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Riassunto dell’introduzione del Canzoniere di Petrarca (a cura di Marco Santagata), Sintesi del corso di Letteratura Italiana

Introduzione a cura di Marco Santagata in “Canzoniere” di Petrarca (Mondadori)

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

Caricato il 25/06/2022

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Scarica Riassunto dell’introduzione del Canzoniere di Petrarca (a cura di Marco Santagata) e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! Introduzione Santagata 1. Negli ultimi mesi del 1336 o nei primi del ’37, nella sua città natale, muore Cino da Pistoia. Petrarca, che a quanto risulta non lo aveva conosciuto di persona e nemmeno aveva intrattenuto con lui rapporti epistolari, lo commemora nel sonetto Piangete, donne et con voi pianga Amore. Nel Canzoniere lo collocherà subito dopo RVF 91, sonetto con il quale, forse, consola il fratello Gherardo della morte di una “bella donna” da lui amata. Un poeta celebre e una donna sconosciuta sono i due soli personaggi di cui la prima parte del libro, la cosiddetta parte ‘in vita’ di Laura, pianga la scomparsa. Se davvero la “bella donna” defunta è identificabile con l’amata del fratello, questo è stato per Petrarca un modo per far posto dentro al Canzoniere alla figura del fratello il quale, convertitosi dalla dissipatezza giovanile alla severa regola certosina, è uno dei modelli a cui guarda il “convertito” autore del Canzoniere. Il recupero del sonetto in morte di Cino non risponde invece a nessuna necessità del libro delle Rime. Semmai, sembra rispondere a una necessità del Petrarca, che non voleva escludere da un libro di rime il nome del più famoso poeta lirico attivo negli anni della sua formazione. L’inserimento di un testo così incongruo è dunque di per sé un omaggio di grande rilevanza, non esente tuttavia da qualche ambiguità, a cominciare dalla testura letteraria, ispirata al Dante del sonetto Piangete, amanti, poi che piange Amore, e solo nel finale ammiccante a un componimento ciniano, la canzone consolatoria della morte di Beatrice, Avegna che del m’aggia più per tempo. I versi 9-13 del sonetto di Petrarca recitano: Piangan le rime anchor, piangano i versi, Perché ‘l nostro amoroso messer Cino Novellamente s’è da noi partito. Pianga Pistoia, e i citadin perversi Che perduto ànno sì dolce vicino. Il personaggio pubblico di Cino è qualificato dal titolo “messere”. Una dozzina d’anni dopo, rivolgendosi all’anima di un amico poeta da poco defunto, il fiorentino Sennuccio del Bene, Petrarca lo pregherà di salutare per lui nel cielo di Venere la schiera dei poeti d’amore “Guitton… et messer Cino et Dante” (RVF 287, 10). E con questa si esauriscono le occorrenze di “messere” negli scritti di Petrarca. Per quanto riguarda “dolce” si osservi RVF 70, una canzone nella quale Petrarca rende omaggio ai maestri della lirica romanza ai quali più deve la sua poesia e Cino è presente nell’incipit in cui compare l’aggettivo “dolce”: La dolce vista e l’bel guardo soave. “Messere” nel Duecento era un titolo onorifico attribuito ai giuristi, ai giudici e ai notai e poi esteso alle persone di riguardo. Nella corrispondenza in versi a lui diretta, Cino è quasi sempre chiamato “messere”, “ser”, “sire”. Nel Trecento, invece, quel titolo è ormai un normale equivalente del nostro “signore”. Se allora Petrarca ne insignisce Cino e solo lui è perché nella memoria storica la figura del poeta di Pistoia si era congiunta a quella del legista e ciò aveva creato una sorta di automatismo per cui Cino era “messer”. Ma è anche vero che sull’uso petrarchesco di quel titolo sembra stesa una patina arcaizzante. Il legista Cino è poeta “amoroso” e “dolce”, così come lo descrive Dante nel De vulgari eloquentia, nel quale il nome di Cino appare accanto a quello di Dante stesso: nel secondo libro Cino è il rappresentante della poesia amorosa italiana, mentre Dante lo è della poesia morale. In sostanza, Petrarca parla di Cino negli stessi termini nei quali ne parlava Dante, anche se probabilmente Petrarca non conosceva ancora il trattato dantesco ed è dunque probabile che egli ripeta uno stereotipo. L’impressione che il nome di Cino esca dalla penna di Petrarca avvolto da un’aura di arcaicità è prodotta dai cataloghi che lo contengono, sia quello del sonetto 287 dedicato a Sennuccio, sia l’altro di coloro che vanno “d’amore volgarmente ragionando”. Questi confermano che Petrarca considerava Cino un poeta del Duecento, omogeneo ai lirici della seconda metà di quel secolo, e pertanto da tenere distinto dai rappresentanti della poesia contemporanea. Sappiamo che Sennuccio era nato nei primi anni Settanta, quindi poco dopo Cino. Petrarca, dunque, nel retrocedere Cino non agiva in base a un criterio anagrafico. 