anglosassone nel quale le ricerche sono state principalmente sviluppate, alcuni elementi risultano importanti e da sottolineare: -gli allievi inseriti in classi comuni sembrano ottenere risultati maggiormente significativi a livello di apprendimento curricolare rispetto a quelli che frequentano le classi speciali: -lo sviluppo sociale, inteso come qualità e quantità delle relazioni con compagni e adulti e come controllo dei problemi comportamentali, appare migliore per gli allievi coinvolti nella scuola inclusiva; -gli effetti positivi per gli allievi che frequentano classi comuni risultano più rilevanti per quelli che presentano situazioni di disabilità di grado lieve e per quelli con dsa; - i compagni di classe non appaiono rallentati nel perseguimento degli obiettivi del curricolo scolastico dalla presenza degli allievi con BES. Al contrario, in alcune situazioni le condizioni inclusive sembrano facilitare le acquisizioni dei compagni a sviluppo tipico, soprattutto per quello che riguarda le competenze sociali, il rispetto e l’accettazione delle diversità. L’Italia, che ha scelto ormai da molti anni di implementare un modello full inclusion, non può più rimanere fuori dal dibattito scientifico internazionale a causa della carenza di dati empirici a disposizione. Parte seconda- Evidence Based Education: orientarsi fra le diverse metodologie Le procedure di ricerca su cui deve basarsi 1’EBE non sono solo quelle condotte con metodologia classica basata su campionamenti randomizzati (RCT) ma anche altre metdologie, comprese quelle di tipo qualitative. Qualsiasi sia la metodologia scelta è necessario che il ricercatore documenti in maniera chiara e dettagliata le procedure adottate in modo da fornire tutte le informazioni perla replica degli esiti da parte di altri ricercatori o quantomeno comunicare con chiarezza i punti di forza e di debolezza dei risultati ottenuti. La dicotomia tra ricerca quantitativa e qualitativa è ormai superata e ci si orienta sempre più verso procedure integrate che coniugano il tentativo di perseguire conoscenze considerando e manipolando fattori e variabili (quantitativa) e l’auspicata comprensione delle ragioni di ogni soggetto in funzione dell’assunzione di decisioni (qualitativa). Per quel che riguarda la generalizzabilità dei risultati vanno ridimensionate le pretese di matrice positivistica circa la possibilità di generalizzazione completa dei risultati ottenuti su alcuni campioni ma,allo stesso tempo, non si può affermare che ogni situazione sia irriducibilmente unica e che non esista la possibilità di trasferire le conoscenze tra i diversi contesti. 4. Competenze preliminari: saper osservare e valutare Ogni progetto che voglia orientarsi ai principi dell’EBE deve scegliere metodi di rilevazione e di misura in grado di fornire dati affidabili. Anche l’osservazione è fondamentale per documentare gli esiti dei processi inclusivi, se portata avanti con rigore metodologico di modo da potenziare l'affidabilità e la controllabilità esterna. Oltre all’osservazione anche la valutazione scolastica nell’ottica dell’EBE deve poggiare su specifiche conoscenze e competenze dell’insegnante, chiamato a documentare il proprio percorso didattico e i risultati che dichiara di ottenere. 4.1 La metodologia osservativa nella prospettiva dell’EBE L’osservazione è un sistema di monitoraggio valido e affidabile, che rappresenta la condizione di base per poter implementare ricerche applicate sia di tipo qualitativo che di tipo quantitativo. Punto di forza dell’osservazione, quando condotta dagli stessi insegnanti, (protagonisti naturali della situazione) è potersi calare in maniera naturale nel contesto in cui le situazioni si manifestano; la presenza di un osservatore esterno rischia di modificare in maniera consistente il contesto. Elemento critico è il rischio di soggettività dell’osservatore: aspettative, conoscere i fini dell’osservazione, tendenza a dare importanza ad alcuni aspetti piuttosto che ad altri, sono tutti elementi di rischio per l’affidabilità dell’osservazione. Per enfatizzare i fattori positivi e ridurre quelli di rischio, la prospettiva dell’EBE prevede alcune procedure e accortezze. 4.1.1 Come osservare a scuola e con quali strumenti Le strategie di osservazione possono essere differenziate, sulla base del grado di strutturazione, in descrizioni narrative e osservazione sistematica. Descrizioni narrative Sono resoconti particolareggiati, incentrati su quello che si ritiene importante della situazione ai fini della ricerca, senza prevedere l’utilizzo di particolari strumenti. Il prodotto che ne risulta è di tipo discorsivo e cerca di rendere conto della complessità della situazione osservata. E’ impiegata nelle ricerche qualitative, in particolare nello studio dei casi e nella ricerca etnografica. La libertà dell’osservatore consente di considerare un ampio ventaglio di variabili personali e situazionali, anche se ciò pone seri problemi di significatività e generalizzabilità. Esistono una serie di suggerimenti operativi per rendere maggiormente confrontabili, e quindi utilizzabili a livello di ricerca, i riscontri delle osservazioni descrittive, anche quando effettuate da osservatori diversi: -annotare sempre, all’inizio del protocollo osservativo, i dati relativi al momento, al luogo e alla durata dell’osservazione, oltre alle informazioni riguardanti i soggetti osservati; -fomire informazioni precise sul contesto (luogo fisico e attività nelle quali gli allievi sono impegnati); -distinguere tra comportamenti osservati e al loro valutazione attraverso l’impiego di un linguaggio operativo. -selezionare i momenti salienti dell’esperienza scolastica dell’allievo o degli allievi in relazione allo scopo dell’osservazione. Fra le ricerche di tipo narrativo, le più utilizzate sono i diari e le registrazioni aneddotiche. Il diario consiste nella registrazione degli eventi, senza utilizzare alcun sistema di codifica. La forma più conosciuta nel contesto scolastico è il diario di bordo, nella compilazione del quale l'osservatore tende ad affiancare agli elementi descrittivi dell’azione anche aspetti interpretativi e meta cognitivi (intenzioni, difficoltà percepite ecc.) aiutando l’osservatore a riflettere sulle possibili linee interpretative. Nelle registrazioni aneddotiche non viene registrata l’esperienza vissuta dal soggetto nella sua globalità, ma solo alcuni incidenti critici in grado di dare informazioni su particolari condotte che si intendono studiare. Un tipo di registrazione aneddotica è l’analisi funzionale del comportamento di derivazione skinneriana, impiegata per indagare la motivazione alla base dei comportamenti problema. L’osservatore, è chiamato a registrare cosa avviene prima e dopo un determinato episodio. La teoria del condizionamento operante infatti mette in evidenza come ogni azione sia funzione della situazione precedente all'emissione (situazione-stimolo) e venga solitamente consolidata dalle conseguenze che produce. Se determinate risposte di un allievo sono precedute costantemente dagli stessi antecedenti e o seguite dai medesimi conseguenti, si può ipotizzare che questi siano probabili fattori che mantengono operativi i comportamenti in questione. L’osservazione sistematica L’osservazione sistematica viene condotta attraverso protocolli di rilevazione nei quali sono preselezionati i comportamenti o le situazioni oggetto di indagine. Dunque a differenza delle descrizioni narrative si delimita e si definisce con cura il costrutto da osservare e gli indicatori che lo caratterizzano, per poi procedere alla rilevazione dei dati con particolari scale o schede. Le rilevazioni comportamentali, sono molto più accurate rispetto all’osservazione descrittiva al punto che possono essere oggetto di analisi statistiche ed essere utilizzate anche all’interno di ricerche sperimentali (sui gruppi e sui singoli soggetti). I protocolli di osservazione sistematica possono essere compilati nel momento in cui i comportamenti del soggetto sono emessi o successivamente facendo affidamento a filmati o a ricordi dell’osservatore. Vi sono anche alcune scale di valutazione compilate da parte di figure che conoscono molto bene la situazione. Strumenti operativi dell’osservazione sistematica sono le check list, le schede di osservazione sistematica e le scale di valutazione. Checklist> schede costituite da elenchi di abilità e di specifici comportamenti articolati secondo un ordine gerarchico, che permettono di sistematizzare l'osservazione e di constatare la presenza o l’assenza di un oggetto di un fenomeno senza che si formulino giudizi di valore. Generalmente, nel caso in cui l’osservatore sia esterno, si procede a partire da un iniziale periodo di osservazione e uno successivo in cui i comportamenti vengono registrati nella scheda. Le check-list si distinguono in globali (che tentano di valutare in maniera completa tutte le abilità del soggetto) e a focalizzazione crescente (che prendono in considerazione solo quei repertori rivelatisi carenti con le check list di primo tipo). Schede di osservazione sistematica> si seleziona una serie di comportamenti dell’allievo, dei quali si ha intenzione di monitorare alcuni parametri quantitativi, come la frequenza o la durata di emissioni. I comportamenti da osservare devono essere circoscritti entro categorie che possono essere più (dimensione molecolare) o meno (dimensione molare) ampie, sulla base del grado di accuratezza che si vuole perseguire con l'osservazione. Oltre ad essere accurate, le categorie devono essere esaustive ed esclusive. Dei comportamenti registrati si calcolano determinati parametri quantitativi: -la frequenza di comparsa di un determinato comportamento; -la latenza della risposta, che descrive il tempo che passa tra la comparsa dello stimolo e la risposta emessa dal soggetto; -la durata della risposta; - l’intensità della risposta; -la selezione della risposta, che descrive la scelta del soggetto quando sono offerte varie possibilità. Scale di valutazione (rating scale) strumenti più elaborati delle check list e delle schede di osservazione sistematica che hanno oltre alla rilevazione di parametri quantitativi del comportamento e guidano l'osservatore a esprimere giudizi su intenzioni, opinioni o atteggiamenti dei soggetti osservati. L’osservatore viene invitato a indicare, in corrispondenza di una serie di proposizioni, il so grado di accordo con esse o il suo giudizio sull’intensità di un dato carattere, attraverso l’indicazione di un numero, di un aggettivo o scegliendo fra le descrizioni analitiche fomite, che indicano diversi livelli di presenza/assenza di comportamenti. La scala più diffusa è quella Likert , una scale graduale che si esprime tramite avverbi (ad esempio sempre o quasi, spesso, raramente, mai o quasi mai). 4.1.2. Le fonti di errore dell’osservazione e i possibili rimedi Gli errori che si possono presentare durante l’osservazione, riguardano tutte le diverse componenti della situazione: i soggetti, l’osservatore e gli strumenti. I soggetti osservati Le fonti di distorsione determinate dai soggetti possono essere: la loro possibile reattività, poiché la presenza dell’osservatore può indurre i soggetti esaminati ad alterare il proprio comportamento in funzione della consapevolezza di essere osservati. Per rimediare l’accorgimento principale è nascondere o mascherare l’osservatore oppure certi aspetti dell’osservazione, cosa non sempre possibile a scuola per cui diviene necessario far precedere la ricerca da una fase di familiarizzazione degli allievi con la persona che dovrà condurre l’osservazione, quando questa è esterna al contesto. L’osservatore Errori di osservazione da parte dell’osservatore possono dipendere dalle loro aspettative personali o a particolari condizioni psicofisiche. Il primo rischio è dovuto a pregiudizi che rischiano di far concentrare il processo osservativo sui comportamenti attesi, trascurando molte azioni che non rientrano negli schemi precostituiti (effetto pigmalione, Rosenthal e Jacobson, 1968). Altro possibile errore quando un osservatore tende a interpretare i comportamenti anziché limitarsi a registrarli. Accorgimento principale è quello di utilizzare strumenti con categorie definite per bene e a basso grado di inferenza; è inoltre utile ricorrere a due osservatore indipendenti per verificare l’attendibilità dell’osservazione. Per quel che riguarda le condizioni psicofisiche (stanchezza, eccesso di ansia, scarsa che tenta di generalizzare e provare teorie, standardizzare dati): a partire dall’osservazione della realtà, il ricercatore formula e riformula le sue interpretazioni del fenomeno. La ricerca qualitativa oltre alla descrizione approfondita del tema permette di registrare i punti di vista e i comportamenti dei partecipanti e utilizza strumenti e tecniche come l’osservazione partecipante, le interviste in profondità, il focus group, recensioni di letteratura e analisi di documenti ecc. L’approccio fenomenologico e narrativo all’oggetto di studio è di tipo olistico e attento alla complessità, alla processualità e alla situazione da studiare, nonché alle relazioni tra soggetti e contesto nel quale agiscono. A differenza della ricerca quantitativa non intende spiegare un fenomeno ma esplorarlo, comprenderlo e interpretarlo. Limite di questa metodologia è però la possibile interferenza della soggettività dell’osservatore. Narrazioni personali e storie di vita sono anch'essi studi qualitativi molto utili nella ricerca in educazione speciale per esplorare i vissuti personali delle persone con disabilità. 5.2 Cambiamenti nelle prospettive di ricerca Nel corso della storia l’approccio quantitativo è stato ed è tuttora maggiormente controllato e finanziato. Sebbene nell’ultima parte del XX secolo le pubblicazioni di studi quantitativi siano continuate a crescere, in parallelo si è registrato anche un leggero incremento della percentuale di studi qualitativi. E’ stato difficile, per la ricerca qualitativa, riuscire a dimostrare nel tempo di essere in grado di fomire conclusioni altrettanto valide rispetto a quelle quantitative. I suoi difetti metodologici sono la complessità dell’interpretazione dettagliata e contestualizzata di uno o più fenomeni, la difficile e scarsa generalizzazione dei risultati, la limitata rigorosità nella verifica dei risultati e l’interferenza della soggettività del ricercatore. In merito a quest’ultimo elemento alcuni autori suggeriscono che, piuttosto che pensare di poter essere totalmente neutrali, distaccati e oggettivi, i ricercatori qualitativi devono essere espliciti e chiari in merito alle loro posizioni personali, prospettive e orientamenti teorici. 5.2.1 Tecniche di indagine qualitativa Le tecniche maggiormente utilizzate nella ricerca qualitativa sono: 1. le interviste libere o semistrutturate + formulazione di domande atte ad esplorare argomenti di interesse per la ricerca. Minore è il grado di strutturazione maggiore la produzione di materiale spontaneo da parte dell’intervistato; 2. Osservazione + descrizione di una situazione o di un comportamento in un determinato contesto, può essere strutturata o meno, indiretta o diretta; 3. Studi di caso > analisi dettagliate dei casi (si intende sia singoli soggetti che piccoli gruppi e unità autonome) all’interno dei contesti educativi, si distinguono in longitudinali e trasversali; 4. Ricerca-azione > una ricerca in azione il cui obiettivo è partire dai problemi del contesto e tentare di raggiungere scopi predefiniti con la partecipazione di tutti i soggetti; 5. Focus group> intervista di gruppo in cui il conduttore coordina generalmente un numero limitato di persone stimolandone l’interazione, la comunicazione e il dialogo mentre l’osservatore annota tutto quello che emerge; 6. Role-playing > tecnica che prevede la partecipazione di più soggetti a una situazione sociale simulata. 