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Il Mito: La Verità Rivelata - Prof. Cattaneo, Dispense di Estetica

Il mito e la sua importanza nella comprensione della realtà e della conoscenza. Otto e Schelling vengono citati come filosofi che hanno approfondito la natura del mito, distinguerli dal mito eziologico e dalla mentalità moderna. Il mito è descritto come una forma creativa che dà forma all'umanità e alla vita, e la sua influenza è universale e atemporale. La parola e il culto sono considerati la manifestazione del mito.

Tipologia: Dispense

2018/2019

Caricato il 26/10/2022

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Scarica Il Mito: La Verità Rivelata - Prof. Cattaneo e più Dispense in PDF di Estetica solo su Docsity! IL MITO PREMESSA (G. Moretti) Dalla fine degli anni ’70 per un ventennio ha avuto luogo una variegata discussione sul mito e sul pensiero “romantico” (il Mythos-Debatte) soprattutto in Italia e Germania: discussione che ha comportato la riscoperta del sottovalutato W. F. Otto , e della sua innovativa analisi interdisciplinare. Viene parzialmente meno l’accusa d’”irrazionalismo” sul tema del mito, con la riscoperta di autori peculiari di tale analisi (es. Schelling). Tale dibattito fiorì soprattutto in Italia, che ha raccolto più della Germania l’eredità del pensiero di Heidegger. I saggi qui presentati, ultimi lavori di Otto, invitano a considerare Mito e Linguaggio come un’ unica realtà . Tale realtà è chiamata da Otto “immagine”, poiché “in ciò che chiamiamo immagine è presente l’essere stesso”. Che la realtà sia immagine [v. anche Heidegger?] resta l’eredità incompresa del ‘900. PRESENTAZIONE (Moretti?) v. Kerényi sull’ ermeneutica : non sola interpretazione dei dettagli, ma impresa spirituale che tenta di chiarificare e recuperare l’essenza stessa di un significato andato perduto. Ritroviamo tale atteggiamento in Otto, che vuole recuperare il significato originario del mito . Ogni tentativo simile deve unire apertura individuale e rivelazione religiosa (universale). L’”oggettività” dei risultati della ricerca sul mito dipende dalla coappartenenza dell’interprete all’ambito stesso della ricerca: attività più propria del poeta che del filosofo (a parte quelli ad Otto affini, Schelling e Heidegger) che non può prescindere dalla realtà del mito [“gli dei esistono!” Wilamowitz] (da qui si comprende perché tale branca degli studi di Otto sia stata inizialmente volutamente ignorata). La coscienza che parlare del mito equivalga a parlare della verità è il fondamento di tutta la ricerca di Otto sull’antichità. Lo studioso della religione, al contrario dello storico, non può prescindere da tale consapevolezza, poiché il mito è la forma propria della Verità dell’Essere rivelatasi all’uomo: se non considerata come tale, resta incomprensibile nella sua profondità. Tale posizione di partenza si mostra nel significato stesso che Otto dà di Mito: una realtà che rimane al di fuori di ogni soggettività . Si pone dunque il problema ermeneutico di analisi di tale verità esterna e tangente alla storia umana, che si rivela misteriosamente in differenti ma simili forme, e di chi sia tale Oggetto del mito (in quanto non soggetto): tali riflessioni portano il lavoro di Otto su binari analoghi a quelli del secondo Heidegger. Sia O. che H. prendono come riferimento infatti Holderlin, il poeta dell’epico e tragico manifestarsi e celarsi dell’Essere divino all’uomo. E’ chiaro da tali punti di partenza il perché del rifiuto di Otto di tutte le teorie moderne di analisi del mito: antropologiche, psicologiche (esistenzialiste), estetiche, neo-illuministe (primitivismo), scientifiche (evoluzionismo). Si rifiutano in particolare gli impianti evoluzionistico e soggettivistico. Si rifiutano al pari l’idea di una logica primitiva, nonché quella di una mentalità del mito (porsi dell’uomo nel mondo = esistenzialismo). Il mito genuino non si occupa invece di esistenza: nell’analisi di Otto è l’uomo ad essersi allontanato dalla verità tanto da vedere come problematica persino la comprensione di sé. Il Mito è in origine la parola vera, espressa da un’autorità indiscutibile: la divinità