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riassunto del testo re-inventare la famiglia, Dispense di Pedagogia dell'infanzia e pratiche narrative

molto utile per la preparazione dell'esame orale

Tipologia: Dispense

2020/2021

Caricato il 02/03/2022

gallinellablu
gallinellablu 🇮🇹

4 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica riassunto del testo re-inventare la famiglia e più Dispense in PDF di Pedagogia dell'infanzia e pratiche narrative solo su Docsity! RE-INVENTARE LA FAMIGLIA Laura Formenti Parte Prima CAPITOLO 1 Lo sguardo dipende dall’azione, Laura Formenti Smontare i pregiudizi e le invenzioni è il primo passo per poter re-inventare la famiglia. Il secondo passo consiste nell’acquisire competenze e capacità di riconoscere quello che c’è. L’educatore arriverà a rafforzare: - il contatto con il presente, con il corpo e i suoi segnali; - la capacità di mettersi in gioco e tradurre in simboli e messaggi sensibili i propri pensieri, - la capacità di formulare ipotesi complesse sulle situazioni sperimentate; - l’attitudine a scegliere e la capacità di misurarsi con un nuovo ciclo di esperienza. C’è un salto logico (epistemiologico) tra conoscere un oggetto interagendo con esso e conoscerlo attraverso una definizione. Nella visione siamo convinti di guardare, da fermi, un mondo stabile. In realtà la vista non ha nulla di fisso: il mondo che guardiamo è in movimento e noi stessi ci muoviamo, continuamente. La descrizione del mondo, la definizione di famiglia che possiamo dare dice molto di più di me che la descrivo e della cultura/linguaggio di cui faccio parte, che non del mondo in sé, della famiglia in sé. Lavorare con la famiglia richiede quindi una consapevolezza epistemiologica, cioè un atteggiamento interrogante nei confronti dei nostri presupposti. Una conoscenza del modo di funzionare della mente umana. Il modello a cui ci si ispira è il MODELLO SISTEMICO, in dialogo con altri che gli sono “imparentati”. Un modello che mette l’idea di comunicazione al centro di tutti i processi umani e non: tutto è messaggio. Il gioco del “se fosse” è una via tra tante per aiutare la famiglia a raccontarsi e la metafora musicale è una tra le tante, forse la più immediata e incisiva. I teorici dei sistemi hanno concepito la comunicazione umana come un insieme organico di livelli complessi, contesti multipli e circuiti riflessivi. Scheflen fu uno dei primi ricercatori a paragonare la comunicazione a una composizione musicale. “La differenza tra queste due strutture è che la composizione musicale possiede una partitura esplicita, scritta, appresa e ripetuta consapevolmente. La partitura di una comunicazione non è formulata per iscritto ed è appresa inconsapevolmente, almeno in parte.” (Scheflen) Per gli europei e in genere nelle società globalizzate la persona singola viene isolata dal suo contesto, anzi il personaggio “opera come immagine totalizzante e totalitaria”. L’approccio sistemico si fonda su una ecologia delle idee e quindi sulla curiosità per tutto quello che non appare immediatamente valido e scontato. La visione di sé che ciascuno sviluppa non nasce nel nulla: è la storia raccontabile, appresa nelle conversazioni in famiglia, a scuola, con gli amici, in questo paese. Ogni storia è una composizione a più mani. Per un educatore sistemico importante è la metafora della band: c’è una connessione tra il modo in cui la famiglia è composta e quello che crea, per comprendere una famiglia sarà necessario ascoltarla attentamente, farsi l’orecchio, provare a suonarci insieme. Una caratteristica delle famiglie è la consuetudine, la ripetitività e la ridondanza sei modelli di comunicazione. Provare e riprovare, sbagliare, trovare insieme le soluzioni che convincono tutti: è così che si arriva a suonare insieme. Ognuno cerca di trovare la sua voce, ma l’insieme avrà un sound inconfondibile che chiameremo “IL SENSO DEL NOI”. La cacofonia famigliare, cioè il proliferare di azioni scomposte e scoordinate tra i membri del sistema e tra gli operatori, il più delle volte provoca una escalation schismogenetica di conflittualità e di problematicità. Un esito abbastanza comune di quegli interventi educativi che non si prendono cura dell’insieme. Tutti fanno, tutti danno un contributo attivo; la famiglia e un’opera collettiva, incompiuta, sempre in costruzione. Per farci l’orecchio sul sistema familiare dobbiamo partire da ciò che lo qualifica, cioè la CON-VIVENZA, che vuol dire abitare concretamente uno spazio condiviso nel quale sono state date alcune possibilità di interagire, mentre altre sono precluse e vuol dire anche tempi e ritmi condivisi. Ciò che importa sono i processi relazionali. La casa è un simbolo molto forte del noi e contemporaneamente del sé: riconosciamo come “casa” quel luogo in cui possiamo essere autenticamente noi stessi, levandoci le corazze e le maschere della vita sociale, in cui possiamo fare il nido. categorizzazioni o astrazioni che loro stessi creano a partire da essa. Possono escludere o ignorare una quantità enorme di informazioni basate sul sensoriale e cosi perdere il contatto con gli eventi in atto nel campo dell’interazione. Le immagini, le storie, i simboli che usiamo per rappresentare la famiglia non sono estranei alla famiglia reale. Reiss ha distinto tra FAMIGLIA IN AZIONE e FAMIGLIA RAPPRESENTATA; in molte situazioni c’è corrispondenza, se non sovrapposizione, tre famiglia reale e famiglia simbolica. Caillé e Rey definiscono rappresentazioni simboliche della famiglia “OGGETTI FLUTTUANTI”: danno forma a qualcosa che trascende il singolo; lo definiscono anche “Assoluto familiare” come se fosse un componente in più della famiglia stessa. Gli oggetti fluttuanti rappresentano il noi, on hanno un significato univoco, ma propongono un senso del noi che è dinamico, sempre in movimento, possono agire come processi. La rappresentazione simbolica materializza le relazioni e convoca la capacità ricettiva dei soggetti, dunque si tratta di un processo che funziona in due direzioni: l’oggetto esterno evoca uno stato mentale e lo stato mentale “metaforizza” il mondo esterno, si crea una connessione tra il mondo familiare e l’osservatore. Importante è mantenere distinte e ben udibili le tante voci, interne ed sterne alla famiglia, celebrarle e onorarle una per una in modo da offrire riconoscimento alla diversità. Ci vuole davvero tanto orecchio per lavorare in senso educativo con le famiglie: la vita familiare comprende, come abbiamo visto, livelli molteplici, ognuno dei quali dovrebbe essere onorato e celebrato: - l’individuo come unità; - le relazioni io-tu; - il Noi o Assoluto familiare; - il rapporto con il contesto sociale, naturale, storico. 2 CAPITOLO Formare lo sguardo attraverso le pratiche, Beppe Pasini Secondo l’Istat, oggi in Italia si separa una coppia su 4, in 35 anni i matrimoni si sono dimezzati, le unioni regolari si sono ridotte di circa 18000 unità, le forme familiari sono sempre più variegate: crescono i single, le coppie senza figli, le famiglie mono- genitoriali, le coppie non coniugate, quelle ricomposte i cui coniugi arrivano da precedenti separazioni, le unioni omosessuali. Se tutte queste famiglie non ricevono aiuti perché non conformi alla legge è come se a un pezzo d’Italia non fosse concesso il diritto di essere famiglia. In crisi non è dunque la famiglia in sé, ma una sua visione monolitica. Importante sarà imparare a raccogliere una storia di relazioni famigliari, così che questa, una volta narrata, modificherà la percezione dei fatti per aiutare a capirne la complessità, prevede una postura educativa che si calibra in itinere. Educarsi a uno sguardo sulla famiglia significa connettere lo sguardo di quel determinato narratore con quello che vede, restituendo alla sua visione un carattere di parziale e momentanea esistenza fatta di cecità e prospettive inedite. Solo dopo che si è compiuto il percorso si può stabilire l’itinerario che si è seguito (Foucault); eppure i nostri pregiudizi su cosa significhi conoscere e imparare tracciano a priori il nostro agire e pensare, ci vincolano, per uscirne abbiamo bisogno degli altri… è quando raccontiamo chi siamo a qualcuno che lo capiamo. Passaggi cruciali della didattica: 1) Domandare per accogliere e ricercare: l’arte di porre domande aiuta a problematizzare sollevando questioni su temi che appaiono scontati, le domande hanno un effetto perturbante. Porre domande anziché esordire con affermazioni provoca, apre possibilità al ricercare insieme risposte soddisfacenti, invita alla molteplicità delle versioni, valorizza le differenze, suscita curiosità, è spiazzante. Ri-attribuisce responsabilità al soggetto come ente pensante e fautore di inedite conquiste cognitive. Cos’è una buona domanda? Il fisico Foerster parla di una didattica delle domande legittime come antidoto alla banalizzazione; per Mezirow un apprendimento può essere trasformativo quando rivede criticamente i propri presupposti, renderli visibili può essere sufficiente a trasformarli. Una buona domanda è allora quella che rende visibili i presupposti, li ridiscuto e solleva questioni su aspetti assodati, problematizzandoli. Le domande possono far nascere storie, innescare cambiamenti, predisporre alla ricerca, oppure chiudere le possibilità e le conversazioni, confermando storie già scritte. Perseguire l’ottica sistemica nella formulazione delle domande significa imparare l’arte della ristrutturazione e della connotazione positiva. Ciò che fa la differenza sono i modi in cui porgiamo la domanda, gli aspetti prossemici, non verbali e paraverbali. Le domande che appaiono più generative sono quelle che: - Esplorano presupposti (es. riesci a considerare questa famiglia come un sistema?) - Evidenziano interazioni complesse (es. che cosa è accaduto nella coppia genitoriale, nel rapporto con i nonni, nelle relazioni con gli altri figli, quando è nato il figlio disabile?) - Focalizzano particolari cure domestiche (es. in che modo sono ripartiti i compiti quando si pranza?) Sono domande che personalizzano, contestualizzano, inducono alla narrazione e al ricordo, spostano lo sguardo. 2) Sperimentare concetti: come facciamo quando connettiamo? L’impresa batesoniana di cercare le strutture che connettono mente e natura in un unico processo rappresenta il tentativo di tratteggiare una sintassi biologica che risponda a questa domanda. Nell’acquisire il linguaggio prendiamo l’abitudine di far coincidere le parole con la “realtà” che descrivono, le parole diventano le cose. Una famiglia possiamo considerarla una rete di relazioni caratterizzata da processi morfostatici e morfogenetici, oppure possiamo definirla culturalmente come un’etnia con usi e pratiche proprie. Se non possiamo sottrarci a ritenere valide le descrizioni che generiamo e però possibile monitorare come lo facciamo, da dove vengono le nostre mappe, come abbiamo imparato a costruirle. Constatando che le teorie non sono lontane da noi, ce le portiamo appresso. E costruire così una definizione provvisoria compiendo un primo passo per connettere l’esperienza e trasformarla in sapere. 3) Pensare ad alta voce: il lavoro educativo non si effettua in solitudine ma in gruppi di lavoro costruiti attorno ad un progetto o rodati da importanti storie professionali comuni. Pensare insieme costituisce per i futuri educatori un’insostituibile opportunità di ambientamento alla complessità di cui si occuperanno, in gruppo ci si scontra e incontra proprio come avviene in una famiglia o in un contesto di lavoro. L’attenzione e la cura che i membri di un’organizzazione investono nei propri rapporti interni corrisponde alla qualità dei servizi erogati. Pensare ad alta voce ci porta ad accorgerci del nostro pensiero, a vederlo. Pratiche per pensare ad alta voce: costruire significati o elaborare teorie personali attorno a concetti e idee guida, ideare metafore, costruire manufatti simbolici, realizzare mappe tematiche, progettare e realizzare ricerche sul campo. 