5.2.2 La ricerca-azione La ricerca-azione utilizzata nel contesto scolastico fornisce nuove conoscenze o aiuta a comprendere il modo in cui migliorare le pratiche educative o risolvere problemi significativi nelle classi e nelle scuole: consiste nello sperimentare idee circa la propria prassi, allo scopo di migliorarsi e approfondire le conoscenze riguardo al curriculum, l’insegnamento e l'apprendimento. E° una modalità di lavoro che collega teoria e prassi nell’insieme idee-in-azione. Questa metodologia inizia dagli insegnanti e prende spunto da problemi concreti (bottom-up), si incentra su una riflessione e su un’autoriflessione critica sugli effetti dell’azione, si pone come studio sistematico e non come semplice esperienza didattica, è sempre aperta al controllo intersoggettivo e privilegia il cambiamento e l’attività di ricerca come agenti di cambiamento. Le fasi su cui una ricerca-azione si costruisce fanno riferimento a specifici modelli teorici; in particolare il modello della spirale di cicli di Lewin (1951) prevede tre momenti che si ripetono a spirale: pianificazione, esecuzione e valutazione. L’analisi dei dati si può fare di tipo quantitativo (con procedure semplici della statistica descrittiva quali ordinamenti in rango, distribuzioni di frequenza, misure di posizione o di tendenza centrale ecc) o di tipo qualitativo. Nella ricerca azioni gli strumenti di indagine maggiormente utilizzati sono: diari, verbal report (procol analysis), field notes (cronaca e profilo), schede aneddotiche, questionari e inventari, schede/griglie di osservazione, interviste, checklist, test, audio e videoregistrazioni. In particolare il profilo, uno strumento descrittivo, è molto utile nella pedagogia speciale per l’inclusione perché descrive il quadro di una situazione o di un allievo ma è anche in grado di offrire un quadro riassuntivo e valutativo; si distingue tra profilo time-based (in cui si descrive la situazione ogni 5-10 minuti) ed event-based (in cui si annotano dati ogni volta che un certo evento si verifica). I dati raccolti attraverso i vari strumenti hanno lo scopo di far riflettere il gruppo su vari aspetti e ipotizzare possibili soluzioni concentrandosi sulla conoscenza del deficit in classe, l’attivazione della risorsa compagni coinvolgendoli, la maggiore flessibilità nell’orario e nei compiti per le diverse discipline e l’uso di materiale didattico adattato in ogni disciplina, collegato alle attività della classe ma semplificato. Un gruppo di ricerca azione deve verificare la congruità e l'efficacia delle azioni rispetto al piano di lavoro e agli obiettivi prefissati. Le situazioni sperimentate potranno poi essere riproposte per esigenze dello stesso tipo. Limiti di questo metodo sono: la natura soggettiva che potrebbe minare l’affidabilità dei risultati, la scarsa generalizzabilità e la difficoltà di offrire un quadro comprensivo e dettagliato delle problematiche. Per ridurre l’impatto di tali limitazioni si può ricorrere a procedure di triangolazione sia dei dati (utilizzo di varie tecniche per la loro rilevazione), di operatori (utilizzo di diversi ricercatori, valutatori e peer debriefers per verificare se giungono alle medesime conclusioni, di teorie (utilizzo di più punti di vista per interpretare un unico insieme di dati), di metodologia (utilizzo di più approcci metodologici) e infine uso di auditors esterni, ovvero di personale esperto, esterno alla ricerca. Quando il gruppo non riesce a conciliare i diversi punti di vista, si può decidere di avviare un supplemento di osservazione chiamando in causa alcune figure esterne neutro, meno coinvolte nella situazione (auditor). Poter disporre più osservatori è un accorgimento per limitare gli errori e le deformazioni dovute alla soggettività dei partecipanti. 5.2.3 Gli indicatori per una ricerca qualitativa I principi chiave della ricerca quantitativa sono affidabilità, validità (proprietà della ricerca di raggiungere obiettivi prefissati e non altri) e attendibilità; i principi di quella qualitativa sono invece credibilità, consistenza,applicabilità, autenticità, conformità (ricerca relativamente a quanto è possibile esperire sul campo) e approccio critico (ricercatore valuta i risultati della ricerca). Anche nella ricerca qualitativa si devono utilizzare indicatori che garantiscano la qualità della progettazione, dell’implementazione e dell’intervento nonché della valutazione dei risultati. 5.2.4 Le ricerche mixed methods I mixed methods coinvolgono in un medesimo studio l’approccio quantitativo e quello qualitativo. Questo metodo misto, nato nelle scienze sociali per poi estendersi anche a quelle educative, è stato negli ultimi dieci anni oggetto di interesse dei ricercatori. Alcuni sostengono una totale incompatibilità, altri una guerra aperta, altri ancora un problema irrisolto. L’aspetto più problematico sembra essere l’ampio ventaglio di competenze richieste al ricercatore; nonostante siano stati pubblicati diversi manuali in proposito, l’applicazione concreta di questo metodo è ancora piuttosto rara. I mixed methods cercano di salvaguardare le specificità di entrambi gli approcci, sfruttandoli per giungere ad una conoscenza più concreta approfondita e completa. Una conoscenza più approfondita di questo approccio anche nel campo della pedagogia speciale per l’inclusione, consentirebbe non solo di promuovere nuove forme di conoscenza derivanti da fonti diverse ma anche di avvicinare due orientamenti che attualmente in questo settore sono fortemente sbilanciati. 6. La ricerca quantitativa sui gruppi per verificare gli indicatori di risultato Nella forma classica, la ricerca quantitativa su gruppi randomizzati di soggetti (RCT), prevede l’intervento intenzionale del ricercatore per modificare una o più variabili di un certo fenomeno per verificare se e in che modo provochi un cambiamento dello stesso fenomeno nel gruppo sperimentale, attraverso il confronto con il gruppo di controllo (equivalente al primo, con la differenza che non gli viene somministrato nessun tipo di intervento). La randomizzazione, ossia l’assegnazione casuale dei soggetti ai due gruppi cerca di garantire che tutti i fattori, noti e non, si distribuiscano in modo omogeneo nei due gruppi. La ricerca quantitativa, anche se non è l’unica, rappresenta uno degli elementi fondanti dell’EBE per la sua capacità di fornire evidenze empiriche e avvalorare o confutare le ipotesi sperimentali. 6.1 I principi di base della ricerca sui gruppi Pianificare una ricerca significa prevedere delle relazioni tra due o più eventi che vengono definiti variabili, in quanto suscettibili di modificazioni. Il ricercatore prevede che modificando una o più variabili, definite variabili indipendenti, queste possano condizionare il fenomeno o alcuni suoi aspetti, definiti variabili dipendenti. Lo scopo è verificare che la modificazione della VI abbia un effetto sulle VD, grazie alla comparazione degli esiti con quelli del gruppo di controllo in cui non vi è alcuna modificazione. I risultati possono confermare l’ipotesi sperimentale o la sua ipotesi opposta, la cosiddetta ipotesi nulla. 6.1.1 Come misurare gli esiti Le rilevazioni devono essere il più possibile precise e oggettive. Vi sono quattro principali modalità di misurazione, sulla base del sistema numerico adottato: 1. SCALA NOMINALE>è il livello più semplice di misurazione e consiste nel raggruppare vari elementi in classi. Tali classificazioni sono chiamate nominali in quanto ci si limita a dare un nome alle diverse categorie. L’operazione di misura, in questi casi, è una distribuzione di frequenza e consiste nell’assegnare ogni elemento a una di due o più classi mutualmente escludentesi (es. classificare gli alunni in maschi e femmine). 2. SCALA ORDINALE+ Modalità di misurazione della variabile dipendente che consiste nel disporre in ordine di grandezza oggetti o eventi sui quali si concentra l’attenzione durante la ricerca. La graduatoria degli allievi di una classe in base alle loro capacità motorie, stabilita assegnando a ognuno di essi una posizione contrassegnata da un numero (ranghi), rappresenta un esempio di disposizione ordinale, in quanto consente di affermare che l’allievo in prima posizione è migliore del secondo e così via, senza però specificare di quanto uno sia più capace dell’altro. 3. SCALA A INTERVALLI>Modalità di misurazione della variabile dipendente durante la conduzione di una ricerca che permette di conoscere l'ammontare della differenza esistente tra gli oggetti o gli eventi che si stanno misurando. Questo è possibile quando le differenze di prestazione sono misurabili con precisione (ad es. in un compito) in quanto esiste un’unità di misura costante. 4. SCALA A RAPPORTI >?Differisce dalla scala a intervalli per il diverso significato assunto dal valore 0: nella scala a intervalli è relativo, cioè è convenzionale; nella scala a rapporti è invece assoluto, cioè indica l’assenza della proprietà che si intende misurare. Le ricerche condotte in campo educativo prevedono raramente misurazioni con scale a rapporti, più utili per misurare variabili come peso, lunghezza e tempo. 6.1.2. L'importanza della selezione random dei soggetti La scelta causale (random) è la procedura di selezione che garantisce maggiormente dal rischio di deformazione e di introduzione di fattori soggettivi e rappresenta l'elemento centrale dell’RCT per due ordini di motivi: aumenta la comparabilità degli esiti nei diversi gruppi poiché questi sono equivalenti grazie al random e perché consente la generalizzazione dei risultati della ricerca. Per quel che riguarda la numerosità dei soggetti da coinvolgere, vi è un riferimento numerico di almeno 60 soggetti complessivi in due studi quando la selezione avviene in maniera random, e di 120 soggetti in quattro studi nel momento in cui non è possibile la randomizzazione dei gruppi. comportamenti. Le valutazioni devono riferirsi ad aspetti oggettivi e osservabili del comportamento nei soggetti limitandosi a descriverli in termini di frequenza, durata, intensità dei comportamenti e latenza e selezioni delle risposte da parte dell'allievo. Le misurazioni ripetute devono essere condotte in condizioni controllati di modo da rendere costanti le variabili intervenienti che non si possono eliminare (persone coinvolte, condizioni ambientali, istruzioni fornite ai soggetti ecc.). 7.1.2 Le fasi di inversione Confrontando solamente il comportamento di un allievo nella fase di baseline con nquella di intervento non si può essere certi che non siano intervenute variabili secodarie; accorgimento metodologico è quello di prevedere fasi di inversione, cioè periodi di interruzione dell'intervento educativo durante i quali si continua a monitorare il comportamento. L'ipotesi che l'azione didattica sia la causa della modificazione del comportamento è rafforzata considerevolmente nel momento in cui, a seguito dell'interruzione, il comportamento tende a ritornare verso la linea di base. Spesso però accade che dopo la fase di inversione non vi sia un peggioramento delle prestazioni e si verifica l'effetto carry-over (trascinamento) per cui la modificazione apportata al comportamento dell'allievo tende a mantenersi. Tale effetto è estremamente auspicabile dal punto di vista educativo ma dal punto di vista metodologico è problematico perchè priva il ricercatore di una prova effettiva circa l'efficacia dell'intervento. Infatti questa ultima si presenta nel caso in cui con l'interruzione il comportamento tende verso la base line. Bisogna allora adottare metodologie più sofisticate per verificare gli effetti dei trattamenti implementati. 7.1.31 disegni sperimentali I disegni sperimentali sul singolo soggetto possono essere di base (A-B, A-B-A, A-B-A-B) oppure disegni sperimentali a libee di base multiple. I disegni sperimentali di base (A-B, A-B-A, A-B-A-B) Sono disegni sperimentali basati sull'alternanza di fasi di valutazione di base (fasi A) e fasi di intervento (fasi B). Il disegno A-B E' il disegno più semplice che si articola in due momenti: e fase A (detta anche misurazione di base o baseline) caratterizzata da un monitoraggio sistematico, attraverso misurazioni ripetute, del comportamento dell'allievo che si intende modifcare; * faseBnellaquale si introduce la VI, rappresentata solitamente da un intervento educativo, mentre si continua a valutare continuamente l'evoluzione del comportamento. Se nella fase B si riscontrano modifiche nella variabile dipendente (comportamento dell'allievo) si possono attribuire, pur sempre con cautela, all'introduzione della VI. Limiti del disegno è l'assenza della fase di inversione che espone al rischio di incidenza di fattori temporali estranei all'intervento sul comportamento. Per le conclusioni piuttosto deboli cui giunge il disegno A-B non è incluso tra i disegni di ricerca ideali per il modello EBE. Il disegno A-B-A Oltre al momento di baseline e di intervento prevede una fase di interruzione dell'intervento e di valutazione (seconda fase A o fase di inversione) di modo da aumentare le possibilità di controllo. Tuttavia il fatto che il disegno termini con l'interruzione dell'intervento è un problema poichè potrebbe significare l'intermuzione di un intervento che all'allievo poteva apportare benefici; per questo motivo è ritenuta "potenzialmente evidence-based" come indagine per la validazione di pratiche educative. Il disegno A-B-A-B Il disegno con trattamenti ripetuti pone rimedio alla problematica del disegno A-B-A poichè dopo la fase di inversione reintroduce una fase B di intervento e termina con quella, prolungandolo in caso di esigenze dell'allievo anche oltre i limiti sperimentali. La ripetuta presentazone e ritiro della VI evidenzia il suo eventuale effetto. Se i dati dimostrano che il comportamento dell'allievo miglior con le fasi sperimentali (B) e in conronto alle fasi di baseline e di inversione (fasi A) il ricercatore può concludere con una certa tranquillità che è l'intervento educativo e non eventuali fattori esterni incontrollati ad incidere sulla VD. Anche in questo caso vi è il rischio di effetto carry-over che aumenta all'aumentare del numero di inversioni e può compromettere l'efficacia sperimentale del disegno. I disegni sperimentali a linee di base multiple Per ovviare al limite metodologico dell'effetto carry-over è possibile adottare in alcune situazioni un disegno sperimentale a linee di base multiple, il quale non richiede (almeno nel suo modello classico) il ritiro della VI. Tale disegno prevede: -la misurazione di base di più comportamenti emessi da uno stesso allievo o di un comportamento manifestato da più allievi; -predispsizione di una modalità di intervento uguale per tutti i comportamenti (o gli allievi); -sequenzialità dell'implementazione del trattamento, cioè applicarlo inizialmente al primo comportamento (o allievo) considerato, dopo un certo periodo di temo al secondo e così via. Peri comportamenti (o allievi) non ancora interessati dall'intervento si deve prolungare la misurazone di base. Con questo disegno sperimentale quindi lo stesso tipo di intervento viene applicato in momenti diversi peri vari comportamenti che si è deciso di modificare. Se questa introduzione sequenziale della VI determina in tutte le situazioni un miglioramento nel senso ippotizzato è una prova forte dell'efficacia dell'intervento. Il fatto che il tattamento, dilazionato nel tempo, abbia ugualmente prodotto un cambiamento in positivo infatti, permette l'esclusione quasi certa di variabili ambientali interferenti. 7.2 Il controllo dei risultati nella ricerca sul soggetto singolo il controllo dei dati per molto tempo è stato condotto con la sola analisi visiva; nonostante questa sia tuttora predominante viene accompagnata spesso da alcune modalità di verifica statistica. L'analisi visiva dei dati permette di verificare la significatività degli effetti di un intervento soprattutto sulla base di tre criteri: il confronto tra le diverse fasi del disegno, la latenza dei cambiamenti rispetto all'inizio dell'intervento educativo e il livello di stabilità dei valori nelle diverse fasi. Limiti dell'analisi visiva sono: il fatto che porta a rilevare come significativi solo i cambiamenti più rilevanti (il che per alcuni piuttosto che un limite rappresenta un vantaggio) e la soggettività valutativa (data dal fatto che più osservatori possono esprimere valutazioni contrastanti). Per ovviare ai limiti dell'analisi visiva dei dati si ricorre all'applicazione di modalità di verifica statistiche quali il test C, il test di correlazione per ranghi di Spearman applicato alle serie temporali, il test di randomizzazione e le time series analysis. 