stessa. Tale presenza è esperita dagli eroi tragici (in Otto personalità, non personificazioni di ideali) che con essa lottano (v. Holderlin e Nietzsche). Il mito è espresso, come ogni forma poetica, non dal poeta ma dalla divinità stessa: Otto si ritiene infatti un politeista (come Goethe), criticando il cristianesimo per la sua eccessiva profanità ed antropomorfizzazione. La religione greca è la forma più compiuta della forma mitica dell’essere, nel suo intreccio tra piano umano e divino . L’uomo primigenio incontra la forma-mito semplicemente nella contemplazione del momento : con l’apertura alla visione del divino , lo percepisce nel modellamento di ogni parte della propria esistenza, tanto che non vi è distinzione tra sfera sacra e profana del vivere. 3 livelli del mito: portamento eretto (identificato anche da Ovidio come segno del collegamento dell’uomo con il cielo, che guarda), azione, parola. Analisi del concetto di FORMA (Gestalt): Otto si riporta alla concezione Goethiana, in cui sostituisce il concetto di categoria, includendo in sé il divenire e il permanere dell’essere, non come opposti ma come misteriosamente legati: analogia in cui si connettono poesia e verità. Otto trova riferimenti nei poeti poiché si allontana dalle interpretazioni dei filosofi; solo in Schelling vede l’unico che si è avvicinato alla realtà del mito, interpretandolo non a partire dall’uomo, bensì dall’allontanamento dell’uomo da Dio. Tale allontanamento rientra inoltre nella forma del mito: nell’allontanarsi e riavvicinarsi, nel nascondersi e manifestarsi ciclico del Dio all’uomo, e che dà carattere di tragicità all’esperienza del singolo e della storia (Holderlin) (e vedi anche Heidegger). Tale concetto goethiano di forma non soggettiva è centrale anche in Heidegger e in Junger: le loro 3 “strade ermeneutiche” prima si avvicinano, per poi riallontanarsi con decisione. Mentre Junger parla di un prospettivismo nietzschiano, Otto, e con lui Heidegger, si ricollegano al tentativo di Holderlin di “dire l’essere” nella sua forma che la soggettività ha perduto. 1. Cosa lega il mito alla parola poetica? (Otto) 2. Come si dà l’essere nel linguaggio poetico? (Heidegger) La crisi della soggettività, i cui limiti esperisce Holderlin nella sua ricerca poetica, portano sia Otto che Heidegger a ricercare non un’oggettivazione (impossibile per il soggetto) bensì una rivelazione dell’Essere, o meglio del dire l’essere. Però, mentre Heidegger ci aggiunge in’interpretazione nietzschiana di studio dello sviluppo dell’Essere nella storia, che conduce necessariamente al nichilismo, Otto pone l’Essere e la sua Forma fuori dalla storia: in una costanza atemporale non intaccata dagli avvenimenti umani, eppure in grado di manifestarsi in essi, nelle 3 forme che approfondiremo. Mentre in Heidegger la crisi del soggetto umano e dell’Essere compartecipano, in Otto sono su due piani differenti. Mentre in Heid. La parola poetica va in “due direzioni”, rivelando l’Essere ma potendo anche influire su di esso e mutarne il destino, per Otto la parola poetica è semplicemente una manifestazione dell’Essere, riservata all’uomo storico in diversi modi e momenti: rivela l’Essere, ma non può accedervi né influire su di esso. I testi presentati rappresentano il testamento spirituale di Otto, e la sua concezione di una filosofia fondata sulla rivelazione del mito. IL MITO E LA PAROLA L’odierna discussione sul mito, ignora la domanda che dovrebbe essere quella fondamentale: che cosa effettivamente il mito sia. Essa non ha trovato alcuna risposta nell’analisi scientifica. La mentalità moderna ha assegnato a “mito” il significato di sorpassato, antiquato: si indicano come mitiche le concezioni naturali primitive che sono state dimostrate erronee, e gli avvenimenti che si ritengono impossibili. Il pensiero illuminista è convinto di aver spiegato col nesso causale tutti i fenomeni anormali, dimostrando l’erroneità del pensare antico: esso non è neppure sfiorato dall’idea che gli antichi possano aver vissuto esperienze che il pensiero oppure, più originariamente, nella configurazione stessa dell’esistenza. Il fondante di questa verità è che essa necessita di