4) Trasformare l’esperienza in sapere: apprendere dall’esperienza comporta un cambiamento di visione che rende impossibile pensare come prima e al medesimo tempo fornisce un modello operativo per imparare a pensare. Il “mondo della mente” e il “mondo delle cose” si modellano a vicenda. Vedere ogni famiglia come portatrice di risorse non significa condividerne ogni scelta o morfologia, ma adottare rappresentazioni e organizzazioni relative ai rapporti tra genitori e figli. La genitorialità è bio-culturale, ha le sue radici nella natura, nasce nel fatto biologico della riproduzione, ma si sviluppa nella dimensione culturale e sociale. Per riconoscere le tracce di famiglia è necessario restare in una complessità e interconnessione di piani che ci porta ad accogliere la dimensione locale nell’universale, a utilizzare l’attenzione al particolare, a vedere il dettaglio senza perdere di vista il contesto. Genitorialità, processi di cura, educazione familiare, processi di crescita, sono una trama inestricabile di biologico, culturale, strico, sociale, individuale e solo restando in tale complessità e intreccio di livelli abbiamo la possibilità di comporre quella singola traccia in quell’unica e particolare storia e quella storia in una storia di genitorialità millenaria e planetaria. La famiglia che oggi ho davanti è l’esito provvisorio e in divenire, di un modo di intendere la genitorialità costruito in un processo storico e in uno specifico contesto di cui sono parte sia la famiglia sia l’educatore-cercatore di tracce. Nel processo di re-inventare la famiglia, storicizzare e contestualizzare diventano due operazioni cruciali quando permettono di moltiplicare gli sguardi e creare le sfumature. Per riconoscere tracce di genitorialità è necessario affinare tutti i nostri sensi. Il sentire comune così come il sapere della comunità scientifica, le informazioni degli esperti e i messaggi dei media, appaiono guidati implicitamente da 2 immagini: l’esercizio del mestiere genitoriale o l’arte della libera interpretazione di un ruolo. Parlare di genitorialità come arte o come mestiere comporta impliciti riferimenti a 2 distinte prospettive: modello istintivo e modello istruttivo. Arte o mestiere: è la contrapposizione tra le 2 visioni a costituire il problema. Entrambe convergono in un’idea di genitorialità come esito finale; il figlio ne sarà il “prodotto” o “l’opera”. L’adesione a uno dei 2 modelli, istruttivo o istintivo, pone dei problemi: il primo premia l’asimmetria relazionale e la dipendenza, nel secondo è la responsabilità personale che viene meno. Entrambi i modelli pongono la genitorialità al di fuori della relazione, del contesto, della storia e delle storie; nel nostro ricercare tracce di famiglia c’è una terza via: un modello evolutivo-ecologico che può rendere conto di un processo relazionale e in continuo divenire, come è quello genitoriale. Nel modello evolutivo si opera per interdipendenza tra universale e locale, per cooperazione e conflittualità, muovendosi verso una DESCRIZIONE DOPPIA, o verso la co- costruzione di mondi possibili. Il bricoleur usa arte e mestiere, coordinando quotidianamente la dimensione dell’improvvisazione creativa con la progettazione del futuro, attingendo sia alla capacità riflessiva e teorizzante, sia alla necessità di fare e agire. Le teorie evolutive pongono anche noi educatori che andiamo alla ricerca di tracce di famiglia di fronte a un salto, epistemiologico, estetico ed etico, che ci porta ad assumere una postura ben più complessa e incerta. La nostra storia bio-culturale ci mostra che l’immaginazione, il potersi pensare di divenire, gioca un ruolo generativo. Il bricolage, letto nella sua dimensione rapsodica, diventa un’esperienza che mette in movimento, in relazione, collega l’oggi con una prospettiva futura, il presente con la storia vissuta, segnando il passaggio dal separare al connettere. Il genitore sarà chiamato a risolvere questioni nuove ogni giorno, a misurarsi con la non linearità, il cambiamento repentino, le stasi; è la capacità di misurarsi con l’imprevisto il su banco di prova, pertanto la dimensione della flessibilità diventa una grande risorsa. Abbiamo bisogno di una nuova competenza per incontrare la famiglia, abbiamo bisogno di uscire dal modello che impartisce istruzioni, individua problemi e eroga soluzioni già note, sperimentate e misurate. CAPITOLO 4 Interazioni: osservare la famiglia in azione, Mara Pirotta L'interazione umana non si ferma al livello puramente verbale, anzi, grandissima parte della comunicazione ha luogo attraverso segnali, mimiche, gesti, posture. L'osservazione non è semplice guardare o vedere, l’osservatore è guidato da premesse, pregiudizi e ipotesi che lo orientano nel trovare le informazioni desiderate. Non si può osservare tutto: l’osservazione è un processo di selezione e scelta. In relazione a cosa si sceglie di osservare e a come lo si osserva la descrizione d quanto è stato osservato cambierà. Non è quindi possibile osservare in modo oggettivo, anche perché l’osservatore è sempre a sua volta inserito nel processo di osservazione e da quest’ultimo influenzato. Quando l’oggetto di osservazione è la famiglia, la pratica osservativa diventa ancora più complicata. È utile in quest’ultimo caso essere consapevoli dei propri pregiudizi, della propria idea di famiglia e cercare di introdurre in noi stessi nuovi posizionamenti, anche introducendo una certa dose di perturbazione. Nel lavoro pedagogico, l’osservazione è una pratica che richiede cura, attenzione e responsabilità: se guardo in un certo modo so che riuscirò a vedere delle cose e non altre. Osservare la famiglia: quando osserviamo una famiglia, l’oggetto di osservazione sono le relazioni, che possono essere più o meno funzionali e le interazioni. Nella conoscenza di una famiglia bisogna tener conto sia della famiglia rappresentata (famiglia raccontata dai singoli partecipanti, le visioni possono anche essere molto diverse tra loro) , sia della famiglia praticante (famiglia in azione). Noteremo che spesso ci sono discordanze tra le due. Il bambino è considerato possessore delle stesse possibilità degli adulti di condizionare. Quando osserviamo la famiglia dobbiamo sempre tenere in considerazione la dimensione circolare di casualità (i comportamenti dei singoli si influenzano reciprocamente e influenzano anche le rispettive motivazioni, valutazioni) e prendere le distanze dal modello lineare fondata sul binomio causa-effetto. Ognuno di noi ha una propria visione di famiglia, di genitorialità, dell’essere figli. Lavorando con le famiglie è utile far emergere le visioni che i vari componenti hanno di se stessi, nell’ottica di poter cambiare visione o prospettiva, riconoscersi pregi e difetti, limiti e potenzialità. Spesso i genitori chiedono all’educatore “come mi vedi?” come se questa richiesta di giudizio nascondesse in realtà un bisogno di riconoscimento. Se mi riconosco in una posizione, in un ruolo, posso ricoprire quel ruolo. Il processo che viene portato avanti davanti a questa richiesta è osservativo- riflessivo. Uno strumento molto utilizzato quando si lavora con le famiglie è il video. Mostrare frammenti di quotidianità alla famiglia permette di osservarsi prendendo le distanze, riconoscersi importanza anche per i piccoli gesti e far emergere aspetti a cui fino a quel momento non si aveva dato importanza. Dal momento che la richiesta avanzata dai genitori è di tipo valutativo “dimmi se sono un bravo genitore”, è funzionale dare una risposta che porti i genitori su un circuito riflessivo armonico (una possibile risposta potrebbe essere “vediamo cosa c’è che non funziona”). Questo atteggiamento, sostiene l’idea del genitore che qualcosa non va come dovrebbe andare, ma allo stesso tempo rimanda al genitore l’idea di genitore competente. È bene quindi portare l’attenzione dei genitori sulle “coordinazioni errate”, su ciò che non funziona e su come ciò che non funziona viene riparato. L'efficacia della riparazione spesso non è riconosciuta ai genitori, in quanto troppo coinvolti nella fatica e nella paura di non aver fatto bene. La metodologia della LTP (Lausanne Triadic Play) torna utile per operare l’analisi delle interazioni tra i componenti della famiglia e si basa sull’osservazione dei componenti della famiglia in azione, impegnati in un compito strutturato. Le immagini offerte dai video offrono la possibilità di fissare le immagini e le interazioni in movimento permettendo di guardarle in più momenti e di giocarci attraverso distorsioni, com-posizioni, tagli, bricolage. Si porta quindi l’attenzione dei genitori sui momenti in cui si riconoscono poco competenti o inadeguati nel loro compito e li si spinge a osservare anche i feedback che gli altri componenti danno di quei determinati comportamenti. Questo evochiamo continuamente questi processi, che sono presenti in ogni messaggio che formuliamo. PNL (programmazione neurolinguistica): è un approccio alla comunicazione ideato negli anni 7o del XX secolo da Bandler e Grinder. Il nome deriva dall’idea che ci sia una connessione tra processi neurologici (neuro), il linguaggio (linguistico) e gli schemi comportamentali appresi con l’esperienza (programmazione). Questi schemi comportamentali possono essere organizzati per raggiungere specifici scopi nella vita. La PNL si fonda sul feedback, che può essere intenzionale (parole) o spontaneo (non verbale, sobbalzo...). il circuito di feedback è l’elemento fondamentale nell’analisi della comunicazione interpersonale. I fraintendimenti più comuni nella comunicazione sono provocati da incongruenze tra il livello verbale e il livello extraverbale. Nel comunicare è necessario prendere coscienza del fatto che la realtà è diversa dalla rappresentazione, rispettando comunque il pensiero altrui. Le tipologie di approccio relazionale che usiamo sono principalmente: quella sintonica (tende a valorizzare i punti in comune tra i parlanti. L'interlocutore si sente a suo agio e scopre una base comune di esperienza con chi gli sta di fronte) e distonica (la comunicazione mostra un bassissimo livello di efficacia, le posture, le parole sono di chiusura e allontanamento). Ognuno di noi trae informazioni dall’ambiente e le traduce in esperienze soggettive, che acquistano per l’individuo un preciso significato, il quale a sua volta determinerà un comportamento. Le informazioni sono raccolte da tutti i canali ma ogni persona si rappresenta il mondo usando principalmente uno dei tre (visivo, uditivo, cenestesico). Uno dei modi meno immediati per rappresentare l’esperienza è la parola. Le parole per essere comprese devono essere in relazione al modello del mondo della persona a cui ci si rivolge. Un concetto importante della PNL è quello di Rapport= processo attraverso il quale si stabilisce e mantiene un buon rapporto interpersonale, di fiducia reciproca. Rispecchiamento (riproporre le modalità del nostro interlocutore. Es : ricalco non verbale...postura, respirazione) e armonizzazione rappresentano i punti di partenza per mettersi sulla stessa lunghezza d’onda dell’interlocutore. Calibrazione è quando ci sintonizziamo con una persona usando il suo stesso vocabolario verbale. Il film è uno strumento utile per l’addestramento all’osservazione in quanto: racconta una o più storie in maniera efficace, permette di esaminare uno “spaccato di vita” a più livelli e punti di vista (regista, personaggi) e consente di rivedere le sequenze quando si vuole. Vedere uno spezzone di un film senza audio costringe gli spettatori a completare i dati visivi facendo riferimento alla propria esperienza: per dare un senso è necessario chiudere i vuoti, anche aggiungendo informazioni che in realtà non ci sono ma che appaiono coerenti con il tutto. Togliere l ‘audio è quindi efficiente per evocare diverse letture dal punto di vista personale. Per costruire una nuova storia, la nostra, devo pormi in una postura creativa rispetto alla mia storia. Questo è il processo del con-vivere = portare la mia visione di famiglia ma intanto costruirne una nuova. Il film mostra come nelle storie familiari alcuni eventi diventino miti e copioni, costruiti e mantenuti da precisi passaggi comunicativi. Le relazioni intergenerazionali possono, con il tempo, costruire, confermare e modificare i miti e i copioni familiari. Per Daniela Gini, la famiglia è un gruppo di individui con storia che mentre si fa si disfa, per permettere a ciascuno di sviluppare la propria individualità e realizzare quindi la propria vita. L'uso del mezzo audiovisivo permette quell’utile distanza che serve per addestrarsi all’osservazione. Gli studenti sono poco addestrati ad osservare, mancanza forse dovuta a un’overdose del mezzo visivo. il processo osservativo può essere mirato a diversi livelli:  Primo livello: far emergere i pregiudizi --> il film in questo senso è efficace perché la sequenza che si osserva è uguale per tutti, l’audio è spento per tutti e ciascuno proietta un po' di sé in quello che vede. Il confronto tra le diverse visioni e punteggiature rende palesi i pregiudizi. Fare emergere i pregiudizi è importante: se sono consapevole di come la penso, posso più facilmente riconoscere quando attribuisco all’altro qualcosa che invece viene da me.  Secondo livello: ricostruire i processi interattivi e comunicativi tra i personaggi --> l’80% della comunicazione non è verbale, quando poniamo tanta attenzione al contenuto verbale, la comprensione di quello che sta accadendo si riduce tantissimo. Tolto l’audio, si può approfondire lo studio della postura, dei gesti, dei modi di porsi, del modo di incontrare l’altro, la danza delle interazioni...  