2. Agli occhi dei rimatori attivi verso la fine degli anni Trenta, Cino da Pistoia poteva in effetti apparire un sopravvissuto. Egli assommava su di sé i tratti tipici di un mondo che stava rapidamente declinando. Cino era un uomo di università e di comune, e come tale anche a lui era toccata la sorte dell’esilio, ed era un poeta lirico. Assommava dunque i tratti salienti di quella laica aristocrazia intellettuale, composta soprattutto di legisti e notai che aveva raccolto l’eredità dei legisti e notai della corte federiciana e aveva fatto della lirica profana volgare il genere portante della nuova letteratura. Ma già nei primi decenni del Trecento l’istituzione comunale versava in una crisi profonda: Firenze era minacciata dall’espansione dei Visconti a Milano. Le corti erano diventate i poli culturali vincenti e con loro cominciava ad affermarsi anche un diverso tipo di intellettuale. L’universitario, il neo-umanista e il letterato in volgare si chiudono ciascuno nel loro specifico settore. Alcuni pensano che già prima del conseguimento della laurea dottorale (1314) Cino avesse abbandonato l’esercizio della poesia per dedicarsi soltanto agli studi giuridici. Se la sua attività di lirico fosse realmente circoscritta alla prima parte della sua vita, allora la sua evoluzione assomiglierebbe a quella di Dante, che nella seconda parte della sua vita tralasciò la poesia lirica per la prosa e per la Commedia. Per Cino la circostanza è però tutta da documentare. In ogni caso, anche se avesse continuato a comporre fino alla fine, la sua figura di poeta sarebbe rimasta legata alla grande stagione dello stilnovismo fiorentino e ai suoi rapporti con Dante. Insomma, il grande giurista che muore nel ’36-’37, come poeta era già simbolicamente morto nei primi anni del secolo. È vero che alla morte di Dante egli scrive una canzone funebre intrisa di immagini della Commedia e animata di sdegno nei confronti dei fiorentini, ma questa attesta il distacco che si era consumato, se non sul piano degli affetti, su quello delle affinità letterarie. 3. È stato proprio Dante a rendere inattuale Cino e, con lui, l’intera tradizione lirica duecentesca. Dante è insieme lo specchio e il motore della grande trasformazione che il sistema letterario conosce nella prima metà del 300. Da un lato le vicende della biografia di Dante e la sua evoluzione ideologica sembrano anticipare le tendenze di fondo del nuovo secolo. Ma d’altro canto è lui stesso, con gli scritti dell’esilio, ad aprire nuove linee di sviluppo. Dunque, non è azzardato dire che i caratteri di base della letteratura volgare del Trecento sono forgiati dall’incontro tra la rivoluzione dantesca e il clima culturale della società proto-cortigiana. La rivoluzione dantesca può essere riassunta in alcuni punti essenziali: - Emancipazione della prosa volgare, divenuta con lui strumento adatto sia alla narrazione che alla trattatistica - Potenziamento della narratività, in prosa e in poesia - Rottura, con la Commedia, della distinzione medievale degli stili e conseguente mescidazione linguistica. Le innovazioni dantesche accelerano la crescita di tendenze già presenti nella società letteraria del primo Trecento, caratterizzata da una forte espansione del numero degli utenti e da una proliferazione delle scritture, estese dall’ambito religioso a quello storico-cronachistico. Nell’ampio ventaglio di generi che viene ad aprirsi, quello lirico non è penalizzato dal punto di vista quantitativo, ma lo è perché perde la sua antica centralità. La dequalificazione di quel genere elitario risponde ai gusti neofeudali degli ambienti di corte, portati al romanzo e all’avventura cavalleresca. In questa nuova temperie, anche il filone didattico duecentesco ha modo di rinvigorirsi: cronache, volgarizzamenti, romanzi, cantari, poemi didattici e scientifici, testi agiografici, nei quali appare