rappresentarsi in forme. Il mito genuino produce la vita: pensiamo ad esempio alle innumerevoli forme mitiche (minori) modellate sulla figura di Apollo nei millenni, tanto nell’arte quanto in universali comportamenti di vita. Guardando alle grandi creazioni umane, emerge con forza che il mito è l’assoluto elemento creativo dell’esistenza superiore dell’uomo. Sottolineiamo con forza la sua capacità creativa: il mito dà la propria forma all’umanità (si pensi ad esempio al mito della morte del dio, grazie alla quale la fertilità entra nel mondo). Le attività più importanti di una civiltà ricevono la propria forma dal mito, il cui evento originario esse ripetono. v. mito della morte violenta del dio, in ogni civiltà: la morte di un dio, la sua venerazione e la resurrezione, è una sapienza originaria dell’umanità che concerne la sua stessa esistenza, e impronta su di sé l’intera vita. Il trasferirsi in azione di tali forme mitiche non è finalistica, bensì è necessità: la realtà universale, atemporale ed eterna del mito originario costringe in senso assoluto a trasferirsi in azione attraverso l’esistenza [in maniera non cosciente né con un fine: semplicemente per quello che è nella sua essenza]. Il mito genuino si rivela nella forma, che è la creatività del mondo: e il culto nello specifico la forma di manifestazione del mito. Il mito è inseparabilmente connesso al culto, lo pretende (come l’essere necessita di essere cantato, v. Muse). Per culto intendiamo il comportamento con cui l’uomo risponde al mito (all’epifania del dio). Esso è generalmente ripetizione dell’evento mitico: e non banale simulazione, in quanto ogni ripetizione cultuale del mito è sempre l’evento mitico originario. Ciò non è razionalizzabile, in quanto il mito è autorivelazione dell’essere: la via di tale rivelazione è un mistero non indagabile dal pensiero umano. E’ il mistero stesso dell’esistenza nel suo umano farsi incontro al divino. Ovunque il mito sia vivo, non vi è mai distinzione tra sacro e profano: la forma del mito infatti si imprime ad ogni azione della vita quotidiana, permea ogni comportamento: tutta la vita diviene culto, impadronendosi il mito della totalità della vita umana. Indaghiamo ora come tale verità originaria si riveli all’uomo: essa lo fa come forma, secondo un principio universale (“le cose più belle del mondo sensibile, sono rivelazioni del più bello nel mondo intellegibile” Plotino) mediante cui prende corpo, in vari livelli: 1. Il 1° livello è eterno, e si imprime nella corporeità dell’uomo. Il corpo umano stesso diventa strumento di offerta del culto al mito (mani giunte, inginocchiarsi, ecc) e tali posizioni o movenze sono esse stesse rivelanti la verità del mito 2. Il mito diviene grazie al creare dell’uomo, facendosi forma in un tempio, una colonna, un idolo; oppure in un’azione che si ripete con continuità (forma nell’agire umano) 3. Il mito, nella sua forma originaria, si fa parola (e musica attraverso i suoni: melodia ed armonia come autorivelazione dell’essere). Il linguaggio non è un mezzo comunicativo: è esso stesso la verità del mito, o meglio è la forma rivelata in parola della verità mitica; è il mito . Ogni rivelazione della verità del mito è un miracolo: pertanto il linguaggio (in quanto culto) è un miracolo, e così la preghiera (come testimonianza della presenza) e la narrazione delle vicende mitiche (come evento originario ed eterno). Il mito, come la rivelazione, è un’apertura che proviene dall’alto e va dal sovraumano all’umano: esso non viene da una riflessione umana, ma comprende ed afferra l’uomo (come testimonia l’immediata azione umana che necessariamente ne deriva). La verità non può essere cercata, ma può rivelarsi soltanto da sé. Dato che la verità si mostra come forma, la parola della rivelazione deve essere sempre preceduta da una rivelazione originaria come parola: e i greci sono l’unica popolazione al mondo che ha riconosciuto tale processo, pervenendo fino al fenomeno originario della comparsa di tale “parola”, rappresentata dalla verità eterna ed autorivelatasi nella figura della Musa. Essa è la dea creata al compimento della creazione, e creata appositamente per celebrarla, ossia