Terzo livello: affinare le tecniche di comunicazione --> per lavorare su questo obiettivo si può usare la PNL che pone l'accento sulle capacità creative e organizzatrici della nostra mente inconscia --> offre strumenti di lettura del non verbale, questa lettura riguarda sé, ancora prima dell’altro. La visione del film è un modo per chiedere agli studenti di mettersi in gioco: la formazione universitaria offre molta teoria ma sarebbe utile che fosse sempre accompagnata da micro-sperimentazioni, per permettere ad ognuno di imparare ad affinare abilità e competenze --> i film diventa uno strumento di addestramento dello sguardo: può essere considerato come l’ABC per la costruzione del processo osservativo, soprattutto del non verbale, all'interno di un processo relazionale interattivo. Per entrare in modo efficace in relazione con l'altro, devo essere in grado di utilizzare il canale percettivo primario dell’altro. Osservare un film mi può rendere più competente nel riconoscere il canale percettivo primario sia mio che dell’altro. Cecchin dice che “le persone non sono libere, ma hanno la libertà di scegliere in quale prigione stare”. Il vincolo dell’essere se stessi, se ci si conosce, può diventare una risorsa. Grazie all’addestramento sull’osservazione è possibile riconoscere le modalità con cui entriamo in rapport. Una volta capito ciò e esserci adattati al canale percettivo dell'altro, potremmo accedere al suo mondo. CAPITOLO 6 Posizionamenti estetici e ricerca della bellezza, Andrea Prandin Il riconoscimento reciproco, la possibilità di essere visti e ben raccontati dai propri familiari è un bisogno che in qualche modo e con regole semantiche specifiche di ogni micro-cultura familiare accompagna la vita di ciascuno. Lavorare con le famiglie significa dunque portare l’attenzione sugli aspetti di narrazione e sul tipo di storie che reciprocamente i vari membri della famiglia si raccontano per definir se stessi e gli altri. Partire dalla domanda “Che storie si raccontano?” nel lavoro educativo con le famiglie significa avviare un percorso aperto di ricerca e di posizionamento mentale in cui l’attenzione dell’operatore non è volta a rintracciare le idee, immagini e l’organizzazione del linguaggio e ei significati di ogni storia raccontata. Spostare l’attenzione dalle dinamiche interattive a quelle narrative significa prima di tutto accettare l’idea che storie e narrazioni rappresentano uno strumento di (auto)formazione e (auto)conoscenza molto potente. Sono i racconti generati nelle e dalle pratiche educative a definire le appartenenze, i significati, i confini del sistema familiare, l’identità di ciascuno, l’identità della famiglia. Le storie hanno effetti pragmatici molto concreti sulla nostra vita. Un rischio educativo che emerge è che la famiglia venga rappresentata attraverso narrazioni fisse, dove ogni apprendimento sembra da escludersi; un “divenire umano” non può essere visto o raccontato una volta per sempre. Una delle più importanti funzioni della memoria famigliare è la riflessione formativa: “La riflessività diventa autoformazione quando interrompe la riproduzione automatica del passato, genera distanza dalle storie tramandate, innesca cambiamenti.” (Formenti) È l’atto del riconoscimento che definisce la bellezza, in quanto si tratta di pensare la bellezza non come qualcosa che sa “di fronte” a noi, ma come qualcosa che è in relazione a noi e ci parla anche a noi. Essere sensibili alla dimensione estetica significa ricercare un atteggiamento mentale fondato sul potenziale curativo della circolare presa di coscienza, dell’operatore e della famiglia, che ogni storia è colma di interesse. Significa avere la profonda convinzione che ogni vita è un romanzo, che ogni vita merita un romanzo. Il rischio più grande è quello di cadere nella trappola del “ma in questo caso non è possibile, in questa storia non c’è bellezza...” Parlare del sacro nel lavoro di cura educativa significa dar voce ed evocare aspetti e forme dell’esperienza umana che la sola verbalizzazione e il pensiero logico faticano a com-prendere e di-spiegare; le parole spesso non bastano. L’immaginazione e la funzione simbolizzante dell’immaginazione nel lavoro con le storie di vita possono, molto più spesso e più rapidamente delle parole aiutare a riconoscere la complessità e la bellezza di cui ogni storia è portatrice, per onorarla e per celebrarla ancor prima di volerla cambiare. Permettono di rintracciare lo straordinario tra le quinte dell’ordinario. La logica fantastica e il ricorso alla simbolizzazione non sono operazioni straordinarie, ma accompagnano continuamente la nostra vita, specialmente nelle relazioni più intime; la logica fantastica e simbolica è quella in cui viviamo abitualmente e ogni tanto usiamo la logica razionale per poter coordinare le nostre azioni con quelle degli altri. L’operatore assiste, aiuta, accompagna la nascita dei simboli e delle connessioni che essi suscitano. CAPITOLO 7 Tra micro e macrostoria: lo sguardo biografico per comprendere la vita familiare, Laura Formenti L’approccio biografico e auto-biografico, soprattutto quando diventa plurigenerazionale, è una via per comprendere l’unicità della cultura di ogni famiglia; allo stesso tempo ci permette di vedere le connessioni tra il singolo sistema familiare e il contesto più ampio. Le narrazioni familiari ci aiutano a comprendere come cambia la vita quotidiana e come cambiano le relazioni, non solo per fattori interni a quella famiglia, ma per l’influenza delle determinanti sociali, delle appartenenze di classe, territoriali, dei ruoli di genere. Le storie, nella pedagogia della famiglia, possono offrire sia un modo di leggere le trasformazioni della vita familiare sia un metodo di intervento educativo. Il concetto di “costruzione biografica” dice che la vita è vissuta in presa diretta, per poterle dare senso dobbiamo guardarla retrospettivamente; solo le storie che raccontiamo ci aiutano a costruire tale senso. Alheit identifica la “transizione” come cifra della vita contemporanea su scala planetaria, che porta con sé la conseguenza dell’apprendimento, non più facoltativo o estemporaneo, ne puramente strumentale. Si tratta infatti di imparare come affrontare le transizioni. Da questi concetti deriva la “biograficità”: noi possiamo riprogettare continuamente, dalle basi, i contorni della nostra vita dentro i contesti specifici nei quali viviamo e sperimentiamo questi contesti come plasmabili e progettabili. Per West l’approccio autobiografico è centrato sulla creazione di: spazi transizionali e transazionali, cioè spazi tra le persone. Se la qualità dello spazio transizionale è sufficientemente buona questo apre possibilità. Negli spazi transazionali le persone iniziano a considerarsi competenti, capaci di apprendere, sviluppano un approccio critico. Per comprendere l’impatto della dimensione biografica sulla vita familiare, e viceversa, ci è necessaria la “immaginazione autobiografica”, cioè la capacità di comporre sguardi multipli, andando oltre le nostre cornici disciplinari e professionali. L’introduzione degli elettrodomestici nella vita di tutti i giorni e di tutte le famiglie è solo un esempio di come il mondo esterno entra continuamente nel microcosmo familiare. Un altro esempio è l’impatto della scolarizzazione dei figli. A ogni nuovo ciclo generazionale, relazionarsi con la scuola è uno dei modi, per la famiglia, di aprire i propri confini, di rimettere in discussione i paradigmi consolidati. Analogo discorso vale per la medicalizzazione e la tecnicizzazione delle cure, a partire dal parto. Per dare significato alla vita famigliare, per dirci “siamo noi”, abbiamo bisogno di costruire ricordi condivisi. Alla metà del secolo scorso, tecnologia significava soprattutto maggiore comfort e nuovi standard nel lavoro domestico; questo cambiò le relazioni e i compiti casalinghi. Esercitò una funzione rilevante nella creazione della famiglia contemporanea, presa tra 2 immagini: quella della famiglia consumatrice e quella della famiglia sentimentale (fondata sul piacere di stare insieme). Le storie che raccogliamo ci aiutano a ricordare che lo scenario cambia continuamente e le soluzioni creative che ogni famiglia mette in atto, sono una combinazione di adattamenti che permette di stare al passo con i tempi pur mantenendo un’identità, una coerenza. La tecnologia non è che una delle dimensioni dei cambiamenti sociale e culturali in atto. Molti studiosi si soffermano sui cambiamenti strutturali del “far famiglia”, perché coinvolgono il piano etico e politico. Si verifica un forte aumento delle famiglie monoparentali, delle coppie di fatto, delle separazioni e dei divorzi, delle famiglie omogenitoriali, che portano alla ricostituzione di nuovi legami familiari più complessi e creativi. La vera urgenza dei nostri tempi è quella educativa: l’educazione è un processo che avviene continuamente nella famiglia, per lo più inconsapevolmente attraverso l’immersione quotidiana nel modelli comunicativi, negli stili di vita, nelle storie condivise. Il concetto di “ciclo di vita familiare” oggi diventa controverso perché è andata in frantumi la regolarità e sequenzialità delle tappe, la loro durata e soprattutto i significati che si attribuiscono ai vari movimenti. Questo cambiamento non è omogeneo. Vediamo coesistere modelli e stili di vita differenti nella stessa area geografica, nello stesso condominio, a volte nella stessa casa. Questa diversificazione crescente di strutture e stili di vita è una sfida per l’educazione. La “famiglia in disordine” (Roudinesco), fondata sui sentimenti e sulla libertà individuale, richiede un surplus di negoziazione che non era necessario alle generazioni precedenti, per le quali tutto poteva apparire scontato. C’è il rischio di una eccessiva idealizzazione: la famiglia appare come lo scenario nel quale esprimersi in modo autentico e avere un reale potere d’azione. Le relazioni oggi sono sopravalutate, ma paradossalmente ciò accade in uno scenario che ha per regola l’individualizzazione. Il disordine testimonia quanto sia alto il desiderio di famiglia; le storie ci dicono quali apprendimenti vengono realizzati, a vari livelli. Come si impara oggi la famiglia? Il circo multimediale offre continuamente storie e punteggiature che funzionano come teorie pret-a-porter: telefilm, talk show, film sulla famiglia diversa. Con i new media le cose sembrano diverse: c’è l’interazione e una possibilità di contaminazione, di trasformazione dei punti di vista. Inoltre queste tecnologie influenzano le relazioni familiari in modi prima impensabili: oggi, ad esempio, è possibile comunicare dal vivo a distanza. Eppure tutta questa massa di informazioni e di possibilità non sembra rendere le famiglie di oggi più funzionali e più felici; la sensazione prevalente resta quella dell’incertezza e della vulnerabilità. Oggi è necessario prendersi cura del proprio apprendere ad apprendere, è la competenza propria dei nostri tempi, che indica non solo la capacità di apprendere per tutta la vita, ma di prendersi cura di sè, degli altri, del proprio apprendere e della capacità di apprendere. La caratteristica più evidente della cultura familiare contemporanea è la “vita privata”, un’invenzione recente fatta di rituali domestici, compiti ripetuti, spazi connotati. La privatezza della casa, della vita intima, richiede nuovi spazi, organizzati in modi più complessi e raffinati del passato. A questi corrisponde il cambiamento dei reciproci ruoli dei membri della famiglia. Si pensi ad esempio a come cambia Parte Seconda Introduzione Azioni cruciali nei servizi: verso un sapere incarnato, dinamico, riflessivo. Laura Formenti I servizi educativi sono spesso presentati con sigle o nomi apparentemente inequivocabili: parole come “tutela” o “assistenza” sembrano denotare in modo molto chiaro i valori e le finalità dell’intervento, cosi come l’utilizzo del termine spazio o domiciliare indica il luogo nel quale avviene. Altre parole definiscono l’utenza, che è quasi sempre individuale, debole incompetente, ignorante (quindi bisognosa) e per lo più ridotta a una sua caratteristica specifica, quella che giustifica l’intervento: il minore, il genitore affidatario, la signora separata, il padre disoccupato...non sono persone a tutto tondo ma funzioni che devono essere aggiustate. Le parole veicolano premesse. La premessa più potente in questi casi è quella del deficit. I soggetti sottoposti a intervento educativo sono visti già in luce negativa. Ciò che fa un servizio non è nel suo nome ma nelle sue pratiche, nei processi che realizza. Se si tratta di un servizio educativo, parliamo di processi trasformativi. Diventa quindi indispensabile passare dall’epistemologia dei nomi e delle definizioni a quella