7.3 Ricerca sul soggetto singolo e didattica speciale nella prospettiva dell'EBE Ai fini dell'inclusione di allievi con BES la ricerca sul soggetto singolo rappresenta un supporto molto interessante per validare interventi di inclusione. La didattica speciale si rivolge al singolo individuo al pari della ricerca sul singolo soggetto. Gli interventi di interesse della didattica speciale necessitano di essere seguiti in tutta la loro evoluzione; tale monitoraggio sistematico è previsto nella metodologia del soggetto singolo la quale prevede misurazioni ripetute. La didattica speciale conduce ricerche nel contesto reale e la ricerca sul soggetto singolo (diversamente dalle ricerche classiche sul gruppo) consente di modificare il disegno sperimentale (le VI) anche in itinere sulla base dei riscontri rilevati. Dunque la metodologia N=1 è rigorosa ma al contempo flessibile e per questo si adatta bene alle esigenze della didattica speciale. Dal 2010 infatti tale metodologia è fatta rientrare tra le procedure evidence-based nonostante il limite della validità e della generalizzabilità dei risultati. Sono infatti necessarie delle repliche per dimostrare che gli effetti delle VI sono riproducibili in situazioni differenti. Le repliche possono essere dirette se si ripete l'esperimento con soggetti diversi ma con le stesse procedure, lo stesso ambiente e gli stessi operatori o sistematiche, se l'esperimento originale viene ripetuto variando uno o più dei suoi aspetti essenziali. Se si ottengono risultati identici o molto simili si ha una prova in più della possibile generalizzazione degli stessi. Solitamente sono auspicabili almeno tre repliche e i disegni sul soggetto singolo preferenziali sono l'A- B-A-B e il disegno con linee di base multiple. 7.4 La ricerca N=1 in ambito educativo: un'esemplificazione La ricerca viene messa in atto verificare l'efficacia di un training cognitivo rivolto alle capacità mnestiche di un allievo di 17 anni con sindrome di Down, deficit intellettivo medio, QI di 59 (rilevato attraverso la scala WAIS di Wechsler) e livello di sviluppo cognitivo operatorio concreto (pensiero vincolato saldamente al concreto). L'allievo presentava carenze nelle varie funzioni cognitive (attenzione, memoria, comprensione, produzione verbale) e si è deciso di intervenire in particolare sulla memoria, applicando un disegno di tipo A-B-A. Fase A Misurazione di base delle prestazioni mnestiche attraverso schede che valutano la sua capacità di rievocazione incentrate sulle avventure di un personaggio (Ebby) e richiedevano di rievocare un numero di telefono di otto cifre, un numero di targa di otto elementi e una lista di otto città italiane presentate per dieci secondi. Dopo 15 viene richiesto all'allievo di rievocarle e l'ordine di presentazione cambia sempre per evitare che ricordi la lista degli elementi mostrati. La misurazione di base ha previsto in totale 12 misurazioni. Fase B l'allievo viene coinvolto in un intervento educativo articolato in due momenti: «inizialmente si proponevano esercizi finalizzati a facilitare semplici modalità di organizzazione degli elementi presentati (unire numeri/lettere/sillabe a due a due; unire lettere in sillabe, sillabe in parole, numeri singoli in numeri a più cifre; codificare e reiterare gli elementi presentati); - una volta acquisiti i prerequisiti il training è proseguito con esercizi di memorizzazione e recupero attraverso prove di riconoscimento e rievocazione, indirizzando inoltre gradualmente l'allievo verso l'utilizzo delle autoistruzioni e fornendogli suggerimenti e conoscenze circa le strategie metacognitive utili alla memorizzazione. Durante la fase B si è continuato il monitoraggio della capacità di rievocazione dell'allievo con le stesse schede su Ebby utilizzate nella fase A, somministrate al termine di ogni lezione (12 lezioni individuali di un'ora circa sono state tenute in tutto). FASE A (inversione) Il training è stato interrotto, mentre si è continuato il monitoraggio delle capacità di rievocazione coni medesimi strumenti per un totale di sole tre misurazioni a causa di una malattia dell'allievo che ha interrotto la frequenza. Follow-up Sono stati effettuati due controlli a distanza di uno e tre mesi dall'interruzione dell'intervento, con gli stessi strumenti delle fasi A ciascuno con sei misurazioni. Risultati e commento Dai risultati è emerso che, pur nella sua limitata estensione temporale, l'intervento ha prodotto un incremento significativo della capacità di rievocazione dell'allievo. Si è verificato inoltre un effetto carry-over e i follow up hanno evidenziato un sostanziale mantenimento nel tempo delle abilità acquisite. Parte terza Evidence-Based Education e didattica speciale: alcune esemplificazioni 8. Un progetto di educazione socio-emotiva: una risorsa per tutti e per ciascuno L’educazione socio-emotiva rappresenta un nuovo e interessante filone di ricerca in ambito educativo che negli ultimi anni si sta diffondendo grazie all’impatto positivo che ha sullo sviluppo personale degli allievi, sul loro rendimento scolastico, sulle relazioni interpersonali, sulla pratica didattica degli insegnanti e, più in generale, sull’intera comunità scolastica. 8.1 Cos'è l'educazione socio-emotiva L’educazione socio-emotiva, meglio conosciuta nel contesto internazionale come Social and Emotional Learning (SEL), rappresenta la trasposizione in ambito educativo e didattico dell’intelligenza emotiva definita da Goleman. Zins ed Elias la definiscono per primi come una combinazione di comportamenti, aspetti cognitivi ed emotivi, contraddistinti dalla capacità di riconoscere e gestire emozioni, risolvere efficacemente problemi e stabilire relazioni positive con gli altri, competenze indispensabili per tutti gli studenti. Alla base di questa iniziativa vi è la convinzione che gli alunni, al pari delle abilità scolastiche strumentali, possano apprendere quotidianamente competenze sociali ed emozionali non attraverso discipline a se stanti ma all’interno delle consuete attività scolastiche curriculari, per poi generali zzarle regolazione delle proprie emozioni, consapevolezza sociale, capacità di prendere decisioni responsabili e di problem solving. Il programma inizialmente è stato utilizzato con bambini aventi problemi (apprendimento, ritardo mentale lieve, non vedenti, ritardo linguistico, disturbi comportamentali ed emotivi); oggi è rivolto a tutti gli allievi (approccio universalistico). I principi teorici del PATHS nascono dall’unione di cinque differenti modelli concettuali e sono: e affermazione del valore centrale della scuola come fattore di innovazione e cambiamento (modello ABCD Affective-Behavioral-Cognitive-Dynamic), e integrazione tra componenti emotive, comportamentali e cognitive nella determinazione di cambiamenti socio-emotivi (approccio ecologico-comportamentale); e espressione linguistica delle emozioni e dell’autocontrollo verbale nella determinazione del comportamento (modello neurobiologico); e comprensione delle proprie e altrui emozioni come componenti centrali nelle relazioni sociali e nel problem solving (approccio psicodinamico), potenziamento e promozione di fattori psicologici protettivi come l’autoconsapevolezza emotiva e il pensiero riflessivo per sentirsi bene con se stessi, con gli altri e con il proprio ambiente (modello psicologico). Il PATHS è un programma multicomponenziale che poggia sul contributo di più attori ai fini del successo delle attività (insegnanti, famiglie, dirigenti scolastici e l’intera comunità scolastica). Si articola in lezioni precedute da un introduzione circa obiettivi e linee guida del programma, suggerimenti per i genitori, descrizioni delle attività ecc. Ogni lezione si conclude con proposte di generalizzazione delle abilità apprese attraverso apposite strategie (la tecnica della tartaruga, il poster dei segnali di controllo, le carte delle emozioni ecc). L’intervento dura per l’intero anno scolastico per tre volte la settimana (ogni lezione di almeno 20-30 minuti) e prevede la costruzione di unità di lavoro concentrate sulle singole aree di competenza integrandovi aspetti che appartengono anche alle altre aree di competenza, richiamando sempre contenuti delle unità già svolte. L’apprendimento è promosso attraverso un approccio multi metodologico il quale prevede modalità visive, verbali e cinestesiche e diverse strategie quali dialoghi, discussioni di gruppo, giochi di ruolo, compiti orali e scritti, narrazioni di storie, role playing, attività artistiche, rinforzo sociale e autorinforzo, esercizi di attribuzione e mediazione verbale. Il percorso aumenta gradualmente di difficoltà e di complessità dei vissuti emotivi che lo caratterizzano. 8.3 Educazione socio-emotiva e inclusione: percorsi di ricerca L’inclusione è finalizzata a migliorare la partecipazione sociale e le opportunità educative per tutti, in particolare per le persone a rischio di emarginazione sociale. In ambito scolastico quello dell’inclusione è un processo lento e graduale, che non si raggiunge facilmente; in questo percorso l’educazione socio- emotiva può incrementare la dimensione inclusiva dell’educazione. Infatti gli alunni, possedendo le competenze chiave del SEL diventano una risorsa strategica ai fini dell’inclusione e sono maggiormente preparati ad accettare e accogliere i loro pari con BES, contribuendo a creare un clima di classe sicuro, attento e partecipativo, riducendo i livelli di conflitto grazie all’espressione adeguata delle emozioni e alla capacità di problem solving. Dal programma SEL possono crescere professionalmente anche gli stessi insegnanti che se socialmente ed emotivamente competenti possono dare il giusto tono alla classe e alle loro relazioni con gli studenti. Le ricerche mostrano che l’educazione socio-emotiva aumenta negli studenti i livelli di pro socialità. Quello che non è chiaro è se questi miglioramenti investano anche classi in cui sono presenti alunni con disabilità o BES; inoltre andrebbe verificato l’eventuale cambiamento dei compagni di classe nei confronti dei pari con BES. 9. L’insegnante che valuta: l’utilizzo delle prove MOVIT con allievi a sviluppo tipico e con disabilità intellettiva Condizione essenziale per qualsiasi progetto ispirato al modello EBE, è disporre di strumenti adeguati e di un’affinata metodologia per valutare le competenze degli allievi, di modo da progettare opportunamente gli interventi educativi e di valutarne gli esiti. In particolare, uno strumento valido per la valutazione dell’area psicomotoria è il MOVIT (Cottini, 2002) che è stata specificatamente costruita per essere utilizzata dagli insegnanti. 9.1 Caratteristiche del MOVIT Il MOVIT consente di delineare il profilo psicomotorio di allievi in età evolutiva valutando: -tono e rilassamento; -equilibrio e coordinazione dinamica generale; -coordinazione segmentaria e intersegmentaria; -coordinazione delle mani, oculo-manuale e abilità grafo-motoria; -strutturazione della nozione di spazio; -strutturazione della nozione di tempo; -lateralità. 9.1.1 Descrizione delle prove Per ognuna delle capacità (eccezione per la lateralità) sono indicati sei indicatori comportamentali (item) di progressiva complessità riportati in un’apposita scheda riassuntiva che descrivono il grado di avvicinamento dell’allievo alla conquista della capacità in questione. La scheda consente di effettuare e confrontare cinque valutazione condotte in periodi diversi di modo da essere subito informati circa i progressi dell’allievo nei singoli indicatori. La valutazione non richiede la predisposizione di situazioni particolari ma rappresenta episodi di normali attività condotte durante le lezioni di educazione motoria per evitare il rischio di artificialità della valutazione. Le schede oltre alla tipologia dei compiti chiariscono la definizione del livello di performance accettabile e degli aiuti eventualmente applicabili. La lateralità invece viene valutata attraverso una scheda contenente nove compiti: tre per la verifica della dominanza della mano, tre del piede e tre dell’occhio. 9.1.2 Modalità di utilizzo delle prove Le prove di valutazione MOVIT sono disposte di modo da delineare l’area di sviluppo potenziale rispetto alle capacità psicomotorie. L’area di sviluppo potenziale (o zona di sviluppo prossimale, con le parole di Vygotskij) rappresenta la distanza che intercorre tra il livello di sviluppo attuale del bambino e il suo livello potenziale, che potrebbe raggiungere con l’aiuto di un adulto o di pari più capaci di lui. Per questo motivo la somministrazione richiede in un primo momento l’effettuazione di esercizi in maniera autonoma (aiuti, minuziosamente descritti nelle schede, devono essere elargiti solo quando l’allievo non riesce a portare a termine il compito). L'insegnante deve evitare di porre un’eccessiva enfasi sul fatto che si sta facendo una valutazione delle prestazioni per non determinare reazioni ansiose nell’alunno. 9.1.3 Attribuzione dei punteggi -2 punti quando il compito viene eseguito in maniera autonoma -1 punto quando l’esecuzione è subordinata all’aiuto elargito dall’educatore in seguito a un’iniziale prestazione non corretta -0 punti quando il compito non viene eseguito malgrado gli aiuti. 9.1.4 Riferimenti normativi Le prove MOVIT sono state proposte a un ampio campione di allievi della scuola primaria (678) su tutto il territorio nazionale. Sommando i punteggi ottenuti nelle sei scale è possibile determinare il livello totale di capacità psicomotorie espresso su una scala standard con media 100 e DV 15. Il livello si ritiene: -molto elevato con punteggio superiore a 130 (2% del campione); -elevato con punteggio tra 116 e 130 (14%), -medio con punteggio tra 85 e 115 (68%); -carente con punteggio tra 70 e 84 (14%); -molto carente con punteggio inferiore a 70 (2%). 9.2 Presentazione e commento di riscontri riferiti ad allievi con disabilità intellettiva e sviluppo tipico Per ottenere un’informazione visiva immediata dei risultati della valutazione MOVIT è possibile riportare i riscontri ottenuti in un prospetto riassuntivo in cui si colorano di nero gli item completamente superati dall’allievo, in grigio quelli che rientrano nell’area di sviluppo potenziale mentre vanno lasciati in bianco quelli non posseduti. Per quel che riguarda la lateralità i risultati si segnano in altro nel prospetto riportando la sigla S per sinistra e D per destra. Il MOVIT può essere utilizzato dagli insegnanti per delineare gli obiettivi del proprio intervento educativo,soprattutto in situazione di disabilità intellettiva si devono infatti evitare eccessi nei due opposti (proporre attività troppo complesse o troppo semplici). Il follow up consente poi di appurare se la zona di sviluppo prossimale si è allargata o trasformata. Per attribuire corretto significato alle prestazioni oltre all’analisi visiva bisogna riferirsi alle norme del test, espresse in punti standard e ranghi percentili, che sono state testate su un campione di allievi con sviluppo tipico fino ai 12 anni. L’utilizzo del MOVIT è significativo per un modello incentrano sull’EBE in quanto consente di ottenere informazioni affidabili sulle procedure promosse (efficacy), con una forte attenziona alla loro spendibilità nel concreto (effectiveness) e alla loro possibilità di essere messe in atto (implementation). 