per mostrare l’essenza dell’essere. E tale essenza si mostra nella forma di ogni arte elevata, che ha sempre in sé l’essere nella sua totalità: la nascita della Musa è dunque la nascita dell’arte. I greci rifiuterebbero con forza la concezione moderna dell’artista come “creatore”: l’invocazione della Musa non è rituale ma è riconoscimento del proprio ruolo di semplice ascoltatore, come ci testimonia ad esempio Pindaro. Le Muse sono quindi il miracolo per cui l’essere pronuncia sé stesso (necessariamente attraverso il poeta), tramite la “musica” (arte delle muse) che esse portano nel mondo, e cui appartiene l’intero regno dello spirito. Con le Muse viene alla vita la parola (sempre nella musica), nonché le note. La gioia e solennità del canto musaico conciliano piacere e dolore al di là di ogni aspirazione umana alla felicità [passaggio-chiave per l’interpretazione di Otto della tragedia?]. Le Muse cantano infatti gli immortali e beati dei, e per contro le pene dei mortali uomini: tale malinconico canto (Holderlin), visto in prospettiva eterna atemporale, rivela lo splendore del divino. Gli uomini imitano gli dei quando sono felici: ossia nel gioire, nel fare filosofia e musica. Platone (e prima Pitagora) chiamano infatti al filosofia musica, e ad essa assegnano la paideia. Ogni poesia è mitica, in quanto autorivelazione dell’essere nella sua totalità: essa consente all’uomo di contemplare in un lampo il volto divino della realtà universale. IL MITO L’epoca della tecnica, sta tentando, prima dai tempi del romanticismo, una riscoperta del mito, che ricupera il suo valore e in cui si cerca una verità eterna (seguendo le tracce di Holderlin). Ma dove trovare il mito genuino? Nell’antichità vi era una chiara separazione tra miti veri e non, tra miti primari e secondari: i miti secondari traggono il soprannaturale dai miti più antichi, che lì trovava compiuta forma nella manifestazione di un tutto. La poesia continua ancora oggi ad esprimersi in forma mitica, in quanto cerca il rivelarsi della verità, eterna ed intangibile. Dobbiamo guardare dunque non alla molteplicità dei miti, ma al carattere di fondo che li accomuna tutti. Esso è l’impossibile per l’intelletto: ossia il Dio, il cui mondo è il mondo del mito. Il mito può solo manifestarsi, essere esperito: ma non può essere indagato, o provato, o fatto “mentalità”. La figura del dio è il centro di ogni mito, da cui ogni cosa riceve la propria unicità. Il nome che risuona, è il primo manifestarsi del divino, ossia del mito: dunque, ogni religione è all’origine mitica. La forma della rivelazione divina è ciò che regge ogni sentimento religioso ed ogni fede (che senza di essa sarebbero totalmente vuote e insensate). Il mito originario prova sé stesso, in quanto potenza fattuale che afferra la vita dell’uomo. La forma originaria della realtà del mondo si trasferisce dunque dalla rivelazione del mito alle istituzioni degli uomini. Quanto più la razionalità respinge il mito, tanto più esso si rifugia nei sentimenti: il profano usurpa dunque presto il ruolo del religioso, relegando il culto (che permeava l’intera esistenza primitiva) a singoli e separati momenti dell’esistenza umana. La rivelazione originaria del mito si manifesta nelle forme: 1. Del comportamento mitico (erigersi del corpo, giungere le mani ecc) 2. Dell’azione mitica, ossia incedere solenne, gesti sublimi, armonia delle danze, opere create dall’uomo, celebrazioni cultuali quali manifestazioni immediate dell’evento 3. Nella parola mitica: quella antica è ormai per noi ermetica, ma i poeti possono ancora condurci a tale rivelazione. Pensiamo che l’uomo preistorico, a contatto con la natura e più contemplativo, era maggiormente in grado di recepire la manifestazione dell’essere, che con l’avanzare di civiltà e ragione è divenuta sempre meno accessibile Il poeta è però in grado di rievocare “il primo nascere” della rivelazione mitica. Notiamo come il parlare del poeta sia della stessa natura di quello primitivo: esso cioè non è azione comunicativa, bensì manifestazione di sé. Non si può ipotizzare lo sviluppo del linguaggio senza porre delle preposizioni base che a quel punto divengono