dominante, sia in prosa che in verso, la preferenza per il testo lungo, disteso, tendenzialmente narrativo. È comprensibile che in un’epoca in cui molti poeti non toscani si accostavano per la prima volta al toscano letterario e dall’altro lato molti poeti toscani emigravano fuori dalla loro regione, il plurilinguismo e il pluristilismo danteschi non incontrassero ostacoli. Anzi, il mescolamento delle persone e delle esperienze produceva effetti di distanziazione storica e di perdita di confini che si traducevano in ibridismo linguistico e stilistico. Ma ad essersi perduta nei primi decenni del nuovo secolo è la consapevolezza delle implicazioni teoriche e ideologiche del fare letterario. La letteratura in volgare, nel complesso, appare sempre più disponibile al rimorchio dei gusti del pubblico e sempre meno il canale attraverso il quale le élites ne formano Pistoia, ma al contrario partecipa a pieno alla modernità, con intenti di riforma che muovono dall’accettazione del nuovo e non della riproposizione antagonistica del già noto. 8. Contro l’immagine di un Petrarca opposto in tutto e per tutto allo sperimentatore Dante, bisogna insistere sull’omogeneità di fondo tra il suo modo di fare e concepire la poesia e le tendenze dominanti nella lirica a lui contemporanea. Moderno è il suo comportamento nei confronti della tradizione letteraria. Al dettato di Petrarca è sottesa non solo l’intera tradizione in volgare, ma tutta la gamma delle esperienze letterarie a lui accessibili, dal Dante della Commedia ai classici latini, dalla Bibbia agli scrittori dell’età di mezzo, fino ai contemporanei, Boccaccio compreso. Parlo di modernità unicamente per sottolineare l’apertura di Petrarca alla letteratura degli altri. Moderna è la sua lingua. Il suo vocabolario è costruito resecando gli estremi del tecnicismo da un lato e del parlato dall’altro, una lingua astratta e formale, lontanissima dall’uso. Questa lingua, però, possiede una plasmabilità e una ricchezza di lemmi che la distinguono nettamente da quella del lirismo tragico predantesco. Il fiorentino di Petrarca è pur sempre il fiorentino del Trecento. Moderna è anche la sua metrica. La sestina ne è un esempio clamoroso: la tradizione romanzesca ne aveva prodotti pochissimi esemplari (Arnaut Daniel e Dante), ancora lontani da una forma stabile. Petrarca, anche perché stregato dalla magia del sei, il numero sacro a Laura, ne fa una delle sue forme metriche principali. Per primo la solleva da forma particolare della canzone al rango di genere autonomo, conferendole una struttura regolamentata e consegnandola alla lirica successiva come uno dei metri canonici della poesia amorosa. Egli gioca anche con quest’ultima: costruisce infatti una sestina doppia (RVF 332), cioè non di sei ma di dodici stanze e nello stesso tempo fornisce all’interno del testo la giustificazione tematica della doppia misura “et raddoppiando ‘l dolor, doppio lo stile” (v. 39). Atteggiamenti simili si riscontrano nei confronti della canzone, di cui la frottola RVF 105 rappresenta una delle prime attestazioni. Anche in questo caso l’autore è impegnato su un fronte di avanguardia, particolarmente congeniale alla sensibilità trecentesca, stimolata dal nonsenso, dai giochi di parola, dagli accumuli eterogenei al limite della sensatezza tipici delle frottole. Eppure, egli si muove con l’agio e la dimestichezza con le quali si potrebbe muovere chi ha alle spalle una tradizione consolidata: sperimenta il nuovo e ha l’aria di mettere ordine nelle cose passate. A volte ricorre deliberatamente al passato, non per amor di arcaismo ma per volontà di innovare. Lo si vede nell’adozione del modulo della coblas unissonans, attestato tra i siciliani e i toscani della generazione di mezzo (in particolare Guittone), ma sconosciuto agli stilnovisti, nelle canzoni 29 e 206 dei Fragmenta. La modernità di Petrarca si può vedere bene anche nel madrigale, che ai suoi tempi era di nascita recente, per cui i suoi sono tra i primi madrigali che ci sono pervenuti. Madrigale significa poesia per musica ed era riservato a temi leggeri, tra l’eroico e il galante. E un uso leggero ne fa quasi sempre anche Petrarca, tranne per il 54 nel quale si addensa un numero tale di simboli e di suggestioni desunti dalla tradizione biblico- patristica da lasciare in dubbio se si tratti di un