10.Quanto sono inclusive le nostre scuole? L'efficacia, l’efficienza e la qualità stessa di una scuola dipendono in maniera decisiva dai processi inclusivi che questa riesce a mettere in campo. Le più recenti normative scolastiche italiane mirano al potenziamento della cultura inclusiva nella scuola. Per il singolo allievo oltre al Piano educativo individualizzato (introdotto con la legge 104/1992) per gli allievi con disabilità, è stata attivata la costruzione di un Piano didattico personalizzato (PDP) per allievi con difficoltà e disturbi di apprendimento che prevede misure compensative e dispensative. Inoltre ogni scuola è chiamata a costruire un Piano annuale per l’inclusività (PAI) e oltre al Gruppo di lavoro sull’handicap (anche questo posto in essere dalla legge 104/1992) si affianca un Geuppo di lavoro sull’inclusività finalizzate a stabilire l'eventuale necessità di interventi specifici nell’ottica dell’inclusione. Sul piano dei principi è ormai ampliamente condiviso, anche a livello internazionale, il bisogno dell’inclusione nella scuola e nella vita in generale; sono stati creati tutti i presupposti e tutte le condizioni perché le scuole italiane siano inclusive, ma è arrivato il momento di passare alla pratica e valutare quanto lo siano veramente. Per promuovere la realizzazione di una scuola inclusiva si deve innescare un processo che preveda: -fase iniziale> durante la quale scegliere i traguardi che ciascuna istituzione scolastica intende raggiungere in termini di output (sostanziamento di risorse economiche, disponibilità di specifici ausili didattici) e di out come (risultati scolastici e benessere degli allievi), coinvolgendo tutti gli attori da coinvolgere e il modo in cui farlo. -fase 13 scegliere e selezionare alcuni specifici indicatori che ciascuna scuola considera cruciali per l’inclusione -fase 2> implementare le azioni specifiche che si è deciso di mettere in campo per supportare e migliorare i processi di inclusione, monitoraggio in itinere e valutazione finale. 10.2 Come valutare i processi inclusivi: lo strumento di una ricerca europea Il progetto europeo European Assessment Protocl for Childern’s SEL Skills (EAP_SEL) ha realizzato uno strumento utile per valutare l’inclusione delle scuole. In particolare il gruppo italiano partecipante alla ricerca (che richiama all’università di Udine e a quella di Perugia) ha avuto il compito di individuare il rapporto tra l'educazione socio-emotiva e le dinamiche inclusive che si realizzano a scuola. Lo strumento di valutazione che hanno creato è ancora in corso di validazione. Si tratta di una scala di valutazione (rating scale) che consente di valutare i cambiamenti di alcuni indicatore fondamentali del fenomeno inclusivo, a seguito dell’introduzione di programmi di intervento socio-emozionali. Del costrutto inclusione sono state elaborate tre dimensioni: culture, politiche e pratiche. Queste vengono valutate con punteggi su una scala a tre livelli (mai o sporadicamente, frequentemente, sempre). collera, timidezza, ansia, depressione, inibizione ecc. o con psicopatologie quali i disturbi della personalità, psicosi, disturbi dell’attaccamento o altre condizioni psichiatriche. Le più frequenti sono le difficoltà comportamentali e relazionali: comportamenti aggressivi, atti autolesionistici, bullismo, disturbi del comportamento alimentare, della condotta, op positività, delinquenza, uso di droghe ecc. Vi sono anche alunni con compromissioni fisiche rilevanti, traumi, esiti di incidenti, paralisi cerebrali infantili, menomazioni sensoriali, malattie croniche, allergie, epilessie, disturbi neurologici ecc. Lo stesso ambito familiare può creare difficoltà e disagi se si tratta di famiglie trascuranti, o disgregate o patologiche, casi di abuso e maltrattamento, lutti o carcerazioni, alti livelli di conflitto. La stessa dimensione socio-economica ha delle ripercussioni: povertà, deprivazione culturale, difficoltà lavorative ed esistenziali, ambienti culturali e linguistici di provenienza molto diversi. Difficoltà potrebbero essere dovute anche a fattori personali: problemi motivazionali, disturbi dell'immagine di sé e dell’identità, deficit di autostima, insicurezza e disorientamento del progetto di vita. Dunque un insegnante esperto e sensibile deve necessariamente conoscere bene questa multiforme e sfaccettata galassia di difficoltà che sono in aumento nelle nostre classi. In realtà queste situazioni in parte aumentano realmente, in parte esistevano anche in passato ma solo ora gli si rivolge attenzione e si è in grado di riconoscerle. Si tratta di alunni in cui i bisogni educativi normali (sviluppo delle competenze, di appartenenza sociale, di identità autonoma, di valorizzazione e di autostima, di accettazione ecc) divengono bisogni speciali, più complessi a causa di una difficoltà di funzionamento e a cui è difficile rispondere in maniera adeguata. Le scuole di fronte a tutto ciò dovrebbero decidere di occuparsi efficacemente di tutti gli alunni in questione, accorgersi in tempo delle loro difficoltà e comprendere l’interconnessione dei diversi fattori implicati. Dovrebbero inoltre avviare un processo di stretta collaborazione con gli operatori sociali e sanitari del territorio, attrezzarsi di solide competenze (pedagogiche, psicologiche e didattiche proprie) per rispondere in maniera inclusiva ed efficiente alle difficoltà, attivando l’intera comunità scolastica e non. I BES come difficoltà evolutiva di funzionamento educativo e/o apprenditivo Il concetto di BES ha tre importanti caratteristiche: ® lasensibilità, cioè il suo riuscire a cogliere in tempo e precocemente il maggior numero possibile di difficoltà dei bambini; ® lareversibilità e la temporaneità della definizione; ® il suo minor impatto stigmatizzante rispetto ad altre definizioni con un conseguente minore impatto psicologico e sociale di questa valutazione da parte anche della famiglia dell'alunno. Il BES per essere definito tale inoltre deve manifestarsi in età evolutiva, cioè entro i primi 18 anni di vita del soggetto, nell’ambito dell’educazione e/o dell’apprendimento scolastico, coinvolgendo a vario livello le relazioni educative, formali e/o informali, lo sviluppo di competenze di comportamenti adattivi, gli apprendimenti scolastici e di vita quotidiana, lo sviluppo di attività personali e di partecipazione ai vari ruoli sociali. Infatti anche un lieve difetto fisico che non incide affatto sulla funzionalità cognitiva e apprenditiva, può causare difficoltà psicologiche e timore di visibilità sociale, limitando così la partecipazione del bambino a varie occasioni educative e sociali e così via. La definizione di BES tiene principalmente conto del funzionamento globale del soggetto, ovvero di salute bio-psico-sociale, frutto dell’interconnessione dei vari ambiti definiti nel 2002 dal modello ICF dell'OMS nonché nella sua revisione del 2007 per bambini e adolescenti (ICF-CY). Lo scopo è dunque quello di tracciare un confine tra una deviazione di funzionamento problematica per il contesto familiare e/o per gli insegnanti (nel caso in cui si abbiano per esempio esagerate aspettative) ma non per il soggetto e invece una deviazione di funzionamento per quest’ultimo o ancora tra una deviazione di funzionamento problematica per entrambe le parti. Alla base della decisione di problematicità vi sono tre criteri: danno, ostacolo e stigma sociale. I BES sulla base del modello ICF Il concetto di BES rimanda alla visione espressa dal modello ICF del funzionamento educativo inteso come intrecciato tra biologia, esperienze di ambienti e relazioni e attività e iniziative del soggetto. Il modello ICF è stato proposto anche come base per un nuovo modello di Diagnosi Funzionale, per una nuova lettura del concetto di competenza e, leggermente modificato, per identificare i bambini con BES e progettare risorse e misure inclusive. L’assunto di partenza è che il funzionamento della persona va letto globalmente, in maniera sistemica e complessa, interconnessa e reciprocamente causale. Il funzionamento è il frutto di relazione tra sette ambiti interni ed esterni al bambino: 1. condizioni fisiche funzioni corporee strutture corporee attività personali partecipazione sociale fattori contestuali ambientali fattori contestuali personali Condizioni fisiche e fattori contestuali stanno agli estremi superiori e inferiori del modello: la dotazione biologica da un lato e dall’altro l’ambiente in cui il bambino cresce, dove accanto ai fattori esterni (relazioni, culture, ambienti fisici ecc.) vi sono anche fattori contestuali personali e cioè dimensioni psicologiche (autostima, identità, motivazioni ecc). Tutti i contesti possono fungere da mediatori facilitanti o, viceversa, da barriere. Tra le forze biologiche e quelle contestuali vi è il corpo del bambino che si sta sviluppando sia a livello strutturale che a livello funzionale (funzioni e strutture corporee). Il corpo del bambino agisce poi nel mondo sviluppando reali capacità e attività personali, e partecipa socialmente ai vari ruoli familiari, comunitari, scolastici ecc. Se l'interazione tra i vari fattori è positiva il bambino crescerà sano e avrà un buon funzionamento educativo-apprenditivo, viceversa presenterà BES. Una difficoltà di funzionamento potrà insorgere da condizioni fisiche problematiche (malattie varie, lesioni, traumi ecc). Problemi nelle strutture corporee possono portarne al funzionamento apprenditivo ed educativo poiché l’iniziativa e l’attività personale del bambino saranno più o meno profondamente danneggiati da deficit strutturali nel corpo. Altra fonte di difficoltà possono essere insite nelle funzioni corporee (deficit visivi, motori, aprassie, afasie, deficit senso motori); o ancora una ridotta dotazione di attività personali (deficit di capacità e/o performance). Ulteriore fonte potrebbe essere la partecipazione sociale scarsa quando il bambino non riesce a svolgere i ruoli previsti dall'essere alunno, essere compagno di classe ed essere utente di servizi rivolti all'infanzia, culturali, sportivi, sociali. Allargando le intenzioni del modello ICF, la didattica speciale tiene conto anche dei fattori ambientali che non sono direttamente connessi alla salute. Altra piccola modifica riguarda la formulazione dei fattori contestuali personali di cui la disciplina della didattica speciale ha descritto le principali dimensioni psicoaffettive che mediano il funzionamento: stili attributivi, autoefficacia, autostima, emotività (che il modello ICF inserisce tra le funzioni mentali), motivazione, comportamenti problema. In uno qualsiasi dei sette ambiti si può generare una causa o concausa di BES; il peso dei singoli ambiti varia da bambino a bambino. La soglia tra funzionamento normale e problematico Per porre una soglia tra normale e problematico (funzionamento) si ricorre a tre criteri che devono essere il più possibile oggettivi. La valutazione deve infatti difendere il bambino da un eccesso di preoccupazione di insegnanti e genitori ma anche, al suo opposto, una scarsa preoccupazione. I tre criteri sono: 1. danno:la situazione di funzionamento è realmente problematica per un bambino se lo danneggia direttamente o se danneggia altri; 2. ostacolo (criterio utilizzato poiché non sempre il danno è direttamente osservabile): un funzionamento problematico è tale realmente per quel bambino se lo ostacola nel suo sviluppo futuro, se cioè lo condizionerà nei futuri apprendimenti cognitivi, sociali, relazionali ed emotivi; 3. stigma sociale: ci si chiede oggettivamente se il bambino, attraverso il suo scarso funzionamento educativo-apprenditivo, stia peggiorando la sua immagine sociale, soprattutto se appartiene a qualche categoria socialmente debole. Uno strumento per identificare gli alunni con BES e risultati della sua applicazione sperimentale TO GA Nel 2005 è stato pubblicato un software gestionale per le scuole, Bisogni Educativi Speciali e inclusione, per fornire uno strumento utile alla individuazione di BES e alla progettazione delle risorse inclusive. Si tratta di uno strumento gestito dal consiglio di classe o dal team docenti nella primavera dell’anno precedente. I vari alunni vengono esaminati in diverse voci: condizioni fisiche, strutture corporee, funzioni corporee, capacità personali, competenze scolastiche, contesto ambientale, contesto personale. Ogni voce viene valutata con una scala da 0 a 4. L'utilizzo di questo strumento è utile per identificare precocemente e in tempo gli alunni con BES, permette inoltre la formulazione di un profilo individuale di alunno con BES, consente di definire complessivamente il peso dei BES all’interno delle classi così da equilibrarle. Naturalmente gli insegnanti devono sempre tener conto degli errori e delle approssimazioni. Nell'anno 2006-2007 con una ricerca sul campo si è verificato se l’uso dello strumento comporta un cambiamento positivo reale nella percezione della capacità di individuazione dei BES da parte degli insegnanti. Gli insegnanti di 77 classi di scuola d'infanzia e primarie di diverse parti d’Italia hanno ricevuto il software e una formazione online. Dopo di che sono stati raccolti 148 questionari compilati da 99 insegnanti del gruppo sperimentale e 44 del gruppo di controllo. I risultati indicano una relazione positiva, anche se appena significativa, tra l'utilizzo del software sperimentato e la percezione da parte degli insegnanti della presenza di alunni con BES. Utilizzare il software ha portato gli insegnanti a sviluppare e a usare metodologie di individuazione degli alunni con BES in generale più formalizzate. Lo strumento utilizzato sembra essere utile anche per mediare positivamente una collaborazione tra colleghi per concordare e decidere insieme modalità e strategie. Gli insegnanti del gruppo sperimentale dichiarano di aver rilevato i BES di alcuni nel loro alunni osservandone molti più aspetti del solo funzionamento educativo-apprenditivo. Essi inoltre hanno dimostrato apertura al confronto e al dialogo con le famiglie ed i colleghi. Questo screening dei BES sembra dunque portare a risultati significativamente positivi sulle competenze degli insegnanti e tenendo conto che è stato applicato dagli insegnanti in seguito ad una semplice formazione online, avvenuta una sola volta, potrebbe portare a maggiori risultati se maggiormente approfondita e se gli insegnanti ricevessero maggiore supervisione tecnica. Ambiti di funzionamento secondo il modello ICF: 1. CONDIZIONI FISICHEd comprende malattie (acute o croniche),disturbi, lesioni o traumi. Può comprendere altre circostanze quali gravidanza, invecchiamento, anomalie congenite o predisposizioni genetiche. I criteri di riferimento sono quelli dell’ICD 10. 2. FUNZIONI CORPOREE* sono le funzioni fisiologiche dei vari sistemi corporei (funzioni mentali, funzioni sensoriali e dolore, funzioni della voce e dell’eloquio, funzioni dei sistemi cardiovascolare, ematologico, immunologico e dell’apparato respiratorio ecc). Problemi nelle funzioni, intesi come deviazioni o perdite significative, sono menomazioni. Delle funzioni mentali si distingue tra globali (coscienza, energia, pulsioni) e specifiche (memoria, linguaggio e calcolo). 3. STRUTTURE CORPOREE sono le parti anatomiche del corpo, come gli organi, gli arti e le loro componenti (strutture del sistema nervoso, occhio, orecchio e strutture correlate, strutture coinvolte nella voce e nell’eloquio, strutture dei sistemi cardiovascolare, immunologico e dell'apparato respiratorio ecc). Le menomazioni possono essere problemi nella struttura del corpo. 