inspiegabili: il linguaggio è dunque un miracolo, connaturato al miracolo dell’epifania dell’essere (linguaggio naturale, da non confondere da quelli universali sviluppatisi a scopo comunicativo, e che ora si ritiene uniche forme linguistiche possibili). Dunque, sia la parola sacra che le azioni sacre sono il mito stesso. Il contatto con gli elementi e le forze della natura ha costretto l’uomo a cantare gli dei, nella musica e nel linguaggio: e queste due sfere sono state connesse dai greci alla loro divinità più propria ed unica: la Musa. Esse sono le uniche “olimpiche” vicine a Zeus, e la loro origine ci è narrata da Pindaro: esse vengono richieste a Zeus dagli altri dei, per cantare il creato. Il mondo si compie nella nascita della forma, ossia della parola e del canto. IL MITO ORIGINARIO ALLA LUCE DELLA SIMPATIA DI UOMO E MONDO Indagheremo l’essenza del mito originario attraverso l’accordo armonico di uomo e mondo, cioè essere uomo ed essere mondo. Va distinto però tra mito originario e miti falsi, che si travestono da esso [“Satana si traveste da angelo di luce”]. Accanto a religione, scienza, arte ve ne sono di false, che copiano solo i tratti esteriori, risultando però non convincenti. Nell’epoca moderna si ritiene il mito scomparso, appartenente ad un’epoca primitiva: eppure ciò è assolutamente falso, in quanto il mito si manifesta ovunque si ricerchi il vero. In effetti incontriamo il mito in ogni azione quotidiana: poiché non agiamo secondo leggi, ma secondo immagini, e in tali forme si rivela a noi il mito. Crono (“re”) è riconducibile al latino Saturno, come al semitico El o Baal, o al babilonico Moloch (che come Crono mangia i figli). Tale sviluppo del mito teogonico è estremamente diffuso, e possiamo seguirlo fino in Indonesia, riscontrando varie coincidenze letterali. La teogonia esiodea è con ogni probabilità l’ultima, e tra elementi da una teogonia precedente di almeno 1000 anni, che ha influenzato semiti, babilonesi, ittiti, hurriti. (non si tratta la teogonia babilonese, troppo confusa: si evidenza però come anche in essa alla fine regni in eterno un dio, ossia Marduck). Seguiamo in particolare la teogonia semitica di Sancuniatone, vissuto sotto Semiramide (800 a.c.): da Eliun (il Supremo) e Beruth nascono Urano e Ge, che generano Elos (il semitico El), o Crono, che spinto da Ge ed armato di falcetto sconfigge Urano. Crono regna con alcuni compagni (gli Elohim), e ha tre figli, tra cui Zeus Belos (Baal). Crono evira infine il padre. Vediamo dunque (anche dall’esempio della teogonia ittita-hurrita, omologa) come lo schema di base sia lo stesso: in questo, particolare significato assume l’evirazione e le sue tragiche conseguenze; tale significato si può riscontrare ormai solo nella teogonia esiodea, in quanto in quelle orientali si è trasformato in una tragedia familiare di lotta per il potere, perdendo la sua profondità. Ci può illuminare una teogonia polinesiana, secondo cui cielo e terra sono infine separati dal dio degli alberi, rivelando in questo separarsi i propri figli ch emergono nella luce. Il tema della divinità che “separa cielo e terra” è fortissimo (Egizi = Iside / Babilonesi = Enlil / semiti = YHWH). Il mito originario si rappresenta nel culto e si ripete di continuo: e infatti ogni giorno ed ogni notte si ripete il mito di Crono ed Urano. Il significato originario dell’evirazione è dunque la separazione di cielo e terra, a seguito di cui “fu luce”. L’evirazione era rappresentata a livello cultuale (sacerdoti della Grande Madre, fino ad epoche tarde); e lo stesso divorare i figli di Crono è rappresentato nei fanciulli gettati nelle fauci di Moloch (presenti anche nei santuari di Mitra). Il vero mito è sempre un mito di dei, e predente sempre un culto: mito originario e culto sono la stessa cosa. L‘esistenza riceve la propria forma direttamente dal mito: le ricerche di Jensen sull’isola di Ceram ci mostrano una vita primitiva dominata da un grandioso mito, cui ogni aspetto della vita deve conformarsi. Il mito è forma eternamente vigente. Nelle popolazioni “civilizzate”, ove culto e mito sono separati, la celebrazione religiosa assume il ruolo di ripetizione (e nuova