testo a forte connotazione morale o invece di una norma di parodia letteraria. Il 54 documenta la straordinaria disinvoltura con la quale Petrarca maneggia un genere nuovo. Un atteggiamento simile è riscontrabile anche nei confronti della sestina, per cui mentre alcune di esse mantengono il sigillo sensuale impressovi da Arnaut e da Dante (celeberrimo il finale di RVF 22, replicato in RVF 237, 31-36), altre si improntano a un tono religioso e penitenziale, da intendere come una vera e propria palinodia (RVF 142). Nel doppio registro si misura il grado di consapevolezza di un poeta capace di inventare una linea letteraria e contemporaneamente di rovesciarne il segno, capace in ultima analisi di trattare se stesso da classico. Di fronte al proliferare di rime occasionali, encomiastiche, propagandistiche , politiche Petrarca è un poeta d'amore, eppure non disdegna di ricorrere all’invettiva e al vituperium contro la odiata Avignone e la corruzione della curia papale (RVF 136, 137, 138); di prendere posizione a favore dei protettori schierandosi nelle lotte cittadine di Roma per i Colonna (RVF 53), incitando un giovane rampollo di quella stessa casata a perseguire senza pietà i nemici Orsini (RVF 103); di esaltare la conquista di Parma da parte del potente amico Azzo da Correggio. In altre occasioni mette la sua penna direttamente al servizio dei protettori, partecipando alla pratica di scrivere poesie in persona o per ordine di un signore. Eccolo scrivere un paio di sonetti per ordine del cardinale Giovanni o scrivere un sonetto di scusa al cardinale (RVF 266) e ricevere in cambio una risposta di Sennuccio a nome del comune signore. Spesso con testi poetici accompagna l’invio di doni ai membri della famiglia protettrice-colombe al cardinale (RVF 8)- tartufi al fratello Agapito (RVF 58); altre volte manda bigliettini d’invito al vescovo Giacomo (RVF 10), incita un amico a non tralasciare un’opera storica intrapresa (RVF 7), consola Orso dell’Anguilara per un torneo mancato (RVF 38) e così via. Per farsi un’idea di quanto l’occasionalità pesi nell’economia complessiva del Canzoniere, i testi che esulano dal rapporto amante-amata sono 39, il 23 per cento del totale. 9. Con tutto ciò è sufficiente rendersi conto che le poesie di Petrarca sono profondamente diverse dalla media della lirica trecentesca. Solo un gesto consapevole di negazione della storia o della storicità del linguaggio poteva edificare le fondamenta di quella che per secoli sarebbe stata la sostanza della lingua poetica italiana. Di negazione della storia si può parlare anche a proposito dei fenomeni di memoria e di intertestualità. Mentre l'intertestualità di un componimento lirico trecentesco è facilmente decifrabile, solo un'analisi accurata è in grado di scomporre la salda compagine del dettato di Petrarca e di etichettarne le derivazioni gli apporti tradizionali. Infine, a potenziare la sensazione di chiusura della storia interviene la struttura chiusa del Canzoniere. L'effetto è indotto dal libro, dalle costruzioni che impone alla lettura, ma ad esso collabora anche l'omogeneità dei nuclei metaforici e dell’immaginario. È facile vedere come le peculiarità del Petrarca lirico siano tutte tra loro collegate e come convergono tutte verso un punto che potrebbe essere definito quella categoria di classicismo. A sua volta questa categoria culturale può essere rapportata a un nucleo psicologico profondo. La volontà di durare, di costruire oggetti stabili, di proferire parole che il tempo non deforma non sorprende in un uomo così scopertamente ossessionato dallo scorrere del tempo, dalla labilità della vita e della fragilità dei segni. Semmai sorprende che contro l'annullamento egli mette in campo dei testi a prima vista di così poco peso quali le rime amorose in volgare. 