delle azioni e delle storie. Attuare il “pensare per storie” di cui parla Bateson. In queste pagine cercheremo di analizzare le premesse che guidano il lavoro educativo. Ogni tipo di intervento presenta vincoli: strutture fisiche e gerarchiche, norme, indicazioni operative. Queste specificità rendono possibili alcune azioni, difficili o impossibili altre. Ogni luogo di lavoro cosi come ogni famiglia incarna inoltre un paradigma, un modo di definire la realtà, i problemi famigliari, il lavoro educativo. Quello che fa apparire sistemico un certo modo di agire in educazione è la presenza di azioni che denotano un certo tipo di pensiero. Non è un pensiero applicativo (che cerca di verificare idee e teorie nella prassi) ma un pensiero operativo (pensiero che si manifesta dentro ad un’azione, attraverso processi). Dobbiamo imparare a riconoscere le teorie insite nelle nostre azioni, le abitudini mentali, le posture, i pregiudizi incarnati nei nostri interventi (le premesse). In ogni capitolo vengono raccontate esperienze e pratiche. C'è una differenza tra le due. Il racconto d’esperienza è più centrato sull’autore come persona che ha vissuto quella determinata situazione. Le sue percezioni, vissuti, emozioni. Il racconto della pratica mette al centro l’azione agita: che cosa fa o crede di fare l’operatore, come lo fa, quali risposte riceve e che uso ne fa, quali ulteriori azioni ciò produce e così via. Entrambi i racconti confluiscono in una riflessività che nasce dall’azione stessa del raccontare: ricostruire gli eventi in modo sincero richiede che si scelga una punteggiatura, è quindi un invito a pensare, a dare una punteggiatura, un senso. La prima tesi è che il sapere educativo è sempre incarnato e relazionale. Il sapere educativo è composto almeno da tre livelli: soggettivo, relazionale e istituzionale. Il racconto è la via più immediata e coerente per accedere ai saperi dell’educatore. Ogni episodio specifico/storia a cui assiste l’educatore, funge da exemplum= un esempio. L'esempio in gergo comune riduce la complessità, illumina a posteriori la teoria ma non la sfida. In ambito educativo, essendo che la teoria è incarnata nelle pratiche educative, il racconto diventa l’unico modo sensato per comprendere e ricostruire a posteriori la teoria. Ogni storia, ogni episodio è unico e nasconde specifiche teorie. Dobbiamo imparare a muoverci nell’esempio: in ogni storia c’è un prologo, uno svolgimento, un epilogo (seconda tesi). Anche il raccontare è un movimento che genera a certe condizioni un pensiero che smuove l’azione. L'agire sistemico non è mai passivo e il lavoro educativo è policentrico: i target cambiano continuamente (individui, famiglie, reti allargate). La terza tesi è la riflessività come postura abituale del professionista. La riflessione è una pratica di cura di sé e dell’altro. La riflessività sistemica è circolare e relazionale: non è la singola mente che si interroga privatamente ma un andirivieni tra sé e l’altro, un dialogo tra fatti e significati, tra azioni e teorie, tra ciò che osserviamo e le conversazioni che possono nascere da quelle osservazioni. Quando l’azione si blocca e la creatività viene meno, quando le relazioni professionali incontrano momenti critici, avere una buona teoria serve, offre mappe, suggerisce nuove piste di lavoro. Questo modo di usare la teoria ci rende attivi. (osservazione, pratica, riflessività sulla pratica, teoria). CAPITOLO 1 Movimenti: il lavoro educativo con la famiglia, Laura Formenti. Lavorando con le famiglie potremmo trovarci in situazioni che generano un circuito riflessivo. Es: ci troviamo a casa di una famiglia, dobbiamo fare una chiamata e la mamma ci chiede se possiamo fare noi quella chiamata. Questa richiesta nasconde un messaggio di primo livello (la richiesta di fare la chiamata) e uno di secondo livello “tu educatrice sei più capace di me”. L'educatrice in questo caso si trova in un circuito riflessivo (i due livelli stanno in una relazione intransitiva). Ogni educatore lavora su situazioni che sono “naturali” fino a quando non interviene un ostacolo: è nel momento della crisi che si rende necessario l’apprendimento, il cambiamento. Gli interventi attuati dall’educatore di fronte prendono il nome di scaffolding quando l’allievo esegue il compito con l’assistenza dell’esperto o di fading se l’allievo procede autonomamente e l’esperto fornisce solo suggerimenti. (nel caso della richiesta di fare la telefonata da parte della madre, l’educatrice sceglie che sarà la figlia a fare la chiamata, con il suo aiuto. Siamo a metà tra fading e scaffolfing). Ogni azione che l’educatore sceglie di fare deve avere in sé tanta sapienza, dobbiamo sempre tenere presente che dietro ogni azione che facciamo c’è sempre anche apprendimento cognitivo da parte dell’utenza. Lo scaffolding è un processo relazionale reciproco: non si tratta solo di “offrire sostegno”, c’è un processo comunicativo fatto di azioni e reazioni circolari. L'educatrice offre una struttura che però non sorregge la persona, come sembra suggerire il linguaggio di certi servizi, ma le azioni. Nessuna azione, nessun pensiero avrebbe senso se fuori contesto. Quando parliamo di contesto nel lavoro con la famiglia intendiamo tante cose diverse. C'è un contesto sociale, o meglio, una rete di relazioni significative fluida e continuamente ridefinita: alcune relazioni sono silenti, altre si accendono o si smorzano, alcune sono conflittuali altre molto appaganti, ci sono relazioni prossimali (persone che mi vedono e mi conoscono) e istituzionali (operatori delle diverse agenzie che hanno a che fare con la famiglia). Ci sono anche relazioni del passato che continuano ad agire come se fossero presenti. I soggetti sono parte attiva di tutte queste relazioni. La circolarità delle comunicazioni, dei feedback, definisce il contesto, da senso a ciò che accade tra le persone. Un educatore sa come muoversi tra le relazioni degli utenti, come prendersi cura dei legami, riconoscendoli e rendendoli visibili. Per riuscirci, deve fare quella che i sistemici chiamano analisi del contesto, cioè una riflessione che risponde alla domanda: dove siamo? Un aspetto più specifico del contesto sociale è il contesto istituzionale, ovvero il luogo concreto nel quale avviene l’intervento educativo. Il contesto istituzionale è formato da cornici politiche e semantiche, che definiscono cosa può e non può accadere in termini di circostanze. Ciò che si fa in quel servizio ha senso in riferimento alle sue cornici. Non si può lavorare fuori contesto. La tendenza umana a fondare contesti nasce dal desiderio di prevedere cosa farà l’altro. Se ogni soggetto si aspetta dal contesto qualcosa di diverso, ci sarà troppo disordine per accogliere una trasformazione. Se i sistemi di attese sono coerenti e allineati l’intervento educativo potrà attuarsi con utilità. L'analisi del contesto serve dunque per realizzare una com-posizione delle cornici e creare comunicazioni propizie alla trasformazione. È utile a tal proposito interrogarsi sulle caratteristiche costitutive del servizio di cui siamo parte, dobbiamo mezzo del punto critico delle storie e porta al lieto fine. Il rischio di sposare questa visione è lavorare come se fossimo macchine, dove tutto è progettato prima e anche le relazioni tra i vari componenti sono prevedibili. Ciò non è uno scenario possibile. Non possiamo mai avere la certezza di arrivare e portare il lieto fine. Questo perché il sistema famigliare non è un sistema complicato (= sistemi costruiti da esseri umani) ma un sistema complesso (= sistemi che si programmano da sé e hanno un loro autonomo punto di vista, un loro modo specifico di accoppiamento con l’ambiente) e per queste ragioni, mai conoscibile e controllabile dall’esterno. Quando abbiamo a che fare con servizi per la tutela di minori dobbiamo tener sempre presente che non possiamo rinunciare alla dimensione relazionale. Anche quando l’intervento è fatto di separazioni e semplificazioni dobbiamo sempre tenere in considerazione che la separazione tra esseri umani non ha mai un significato anestetico, al contrario, apre sempre a nuove emozioni, nel bene o nel male. Quando ci poniamo in relazione con una storia, dobbiamo essere pronti a dare spazio a qualsiasi evenienza. Negli anni 70, a partire da una critica radicale alle istituzioni totali e ai loro effetti sugli esseri umani, si avviò il processo di de-istituzionalizzazione, tesi a superarle. Riguardando tutti i servizi socioassistenziali, tale processo portò anche alla chiusura degli istituti minorili, anche per il grande eco che avevano avuto gli studi del neuropsichiatra Spitz sulle conseguenze nefaste dell’ospedalizzazione dei bambini. Goffman partendo dal presupposto che l’uomo tende a dormire, divertirsi e lavorare in posti differenti tra loro, accompagnandosi a persone diverse e rispondendo a diverse autorità, ha posto in luce come la caratteristica principale delle istituzioni totali possa essere ritenuta il fatto che esse rompono le barriere che normalmente separano queste tre diverse sfere di vita. Il superamento di orfanotrofi portò alla nascita di comunità per bambini e di quelle mamma-bambino. Realtà più piccole, meno rigide e più aperte alla trasformazione, almeno nelle intenzioni. Vivere in comunità non è però privo di elementi istituzionali: si tratta infatti di servizi organizzati ad hoc, dove si arriva spesso per obbligo e dove occorre organizzare un setting specifico che fornisca un contesto necessario alla trasformazione. Alcuni elementi tipici delle istituzioni totali si trovano anche nelle comunità:  Gestire il potere  Regolare la vita dei singoli e dei gruppi  Assicurare equità di trattamento  Mantenere distacco tra le vite dei professionisti e quelle degli ospiti  Segnare la differenza tra il dentro e il fuori, tra il prima e il dopo del servizio  Richiamare all’autorità giudiziaria come riferimento imprescindibile che fissa le premesse e le conseguenze di quella permanenza Sono elementi che richiedono un’attenzione e una cura costanti. È importante mostrare ai soggetti che i limiti della logica comunitaria possono essere occasioni di apprendimento. Parlare di “tutela” spesso non rende ben chiaro l’obiettivo che i servizi di “tutela minorile” hanno. Infatti, tutela significa “senza rischio” e ciò può indurre a interventi limitanti, preservativi, chiusi. Invece, gli interventi per ogni famiglia possono essere pensati non sulla base della “riduzione del rischio” ma sul riconoscere la fase che quella famiglia sta attraversando in quel momento, sapendo che sempre possono esserci evoluzione in ogni direzione. Genitori liberi o coatti? I servizi di tutela sono solitamente caratterizzati da un significato coattivo (imposti per forza): la presenza del tribunale che obbliga, non può essere considerata secondaria. La forzatura però, non aiuta la famiglia a fare un salto evolutivo. Ciò non toglie che anche nelle situazioni obbligate si possano individuare e promuovere spazi di libertà. La madre ad esempio, può decidere di non aderire al collocamento in comunità e in questo caso viene portato in comunità solo il figlio. Questo significa che ogni donna in comunità, pur in una situazione apparentemente obbligata, ha scelto di starci. Si tratta di organizzare nelle comunità spazi in cui le mamme possano prendere parte alle decisioni della comunità, renderle partecipi. Anche la gestione delle regole all’interno delle comunità acquisisce un senso molto diverso in base a come viene posta. Un regolamento può essere scritto da altri e accettato passivamente o diventare un patto, sottoscritto da tutti e che può variare nel tempo. Intervenire subito o dare tempo? Gli operatori per la tutela dei minori si trovano spesso a chiedersi se intervenire subito o se dare tempo. Posizioni contrapposte. È sempre utile porre in relazione la quantità del tempo con la qualità di ciò che avviene in quel tempo, soprattutto nelle relazioni. Nel caso in cui si verificasse una situazione di cronicizzazione (= nel tempo la relazione non si trasforma) , intervenire subito non significa sottrarre tempo ma aiutare ad apportare un nuovo sguardo sul problema. Prevedere l’imprevisto negli instabili equilibri: essere in equilibrio è una condizione che può dirci molto sullo stato precario delle famiglie, ma anche su noi che lavoriamo con le famiglie. La posizione umana ci pone in bilico e il rischio è quello di cadere. Se noi lavoriamo con l’obiettivo di non cadere mai non riusciremo ad avere successo. Dall'altra parte, una brutta caduta può farci perdere la vita. Sottovalutare l’effetto della caduta potrebbe risultare mortale nella tutela dei minori e della loro famiglia. È opportuno tenere presente che non possiamo sapere a priori quale sarà l’equilibrio migliore, certamente dovremmo cercare