4. ATTIVITA’ PERSONALI > l’attività è l'esecuzione di un compito o di un'azione da parte di un individuo. Le limitazioni dell’attività sono le difficoltà che un individuo può incontrare nello svolgimento delle varie attività. Ogni attività può essere descritta con due qualificatori per capacità (l'abilità di eseguire un compito o un'azione senza influsso, positivo o negativo, di fattori contestuali ambientali e/o personali) e per performance (l'abilità di eseguire un compito o un'azione con l’influsso, positivo o negativo, di fattori contestuali). Sono attività personali interpretazioni frettolose, schematizzazioni rigide che ci bloccano nella conoscenza profonda dell'altro e nell'empatia ("non ha attenzione condivisa, infatti è autistico"). L'ascolto attivo alimenta la fiducia reciproca e non può svilupparsi se l'insegnante presume di conoscere già i motivi e i contenuti della comunicazione dell'alunno. L'ascolto attivo riguarda vari linguaggi espressivi, sia verbali che del corpo, della prossemica (tono emotivo, spontaneità, vicinanza fisica ecc) e anche dei comportamenti apparentemente non comunicativi (es. L'ecolalia o le stereoptipie degli alunni autistici). L'empatia è la capacità di porsi in contatto profondo con l'esperienza e i vissuti dell'altro attraverso un'azione conoscitiva, cognitiva, fondata e orientata da un impegno etico nei suoi confronti e operata da un'azione linguistica per trovare le parole giuste e i significati condivisi. L'empatia favorisce anche molti aspetti dello sviluppo affettivo dell'alunno e dello stesso insegnante: l'espressione-produzione di emozioni, la loro interpretazione, il sollievo dal disagio emotivo, il sostegno-rafforzamento- legittimazione di alcune emozioni e la loro autoregolazione. Nel concreto la relazione con gli adulti può aiutare l'alunno a tollerare l'ansia e l'attivazione, a fornire etichette linguistiche per gli stati emotivi e insegnare modalità più adattive di espressione e regolazione attiva delle emozioni e degli stati d'animo. Un insegnante empatico riesce a comprendere l'emozione dell'alunno (e non a giustificarla) e standogli vicino gli consente di esprimerla, di nominarla e classificarla, e forse anche a controllarla, limitando i comportamenti problematici che ne potrebbero conseguire. Si educa così l'alunno all'utoregolazione affettiva e gli si comunica la nostra volontà di conoscerlo a fondo, cercando però al contempo di non esserne coinvolti e travolti, e a di aiutarlo in uno scatto evolutivo. ® proattività, stimolo, aiuto, accompagnamento, aspettative, azione orientata, proposta, guida e attese- -> una relazione buona è tale se in maniera concorde, esplicita, consapevole e coerente ci si crea un progetto per raggiungere obiettivi: l'insegnante deve valorizzare l'alunno e comprenderlo, guidarlo per mano senza invaderne gli spazi, in maniera decisa ed energica se necessario. Deve sapere dove andare, e condividere la direzione, ossia far diventare il progetto quanto suo tanto dell'alunno. Uno stimolo e un aiuto hanno valenze produttive, contribuiscono attivamente alla formazione di abilità e competenze anche con aspettative alte e positive che dimostrano la fiducia che l'insegnante nutre nel ragazzo, rispettando il suo duplice bisogno di aiuto e autonomia, come diceva la Montessori "aiutami a fare da solo". L'azione formativa dovrà essere regolare nel tempo, prevedibile, stabile e strutturata, negoziata e condivisa, co-decisa, rispettosa dei tempi dell'altro e dei suoi spazi; deve essere responsiva alle esigenze dell'alunno e resistere alla frustrazione e ai fallimenti, deve essere ambiziosa. Queste tre accortezze favoriscono poi lo sviluppo di dimensioni psicologiche positive nell'altro: autostima, identità e sicurezza. Nell'azione proattiva di aiuto all'apprendimento l'insegnante deve tenere in gran conto l'autostima dell'alunno: se l'azione va bene l'autostima aumenta e con essa l'autoefficacia, la motivazione instrinseca, la curiosità e gli interessi, la ricerca di obiettivi sempre più avanzati ecc. L'autostimo è prodotto positivo di una buona relazione e allo stesso tempo strumento per far diventare ancora più buona una relazione. L'azione proattiva di aiuto all'apprendimento dovrebbe anche favorire lo sviluppo in entrambi di un'identità sempre più autonoma, articolata e forte. Il rispetto dei confini e delle scelte dell'altro ela non invadenza è fondamentale nell'identità. E' inoltre importante allargare il più possibile il campo delle scelte autonome, rielaborare la storia personale e familiare insieme, progettare il futuro tenendo conto di desideri, valori e obiettivi. Si aiuta lo sviluppo di un'identità ponendosi senza ambiguità come modello di motivazioni, valori, desideri, soddisfazioni: un alunno con BES per aiutarsi nello sviluppo della sua identità ha bisogno di relazionarsi con un insegnante che ha un progetto, un sogno, un valore da realizzare che comunica. L'insegnante è un modello di eccezionale valore per aiutare l'alunno nella scoperta di sè. L'azione proattiva deve infine generare in entrambi sicurezza. La relazione deve essere una base sicura di protezione, contenimento, attaccamento, da cui partire per esplorare, rischiare, e a cui si è sicuri di poter tornare in ogni momento per riprendersi dalle difficoltà. Sicurezza, identità e autostima danno energia alla relazione e alle persone che la costriuscono. Oltre alla relazione insegnante-alunno però anche gli altri sistemi di relazione devono essere buoni e di qualità. L'alunno è in un sistema relazionale anche con i suoi compagni, una non accettazione, un rifiuto o l'essere ignorati in questo sistema produrrà disagio e danni significativi che possono risultare permanenti, specialmente nell'ambito della psicopatologia (gravi disturbi di personalità, ansie sociali, comportamenti antisociali). Gli alunni con BES sono più a rischio degli altri compagni di essere oggetto di rifiuto e generare problemi di comportamento sia del genere esternalizzato (disturbo, aggressioni ecc) sia del genere evitante/ansioso, oltre a qualche caratteristica fisica e mentale atipica (disattenzione, scarsa autoregolazione ecc). La priorità allora, in una metodologia di didattica speciale, deve essere riferita alla risorsa compagni di classe/scuola, che deve essere adeguatamente coinvolta e preparata. LA CORNICE AFFETTIVA: UN ATTENZIONE CONTINUA ALLE EMOZIONI, AGLI STATI D'ANIMO E AI SENTIMENTI. La vita scolastica quotidiana è ricca di affettività, di emozioni e di stati d'animo, atteggiamenti carichi di affettività e dovrebbe esserlo anche di sentimenti (apprendere, scoprire, costruire nuove conoscenze e competenze, relazionarsi coni compagni, collaborare e scontrarsi, discutere, fase e disfare amicizie e legami, vivere relazioni anche intense con gli adulti). Accanto a percorsi strutturati e formali di educazione all'affettività rivolti al gruppo classe, si devono arricchire informalmente e insaporire di affettività tutte le attività quotidiane. Gli amviti principali della vita affettiva sono le emozioni di base (rabbia, paura, gioia, disgusto, sorpresa), gli stati d'animo e i sentimenti. Competenze fondamentali sono invece conoscere, comprendere ed esprimere. Infine i processi evolutivi da atticare per facilitare la crescita positiva sono i linguaggi, il pensiero, i valori e la negoziazione. Nell'intervento informare all'affettività bisogna tener conto di queste premesse: ad esempio, intervenendo in un litigio forte, gli insegnanti devono cercare di aiutare gli alunni a comprendere i meccanismi che hanno fatto scattare le emozioni di base, a pensare modi alternativi di esprimerle in maniera più accettabile, a collocare emozioni e stati d'animo, negoziando significati e comportamenti, attraverso l'ascolto e l'empatia. Arricchire di affettività le dinamiche dei processi di insegnamento-apprendimento Bisogna tener conto e saper ascoltare le tonalità affettive degli alunni quando cercano di apprendere la loro ansia, il loro senso di impotenza o di soddisfazione e giogia, la loro rabbia per gli insuccessi, l'eccitazione per la sfida, la loro gelosia, invidia ec. Se non si è in grado di sentirle abbastanza, si può chiedere delicatamente all'alunno. I punti più sensibili a livello affettivo delle dinamiche di insegnamento apprendimento sono l'inizio dell'attività, il cuore dell'apprendimento e il suo prodotto. Attenzionare queste tre fasi può aiutarci ad arricchire affettivamente i processi di apprendimento utilizzandoli per potenziare competenze affettive. Infatti, nelle fasi iniziali (durante le quali l'alunno si ritrova a confrontarsi con un input iniziale) si può chiarire cosa fa sentire in ansia, il rapporto tra ansia e sentimento positivo di orientamento alla conoscenza, il rapporto tra autoefficacia, comportamento e stato d'animo ecc. Dopo aver compreso, in genere si elabora, si connette, si confronta, si decide e si crea il nuovo e tutto ciò è contornato da stati affettivi (ansia e timore di non farcela o anche entustiasmo, euforia, senso di soddisfazione ecc.). Una giusta quantità di affettività aiuta molto il ricordo, la decisione, l'audcia di alcune scelte, la creatività nonostante vi siano dei rischi particolarmente presenti nelle situazioni di problem solving (paura di sbagliare, fermarsi soddisfatti alla prima idea che viene in mene, cercare in maniera eccessiva un successo immediato e la vittoria sugli altri, scasità di motivazione ecc). In queste fasi centrali, l'insegnante può attivare e regolare stati affettivi, lunguaggi, riconoscimenti, pensieri, valori, motivazioni e atteggiamenti. Dopo aver elaborato, il prodotto dell'attività mentale prende gradualmente forma concreta e viene socializzato in molti modi, ad esempio parlando, scrivendo, muovendosi, colorando, plasmando e modificando materiali oppure agendo. Spesso e volentieri l'alunno con BES, nella fase finale attende con ansia il feedback dell'insegnante e potrebbe contemporaneamente ricevere un insegnamento affettivo sul modo in cui gestire il suo stato d'animo ed eventualmente la sua emozione: si pensi alla delicatezza di dover dare (e ricevere) un feedback negatvo, che corregga efficacemente l'azione sbagliata senza mortificare, deprimere, o suscitare reazioni di rabbia. Curare affettivamente la relazione di aiuto in situazioni di crisi Accade spesso che un alunno vada in crisi affetiva, sia quando le emozioni di base esplodono drammaticamente con i relativi comportamenti aggressivi o di rifiuto e fuga, sia quando particolari stati d'animo lo disturbano a livelli problematici (ansia, tristezza, rancore ecc). In queste situazioni di crisi emotiva o di difficoltà di stato d'animo l'insegnante può educare all'affettività. E' importante che l'insegnante gli faccia sentire di non aver aura delle emozioni forti, attraverso alcuni passsi educativi fondamentali: ® osservare, osservare, osservare i segni affettivi —> tentare di allearsi con il vissuto affettivo dell'alunno, legittimarlo e riconsocerne la presenza; se non si riesce l'alunno potrebbe sentirsi incompreso e l'insegnante perderebbe di credibilità e vicinanza; ® dare unnome ai vissuti emotivi —> nominare insieme le emozioni e costruirne un significato condiviso, dietro empatia; ® elaborare strategie di azione e di espressione migliore —> si tratta di sostenere l'alunno nel comprendere cosa ha portato a quel vissuto emotivo e soprattutto a capire cosa si può fare per esprimere eventualmente quel vissuto in maniera più accettabile, laorando sul pensiero, la modalità di espressione ma anche sui valori che fondano i sentimenti e le scelte di azione. In questa fase l'insegnante deve aiutare concretamente l'alunno nel proettare e realizzare corsi di azione alternativi. In sintesi, entrare in modo educativo in una situazione affettivamente carica significa: osservare bene i segni, sintonizzarsi sullo stato affettivo e condividerlo, dare nomi e aiutare la comprensione e l'espressione-azione alternativa. In queste interazioni assumeranno significato fondamentale il grado di coinvolgimento e di responsività dell'alunnno, il calore, la vicinanzza e, se gradito, il contatto fisico. Tutto ciò permetterà di stabilire una relazione educativa empatica. Aiutare il gruppo classe ad affrontare affettivamente temi sensibili il gruppo di classe incontra spesso, momenti impegnativi a livello affettivo: discussioni, assemblee, decisioni collettive, elaborazione comune di regole e simili. Per aiutarlo ad affrontare questi temi affettivamente sensbili può essere utile il racconto (racconto e scrittura di sè, lettura e lavoro su storie, eaborazione e scrittura di racconti). Raccontarsi storie in un gruppo è un'attività interettiva, che insegna coinvolgendo e affascinando, stimola abilità di problem solving, alimenta immaginazione e creativitò, dà fiducia alle possibilità di successo, stimola autonomia e responsabilità, mette in dubbio convinzioni e atteggiamenti, facilita la comprensione e fornisce modelli e valori. Il gruppo stesso può essere l'autore, oppure può utilizzare storie psicologicamente orientate, costruite cioè con l'intenzione di fornire spunti di riflessione e crescita pscologica (in Italia NPO Narrativa Psicologicamente Orientata). Nel gruppo si affrontano insieme anche situazioni difficili e cariche di tensione come quelle in cui si vive affressine e volenza; in tal caso nel gruppo come tra alunno e insegnante si può tentare di attivarsi, esplorare i propri vissuti, dar loro un nome, comprenderne le dinamiche e le possibili espressioni più armoniose. Il gruppo può essere l'ambito in cui sfogarsi circa i propri tati d'animo e sentimenti di paura o dubbi rispetto alla presenza di un compagno con BES. Sarebbe infatti un errore, da parte degli insegnanti, quello di richiedere implicitamente agli alunni non avere uno stato d'animo o di non parlarne: i disagi vanno affrontati insieme, non negati ideologicamente in nome dei supremi valori dell'integrazione e dell'inclusione. Una dimensione importante dei processi di individualizzazione è quella affettiva, che può arricchire le dinamiche di insegnamento-apprendimento, può curare le relazioni di aiuto in una situazione di crisi e può essere d'aiuto al gruppo classe che affronta temi affettivamente carichi. LA CORNICE METODOLOGICO-DIDATTICO-ORGANIZZATIVA SECONDO LA "NORMALE SPECIALITA" Nella metodologia didattica da mettere in pratica devono sessere comprese cinque grandi dimensioni metodologiche: 1. lo sviluppo della resilienza collettiva —> far si che la classe riesca a resistere agli urti delle difficoltà migliorando continuamente se stessa. Gli alunni di una classe resiliente devono aver sviluppato una buona autoefficacia scolastica, un buon grado di autodeterminazione scolastica, una buona autoregolazione comportamentale; devono inoltre vivere una relazione di cura L'azione può essere messa in atto dall'alunno solo se questo possiede le competenze, le informazioni e le abilità sufficienti per iniziare il percorso di tentativi e approssimazioni delle azioni cui si vuole arrivare. La condizione necessaria a livello di processi di interpretazione-rappresentazione cognitivo- emotivo-affettiva L'alunno non apprende meccanicamente ma si costruisce una sua realtà mentale, attiva dunque più o meno consciamente vari processi di rappresentazione mentale sulla base del proprio background percepito di competenze, rispetto alle caratteristiche qualitative intrinseche e individuali percepite (spesso l'alunno con BES non si sente capace e pensa che la sua incapacità sia immutabile), ma anche rispetto all'azione (autoefficacia),alla rappresentazione del valore del risultato (motivazione di risultato) e rappresentazione dell'efficacia dell'azione rispetto al risultato (attribuzioni) ossia il fatto che l'alunno pensi che il risultato cui giunge dipende da lui o da fattori esterni. in quest'ultimo caso, si potrebbe sviluppare una passività definita helpelssness (impotenza appresa). La condizione necessaria dell'assenza di ostacoli rilevanti Due grandi ostacoli all'apprendimento possono essere la presenza di comportamenti problema tali da inibire il funzionamento dell'alunno e l'espressione eccessivamente intensa e prolungata di reazioni affettive che disturbano l'apprendimento dell'alunno. Nel caso della disabilità mentale questa condizione è spesso rilevante. Insegnanti, operatori e familiari devono definire nel PEI un forte investimento di strategie che possano liberare il più possibile l'alunno dagli ostacoli in questione. Capitolo 3 —I compagni di classe: pro socialità, cooperazione e tutoring La comunità classe e le reti di sostegno tra alunni Per far diventare la classe una vera comunità è indispensabile mettere in atto strategie di sostegno alla pro socialità e alla solidarietà tra alunni. Può trattarsi di: ® Strategie a livello globale di scuola : progetti sulla diversità, gruppi e associazioni fra alunni; creare una cultura di accoglienza proponendo regolarmente temi di riflessione; proporre spesso canzoni, giochi o rituali condivisi; incoraggiare gli alunni a dare suggerimenti ed associazioni in comitati e gruppi di lavoro, tutto al fine di formare un senso di appartenenza all’interno della comunità scolastica; ® Strategie specifiche di classe: utilizzare gruppi di apprendimento cooperativo e tutoring per integrare gli alunni con difficoltà non solo nelle ore scolastiche; ® Strategie di aiuto formale e informale tra alunni: educare e preparare gli alunni ai servizi di accoglienza verso i nuovi compagni, affiancare un compagno integrato al nuovo per qualche tempo; formare piccoli gruppi autogestiti. Ogni alunno, anche chi presenta difficoltà, dovrebbe essere coinvolto in attività di aiuto ai compagni, in modo da sviluppare un senso di efficacia personale e responsabilità; ® Strategie a livello di comunità territoriale: ai fini dell’integrazione e della partecipazione alla vita della comunità è necessario che le strategie vadano anche al di fuori delle mura scolastiche: attività organizzate dalla parrocchia, dagli scout e dai gruppi di quartiere. E’ utile in proposito stabilire rapporti anche con i volontari attivi delle associazioni, delle cooperative sociali, nell'ottica dell'aiuto reciproco; rientrano in questo ambito anche le forme di collaborazioni (apprendistati, stage ecc) con aziende. Tessere reti di solidarietà nel gruppo classe Agli alunni deve passare il messaggio che la classe è un luogo di cui ognuno fa pienamente parte e nel quale ci si prende cura di ciascuno, dove ognuno riceve e può a sua volta dare sostegno. A questo scopo gli insegnanti devono inserire in maniera esplicita nel curricolo scolastico l'apprendimento sociale, insegnando direttamente i comportamenti pro sociali che permettono di costruire comunità di classi. Ad oggi l'apprendimento di abilità sociali è implicito nel curricolo o addirittura ignorato: gli insegnanti devono impegnarsi invece a insegnare atteggiamenti, abilità, diritti, responsabilità e interazioni che permettono a una comunità di funzionare; devono fare ciò mostrando un tono positivo, fornendo un modello di accoglienza e valorizzazione della diversità. Gli insegnanti 12 devono concentrarsi sui comportamenti positivi e devono trasmettere messaggi di fiducia piuttosto che spendere la maggior parte del tempo a correggere, dirigere e punire. Le prime settimane di scuola sono fondamentali per iniziare a stabilire un rapporto con gli studenti e chiarire loro le aspettative rispetto alla socialità della classe. E' utile proporre momenti di discussione libera sui loro interessi, attività in gruppi cooperativi e giochi mirati ad imparare i nomi di tutti, iniziare a conoscere le culture di provenienza e la personalità. Esempi per fare tutto ciò sono il “cartone di identità” (ogni alunno mette in una scatola di cartone oggetti, fotografie e piccoli lavoretti da lui realizzati per far conoscere i suoi interessi e le sue abilità), i “ricercati” (su un grande cartellone ciascun alunno attacca la propria fotografia e da una breve descrizione di sé), interviste e presentazioni in coppie (gli alunni dopo essersi presentati a turno strutturano una sorta di intervista reciproca). Altre attività utili potrebbero essere discussioni su temi legati alla pro socialità (Es. cosa significa avere un amico, cosa si prova ad averlo, come comportarsi se questo è in difficoltà ecc). Si può inoltre tentare di strutturare (in maniera non invasiva) le interazioni sociali anche durante la pausa pranzo o i momenti liberi; dare dei compiti che richiedano un'interazione anche extrascolastica o proporre attività in cui la presenza del compagno è utile e rinforzante. Per favorire i contatti è utile formare e incoraggiare gli alunni riguardo alle attività extracurricolari proposte dalla scuola, alle squadre sportive e ad altri gruppi di attività varie (teatro, fotografia ecc). Comportamenti pro sociali verso cui l'insegnante deve spingere sono: condividere materiali, domandare e offrire aiuto, partecipare alle attività e incitare gli altri a farlo, rispettare i turni e lo spazio e gli oggetti degli altri, esprimere le proprie esigenze. Gli alunni più grandi, impegnati nei gruppi cooperativi, dovranno possedere altre abilità importanti: dare e ricevere feedback positivi e negativi, ascoltare attivamente, incoraggiare la partecipazione, raggiungere un accordo e risolvere conflitti. Per sviluppare le abilità pro sociali è indispensabile discutere in modo esplicito con gli alunni sul perché i comportamenti pro sociali siano importanti ed evidenziare gli indizi che suggeriscono loro come metterli in atto a seconda delle situazioni. Bisogna evidenziare costantemente i comportamenti positivi degli alunni e orientarli verso un comportamento appropriato quando sbagliano, tenendo un atteggiamento positivo e incoraggiante e dando modelli precisi. Consapevolezza della disabilità Ai fini dell’inclusione è utile, in caso di alunni con disabilità, che tutti i compagni di classe siano consapevoli della disabilità e dell’handicap per facilitare i rapporti di aiuto informale e di amicizia. Le informazioni sulla disabilità in questione si possono trarre invitando in classe alunni disabili più grandi, genitori, medici, terapisti, docenti o altre persone disabili della comunità; si possono presentare e discutere in classe filmati, programmi tv, libri e articoli di riviste sulla disabilità; ci si può soffermare su personaggi celebri con disabilità, ci si può informare circa ausili e tecnologie per ridurre la disabilità e si possono proporre abilità che, attraverso la simulazione, permettono agli alunni di comprendere come ci si possa sentire ad avere una disabilità fisica, sensoriale o cognitiva. Talvolta si può anche far vedere una videocassetta del nuovo arrivato ai compagni prima del suo arrivo e si possono stimolare i compagni a fare domande e a discutere il modo migliore per accoglierlo e aiutarlo. Gli alunni dovrebbero essere educati e aiutati a vedere i compagni disabili non come migliori o peggiori, ma solamente diversi per alcuni aspetti e simili a loro per molti altri. La consapevolezza degli insegnanti del proprio stile interattivo Molti insegnanti, per quanto convinti di avere un atteggiamento positivo ai fini dell’integrazione, di fatto interagiscono in maniera differente con i diversi alunni. Soprattutto gli insegnanti tendono a percepire gli alunni con scarso rendimento in maniera maggiormente negativa e ad essere prevenuti nei loro confronti senza nemmeno rendersene conto, pur influendo profondamente sulla considerazione degli alunni. Anche la cultura e il linguaggio possono influire: quando i valori, gli atteggiamenti e i comportamenti manifestati dagli alunni sono diversi da quelli dei docenti, questi ultimi possono considerare le discrepanze come deficit, problemi o devianze anziché come differenze. 13 Anche comportamenti che in realtà riflettono differenze culturali (uso del dialetto, interrompere l'interlocutore, tenere le mani sui fianchi o le braccia conserte) possono essere interpretati come mancanza di rispetto, provocazione o addirittura mancanza di intelligenza da parte degli insegnanti. Per auto valutarsi e per aumentare la propria consapevolezza gli insegnanti possono domandare un feedback sulle interazioni con gli alunni a colleghi, insegnanti specializzati, alunni e familiari; riprese video e audio; prendere nota dei comportamenti specifici e valutare periodicamente il clima della classe consultando gli studenti con domande o questionari. Alcune strategie per favorire le amicizie tra gli alunni che possono utilizzare i docenti, stando attenti a rinforzare solo le interazioni di reale amicizia e solidarietà e non gli atteggiamenti di tipo assistenziale e pietistico, sono: e Conosceree valorizzare le differenze individuali per facilitare l’accettazione di tutti i compagni e generare un senso di comunità, mettere in discussione gli stereotipi degli alunni; gli stessi insegnanti devono porsi come modello che mostra come tutti gli alunni siano ugualmente stimati, rispettati e accettati; devono fare commenti positivi quando gli alunni interagiscono in maniera corretta e fornire esempi di linguaggio democratico e rispettoso; * Attività esplicite sull'amicizia: proporre discussioni e attività esplicitamente mirate sulle abilità sociali e sull'amicizia, facendone parte integrante del curricolo per incoraggiare gli alunni alla riflessione sull’amicizia e sulle sue modalità. E’ utile insegnare come iniziare, rispondere a, e mantenere delle interazioni sociali positive e paritarie coni propri compagni, dare aiuto agli altri e come chiederlo, gestire l’esperienza bruciante di un rifiuto attraverso dimostrazioni, giochi di ruoli, suggerimenti e drammatizzazioni. Gli alunni possono poi esplorare le loro reti amicali con un cartellone che contenga i nomi degli amici più cari, le attività svolte insieme, le qualità apprezzate e le modalità in cui si sono conosciuti. Gli insegnanti possono promuovere l'amicizia tra gli alunni attraverso attività di gioco, musicali, teatrali e artistiche; si può promuovere anche attraverso semplici gesti (dare il braccetto) e attenzioni (complimenti) che dimostrano l’importanza dell’amicizia e contribuiscono a creare un ambiente favorevole. L'amicizia è un tema che si può esplorare anche con attività di scrittura e lettura su argomenti disciplinari. Le differenze reali a livello di abilità sensoriali, verbali e cognitive possono però realmente limitare le loro interazioni sociali con gli altri e le amicizie: i bambini normodotati devono allora imparare ad interagire anche coni compagni disabili e devono essere preparati sulla loro modalità di comunicazione per comprendere comportamenti che possono apparirgli strani o inappropriati. Gli insegnanti in proposito possono insegnare rudimenti dei sistemi di comunicazione alternativa utilizzati dagli alunni con disabilità (il Braille o la lingua dei segni) integrandoli nelle normali attività didattiche. ® Gli insegnanti possono usare delle mappe delle reti amicali per aiutare gli alunni a riflettere sull'amicizia e a capire i sistemi di sostegno reciproco: gli insegnanti danno agli alunni un foglio da riempire con cerchi concentrici entro i quali dovranno inserire per ordine di importanza, le persone a loro vicine; ® L'ambiente in classe deve essere accogliente: disporre gli arredi di modo da promuovere le interazioni sociali, cambiare periodicamente la sistemazione dei banchi, decorare la classe con cartelloni sull’amicizia, far lavorare i ragazzi in gruppi e predisporre il materiale di modo che tutti possano usufruirne. Ad esempio gli alunni possono realizzare un libro della classe, un giornalino, che richiedono e riconoscono in maniera chiara il lavoro e la partecipazione di tutti. Per conoscersi meglio sono utili giochi con i nomi, le interviste tra compagni e le “pagine gialle” della classe (in cui ognuno si presenta e illustra qualcosa in cui è particolarmente bravo); ® Gruppi di sostegno tra compagni: incoraggiando gli alunni in questa direzione ci si può assicurare che tutti vengano accettati e apprezzati. Un comitato di sostegno può identificare i problemi dei singoli alunni o dell'intera classe e può sviluppare strategie per affrontarli oltre alle strategie per promuovere l’amicizia nella classe e per coinvolgere tutti gli alunni in tutte le attività. Generalmente la partecipazione al comitato avviene per rotazione. E’ utile affiancare ai compagni con disabilità i compagni più popolari e stimati per incoraggiarli alla partecipazione scolastica e non. I compagno che aiutano alunni in difficoltà a fare i compiti per casa, possono contribuire a far si che le amicizie si estendano anche al di fuori della scuola. I docenti possono spiegare e insegnare le abilità sociali necessarie ad interagire con l’alunno con disabilità e ad 14 4. Gli alunni oltre che i contenuti puramente scolastici devono imparare le abilità interpersonali e sociali necessarie al lavoro di gruppo (che vanno insegnate in maniera esplicita); 5. Gli alunni infine devono essere in grado di operare una valutazione del lavoro finale: discutere i progressi compiuti e l’efficacia del lavoro di gruppo, identificare e descrivere le azioni positive e negative e decidere quali tipi di comportamento mantenere o modificare. Come formare la composizione dei gruppi Per quel che riguarda le dimensioni in genere i gruppi si compongono di due/quattro persone. In linea di massima più piccoli sono e meglio è poiché rendono maggiormente visibili gli sforzi dell'alunno rendendolo di conseguenza più responsabile. Più il gruppo è grande e maggiori devono essere le abilità interpersonali (lasciare parlare tutti, coordinare il lavoro di ciascuno, ottenere il consenso, spiegare ed elaborare il materiale da apprendere, tenere l’attenzione di tutti imembri sul compito e mantenere un buon rapporto di lavoro) dunque prima di formare gruppi di cinque o sei persone gli insegnanti dovrebbero assicurarsi che queste siano state apprese. Le dimensioni del gruppo possono essere imposte dal materiale disponibile e dalla specifica natura del compito. Tuttavia più il gruppo è piccolo e più è facile identificare eventuali difficoltà che gli alunni possono incontrare lavorando insieme ed è invece più difficile che gli alunni sfruttino il lavori altrui e si lascino andare. I gruppi eterogenei per background, capacità e interessi generano un maggiore squilibrio cognitivo che è positivo perché stimola lo sviluppo intellettivo e l'apprendimento creativo: vi è maggiore riflessione ed elaborazione, scambio di opinioni e apertura prospettica nella discussione, tutti fattori che favoriscono una comprensione più approfondita, ragionamento e accuratezza mnemonica. Quando gli alunni selezionano da sé i gruppi vanno a formare gruppi omogenei, per questo è necessario che a formarli sia l'insegnante attraverso procedura randomizzata: si identificano una o due caratteristiche degli alunni e ci si assicura che uno o più alunni di ogni gruppo abbiano le stesse caratteristiche . Un'altra possibilità prevede che sia l'insegnante a scegliere personalmente l'assegnazione cercando di individuare l’alunno isolato chiedendo agli alunni di fare la lista dei compagni preferiti (ovviamente quello non citato da nessuno è quello isolato) per poi formare un gruppo di sostegno finalizzato a coinvolgere l’alunno isolato nelle attività didattiche. Sciogliere i gruppi che incontrano difficoltà è spesso controproducente perché in questo modo gli alunni non comprendono come affrontare e risolvere i problemi che si possono presentare. Come attribuire i diversi ruoli Nei gruppi cooperativi è necessario stabilire chi deve ricoprire i diversi ruoli che prevedono: - Controllare toni di voce - Controllarei rumori - Controllarei tumni - Spiegare idee e procedure - Registrare - Incoraggiare la partecipazione - Osservare i comportamenti - Fornire guida - Fornire sostegno - Chiarire e illustrare - Ricapitolare - Migliorare - Verificare la comprensione - Fare ricerche/comunicare - Elaborare - Approfondire - Criticare le idee (non le persone) - Chiedere motivazioni - Sintetizzare 17 - Sviluppare idee e conclusioni - Creare opzioni - Valutare - Fornire risorse - Proporre prospettive diverse - Stimolare funzioni cognitive diverse. Organizzare l’aula e i materiali Anche l’organizzazione della disposizione dello spazio e dell'arredamento dell'aula sono fattori che possono facilitare o ostacolare l'apprendimento. La disposizione dello spazio e degli arredi dell’aula mostra simbolicamente quali sono i comportamenti appropriati, una buona organizzazione aiuta l'alunno a focalizzare l’attenzione e può determinare l'atmosfera di apprendimento, facilitando o ostacolando la gestione della classe, il funzionamento dei gruppi di apprendimento e le relazioni tra gli alunni. I componenti di un gruppo dovrebbero sedere faccia a faccia di modo che siano abbastanza vicini per scambiarsi opinioni a voce bassa o materiali senza disturbare il resto della classe. I gruppi devono essere abbastanza distanziati in maniera che non interferiscano tra di loro e che l'insegnante possa raggiungerli facilmente. L'organizzazione dell'aula dovrebbe essere inoltre flessibile per permettere agli alunni di cambiare rapidamente la composizione e la dimensione del gruppo. Per focalizzare l’attenzione degli alunni su punti di particolare interesse dell’aula e per definire i confini degli spazi di lavoro si possono utilizzare etichette e segnali per delimitare le aree, colori per attirare l’attenzione visiva e definire gli spazi di gruppo e individuali nonché la collocazione dei materiali, nastro adesivo da incollare sul pavimento o sulla parete, forme come frecce appese alle pareti o al soffitto per guidare l’attenzione. La strutturazione dei materiali Per portare a termine i compiti è necessario avere i materiali adatti e distribuirli in maniera efficace. Esistono diverse possibilità per creare la giusta complementarietà dei materiali: per esempio si può dare ad ogni gruppo una sola copia del materiale. Limitare le risorse infatti permette di stabilire l’interdipendenza positiva tra i componenti: i membri sono infatti costretti a lavorare insieme (una matita e un foglio per ogni due alunni per es. fa si che si decida insieme quando e cosa scrivere). Si può poi distribuire a ogni alunno o a una sua parte una parte del materiale: per es. dare ad ognuno una copia del brano da leggere e fornire una sola copia delle domande cui dovranno rispondere. Gli alunni possono essere resi interdipendenti dando ad ognuno di loro parte delle informazioni necessarie allo svolgimento del compito: ogni membro è responsabile della sua parte; deve studiarla, insegnarla al resto del gruppo e imparare a sua volta le informazioni fornite dagli altri. Si tratta del metodo Jigsaw, che richiede e garantisce la partecipazione di ogni componente del gruppo. Infine, la scelta dei materiali è determinata dal tipo di compito e da ciò che gli alunni faranno durante le lezioni stesse. Soprattutto quando il gruppo è nuovo e i membri non hanno ancora acquisito abilità interpersonali l'utilizzo dei materiali in maniera corretta è necessario per fargli comprendere che la consegna va svolta con strategie comuni. Difficoltà frequenti nel gruppo Un'organizzazione accurata del materiale permette di evitare una serie di difficoltà e di problemi di interazione come per es. il fatto che determinati alunni non si facciano coinvolgere o al contrario che alcuni vogliano dominare la discussione. L’avvio pratico del lavoro dei gruppi Al momento dell’avvio dei lavori di gruppo è necessario spiegare le caratteristiche del compito assegnato e gli obiettivi della lezione in modo che gli alunni li comprendano e li memorizzino nel miglior modo possibile, spiegare i concetti, i principi e le strategie che gli alunni devono usare durante la lezione e collegare i concetti e le informazioni da studiare con l’esperienza e le conoscenze già acquisite; spiegare le procedure da seguire nello svolgimento del compito e verificare se gli alunni hanno compreso il tutto rivolgendo domande specifiche. Si deve infine chiedere loro di realizzare lavori scritti che ogni componente dovrà poi firmare. Spiegare i criteri di valutazione: occorre informare i ragazzi del livello di rendimento che ci si aspetta da loro e fissare degli standard coni quali confrontare le prestazioni. 