10. A un livello più superficiale credo si possa sostenere che le novità del rimatore Petrarca riflettono anche le sue singolari vicende biografiche. Nella cosmopolita Avignone la lingua d’uso di Petrarca era forse più il latino che il toscano. Potremmo dedurne che la sensazione di artificiosità prodotta dal suo volgare, nasca anche dalla circostanza che Petrarca non ha propriamente una sua lingua; il volgare è per lui solo una lingua letteraria, nel senso che si applica soltanto alla letteratura e che si nutre prevalentemente di letteratura. Si aggiunga che la poesia lirica in toscano vista da Avignone doveva apparire un oggetto lontano, poco coinvolgente per un cortigiano della curia papale e questo perché ad Avignone mancava il pubblico naturale per questo genere di poesia. Petrarca come lirico, prima di entrare nelle corti padane, era un isolato. La solitudine era la condizione opposta all’immersione sociale dei rimatori delle corti signorili. È quindi un problema di ambiente, di possibilità limitata di scambi e relazioni. Egli è un poeta isolato, al contrario degli altri rimatori suoi contemporanei. 11. Se Petrarca si colloca sulla linea d’onda dei contemporanei, lo fa con intenti riformatori, perseguendo un suo programma di intervento dall’interno. Gli strumenti per quest’azione di riforma non gli vengono dalla letteratura in volgare, ma dai classici latini. I modi con i quali Petrarca si accosta al latino e al volgare sono sostanzialmente omogenei. I grandi libri di Petrarca hanno tutti alle spalle un modello classico da rinnovare e da reintrodurre nel circolo della letteratura moderna: le Familiares guardano agli epistolari di Cicerone, l’Africa ai poemi di Virgilio e di Lucano, le Res momorande a Valerio Massimo, le Epystole a quelle oraziane, il Bucolicum carmen ancora a Virgilio. La lirica volgare non aveva nella sua tradizione modelli tanto illustri e nemmeno libri canonici. La riforma di Petrarca consiste proprio nell’introdurre dentro il mondo senza regole della poesia contemporanea la disciplina, l'ordine, senza tradire lo spirito della modernità. Nessuno prima di Petrarca aveva visto la tradizione in volgare come parte di una tradizione molto più vasta, nessuno prima di lui aveva posseduto una biblioteca che allineasse tanti titoli. Petrarca aprì i confini del genere lirico in direzione extra-liriche, facendo riferimento a numerosissimi autori. Anche su questo aspetto avranno influito le particolari vicende biografiche: da un lato l’essere vissuto in Provenza dove erano ancora vivi gli echi dell’ultima fioritura trobadorica, dall’altro l’aver frequentato le corti padano venete che erano state centri di diffusione libraria della poesia provenzale. Se dal volgare passiamo al latino, il computo delle relazioni intertestuali appare altrettanto imponente. Virgilio, Orazio e Ovidio dominano per quantità e qualità di presenze, ma accanto a loro hanno largo spazio prosatori come Cicerone e Seneca, poeti erotici come Properzio, Catullo e Tibullo, satirici come Giovenale e Marziale. E poi ci sono gli storici e gli enciclopedisti. Ai classici bisogna aggiungere i padri e l'ampio spettro dei medio latini e infine la Bibbia. Questo catalogo di nomi non vuole dimostrare l'estensione della cultura petrarchesca già ampiamente nota, ma mostrare quanta parte di essa egli abbia messo al servizio della scrittura lirica e vuole pure segnalare come Petrarca guarda alla tradizione nella sua interezza, rompendo ogni argine di genere, compreso quello tra prosa e poesia. Petrarca si rifà al passato con un solo scopo: produrre il nuovo. Nei confronti della tradizione il suo atteggiamento è di negazione di ogni forma di consapevole intertestualità. Una posizione siffatta è propria di chi non intende presentarsi come un continuatore, ma più ambiziosamente come instauratore di una nuova tradizione. Petrarca nutre forti interessi teorici per il fare letteratura, interessi che trovano nelle poetiche classiche il loro alimento. In particolare, è attratto dei problemi dell’imitatio. La sua teoria dell'imitazione ha come caposaldo il principio che ci si può avvalere degli ingegni altrui, ma non delle altre parole. Questa teoria, nata sul terreno della latinità, viene da Petrarca applicata anche al volgare. Ciò che quindi differenza Petrarca da tutti i lirici in volgare precedenti è il fatto che egli tratti il volgare alla stessa stregua del latino. La giustificazione culturale del suo scrivere poesie in volgare era nella tradizione. Comporre testi lirici era un modo di fare rivivere ciò che gli antichi per primi avevano vissuto. Petrarca comunque riserva il volgare unicamente ai testi poetici, si astiene dalla prosa volgare perché non rientrava nel programma di rinnovamento dell’antico. 