di attenuare gli effetti del passaggio tra un equilibrio e l’altro ed evitare la caduta. Non possiamo quindi prevedere cosa succederà, ma possiamo provare a prenderci cura delle relazioni. Anche se dovesse capitare un imprevisto, dovremmo imparare da esso: spesso gli imprevisti, le cadute, ci fanno capire che abbiamo un legame con l’altro (es: durante una ferrata, non capisco che sono legato all’altro fino a quando non cado e sia io che l’altro percepiamo la presenza della corda che ci tiene uniti). L'imprevisto può farci attribuire nuovo senso ai legami, può farceli ri(scoprire). Da operatori possiamo prevedere che l’imprevisto potrà far luce su legami presenti e possibili, sarà il vero spazio educativo di quella, di questa nostra storia. (P.244-245 racconto) CAPITOLO 3 Tracciare le connessioni: l’ADM come questione di famiglia, Mara Pirotta Poter interagire con la famiglia all’interno dei propri ambienti permette di co- costruire nella quotidianità delle strategie e modalità interattive resistenti nel tempo, in grado di continuare anche dopo l’uscita di casa dell’educatore. Condizione perché questa trasformazione avvenga è la curiosità, un posizionamento che consente ai percorsi educativi di prendere avvio dalle caratteristiche di quella famiglia, dalla conoscenza della sua storia, con i suoi vincoli e le sue possibilità. L’ADM è una questione di famiglia, in cui tutti sono chiamati a mettersi in gioco. Anche l’educatore, che solo apparentemente lavora in solitudine, si mette in gioco a livello professionale e personale, in quanto il punto di partenza del suo agire è proprio la relazione, l’alleanza possibile con la famiglia. I pregiudizi relativi all’ADM riguardano non solo quello che viene richiesto all’educatore, il suo mandato, ma anche il modo di considerare il bambino e la famiglia nell’intervento educativo, il modo di dare senso alle relazioni tra i diversi attori sociali coinvolti nell’intervento e con la rete più allargata. Il termine ADM viene usato di volta in volta per indicare in maniera approssimativa e generica interventi molto diversi, che hanno come oggetto il minore, ma poi assumono sfaccettature e connotazioni differenti. La famiglia, secondo la lente che si sceglie, “Chiamare in causa tutti i componenti della famiglia in questo lavoro significa dare voce a tutti, riconoscere la parte attiva di ciascuno nel gioco in atto.” (Formenti) Nell’epistemologia sistemica, valorizzare le relazioni non significa perdere di vista la soggettività e l’unicità dei singoli individui; ogni individuo è in sé un sistema complesso di parti interagenti e interconnesse, da riconoscere e celebrare nella sua integrità. Ma allo stesso tempo nessun individuo può intendersi come isolato. Compito dell’operatore è da un lato trovare le strategie per potenziare le risorse e dall’altro co-costruire insieme alla famiglia delle risorse nuove, dei percorsi possibili e percorribili che la famiglia possa sentire come propri e portare avanti anche quando l’intervento educativo terminerà. Il processo di co-costruzione del senso dell’intervento necessita di chiarezza e trasparenza. Tendiamo a definire “educativi” tutti quei contesti in cui la famiglia entra in contatto con servizi e operatori le cui professionalità hanno come obiettivo il cambiamento. È proprio la storia della famiglia, le modalità con cui i membri del sistema la raccontano, la base da cui partire per co-costruire nuove storie e nuove narrazioni. In gioco non c’è solo l’aspetto professionale, ma quello personale: anche l’educatore è chiamato a interrogare se stesso, a mettersi in discussione, a modificarsi e questo può generare fatica, sofferenza. È proprio dall’impegno al reciproco riconoscimento e alla reciproca valorizzazione che dovrebbe prendere avvio un intervento educativo come quello domiciliare. CAPITOLO 4 Comporre i legami messi alla prova dal carcere, Lia Sacerdote L’esperienza all’interno del carcere di Lia Sacerdoti l’ha portata ad una crescita personale e professionale che ha le sue radici nel desiderio di cura. È qui che è nata la sua scelta di trasformare un intervento nato come individuale in una pratica strutturata, rigorosa e riconoscibile dentro linee-guida precise di pensiero e d’azione; una scelta che ha portato alla fondazione di Bambinisenzasbarre Onlus, un’impresa sociale che oggi impegna psicologi, analisti filosofi, pedagogisti, arte- terapeuti, tirocinanti e volontari appassionati che ha attraversato da testimone attiva il decennio di trasformazioni , nell’ambiente penitenziario e non solo. L’arresto del genitore è un momento tipico che spezza i rapporti e mette in pericolo i legami. I primi ad esserne vittima sono i figli e il nucleo familiare, violato nella sua interezza e organizzazione. Il carcere, dove i legami si interrompono per legge, sembrerebbe non consentire alcuna ricomposizione. Eppure è proprio il luogo dove questo intervento è vitale e necessario. Lo è per i figli, che devono poter mantenere i contatti con il genitore detenuto, comprendere ciò che è accaduto, ritrovare i punti cardinali per orientarsi e fare le proprie scelte quando sarà il momento. Lo è per il genitore che resta a casa a occuparsi della famiglia rimasta orfana, spesso senza l’unico sostegno anche economico che permetta la sopravvivenza e in un contesto sociale che può espellere che semplicemente “non ce la fa”. Lo è per la comunità che, in un’ottica di prevenzione, ha tutto l’interesse a salvaguardare una parte vitale e strutturale dei suoi stessi legami. Il progetto di cura che più immediatamente appare possibile e forse necessario è il ricongiungimento: da quello più immediato, cioè il colloquio in carcere, a quello più lontano nel tempo, un ritorno a casa dove sia possibile riprendersi la vita. La carcerazione determina una catena di eventi che la famiglia subisce e vive per lo più in solitudine. Pratica compositiva: è compositiva per i diversi piani psico-socio-educativi che integra, ha come obiettivo concreto di ri-connettere i legami interrotti. È una pratica sostenuta da una posizione etico-filosofica che guarda alla comunità sociale in una prospettiva solidale e inclusiva, dove la composizione assume il valore di prevenzione sociale e protezione dei diritti dell’infanzia, che resta la parte più debole e più a rischio quando l’ambiente sociale non si fa carico dei suoi bisogni fondamentali. Tra questi, il mantenimento dei legami con i genitori è primario, un diritto sancito dalla Carta internazionale dei Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza all’articolo 9. Il carcere radicalizza tutti i temi della famiglia che incontriamo anche fuori, estremizzandoli. I bambini che entrano in carcere ogni anno per incontrare un genitore detenuto sono circa 100000 in Italia e 1 milione in Europa. Il colloquio è un momento prezioso e cruciale per la cura del legame. La famiglia rappresenta non solo un sostegno detentivo importante durante la detenzione, ma l’ambito in cui la persona detenuta può trascorrere parte della pena, quando vengono adottate misure alternative al carcere (esempio: detenzione domiciliare). L’Area Pedagogica degli istituti di pena ha tra i propri obiettivi la promozione della responsabilità genitoriale. Il recupero della relazione con i figli sembra portare la persona detenuta, attraverso l’assunzione di responsabilità, a ritrovare una motivazione al cambiamento. Al sostegno dei rapporti familiari viene riservata una particolare attenzione nell’ordinamento penitenziario italiano: una prima svolta ci fu nel 1975 con l’approvazione della legge 354 che marcava il passaggio da un sistema repressivo al riconoscimento della finalità rieducativa e risocializzante della pena. Le tappe di riforma successive si concentrano su misure alternative alla detenzione, con la legge Gozzini e successivamente la Simeone-Saraceni e il Regolamento sull’ordinamento penitenziario, per arrivare alla recente legge Finocchiaro che ha introdotto la “detenzione domiciliare speciale” per le madri con figli al di sotto dei 10 anni, anche per pene superiori ai 4 anni purché non sussista la possibilità di commettere ulteriori reati e sia stato scontato un terzo della pena. Quest’ultima ha inoltre permesso l’uscita diurna dal carcere con rientro la sera, per lavorare, aggiungendo del tempo in più di permanenza all’esterno per accudire i figli minori. Nel 2014 viene approvata una legge di modifica nata dall’esigenza di far uscire i bambini dal carcere senza separarli dalle madri; questa modifica consente alle madri con bimbi fino a 6 anni di scontare la pena in un luogo diverso, sia esso l’abitazione o una casa di accoglienza. In mancanza di misure alternative al carcere, oggi i bambini possono vivere in detenzione con la madre fino ai 3 anni d’età, poi viene imposta la separazione forzata (evento traumatico). Nel 2009 venne pubblicata una circolare dell’Amministrazione penitenziaria rivolta a tutto il personale addetto ai colloqui, rinominato “Circolare del sorriso” perché tra le linee guida che contiene c’è anche l’invito a sorridere, nell’intento di sollecitare un ambiente più adatto alla presenza dei bambini e attento ai loro bisogni. L’intervento di Bambinisenzasbarre combina 2 dimensioni: la responsabilità contenuta nel mandato istituzionale e il rispetto dei suoi vincoli, e la flessibilità e la creatività dell’appartenenza al privato sociale, con la possibilità di fare ricerca, innovazione e sperimentazione nel lavoro di cura; la mediazione è lo strumento chiave che consente di affrontare le specificità della comunicazione che si attiva in questo contesto, una comunicazione dove ci si sente tutti più scoperti. Il carcere è il racconto della separazione. Quella dai figli è la più dolorosa, che sollecita negli operatori sentimenti e reazioni chiedendo di individuare una giusta vicinanza per entrare nella storia di quella famiglia con sufficiente equilibrio. Nel prendersi cura delle relazioni familiari mettiamo al centro il benessere del figlio, sapendo che questo non è raggiungibile indipendentemente dal benessere del genitore e di tutta la rete degli adulti. Per realizzare obiettivi così complessi agiamo a più livelli: le attività di carattere psico-pedagogico in carcere e le azioni di rete a livello locale, nazionale e internazionale. La tutela della relazione consente alla persona detenuta di recuperare un’identità genitoriale persa o a rischio e si presa in carico (progetto individualizzato di accompagnamento psico-socio- educativo); un’ottica di cura dei legami relazionale e affettivi, finalizzati a mantenere dove possibile, il minore in famiglia. Si attua un vero e proprio percorso di connessioni multiple, dentro e fuori dal carcere. Gli incontri di gruppo con i genitori e i colloqui individuali in carcere sono i motori e i contenitori di questi flussi. IL PROCESSO D’INTERVENTO: AZIONI DI CURA DEI LEGAMI: 1. Accoglienza dei bambini e degli accompagnatori nello Spazio Giallo, setting allestito per l’attesa, camera di decantazione delle emozioni prima e dopo il colloquio con il genitore detenuto; 2. Intercettazione delle situazioni sommerse e presa in carico dell’intero nucleo familiare; 3. Accompagnamento dei figli al colloquio, per consentire un colloquio riservato solla alla coppia genitore-figlio; 4. Gruppi di parola all’interno del carcere: laboratori sulla maternità o paternità per la rielaborazione di temi e problemi comuni rispetto al proprio ruolo, in prospettiva di un progetto di re-inserimento; 5. Punti d’ascolto: colloqui individuali di sostegno al genitore; 6. Attivazione della rete interna all’istituzione: al centro, l’interesse del bambino come soggetto che l’istituzione carceraria deve essere in grado di accogliere adeguatamente, nel rispetto dei suoi diritti/bisogni; 7. Interventi di scambio informativo tra gli operatori e di sensibilizzazione degli agenti di polizia penitenziaria; 8. Attivazione dei rapporti con la rete esterna al carcere: collegamento con i servizi psico-socio-educativi del territorio (ASL ed enti locali(; 9. Azioni di sensibilizzazione e informazione rivolte alla società civile, con l’intento di modificare lo sguardo sul genitore detenuto, perché possa essere considerato cittadino a pieno titolo; 10.Attività di ricerca a livello nazionale ed europeo i collaborazione con la rete Eurochips. Lo Spazio Giallo è innanzitutto un luogo: uno spazio fisico creato appositamente per l’accoglienza dei bambini che si preparano al colloquio. Uno spazio integrato socioeducativo, di gioco e di relazione; gli operatori ne curano il setting facendo attenzione alle età e alle esigenze dei bambini. Gli educatori prestano attenzione al processo più che al prodotto, per far vivere ai bambini momenti leggeri e relativamente liberi da aspettative. L’attività è documentata attraverso