realizzazione) dell’evento mitico. La scienza del XIX sec. deve necessariamente vedere un fine immediato nell’atto, pertanto riconduce i culti antichi nella sfera della magia. Ciò è assolutamente errato: il culto non è altro che la ripetizione dell’evento mitico, ossia l’azione degli dei in forma umana (del cultuante). L’espressione linguistica è una delle forme di rivelazione del mito. I termini che definiamo astratti, delle virtù di “giustizia”, “amore”, ecc. che quasi sempre troviamo in forma di dio nell’antichità, sono state interpretate come “personificazioni di concetti astratti” dal moderno: tale concetto è assurdo e ribalta la realtà, in quanto nella storia del mito è avvenuta una progressiva depersonalizzazione, ossia un’astrazione a concetto di qualcosa che era originariamente nient’altro che un dio. Parimenti, è avvenuta una demitizzazione del mito, come ravvisato da Schiller: un termine astratto non sarebbe mai stato personalizzato, se esso non fosse stato già all’origine persona divina. (3 forme universali di manifestazione del mito maggiore): il nostro linguaggio e pensiero sono fondamentalmente mitici. La poesia e l’arte sono come il mito in grado di esprimere una verità più profonda di ogni conoscenza scientifica: eppure sono inferiori al mito in quanto disvelano tale verità per un attimo, ma non sono in grado di renderla fondante, come fa il mito originario. La concezione di arte come creazione è assolutamente moderna, e comincia nel XVIII secolo, ponendo a suo eroe emblematico Prometeo, che nel Medioevo era simbolo di sopportazione del dolore (passione) e che qui diventa uomo tecnico e inventore, perdendo il carattere di ammonimento che gli era proprio nell’antichità. Già Leopardi critica tale visione, e Nietzsche scrive una poesia in cui Prometeo viene schernito dai sapienti. I greci avrebbero sicuramente interpretato il concetto di genio come Hybris: per loro il poeta era semplicemente medium della creazione delle Muse. Tale concezione attraversa tutto il pensiero greco. Lo stesso mito, si è un girono messo in parola per la prima volta: attraverso un uomo che era semplicemente ascoltatore e tramite di una verità divina [un po’ come la parola ispirata della Teologia]. Il canto delle Muse, creato da Zeus, è dunque il mito originario. Esso “annuncia l’eterno nella forma della narrazione di un accadimento originario, privo di tempo, e lo annuncia in modo tale da catturare con la sua verità l’uomo tutto, dandogli quella forma, plasmandolo, come doveva essere fin dall’inizio: immagine della divinità. Colloquio con Dio.” IL LINGUAGGIO COME MITO Il linguaggio è la forma privilegiata di manifestazione del mito: anzi, essi sono in realtà una cosa sola. Il linguaggio è una caratteristica propria dell’uomo, diversa dai suoni e dalle interiezioni comunicative di animali ed uomini: nel linguaggio si dischiude all’uomo l’essere delle cose, e il poter essere del suo mondo. L’uomo è creatura parlante, e può accedere alla regione dello spirito, ove piacere e dolore si neutralizzano nella chiarezza. Lo spirito accoglie e rivela, e dissolve soggetto ed oggetto nell’Essere (“poiché è lo stesso pensare ed essere” Parmenide). E’ il luminoso Olimpo, in cui coesistono dramma e lietezza (v. Sofocle). Solo qui può essere cercata la patria del linguaggio. (rifiuto della tesi di origine comunicativa, in quanto non sarebbe stato necessario un linguaggio articolato, diverso da suoni e gesti, per comunicare necessità di base). Il linguaggio non è quindi funzionale: esso parla per parlare (Holderlin), è autosufficiente. Le teorie linguistiche sono smontate dal fatto che ogni frase presuppone già l’intera lingua per essere detta (e non può essere quindi origine), e dal fatto che nello sviluppo dei linguaggi non vediamo uno sviluppo evolutivo, bensì involutivo: ogni forma di linguaggio col tempo si inaridisce e perde capacità espressiva. Il linguaggio non è quindi creazione utilitaristica, bensì artistica: scaturisce dall’esistenza stessa. L’artista non riproduce una copia ma testimonia del manifestarsi dell’essenza della cosa stessa: nell’immagine è presente l’essere stesso. Le cose sono presenti solo nel