18 Creare aspettative sul tema della lezione e organizzare in anticipo le conoscenze che già si possiedono sull'argomento trattato. Tre metodi per fare questo sono: la discussione in coppie, prove scritte di anticipazione e le coppie di domanda e risposta. Costruire l’interdipendenza positiva Dopo aver spiegato il compito agli alunni, si struttura l’interdipendenza positiva, affinché essi lavorino cooperativamente. L’interdipendenza riguarda non solo gli obiettivi (ciascuno può raggiungere il proprio obiettivo solo se il gruppo lo raggiunge), ma anche i premi (che sono collettivi), le risorse (ogni membro riceve una sola parte delle informazioni o dei materiali necessari), i ruoli (complementari e interconnessi), l'identità (poiché il gruppo si da un'identità collettiva scegliendosi un nome, un motto, una bandiera ecc). Garantire la responsabilità individuale In un gruppo cooperativo ogni componente è responsabile sia del suo apprendimento che di quello dei compagni. La responsabilità individuale serve a far capire che non si può sfruttare il lavoro altrui, ne oziare, ne vivere alle spalle del gruppo. Per strutturare la responsabilità di gruppo occorre che l'insegnante valuti la prestazione complessiva del gruppo che dovrà poi confrontare il giudizio con gli standard e discutere sulle possibilità di miglioramento. Metodi più comuni per sviluppare la responsabilità individuale sono: - Usare gruppi di piccole dimensioni - Somministrare a ogni alunno un test o una verifica individuale - Fare verifiche individuali a caso - Osservare ogni gruppo e ogni componente e registrare la frequenza con cui l'alunno contribuisce al lavoro di gruppo - Incaricare un alunno di ogni gruppo di controllare la comprensione degli altri - Assicurarsi che gli alunni insegnino ciò che hanno imparato al compagno, che lo correggano se necessario - Assicurarsi che gli alunni applichino le conoscenze e le abilità acquisite alla soluzione di nuovi problemi. L’interdipendenza positiva e la responsabilità individuale sono strettamente correlate, la responsabilità comune accresce la motivazione dei membri attraverso il concetto di dovere. La formazione delle abilità di cooperazione Gli alunni devono conoscersi e fidarsi gli uni degli altri, comunicare con chiarezza e precisione, accettarsi e sostenersi a vicenda e risolvere i conflitti in maniera costruttiva. Sono quattro i livelli di abilità cooperative: gestione, funzionamento, apprendimento e stimolo. Il primo passo nello sviluppo delle abilità sociali consiste nell’assicurarsi che gli alunni capiscano l’importanza delle abilità sociali per il lavoro di squadra e a questo scopo si può chiedere loro di suggerire quali siano le abilità sociali necessarie per lavorare insieme. E utile poi stabilire le abilità da insegnare e presentare agli alunni delle situazioni in cui la conoscenza di quelle abilità rappresenti per loro un evidente vantaggio. Il secondo passaggio consiste nell’assicurarsi che gli alunni capiscano il tipo di abilità richiesta, come e quando applicarla. Bisogna allora definire operazionalmente l’abilità con comportamenti verbali e non verbali concreti, (di modo che gli alunni sappiano con precisione cosa devono fare) . Partendo dalle loro stesse riflessioni a domande specifiche dell'insegnante (secondo voi com'è concretamente questa abilità?) si mette a punto un elenco cui faranno poi riferimento. Il terzo passo consiste nell’improvvisare situazioni pratiche che incoraggino gli alunni ad acquisire la padronanza dell’abilità che si può verificare periodicamente chiedendo una dimostrazione durante la lezione. Il quarto passo consiste nel fornire agli alunni un feedback dell’abilità e dell’incoraggiarli a riflettere su come migliorarne l'applicazione. Il quinto passo consiste nell’assicurarsi che gli alunni si esercitino costantemente nell’abilità finché non le applicano con naturalezza. Il monitoraggio della cooperazione nel gruppo Occorre valutare sistematicamente il lavoro svolto sul compito e a livello del gruppo. Durante i lavori di gruppo l’insegnante deve girare trai banchi è osservare attentamente gli alunni. 19 ricordare ecc); si tratta dunque di sviluppare nell’alunno la consapevolezza di quello che sta facendo, del perché lo fa, di quando è opportuno farlo e in quali condizioni. L'approccio meta cognitivo forma le capacità di essere il più possibile gestori diretti dei propri processi cognitivi, dirigendoli attivamente con proprie valutazioni e indicazioni operative. L'approccio è applicato attualmente con risultati positivi sia per la generalità degli alunni che per quelli con difficoltà di apprendimento e ritardo mentale medio e lieve. Gli elementi costitutivi della didattica meta cognitiva La didattica meta cognitiva è un modo di fare scuola che fa suoi concetti e metodologie derivati dagli studi sulla meta cognizione. L'insegnante se punta all’approccio meta cognitivo deve agire su quattro livelli: 1. Liv conoscenze sul funzionamento cognitivo in generale (teoria della mente) 2. Liv > autoconsapevolezza del proprio funzionamento cognitivo (consapevolezza personale) 3. Liv uso generalizzato di strategie di autoregolazione cognitiva (auto direzione) 4. Liv > variabili psicologiche di mediazione 1° LIVELLO Include una serie di conoscenze sul funzionamento della mente umana: l'insegnante fornisce all’alunno informazioni generali, forma una sorta di “teoria della mente” cercando di chiarire i vari processi cognitivi e risolutivi (memoria, problem solving, scrittura, ecc) nonché sui meccanismi che li condizionano. Questo primo livello è problematico per gli alunni con ritardo mentale, i quali non riescono a sganciarsi dal mondo reale e concreto per entrare nel mondo delle conoscenze astratte; è possibile però fornire informazioni accessibili, comprensibili, e utili nella vita quotidiana. 2° LIVELLO Dal secondo livello ha inizio l’introspezione, e l’autoconsapevolezza; l'alunno deve conoscere il funzionamento dei propri processi cognitivi e comportamentali, rendendosi conto dei rispettivi punti di forza e deficit. L'’autoanalisi è difficoltosa; in particolare gli alunni con ritardo mentale tentano la rimozione dei propri limiti, carenze ed errori. Kirby e Grimley (1989) ritengono che per la diagnosi di iperattività e disturbi dell'attenzione è fondamentale chiedere al bambino cosa sappia dei suoi processi attentivi, delle condizioni che lo facilitano o lo ostacolano e così via. In caso di gravi limitazioni cognitive, l'insegnante può partire dall’osservazione guidata e sistematica di alcune caratteristiche del sé e del proprio corpo e funzioni per introdurre l'alunno gradualmente all’auto osservazione e all’automonitoraggio verso situazioni quotidiane come l'alimentazione, l’azione del vestirsi. Successivamente, se le capacità lo consentono, l'alunno potrà monitorare le sue prestazioni, raccoglierne i rispettivi dati e rendersi conto, ad esempio, di quanta attenzione è riuscito a prestare nelle diverse ore di lezione a scuola ecc. 3° LIVELLO A questo livello meta cognitivo l'alunno dirige consapevolmente e attivamente se stesso, in particolare governa lo svolgersi dei propri processi cognitivi. Per fare ciò è necessario attivare diverse fasi: fissarsi un obiettivo di funzionalità ottimale; darsi istruzioni, suggerimenti o aiuti per svolgere le operazioni del processo in questione; osservare l'andamento del processo stesso e raccogliere dati sui risultati per poterli poi valutare; confrontare i prodotti del processo con gli standard fissati prima; dare una valutazione positiva o negativa al processo e alle modalità di svolgimento per attivare correzioni appropriate o modifiche alle strategie che si sono rivelate erronee o fallimentari. In questo livello dunque l’alunno deve essere in grado di mettere in atto strategie sempre più attive ed efficaci di controllo consapevole dei propri processi cognitivi. Cornoldi (1990) elenca una lunga serie di processi meta cognitivi di controllo, che potrebbero essere insegnati direttamente in quanto tali, oppure inseriti all’interno del lavoro didattico in una specifica disciplina: problematizzazione, comprensione e definizione del problema-compito, collegamento di quel particolare compito ad altri simili già affrontati, attivazione delle conoscenze precedenti implicate in quel tipo di compito, integrazione delle varie informazioni provenienti da fonti diverse, definizione dei libelli di prestazione e soluzione attesi, generazione delle alternative per la soluzione del problema, 22 esame delle alternative e decisione rispetto alle decisioni da compiere, applicazione del piano strategico scelto e così via.. Altre strategie di autoregolazione cognitiva abbastanza note e utili nella prassi didattica ed educativa sono la serie di operazioni del problem solving e il planning-programmazione di una sequenza di azioni, che sono le più accessibili anche a persona con gravi difficoltà di apprendimento e deficit intellettivi (Ianes, 1990). Nel problem solving l'allievo deve fronteggiare una situazione nuova che gli richiede uno sforzo creativo per scoprire una nuova e più adatta soluzione attraverso un procedimento paziente di prove ed errori oppure con un'intuizione improvvisa (più difficile da insegnare alle persone con ritardo mentale). Agli allievi con gravi limitazioni cognitive è più proficuo insegnare una strategia sistematica e paziente del problem solving che si svolga attraverso: la definizione del problema e dell’obiettivo da raggiungere, brainstorming (pensare una gamma di ipotesi di soluzione applicando al massimo la creatività), valutazione razionale dei pro e dei contro di ogni ipotesi, scelta della più efficace sulla base delle valutazioni, applicazione concreta del tentativo di soluzione, verifica degli esiti (se positivi continuare l'applicazione, se negativi ricominciare da capo il processo di problem solving). Per iniziare l'insegnante potrebbe pronunciare le istruzioni delle varie fasi, per poi ridurre sempre di più il suo aiuto, finché l’alunno, da solo, si auto impartisce le istruzioni, fino a interiorizzarle ed elencarle con il pensiero. Nel planning invece l’alunno deve programmare una sequenza stabile di azioni e aiutarsi a svolgerla regolarmente senza ometterne nessuna componente. Le operazioni da attuare sono: definizione chiara dell'obiettivo e del risultato, attivare la prima azione, controllarne la corretta esecuzione e solo in questo caso attivarne una seconda, controllarne l'esecuzione e così via fino all'ultima azione, che va riconosciuta per poi verificare se il risultato concretamente ottenuto corrisponde all'obiettivo iniziale. Le autoistruzioni sono alla portata di moltissimi allievi con ritardo mentale; sono in genere verbali, ma possono anche somministrarsi sottoforma di illustrazioni, figure e disegni che esemplificano nel giusto ordine le operazioni da compiere. 4° LIVELLO Le variabili psicologiche di mediazione, possono favorire e potenziare enormemente gli effetti positivi dei primi tre livelli, ma sono anche in grado di ostacolarli o vanificarli. Si tratta del locus of control, degli stili attributivi, dell’autostima, della motivazione, dell’autoefficacia ecc. L'allievo costruisce, non proprio consapevolmente, un'immagine di sé e della propria capacità di imparare, che entra in rapporto con le caratteristiche più profonde della sua generale immagine e valutazione di sé. Il locus of control indica il luogo dove l'alunno ritiene che si trovino i fattori responsabili di quello che gli accade nel bene e nel male. L'allievo con un locus of control distorto, eccessivamente proiettato su fattori esterni, con conseguente deresponsabilizzazione personale, assume in genere un atteggiamento passivo (“non ce la posso fare perché non dipende da me”). In tal caso bisogna intervenire attaccando razionalmente convinzioni molto resistenti, ristrutturare le credenze dell’alunno. Gli stili di attribuzione si riferiscono anche agli atteggiamenti e alle convinzioni più specifiche che l'alunno possiede riguardo alle strategie, alla loro utilità nell’apprendimento, al ruolo rivestito dallo sforzo attivo di apprenderle. Il senso di autoefficacia è la convinzione delle proprie capacità di raggiungere il successo nell’esecuzione di un compito (“Il senso di potercela fare”) ed è cruciale nell’influenzare la capacità di autoregolazione nell’apprendimento e la motivazione. Un buon senso di autoefficacia fa si che, nonostante pari capacità cognitive, alcuni alunni apprendano meglio di altri le strategie di autoregolazione, riescono meglio nell’automonitoraggio, sono continui nell'impegno e persiste nel tempo il loro sforzo strategico. Contribuisce, fra le tante altre cose, al senso di autoefficacia, l'atteggiamento ottimistico dell'insegnante: se questo trasmette fiducia, una sorta di empowerment psicologico; egli deve dimostrare di credere profondamente nelle risorse dell’alunno e valorizzarle. Oltre all’atteggiamento positivo è necessario un programma didattico basato sul successo, per garantire nel concreto esperienze di vera efficacia all’alunno. 