un diario che riporta osservazioni sui bambini e sugli adulti, la rilevazione delle attività svolte, eventuali valutazioni e interventi di aggiustamento. Lo Spazio Giallo è dunque “spazio intermedio”, che connette l’interno e l’esterno, una sorta di “terra di mezzo” tra l’istituzione totale e la vita reale. Gli educatori dello Spazio Giallo si attengono ad alcune regole generali: - Tutti i bambini possono giocare: ogni bambino ha i suoi tempi; - Evitare l’assistenzialismo: l’intervento è volto a sostenere l’azione dell’altro; - Favorire il gioco di gruppo, giocare rispettando le regole: i bambini trovano coetanei che vivono la loro stessa esperienza; - Nessun dialogo imposto: un luogo sereno e a misura di bambino, non vengono mai forzati a parlare; - Nessun tabù nei confronti del padre o parente detenuto; - Non assecondare bugie né grosse né piccole: non ci sostituiamo al genitore per raccontare la verità sul genitore detenuto, ma nemmeno alimentiamo le bugie; - Attenzione al bambino; - Attenzione al genitore, ricerca di alleanza e offerta di modelli positivi: mostriamo all’adulto modalità di comportamento funzionali ai bisogni e alle emozioni dei figli; - Scambio e condivisione delle storie: se si conosce la storia del bambino e del genitore si può avviare quel processo di cura dei legami che è il fine ultimo del nostro intervento; - Ascolto e sostegno nei confronti delle madri: il benessere del bambino è direttamente influenzato dalla sua relazione con la madre. I bambini vivono effettivamente questo Spazio come un luogo dove sono pensati e protetti, possono parlare dando voce e forma alle loro emozioni e sapendo che qualsiasi cosa dicono potrà essere accolta (molta attenzione anche al linguaggio non verbale). Per le famiglie lo Spazio è una risorsa, nella consuetudine dello Spazio si viene a conoscenza delle diverse modalità attraverso cui le famiglie affrontano l’esperienza detentiva. La detenzione può essere accettata, innescando un processo di integrazione di questa realtà in una nuovo quotidianità. La reazione del partner può essere di rifiuto e di interruzione dei rapporti. I gruppi di parola e i punti d’ascolto rappresentano il lavoro storico dell’associazione; da queste attività nasce il lavoro di sostegno, mediazione presa in carico, con l’obiettivo di innescare tutti i meccanismi d’aiuto disponibili, nella prospettiva di una ricomposizione dei legami affettivi e sociali. I gruppi di parola sono incontri collettivi di discussione e confronto, le variabili e le difficoltà sono quelle della gestione dei gruppi ma con la specificità del carcere che contiene e interviene in modo pervasivo anche quando lo si “dimentica”. Questa esperienza di momentanea rimozione è capitata nei gruppi di donne, quando ci si immerge nei racconti di figli o in discussioni accese per differenti modi di pensare; sono segnali positivi. I temi che occupano queste riunioni sono principalmente: l’esplorazione dei bisogni dei figli, la sofferenza, il tema interculturale, il tema dello “svelamento” della condizione detentiva. Lo svelamento comporta un lavoro di “auto-svelamento”, dove il primo a doversi misurare con l’accettazione della propria storia e della detenzione è il genitore. Richiede da parte degli operatori un accompagnamento attento. I punti d’ascolto: “punti” in quanto individuano un tempo e uno spazio per il colloquio individuale con il genitore. “D’ascolto” perché questa è la modalità con cui si svolgono, che prevede una reciprocità. Tempo, spazio e modalità sono determinanti. I gruppi di parola e i punti d’ascolto si sono confermati come strumenti formativi ed educativi di grande impatto. Prendersi cura dei legami significa realizzare una sorta di mediazione integrale, in primo luogo da parte degli operatori, ma che diventa un esercizio a cui invitare anche i genitori e le famiglie. In questi incontri è possibile prendersi cura delle storie familiari, di cui il carcere e i servizi tendono ad amplificare gli aspetti estremi, devianti, dissonanti. L’attività di documentazione e di ricerca svolge una funzione importantissima. Lo Spazio Giallo ha permesso uno sbocco sul territorio, rivelando nuove potenzialità nel lavoro di connessione tra “dentro” e “fuori”. È fuori dal carcere che il genitore deve affrontare la prova di realtà, ritrovare il proprio posto nella famiglia, con i figli, nel lavoro e in una rinnovata responsabilità sociale. Questo impatto non è meno difficile di quello imposto dal carcere e richiede che il sostegno ricevuto non si interrompa con la fine ella detenzione. CAPITOLO 5 Posizionarsi nel conflitto: l’educatore a Spazio Neutro. Andrea Galimberti La parola conflitto richiama all’idea di opposizione di due o più punti di vista che non riescono a trovare una forma di convivenza, di complementarità e che per questo si scontrano. Gli effetti dell’urto possono variare. Possono essere positivi: secondo diverse teorie dello sviluppo umano, il processo di differenziazione dell’altro e di emancipazione prevede sempre prima o poi momenti conflittuali. Dal conflitto possono derivare anche momenti negativi, sofferenze, violenze tanto che può essere Per favorire il cambiamento in una situazione che sembra saturata dobbiamo creare un contesto e mettere in atto azioni che producano nuove possibilità di vedere. Caruso propone la pratica dell’altravisione (o supervisione) come possibilità di mettere le persone in nuove posizioni rispetto a se, alla propria storia ed emozioni e alle proprie relazioni. Altravisione o supervisione = Altravisione è un termine utilizzato da Caruso in sostituzione del termine supervisione. Questo perché secondo lui, il termine supervisione stabilisce una gerarchia tra chi supervisiona (solitamente psicologi o psichiatri) e chi è osservato (educatori o infermieri) che rischia di compromettere le relazioni tra professionalità differenti e va a minare la costruzione di un contesto creativo utile al lavoro di riflessione. Da queste considerazioni nasce la scelta di usare la parola altravisione: se non sembra corretto parlare di uno sguardo superiore, può essere utile evocare una complementarietà di aree dove sono in gioco professioni, discipline e modelli differenti, cioè altri. Il lavoro di altravisione è utile perché permette di introdurre differenti punti di vista. L’altra visione diventa anche una linea guida per la conduzione del colloquio. Accanto ai tradizionali principi di ipotizzazione, circolarità e neutralità, l’altrovisore si trova nella posizione di poter offrire una visione differente. La curiosità (Cecchin) è la postura che guida nella ricerca delle molteplici versioni di un evento, anche quando sembra impossibile immaginare altrimenti. Lo scopo dell’altravisione è un cambiamento di prospettiva, cioè una differente visione. Tra i motivi che spingono un educatore a chiedere la supervisione possono esserci insoddisfazione dovuta a stasi, eccesso di cambiamenti e novità, sentimenti negativi (noia, insicurezza o burnout) bisogno di progettazione e organizzazione in casi particolarmente complessi. La logica dell’altravisione è utile per riconoscere la propria posizione e assumere un ruolo attivo rispetto al problema portato. Un forte vincolo è dato dal mandato che prescrive di lavorare con i figli e non con le famiglie. Si può cercare di negoziare il vincolo, ad esempio arrivando perlomeno a lavorare concentrandosi sulle risorse e non sulle difficoltà. Lavorando sulle risorse, utilizzando strumenti come il disegno (che aiutano a portare fuori il valore, a nominarlo) è più semplice arrivare a una storia che parla di movimento (con un tempo, personaggi che si mobilitano per trovare soluzioni). All’interno dello Spazio Neutro, viene spesso chiesto di rappresentare il proprio “genogramma famigliare “, una rappresentazione che mette in evidenza i membri della famiglia, informazioni su essi e sulle loro relazioni. Questo permette una rapida visione d’insieme delle relazioni famigliari che vanno al di là del ristretto nucleo famigliare composto da genitori e figli. Anche il Blasone famigliare (rappresentazione grafica simbolica dei valori di una famiglia) è un’attività interessante che può aiutare la famiglia a sviluppare una visione diversa della propria storia. È importante essere sempre consapevoli del fatto che come operatori siamo sempre coinvolti nel sistema strutturato sul conflitto e che per questo motivo non abbiamo mai a disposizione “la soluzione “, ma sempre e solo una teoria locale e in continuo divenire. Una teoria messa alla prova da eventi e situazioni sui quali non abbiamo controllo. È sempre importante chiedersi a fine di ogni incontro quali apprendimenti sono stati generati tra là famiglie e il servizio e anche quali apprendimenti abbiamo maturato come educatori. L’ampliamento dello sguardo permette di vedere il carattere sistemico del conflitto. La logica binaria colpevole/innocente che è utilizzata in ambito giuridico, può interferire negativamente con il lavoro educativo. Es: se quando stiamo portando avanti un caso cercando di generare una nuova visione, esce la sentenza di un giudice che dichiara colpevole la madre, la situazione potrebbe saturarsi di nuovo. Ma non basta allargare lo sguardo, occorre riposizionarsi continuamente. È sempre utile chiedersi quali sono gli effetti particolari dei principi generali (= il caso specifico che parte si fonda su principi generali -necessità di un intervento – come ha vissuto l’intervento?) ). Riposizionarsi rispetto ai principi che hanno portato all’intervento fa sorgere nuove domande (è proprio necessario trovare una nuova soluzione o va bene anche la soluzione “qui ed ora” trovata da Massimo?). Cecchin stesso consigliava di abbracciare le proprie premesse senza considerarle verità eterne ma vulnerabili al cambiamento. Proponeva la curiosità come posizionamento sempre in divenire, nel tentativo di evitare il rischio di affezionarsi troppo a “idee perfette “pronte a configgere con quelle della famiglia. Il continuo posizionarsi è dunque indispensabile per realizzare quello che suggerisce Luigina Mortari “imparare a saper stare nell’incertezza ad accogliere l’inedito e il conflitto che da qui scaturisce non come elemento negativo ma come l’occasione per una crescita professionale che può provocare trasformazioni positive nell’agire “. CAPITOLO 6 Costruire consapevolezza nella relazione con le famiglie. Flavio baci Anche nel lavoro con gli adolescenti bisogna sempre tenere in considerazione il fatto che gli adolescenti hanno una famiglia e da essa sono fortemente influenzati. Flavio Bacci lavora in un centro diurno per adolescenti di Milano (“Vivi ciò che sei”) L’educatore deve tenere sempre in mente che entra sempre in interazione con il sistema famigliare anche se non sempre né è consapevole. Dobbiamo quindi chiederci quali pratiche (del pensiero, del corpo e delle emozioni) ci permettono di sentirci, ascoltarci come parte del sistema e quindi di agire efficacemente in esso. Emozioni= siamo abituati a connotare le emozioni come sentimenti, come fenomeni intrapsichici, qualcosa che riguarda l’intimità e la sensibilità del singolo individuo e per questo potrebbe sembrare legittimo lasciare fuori dall’approccio sistemico. Oggi è riconosciuto invece che le emozioni sono un fenomeno complesso, relazionale, cognitivi o corporeo ed etico e che non si può arrivare a una teoria delle emozioni. Nel mondo Occidentale, fino all’800 il termine emozione indicava un movimento mentre ciò che oggi noi intendiamo per emozione era chiamato “passione”: un patimento fisico, un dolore morale. La parola passione evoca passività, di una persona che si comporta come vittima degli eventi. Durante il positivismo l’emozione viene vista come qualcosa che compromette le capacità intellettive e rende l’uomo debole. Intorno alle emozioni possiamo trovare due miti: il più antico è il mito delle passioni interne, legato alla metafora del corpo come contenitore. I fenomeni emotivi vengono separati dal contesto che li ha generati e che li alimenta. Per Bateson, considerare le emozioni espressione di uno stato interno è servirsi di un principio dormitivo. La sua idea è che per i mammiferi le emozioni siano strutture di relazione. Il secondo mito è quello che considera il soggetto un’entità autonoma, composto da una parte razionale e una emozionale. Per Bateson separare l’intelletto dall’emozione è una cosa mostruosa: le emozioni sono pensiero, anzi seguono algoritmi così complessi da non poter essere proiettate sullo schermo della coscienza. Oggi pensiamo di poter spiegare le emozioni, ma la verità è che le emozioni narrate differiscono dalle emozioni narranti, che rimangono inconsapevoli e definiscono la natura è il significato delle emozioni narrate. Quando la nostra attenzione vigile si sposta sulle emozioni