linguaggio, cioè, quel che si esprime nel linguaggio, è presente solo in questo: è l’essenza e il cuore del mondo. Ciò è possibile in quanto l’essere del mondo si fa presente nel linguaggio grazie al ritmo. Tutto è ritmo (Holderlin), in esso affonda le radici e cresce. Il linguaggio stesso nasce dal ritmo. Essendo tutto ritmo, ‘uomo è colui che ascolta questo ritmo: da tale ascolto scaturisce ogni creazione viva, che possa portare frutti. La danza la prima a suscitare l’ascolto di questo ritmo universale, ed attraverso essa tutto ciò che è vero è giunto all’uomo: la danza cultuale, in cui gli dei si accostano agli uomini, e ciò ci è rivelato dai culti antichi. Dal ritmo dell’essere delle cose nascono poi la melodia e il discorso: essi sono parimenti un manifestarsi del ritmo universale e della sua presenza. Il linguaggio non è dunque né imitazione, né descrizione, né risposta umana: manifestazione dell’essere stesso, e conoscenza nel senso di cosa conosciuta che si mostra. Non è prodotto della soggettività umana, bensì della realtà del mondo: è tale realtà che si manifesta. Ogni cosa è più della sua manifestazione (Schelling): e tale “di più” è un’aura che circonda la cosa, e che è ritmo e musica, e che è il fenomeno originario che rende possibile la poesia e la religione. Possiamo percepire tale aura poiché risuona con quella interiore a noi, dell’essenza dell’uomo interiore. Ogniqualvolta si viene a contatto con questa aura, l’essenza umana è incantata: e da tale incanto possono scaturire (ed essere compresi) danza, mito, linguaggio, canto. In tale incanto si annullano soggetto e oggetto, nella trascendente unità della manifestazione dell’Essere. (Ritorno all’etimologia greca di mito come verità rivelata). La parola (anche nella sua declinazione in maschile, femminile e neutro, notata da Muller) è dunque non immagine della cosa, bensì la cosa stessa, nella sua essenza “aurea” vicina alla divinità. Ogni cosa (inanimata, naturale, animale) ha un’essenza superiore, che è presente nella parola [il discorso sembra un richiamo all’Idea platonica]. Tutto ciò indica la qualità mitica della parola. (analisi delle parole come viventi, e della grammatica in senso mitico. Bel trip). Le parole in cui ciò si manifesta massimamente sono i sostantivi astratti (libertà, amore, pace, giustizia). Tali concetti astratti furono originariamente persone divine (in Grecia come a Roma). Il linguaggio è dunque originariamente totalmente mitico (“tutto è pieno di dei” Talete). Linguaggio e mito non vanno dunque separati: il linguaggio va compreso in quanto mito, scaturente dal ritmo divino di ogni cosa nel suo farsi incontro all’essere superiore (l’aura) dell’uomo; ossia del dialogo dell’uomo con Dio. Solo così si può spiegare il miracolo dell’rigine del linguaggio. Il linguaggio rientra nella sfera della libertà: essa era centrale nelle religioni antiche (Dioniso nei greci, vicina a Giove nei romani). La libertà nella modernità è diventata semplicemente valore negativo (liberazione da una costrizione): ha perso totalmente il senso positivo della libertà, ossia del pensare non affidato ad una guida ma autonomo, che era testimoniato nell’antichità dalle sue figure divine. Il seguito di Dioniso vive un divino entusiasmo, ed ogni partecipante può chiamarsi esso stesso Bacco. Non è una liberazione da impedimenti, in quanto l’Io che dovrebbe essere liberato non esiste già più (nel trascendere nel dio): l’uomo si eleva a una tale altezza in quanto partecipa della libertà divina. A tale sublime altezza della libertà (nell’abbadono della vita terrena, Schiller) avviene ogni creazione: è la sfera di azione delle Muse, ove dimora e nasce il linguaggio. Tutto ciò che è originario è misterioso e sacro (“un enigma è scaturito, puro. A stento può, il canto stesso, disvelarlo” Holderlin). Abbiamo di fronte agli occhi, nella modernità, il progressivo avvilimento ed impoverimento del linguaggio (abbreviazioni, formulette), come tanti altri aspetti del sacro che si sono impoveriti entrando nell’uso corrente (vedi sacre festività). Eppure, finché ci saranno poeti, l’Essere avrà occasione di parlare.
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