23 L’autostima è un concetto psicologico che indica il complesso dei giudizi di valore e sentimenti che proviamo nei confronti dei molti aspetti della nostra persona ed è alla base dello sviluppo psicologico della persona. Per quel che riguarda l'apprendimento, un aiuto non richiesto può produrre un senso di diversità e inferiorità rispetto ai compagni, con conseguente sofferenza psicologica a livello di autostima. L’autostima dipende anche dalle relazioni interpersonali significative. L'insegnante lamenta spesso carenza di motivazione intrinseca, cioè di un riconoscimento personale, da parte dell’allievo, dell'importanza che riveste per lui quel tipo di acquisizione, con conseguente investimento spontaneo di energie e comportamenti diretti alla meta. Sempre più deficit dell’apprendimento sono da imputare, almeno in parte, a questi deficit nella motivazione intrinseca. Di qui lo sforzo didattico di utilizzare materiali vicini agli interessi degli alunni che permettano loro di sperimentare facilmente successi, per rendere l'apprendimento il più gratificante possibile potenziando la motivazione intrinseca. La motivazione estrinseca viene sostenuta invece dall'esterno attraverso l’uso sistematico di rinforza tori positivi quali la lode, l'approvazione pubblica, varie forme di riconoscimento anche concrete come piccoli premi o sistemi complessi di gratificazioni simboliche. In questo caso la motivazione è potenziata dalla presenza di incentivi, per lo più estranei ai contenuti dell’apprendimento. Altri meccanismi influenzano la motivazione : il realismo di fronte alla difficoltà di un compito, la resistenza dell’alunno alla frustrazione e alla dilazione della gratificazione, la capacità di immaginare in modo chiaro i vantaggi che porterà il successo nell’apprendimento, il dialogo interno motivazionale del bambino (fatto di auto gratificazioni o messaggi punitivi), l'ansia eccessiva per l’insuccesso o le risposte esageratamente emotive (scoppi di collera). I tre livelli sono chiaramente interconnessi perché per esempio alcune informazioni generali a livello di teoria della mente (1° livello) permettono all’alunno di osservarsi in modo nuovo e di capire cose interessanti di sé stesso (2° livello). I primi due livelli si integrano e si sostengono a vicenda, e spingono l'alunno a usare una qualche strategia di autocontrollo. I buoni risultati influenzeranno anche il 4° livello, ridando all’alunno un po’ di fiducia nelle proprie capacità di controllare una parte della sua vita mentale che egli riteneva ingestibile. Il locus of control, il senso di autoefficacia e l'autostima saranno così influenzati positivamente e a loro volta agiranno da amplificatori positivi per spingere l'alunno a usare ancora di più queste strategie in situazioni simili. Il terzo livello, è connesso strettamente a tutti gli altri: usare una strategia e verificarne i risultati positivi affina anche la conoscenza di sé e questo ha ripercussioni sul quarto livello. Risulta dunque evidente l’importanza di avere un approccio integrato e cioè di affrontare tutti e quattro i livelli meta cognitivi: operare a livello conoscitivo generale, introspettivo personale, strategico autoregolatorio e psicologico più approfondito. Risultati e punti di forza di un insegnamento meta cognitivo I dati a sostegno dell’utilità di un approccio meta cognitivo generale nella didattica, anche in quella rivolta ad alunni con disturbi dell’apprendimento e con ritardo mentale, sono ormai numerosi nella letteratura scientifica internazionale. AUTOREGOLAZIONE COMPORTAMENTALE Altre situazioni di difficoltà possono derivare da Disturbi da deficit attentivo e iperattività, disturbi oppositivi provocatori e di disturbi della condotta ma anche da bambini che non rispondono a criteri diagnostici di questi disturbi e tuttavia presentano simili problematicità che riguardano l’impulsività, la disattenzione, l’aggressività e la difficoltà relazionale, i comportamenti provocatori e la difficoltà di seguire regole di routine. In questi casi si può ricorrere principalmente alla creazione di ambienti facilitanti, sia dal punto di vista degli spazi e delle attrezzature che da quello della routine per aiutare il bambino a produrre comportamenti pro sociali e positivi ed evitare le situazioni che favoriscono l’insorgenza dei comportamenti problema. Per l’organizzazione dello spazio si deve operare una disposizione strategica dei banchi, per mettere il bambino con comportamenti problematici in una posizione di facile e continuo monitoraggio con il contatto oculare, posizionandolo vicino a compagni con buone capacità di autocontrollo e di pro socialità e lontano da fonti di distrazione. 24 Ricercare gli elementi di difficoltà presenti nel testo e modificarli affinchè sia più chiaro e completo e risulti così accessibile e comprensibile per tutti gli alunni, non significa mettere in discussione la qualità del libro, ma incoraggiare una didattica che sia realmente integrata. Capitolo 6- interventi psicoeducativi positivi sui comportamenti problema L'alleanza psicoeducativa L'approccio ai comportamenti problema gravi, quali l'aggressività, l’autolesionismo e le stereotipie, si basa su un intervento non repressivo e punitivo, ma volto a favorire lo sviluppo di competenze comunicative e interpersonali alternative. A questo scopo è fondamentale creare una forte alleanza tra chi condivide la responsabilità di cura, sviluppo e benessere della persona disabile: genitori, insegnanti, educatori, psicologi, personale medico e del volontariato, ecc. Tutte figure fondamentali per migliorare l'integrazione e la partecipazione sociale e quindi, la qualità di vita della persona. Nell’intervento psicoeducativo si cerca di capire il motivo del manifestarsi del comportamento problema e di aiutare la persona a sostituirlo con strategie più evolute e socialmente accettabili. Per fare ciò si deve venire a creare un'alleanza con la persona ed i suoi bisogni. I comportamenti problema infatti sono funzionali a chi li manifesta, anche se realmente dannosi o controproducenti, hanno principalmente una funzione comunicativa e in minima parte sono funzioni di autoregolazione del flusso di stimolazioni e di sensazioni. Quello da attuare è dunque un intervento di sostituzione e se la gravità del comportamento lo richiede, si può ricorrere a procedure positive-punitive. La costruzione dell’alleanza e gli elenchi grezzi Il gruppo di riferimento educativo per l'intervento ha come primo compito la stesura individuale dell’elenco grezzo dei comportamenti problema e dei sentimenti di disagio che l’insegnante o il familiare vive, di modo da costruire successivamente, dopo il confronto, un elenco condiviso, fondamentale per la decisione di reale problematicità. Infatti vi sono comportamenti problema veri (per l’alunno) e falsi (che sono problematici solo per noi); per non incorrere in errore, ai fini della definizione dei comportamenti realmente problematici, si devono osservare tre criteri: e Criterio del danno+ il comportamento produce alla persona o ad altri danni documentabili?; e Criterio dell’ostacoloè anche se il comportamento non produce danni, ostacola in qualche modo il soggetto o altre persone in maniera oggettiva e documentabile? (es. alcune stereotipie molto invasive); e Criterio dello stigma sociale è i comportamenti, pur non provocando danni o ostacoli, danneggiano in maniera evidente l’immagine sociale del soggetto, con ripercussioni sulle sue relazioni? Elenco dei comportamenti realmente problematici L'elenco dei comportamenti problematici può essere strutturato in ordine di priorità percepita di intervento, di gravità, di possibilità o probabile facilità di intervento ecc. In questa fase però non si deve tentare la spiegazione del comportamento ma ci si deve limitare alla sua osservazione. In questo compito possono essere utili elenchi già predisposti di comportamenti problema o profili di tratti psicopatologici, utili inoltre per confrontare in maniera sistematica le varie valutazioni fatte dei singoli partecipanti del gruppo di riferimento. L'alleanza coni genitori Eric Schopler (1998) fonda l'approccio TEACCH (Treatment and Education of Autistic and Communication Handicaped Children), in cui vi è una collaborazione attiva e attenta dei genitori, come veri e propri professionisti, al fine di garantire il miglior grado di autonomia possibile nei soggetti autistici. I suoi principi sono: 1. Migliorare l'adattamento dell’individuo al mondo in cui vive, potenziando le abilità esistenti usando le migliori tecniche educative disponibili e modificando l’ambiente per compensare i deficit; 2. Ogni persona coinvolta deve valutare attentamente, formalmente e informalmente la persona in questione; 3. Promuovere un insegnamento strutturato per sostituire i comportamenti problema, molti dei quali si originano dalla comunicazione disfunzionale; 27 4. Dare priorità all'incremento delle abilità esistenti e riconoscere nonché accettare i punti deboli da migliorare; 5. L'intervento educativo più utile e la gestione del comportamento più efficace si basano sulle teorie comportamentali e cognitive dell’apprendimento; 6. Operatori e genitori devono essere formati come “generalisti” ovvero devono acquisire le abilità necessarie per affrontare l’intera gamma dei problemi posti alla persona vista come una globalità. Ci sono molti modi per aiutare i genitori ad acquisire nuove abilità, in particolare sono efficaci e diffusi i programmi di Parent training, programmi di formazione strutturati, basati sull’insegnamento di abilità educative, sull’elaborazione congiunta ed emotiva, sul modellamento, le simulazioni con feedback, il role play, ecc. L'osservazione iniziale e la Linea di base Si inizia a raccogliere dati sulla situazione: su come quando e perché si manifesta un comportamento problema; la raccolta è di tipo qualitativo e quantitativo (attraverso l’uso di griglie e schede di osservazione. Il comportamento, a livello qualitativo, deve essere descritto in maniera accurata di modo che tutti i partecipanti del gruppo abbiano chiaro il comportamento da osservare in maniera più sistematica. Si procede poi alla preosservazione informale del comportamento: si osserva senza l’uso di strumenti formalizzati. Segue l'osservazione quantitativa, fondamentale per stabilire il peso reali dei comportamenti problema nelle diverse situazioni, nonché una Linea di base dei comportamenti, cioè una fotografia dettagliata e attendibile di come questi si manifestano normalmente prima dell’intervento, per stabilire l’efficacia ed evidenziare le aree di attenzione in cui si presentano con maggior frequenza i comportamenti problema. L'analisi funzionale Va creata un'alleanza con il comp. Problema al fine capirne la funzione: non si accetta la sua forma, ma si cerca di accettarne la funzione, per aiutare la persona a manifestarla in maniera positiva. L'analisi funzionale è dunque indispensabile. Il cp. si manifesta in presenza di alcune condizioni di stimolo che lo precedono e/o gli sono contemporanee, e che in qualche maniera lo influenzano; il c.p. produce poi degli effetti e delle reazioni a vari livelli, che retroagiscono sui c.p. consolidandoli in genere nella direzione desiderata dal soggetto. Si crea così un circolo che alimenta il ripresentarsi del c.p. Nell’analisi funzionale dunque si tenta di capire il ruolo delle condizioni antecedenti e degli effetti dei comportamenti attraverso numerose osservazioni qualitative, per poi formulare un'ipotesi rispetto alla funzione; utile a questo scopo è la griglia proposta da Carlos (2001) . Il ruolo delle condizioni antecedenti Le condizioni antecedenti facilitano l'emissione del c.p. e si possono classificare sulla base della vicinanza temporale rispetto al c.p, della loro collocazione e tipologia, della qualità e dei tipi di influenza. Le condizioni che vanno prese in considerazione sono quelle dello stato fisico del soggetto, del suo stato cognitivo, delle sue relazioni con le persone significative, delle relazioni più allargate in corso e del contesto (fisico-ambientale, delle attività e delle relazioni in senso globale). Lo stimolo antecedente motiva e orienta ad un'azione specifica. Anche la vita affettiva riveste grande rilevanza nei c.p.: spesso nella persona con disabilità è presente una forte reattività affettiva per cui anche il minimo evento può causare altissimi livelli di ansia e agitazione che possono sfociare in comportamenti aggressivi e distruttivi. Anche la condizione biologica del soggetto gioca un ruolo: se una persona con autismo ha un'ipersensibilità/iperattività percettiva e sensoriale che le crea un fortissimo disagio in luoghi con motori elettrici o con altro tipo di vibrazioni, sarà per lei molto forte la motivazione a fuggire o evitare questi stati di disagio. In questi casi è sbagliatissimo far ottenere successo al comportamento, perché la persona imparerà a ripeterlo la prossima volta che vorrà evitare una situazione di disagio. Il ruolo degli effetti prodotti dal comportamento problema 28 Gli effetti prodotti a vario livello dal c.p. si intrecciano contemporaneamente: alcuni sono immediatamente connessi al comportamento (es. graffiarsi) altri hanno bisogno di altre persone e vanno visti nel contesto più allargato. Nell’analizzare il ruolo degli effetti sul c.p. si deve tener conto del rinforzamento. Il rinforzo è positivo se al c. segue un effetto che la persona sente come positivo di per sé, per cui il c. che ritiene abbia prodotto quell’effetto piacevole si consolida e ne aumenta la probabilità di ricomparsa nelle medesime situazioni antecedenti. Il rinforzo è invece negativo se con l'espletamento del c.p. una situazione di disagio per il soggetto cessa , si riduce in questo caso uno stato vissuto come negativo e questo spinge a consolidare il c.p. Il più delle volte lo scopo del c.p. è proprio quello di ottenere rinforzi; esistono però c.p. che non sono comunicativi, e i cui effetti sono automaticamente prodotti dal corpo del soggetto, attraverso sensazioni positive o riduzioni di sensazioni negative come accade in molte stereotipie. Il soggetto produce c. che in se stessi generano feedback presumibilmente piacevoli, di tipo cinestesico (come dondolare, girare su se stessi), tattile (strofinare le mani su superfici, leccare), uditivo (giocherellare con la carta o con oggetti) e gustativo (mettersi le mani in bocca, mangiare tessuti) Se un soggetto si trova in una condizione di inattività e di scarsi input sensoriali, può utilizzare c.p. per produrre stimoli (autostimolatoria positiva) o al contrario, in caso di flussi troppo forti di stimoli che creano disagio, si può emettere un c.p. per ridurli (autostimolatoria negativa). Quest'ultimo è il caso di stereotipie o atti auto lesivi. La raccolta dei dati funzionali e la loro interpretazione La raccolta dei dati avviene attraverso interviste strutturate, questionari, griglie ecc ma anche attraverso l'osservazione diretta seguita dall’annotazione, su post-it di colore diverso, suddividendo a fine giornata tra le diverse funzioni dei c.p. (funzione comunicativa di rinforzamento positivo o negativo, funzione autoregolatoria positiva o negativa). Dai dati si possono trovare alcuni schemi comuni e alcune ricorrenze di situazioni che sono utili per programmare l'intervento. Si può trovare che lo stesso c.p. ha due funzioni diverse in due persone diverse, che la stessa persona può manifestare diversi c.p. con diverse funzioni, e anche che un c.p. di una persona può avere funzioni diverse sulla base del contesto. L'intervento positivo sostitutivo L'intervento psicoeducativo deve essere: ® proattivo (ottimistico, fiducioso e valorizzante), orientato a sviluppare comportamenti positivi alternativi e antagonisti a quello problematico; ® positivo; ® sostitutivo. Se non è negativa solo la forma in cui si manifesta una funzione, ma è negativa anche quest’ultima, si deve lavorare prima sulla forma. Nella maggior parte dei casi comunque, dopo aver modificato la forma negativa, anche la negatività della funzione si riduce in automatico. E importante sviluppare un processo in cui la persona viva come desiderabile il cambiamento stesso e trovi una sua motivazione intrinseca per parteciparvi attivamente. Operazioni di base da compiere nell’intervento psicoeducativo positivo sostitutivo 1. entrare spesso in situazione non evitare le condizioni antecedenti al c.p. ma accompagnare l'alunno e rassicurarlo, guidandolo nella sostituzione; 2. definire gli specifici comportamenti positivi sostitutivi> nel caso di una soggetto con ritardo mentale che sia abituato ad ottenere oggetti che hanno gli altri aggredendoli, gli si può insegnare una sequenza di azioni alternativa: avvicinarsi all’altro, fermarsi a distanza di un braccio, indicare l'oggetto con la mano aperta, indicare se stesso, e ottenuto l'oggetto ringraziare con una pacca sulla spalla dell’altro. Il comportamento alternativo non deve essere infantilizzante, stigmatizzante socialmente e non deve interferire con l'apprendimento di altre abilità; 3. accompagnare, guidare e aiutare al comportamento positivo + nelle prime prove di apprendimento, il merito del comportamento positivo sarà quasi esclusivamente di chi interviene; un po’ alla volta le parti si invertiranno e chi aiuta ridurrà progressivamente e 29
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