narranti per farne oggetto di discorso, queste diventano emozioni narrate e in questo processo di trasformazione interverranno attivamente altre emozioni narranti, refrattarie all’oggettività discorsiva. Certi tipi di narrazioni inoltre, trasformano l’emozione. La teoria relazionale delle emozioni implica invece prima di tutto la considerazione che le emozioni non sono mai solo interne ma sempre interne -esterne. Non reazioni a stimoli esterni ma azioni effettive volte al mantenimento di cornici di significato che danno forma ai processi comunicativi entri i quali esse emergono. Piuttosto che dire “l’espressione delle emozioni” sarebbe meglio dire “l’emozione delle espressioni”, capovolgendo così le premesse su cui si basa comunemente la definizione di che cosa è e che cosa fa un ‘emozione. Infine, le emozioni hanno natura biologica, sono disposizioni corporee dinamiche che definiscono i distinti una prospettiva più ampia. L’educatore ad esempio, vede il punto di partenza è il possibile punto di arrivo. È solo la completezza di questa visione che definisce l’intervento “educativo”. È una visione che determina un passaggio mentale nell’educatore: è costretto a spostarsi dall’imbarazzo iniziale a una posizione nuova, che metta a fuoco meglio il suo ruolo e le sue possibilità d’azione. L’altro aspetto di simmetria è dato dalla capacità del l’educatore che la famiglia non ha e che viene condivisa nel processo di mediazione. Questo secondo passaggio (condividere una capacità, un sapere) da solo non avrebbe un potere educativo se non accompagnato dal primo (acquisire una visione più ampia). L’uomo è un essere abitudinario e le abitudini sfuggono alla consapevolezza. Per quanto concerne il lavoro educativo, se l’educatore reagisce in maniera automatica a una serie di stimoli, come può l’azione educativa avere un carattere intenzionale? L’automatismo della risposta pone grosse domande di senso all’agire dell’educatore, rende in particolare necessario un costante lavoro di auto addestramento che sveli queste risposte automatiche e introduca una pausa – la comprensione- tra lo stimolo e la risposta, creando uno spazio nel quale sia possibile ampliare le proprie possibilità di scelta. Comprendere lo stimolo (prenderlo con se) fa riferimento in parte alla capacità di riflettere sull’intervento educativo, trovando cornici più ampie che permettono un’interazione più orientata, in parte indica uno stato psico-fisico- emotivo che l’educatore può ricercare nel vivo dell’interazione educativa , una condizione di attenzione all’altro e a se che permetta di riconoscere l’insorgere di una risposta automatica e scegliere se utilizzarla o meno. Tra l’attivazione dell’area cerebrale che produce la risposta e l’attivazione della risposta stessa esiste un intervallo di tempo che alcuni neuroscienziati chiamano lo spazio del libero arbitrio: la capacità di scelta degli uomini risiederebbe nella capacità di riconoscere e sospendere le risposte automatiche. Gazza già scopri che la parte sinistra del cervello fornisce costantemente spiegazioni plausibili ma spesso inventate a quanto viene elaborato dall’emisfero destro. Grazzani ha dato il nome di “interprete” a questo meccanismo, che è in grado di influenzare anche la memoria. L’interprete stabilisce costantemente un percorso narrativo delle nostre azioni, emozioni, sogni, pensieri. È il collante che unifica la nostra storia e crea la nostra percezione di essere un agente razionale completo. L’interprete dunque, costruisce spiegazioni anche sulle interazioni educative, sulle motivazioni degli eventi e dei processi comunicativi, sulle cause dei comportamenti. La consapevolezza di ciò può aiutare a porsi in maniera critica verso le proprie “facili interpretazioni” ad allargare la soggettiva rappresentazione della realtà. Morin sostiene che la mente umana mente a se stessa. Nelle pratiche educative, tutto ciò comporta la necessità di sviluppare e allenare un’attenzione vigile per il modo in cui ci raccontiamo gli eventi. È importante promuovere un’attitudine di sospensione del giudizio e di esplorazione dei significati che ognuno di noi dà alle situazioni. Nella pedagogia del Terzo Millennio (PTM), affinché si sviluppi la consapevolezza di se nell’azione educativa, vengono ritenute fondamentali due pratiche: l’osservazione di se e la mediazione. L’utilizzo di queste due pratiche permette di fornire una posizione con se stessi, con gli altri e con la vita. L’osservazione di se: l’esercizio dell’auto osservazione consiste nella ricerca continua di uno stato di attenzione verso se. L’attenzione è in realtà divisa perché nella relazione educativa, mentre osservo me stesso, osservo e porto attenzione anche all’altro. L’esercizio prevede inizialmente la registrazione neutra di quanti più dati possibili su noi stessi (non cosa ma come) in una seconda fase si procederà con tentativi di interpretazione dei dati per arrivare a una ipotesi verosimile sul perché. Tale lavoro porta a una terza fase in cui è possibile incominciare a modificare la risposta psico-emotiva automatica. Caratteristica fondamentale dell’osservazione è la neutralità, ovvero la distinzione tra dati e informazioni. I dati sono elementi di realtà puri che l’educatore seleziona e mette a disposizione dell’educando come elementi neutri cioè privi di segno e pregiudizio. Le informazioni sono invece dati cui l’educatore ha già imposto meccanicamente e in maniera indiretta una determinata forma in base all’esperienza pregressa avuta realmente è percepita tale. Sono dunque dati caricati di un segno ben preciso e di un valore derivato da un pregiudizio. Il processo di consapevolezza del dato si configura come uno strumento utile per cercare di svelare i filtri che applichiamo per interpretare la realtà. Riuscire a evidenziare il dato ha un valore generativo di grande forza. Alla ricerca del posizionamento: la mediazione. La mediazione è l’azione che permette l’incontro dei saperi tra educatore e educando affinché si verifichi effettivo apprendimento da parte di quest’ultimo. Il punto di contatto da educatore a educando varia da caso a caso e per individuarlo occorre un grande impegno valutativo da parte del primo. Il processo di mediazione nella PTM viene riassunto nella cosiddetta “legge dei 100 passi”: detta 100 la distanza iniziale tra educatore e educando, il primo compie anche 99 dei passi, pur di riuscire a trovare il luogo della comunicazione (l’azione comune). Da quel luogo è in grado di stimolare l’altro a fare dei passi nella sua direzione: anche un solo passo manifesta la sua crescita. L’educatore che compie tutti e 100 i passi invece, corrisponde al caso di colui che si sostituisce all’altro. Chi non compie alcun passo esprime una rinuncia al ruolo educativo. Il processo di mediazione implica una componente emotiva: l’educando è attratto dalla posizione proposta perché l’educatore è un modello con chi ce un’intensa relazione affettiva. L’idea di mediazione proposta dalla PTM riecheggia il concetto bruneriano di scaffolding e quello di zona di sviluppo prossimale di Vygotsky. L’educatore deve costantemente interrogarsi sul livello dell’educando, proponendogli stimoli che ritiene siano leggermente superiori alle sue attuali capacità. Se stiamo attenti accadono tante cose anche solo in poche manciate di secondi. Se non riusciamo a dare un nome a ciò che accede, è come se non esistesse, come se non fosse mia stato vissuto. Con l’ausilio dell’osservazione di se e della mediazione possiamo fare un nome alle relazioni, ai gesti, alle emozioni, alle cornici di pensiero. Dal punto di vista educativo, l prima consapevolezza è che l’interazione educativa avviene all’interno di un sistema, di una rete di relazioni complessa e viva. Si tratta di un significativo ampliamento dell’orizzonte di cura degli educatori, con conseguenze importanti nella relazione con gli utenti e nell’impostazione dell’intero servizio. I passaggi e i cambiamenti in ambito educativo avvengono a seguito di una consapevolezza. Queste consapevolezze permettono di rilevare elementi in precedenza non considerati, di cambiare le cornici di pensiero che inquadrano gli eventi in maniera statica e di produrre quelle trasformazioni che fanno avanzare la relazione educativa. Un doppio sguardo, un’attenzione divisa tra me e l’altro porta a essere più coinvolti e ad apprezzare l’umanità che si svela in noi stessi e negli altri. “Se io comprendo di non essere un’isola, comprendo altresì che la mia vita, interdipendente dall’insieme e non esistente se non grazie a questa interdipendenza, ha uno scopo ultimo: migliorarsi per poter migliorare l’insieme” (Paoletti) CAPITOLO 7 Fare spazio e dare voce: l’incontro con i familiari in un Servizio Psichiatrico territoriale. Luraschi, Mosconi, Rivetti. Progetto Famiglie Per parlare di famiglia in servizi come quelli psichiatrici, dove essa viene raccontata per lo più attraverso immagini stereotipate e generalizzate, è stato opportuno di comunicare. Ridescriviamo l’esperienza che ci viene raccontata esplicitando i dubbi o chiedendo di fare esempi. Facciamo avanzare l’idea (anche in noi) che ci possa essere qualcosa d’altro. “La curiosità ci aiuta a continuare a cercare descrizioni e spiegazioni diverse anche quando non siamo in grado di immaginarne altre” (Cecchin in Formenti 2008) L’intervento con i familiari si va sempre più caratterizzando come un accompagnamento al becoming parent (Gaudio 2008), concentrato sull’unicità della storia di ognuno e sulle risorse, sugli apprendimenti e sulle relazioni che hanno dato vita a quella storia, valorizzati e sollecitati come opportunità da utilizzare in questo continuo processo di ridefinizione e aggiustamenti che è la genitorialità. In questo processo unico il fine non è l’adattamento, ma la mobilitazione delle risorse per dare forma a mondi possibili. A chi chiedeva soluzioni immediate e concrete per affrontare la quotidianità è stata offerta la possibilità di passare da una posizione passiva di assistito a una più attiva di co- risolutore. Alcuni abbandono sono stati determinati dal fatto che questo progetto non ha ancora trovato un suo riconoscimento istituzionale e culturale. Il lavoro con le famiglie si è rivelato “un’impresa ad alto rischio, complessa e delicata” (Formenti 2000). Le storie che i familiari ci raccontano parlano di relazioni, di identità, di ricordi che ci dicono chi sono stati, chi sono e chi potrebbero essere. In queste famiglie “l’aspetto fondamentale è la perdita di controllo sulla propria storia” (Formenti 1999). Con la diagnosi, la storia di tutta la famiglia, non solo quella del paziente, viene vincolata alla malattia. La dimensione narrativa ha permesso ad alcuni familiari di rivedere i propri modelli relazionali e trovare nuovi adattamenti funzionali non alla malattia, ma a piccole o grandi trasformazioni delle storie individuali e familiari. Il senso che ogni famiglia trova e diverso. “L’essere un sapere incerto, insicuro, continuamente istituente e in progress e per questo fortemente ansiogeno” (Riva 2004) La paura che ci prende, a volte, è quella di sostituire vecchi stereotipi con nuovi, semplicemente da contrapporre a una visione sanitaria, ma che non aiutano ad aumentare la capacità complessiva di comprensione del problema. CAPITOLO 8 APPARECCHIARE CONTESTI DI APPRENDIMENTO PER PROMUOVERE COMPETENZE Cinzia Bettinaglio, Simona Lo Verso, Laura Rosti Il laboratorio proposto dalle tre educatrici sopra citate si rivolge a famiglie già in carico ai servizi sociali e vuole essere un posto vivo e vivace dove adulti e bambini o ragazzi, ognuno nel proprio ruolo, provano a osservarsi e parlarsi dei loro modi di stare insieme. È un laboratorio rivolto a famiglie già in carico ai servizi sociali del territorio, con genitori già dichiarati in difficoltà rispetto ai compiti educativi e di cura, seguiti dal sevizio Tutela Minori. L’idea di famiglia a cui sono rivolti gli interventi è quella di una famiglia malata, disfunzionale e in grave affaticamento con inadeguatezze rispetto alla cura e all’educazione dei figli. Questa fotografia è veritiera ma parziale: c’è anche un altro modo di guardare e quindi di intervenire, un modo che presuppone processi di inclusione del disagio nella normalità, chiamando le famiglie a un lavoro insieme , non a partire dalle loro difficoltà ma dalle risorse, seppur atrofizzate. Il lavoro di riparazione parte dal rilevare le mancanze, introduce correttivi, inserisce sostituzioni. Ma i “cattivi genitori” (Cirillo,2005) non sono tali 24 ore al giorno e quindi si tratta di trovare le parti buone e funzionanti, farle uscire allo scoperto, incoraggiarle, sostenerle e arricchirle. Hanno pensato quindi a un laboratorio dove produrre esperienze in cui i partecipanti si sentano attivi, coinvolti e competenti. È difficile cambiare quando ci si sente inadeguati, impotenti, sofferenti o fragili o quando altri dicono e pensano questi di noi, come succede alle fami glie in carico al servizio Tutela Minori. Il progetto è stato condiviso con la Società dei Servizi che gestisce la Tutela minori in collaborazione con gli assistenti sociali e gli psicologi dei tre punti erogativi disseminati sul territorio. Sono loro infatti, a individuare tra le famiglie in carico quelle a cui sottoporre il laboratorio e sono loro a informare e famiglie e a invitarle al primo incontro. Lavorare con gli operatori della tutela è necessario, dà la possibilità di costruire momenti di incontro e confronto su problemi particolari che emergono nel percorso. Il laboratorio parte dall’intuizione che alle famiglie in difficoltà serva un luogo di incontro dove il fare e l’essere famiglia sia sperimentato direttamente e condiviso con altri. Una delle fatiche che tutti i genitori attraversano è infatti l’isolamento, la privatizzazione del compito educativo e la solitudine che comporta. A maggior ragione per le famiglie fragili, questo pesa e amplia le difficoltà. Il laboratorio si pone come spazio pubblico dove poter esibire gli stili educativo e sperimentare i ruoli famigliari, ciò richiede la partecipazione attiva di genitori e figli insieme, e attraverso una conduzione rispettosa, avvia il confronto per gli uni e per gli altri, all’interno della singola famiglia e tra famiglie. L’esperienza offre ad ogni nucleo famigliare la possibilità di vedersi non nello sguardo dell’esperto di turno: è il gruppo che dà dignità. La finalità è di rendere un po’ più dinamica e gradevole un’immagine di famiglia che si ipotizza statica e dato il lungo permanere di questi nuclei dentro il circuito dei servizi sociali, anche esteticamente disarmonica. L’obiettivo non è quindi il cambiamento, si vuole offrire alle famiglie la possibilità di sostenere comunicazioni inedite con i figli e un’esperienza di condivisione. Se si riesce a generare benessere, piacere si riuscirà più facilmente a aprire domande e interrogativi sui ruoli dentro la famiglia e queste sue condizioni permetteranno a ognuno di portare a casa qualche suggerimento o consiglio. La conduzione delle attività del laboratorio è agita in modo da favorire la partecipazione attiva. È stata posta particolare cura nel dare la parola, nel nominare, nel permettere di narrare pezzi della propria storia famigliare, con l’accortezza di accogliere sempre ciò che emergeva . Gli operatori hanno curato tutti i materiali in modo che fossero esteticamente piacevoli, il setting doveva far percepire cura, pensiero. Nelle attività si è posta attenzione alle asimmetrie: dividendo talvolta i genitori dai figli, assegnando compiti diversi secondo l’età, proponendo sia attività per i singoli nuclei famigliari, sia per singoli membri. Il fatto di lavorare in 3 (educatrici) ha permesso di dividersi le attività in modo da agire e mostrare le differenze tra genitori, adolescenti e figli piccoli. La coordinatrice ha sempre aperto e chiuso gli incontri ma durante le sessioni di lavoro la conduzione era condivisa… una vera e propria famiglia professionale. Il laboratorio era composto da due gruppi. Il primo più eterogeneo, comprendeva famiglie alle quali in passato erano stati allontanati figli, famiglie che usufruivano del servizio di educativa domiciliare, altre in carico al Servizio famiglia per momenti critici che stavamo attraversando. Al secondo gruppo partecipavano famiglie in grave difficoltà molte con figli inseriti presso il Centro Diurno e conosciute da tempo dai servizi sociali. Durante il primo incontro avvengono le presentazioni, presentarsi come educatrici può essere un punto di forza: altri operatori sono già conosciuti per queste famiglie, tutte in carico ai servizi sociali. Durante il primo incontro vengono condivisi gli obiettivi e i concetti chiave: · Educare è difficile, essere genitori e figli oggi è più complesso che esserlo in passato · Il gruppo di famiglie, genitori e figli insieme è pensato come aiuto reciproco, incontro e confronto di idee, riflessioni e modi di stare insieme · Proporremo attività da fare insieme mirate a ragionare sui temi educativi · Siamo tre operatrici perché qualche volta faremo tre gruppi, composto separatamente da adulti, bambini e adolescenti. risposte sono poi state sottoposte al gruppo. Si forma così il semaforo delle regole del gruppo: rosso= comportamenti vietati, giallo= comportamenti tollerati, verde = comportamenti attesi). Le attività di presentazione hanno favorito la conoscenza reciproca. Le educatrici notano un bisogno da parte delle famiglie di essere riconosciute come “normali”. Es, Carlo dice “perché qui siamo tutti…come dire… normali no?”. Osservano la tendenza a identificare ciò che accumuna e la fatica invece a accettare le differenze come elementi di ricchezza con cui confrontarsi. Con il tempo, le differenze lasciano spazio a un crescente senso di familiarità e condivisione: ognuno trova un modo per sviluppare fiducia verso il gruppo e per percepirlo come luogo sicuro. I componenti del gruppo iniziano poi a esprimere l’esigenza di una continuità : le assenze vengono notate e fatte notare alle conduttrici. La separazione è vissuta in termini di allontanamento e abbandono. Insieme ci si chiede se si è stati abbastanza accoglienti…il compito è stato quello di comprendere l’accaduto e spostare l’asse del sentire comune dalla colpa alla responsabilità. Seconda fase: ampliare lo sguardo Costituito il gruppo, si è cercato di portare lo sguardo al di fuori di esso. Il primo oggetto con cui hanno chiesto alle famiglie di confrontarsi è stata la storia di ciascuno, per i pezzi che si sentiva di poter offrire. L’obiettivo era aprire nuove possibilità di pensiero attorno alle connessioni intergenerazionali dei comportamenti e degli stili genitoriali. I genitori sono stati chiamati a interrogarsi sull’ origine di alcuni loro atteggiamenti o attitudini; mentre i figli hanno ragionato su come alcuni limiti dei genitori a associno all’assenza di alternative. In alcuni questo lavoro di contatto con le vicende personali ha prodotto resistenze, rabbia e rifiuto. Nonostante le fatiche, l’opportunità dei genitori di raccontarsi ai figli è preziosa. Terza fase: verso la conclusione Gli ultimi incontri del laboratorio hanno avuto l’intento di indirizzare lo sguardo dei partecipanti un po’ più all’esterno, anche se in modo diverso per i due gruppi, date le differenze dei percorsi. Al primo gruppo si è chiesto di rivolgere l’attenzione all’ ambiente di origine e alla comunità di appartenenza, per spingerli a trasferire alcune riflessioni maturate in laboratorio anche nel contesto della propria quotidianità. Lo scopo era cercare di far sentire le famiglie parte di un sistema allargato. Nel secondo gruppo, lo sguardo non poteva essere ancora esterno al gruppo perché si erano fatti meno incontri, si invita a restituire gli uni gli altri l’immagine che ognuno si era costruito. La chiusura risulta faticosa e i gruppi non vogliono finire il percorso ma è necessario esplicitare che alcuni percorsi finiscono e va bene così, significa che siamo arrivati fino in fondo è se ci dispiace vuol dire che sono starai importanti e piacevoli. Valutazione dell’esperienze: gli indicatori per fare un bilancio di questa esperienza sono innanzitutto le presente e le assenze; il livello di partecipazione; la valutazione delle aspettative. L’esperienza è risultata complessa in alcuni momenti anche per le educatrici chi a fine giornata, chiudendo il sacco dell’immondizia esordivano con “ce ne andiamo così, portandoci via tutta la loro immondizia!”. Le risposte emotive delle educatrici sono state di volta in volta elaborate in equipe, dove si è lavorato sulla comprensione dei significati delle emozioni e si è giunti alla consapevolezza che dietro a ogni azione o anche attacco da parte dei partecipanti vi fosse una comunicazione da interpretare. La composizione eterogenea dei gruppi aiuta: chi è più attrezzato può sostenere chi ha meno strumenti. Attenzione particolare va posta agli adolescenti, che devono almeno essere in 2. Le tracce sedimentate …negli operatori dei servizi e del territorio: i laboratori, che hanno funzionato in via sperimentale, hanno lasciato una prima traccia significativa rispetto al modo di lavorare con le famiglie. Gli operatori hanno sperimentato la possibilità di costruire contesti in cui non si porge solo la funzione di aiuto e sostegno ma dove le famiglie possono esprimere la loro competenza, guardare, vedere e nominare il proprio modo di fare famiglia senza che questo sia sottoposto a giudizio. Un modo di avvicinare la genitorialità non a partire da ciò che la caratterizza in senso deficitario ma per come si esprime. La traccia di questa esperienza rimane per ora ancora esterna al lavoro diretto degli operatori ma la nominano talvolta in questi termini “il laboratorio farebbe proprio bene a questa famiglia “. Il territorio ha chiesto al privato sociale di reperire le risorse (ad esempio attraverso nuovi bandi) per poter replicare l’esperienza offrendola a nuovi nuclei. Nelle famiglie: le famiglie che hanno partecipato al laboratorio forse non hanno utilizzato l esperienza per innescare cambiamenti nel modo di agire la genitorialitá. Il laboratorio non è un luogo terapeutico ma è un luogo che si avvicina molto alla normalità, sollecita la capacità dei singoli di stare in un contesto sociale con piacere. Per il futuro: lavorare con le famiglie e in alcuni tratti per loro, ha significato avere due attenzioni. Quando ci avviciniamo a una famiglia, prima di avere obiettivi dovremmo avere in mente riconoscimento, rispetto e dignità come presupposti della relazione con l’altro sui quali si può iniziare a prefigurare il lavoro. Non è la tipologia della famiglia che caratterizza ‘azione del lavoro: è la prefigurazione della relazione, le immagini di competenza e di difficoltà con cui ci incontriamo e a volte scontriamo. Il lavoro con le famiglie presenta un grosso ostacolo: l’idea di buona famiglia o di buon genitore che alberga costantemente nella nostra mente. Il mito del buon genitore sembra creare sempre più genitori insicuri e disorientati che si chiedono se stanno sbagliando. Lavorare con le famiglie significa smontare la convinzione che esista un genitore modello: la capacità di essere un adulto di riferimento non sta nel fare o dire la cosa giusta ma nella capacità di sbagliare e poi provate a raddrizzare il tiro. Salimone sostiene che un problema non serve a trovare la soluzione ma ad imparare dalle soluzioni che non si trovano. Il lavoro con le famiglie deve aprire domande, per riuscire ad aprire domande, serviranno tante o poche e energie, dipende da quanto le famiglie sono abituate ad incontrare operatori che lavorano in questo modo. È importante attribuire significati per costruire quel senso comune che si va costruendo insieme, cioè il senso della crescita e l’educazione dei bambini. Lavorare con le famiglie significa trovare modalità e strumenti innovativi perché possano trovare luoghi pubblici di parola, cioè luoghi condivisi, attraversati da organi vitali e così uscire dal problema citato all’inizio, cioè della privatizzazione del compito educativo, la solitudine è le distorsioni relazionali amplificate dall’eco delle mura domestiche. CAPITOLO 9 Interrogare le rappresentazioni reciproche, tra ricerca e formazione. Alessia Vitale La ricerca si presenta differente in base a chi e come la guarda; come la città di Zemrude narrata da Calvino “è l’umore di chi la guarda che dà alla città la sua forma” (1993) La res è una narrazione, una direzione di senso, più che un obiettivo. La res fa la differenza: potrà mostrare una città in tumulto, una strada calma e solitaria. Se la relazione operatori-famiglie è un costrutto sul quale interrogarsi, lo è anche il dispositivo educativo inteso come la struttura dentro cui si giocano tutte le relazioni. Ogni persona vive dentro un tempo e un luogo, cioè inserita in una storia individuale, familiare, sociale, socio-assistenziale, e ogni storia si sviluppa in un contesto costantemente in trasformazione, come il ciclo della natura o le stagioni. Si è in ricerca di fronte al nuovo ma anche tutte le volte che ci interroga sul quotidiano. La domanda è una condizione necessaria dell’essere in ricerca, ma non basta a fare di noi dei ricercatori. Laura Formenti distingue tra “sguardo ingenuo” e “sguardo scientifico” (2000) dell’educatore: il primo ideologicamente centrato, carico di pregiudizi vissuti come verità; il secondo attento a sé e agli altri, continuamente disposto a interrogarsi sui propri pregiudizi. La curiosità apre le porte a nuove visioni
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