12. Nella lirica italiana, con la nascita del petrarchismo, non ci sarà più spazio per gli sperimentalismi, le audacie formali, per tutto quel filone che era una delle potenzialità contenute nell’esperienza duecentesca. Quando verrà il tempo, il petrarchesco richiamo all’ordine sarà sentito come un’imposizione e con ciò, per secoli, i tentativi di poesia realistica o fuori dalle righe saranno condannati sotto l’etichetta di antipetrarchismi. Come già per gli stilnovisti, il richiamo all’ordine è sia per la pulizia formale, sia per la centralità del discorso amoroso. Per Petrarca “dire” d’amore significa espugnare la cornice, il pubblico e fondare la ritualità testuale su un’esperienza interiore. In primo luogo, egli fa suo il postulato dell’inappagabilità del desiderio. Dai trovatori di Provenza in poi il rapporto amoroso si era espresso in letteratura come rapporto diseguale e squilibrato: l'amante chiede e la dama rifiuta. Il sentimento amoroso è allora una ricerca che si sa in partenza destinata a restare insoddisfatta. La negazione del desiderio rifletteva un impedimento di origine sociale ed era diventata una regola del gioco letterario dell’amore. Siccome le rinunce pretendono un risarcimento, l'amante -poeta di Provenza si è risarcito attribuendo all'amore in sè una funzione benefica, che poteva consistere in un effetto nobilitante, la cosiddetta fin’amors, o in più accentuate forme di sublimazione, di ordine morale e spirituale. La conseguenza diretta di una simile concezione è di rappresentare l'amore come un ente in sé, una forza che agisce sul soggetto con le sue proprie energie, come entità esterna alla psiche e all'animo dell'amante. Al centro dell’immaginario è la dama in quanto figura da cui promanano gli stimoli tematici e dalla quale sono generati gli apparati metaforici. Anche per Petrarca il rapporto non può essere alla pari e l'amore non può essere che frustrato ed è sintomatico che il nucleo metaforico di molte sue poesie sia quello originato dal nome della donna che si sviluppa sul mito di Dafne. Ovidio racconta che la ninfa Dafne riuscì a sottrarsi ad Apollo che la inseguiva per farla sua e a conservare la verginità grazie all’intervento del padre Peneo che la trasformò in una pianta di lauro. Laura può allora identificarsi per via etimologica con il Lauro e, attraverso il racconto, con Dafne fuggente. Al centro dell’immaginario petrarchesco vi è dunque un mito di frustrazione. Si osservi che nel racconto mitico sebbene con l'aiuto del padre è Dafne a sottrarsi all’abbraccio del Dio mediante una metamorfosi, perciò per Petrarca la negazione fa parte dei meccanismi del desiderio. L'amore non è un’entità personificabile, ma un fascio di tensione di pulsioni. Petrarca opera dunque un vero e proprio rovesciamento destinataria delle sue liriche in personaggio a tutto tondo, a collocarlo al centro di una vicenda individuale ed esemplare, a dare al libro della Vita Nova la struttura del romanzo. Ora Petrarca poteva fare lo stesso con Laura e con le poesie di cui era protagonista. Come Dante aveva fatto evolvere la sua Beatrice passando dal canzoniere-romanzo al poema, anche Petrarca poteva progettare la sua intera opera in volgare intorno a Laura: prima eroina in un romanzo lirico e poi protagonista di un poema. 18. La Vita Nova può costruirsi in libro solo perché le poesie sono integrate con la prosa. Il richiamo all’ordine di Petrarca implica invece che non sia la prosa a fornire il passo narrativo alla poesia, ma al contrario che la narratività scaturisca dalla liricità. Racconto e tesi morale devono rendersi visibili e credibili solamente attraverso la successione dei singoli componimenti. A tal proposito non c’erano per Petrarca modelli di riferimento, egli però conosceva altri libri che su di lui esercitarono un fascino particolare: le raccolte classiche di carmina. I primi cinque sonetti del Canzoniere sono ordinati secondo il canone classico dell’esordio. A un proemio (1) da cui si ricava la chiave per la lettura morale dell’intero libro, seguono quattro testi collocati a due a due: la prima coppia (2 e 3) espone le notizie sulla causa e sul tempo dell’innamoramento, la seconda (4 e 5) parla del luogo natale e del nome della donna amata. Francisco Rico ha mostrato come nelle serie prologale e in modo particolare nei primi 3 sonetti, Petrarca concentri un numero elevato di motivi tematici e di veri e propri luoghi comuni caratteristici degli esordi delle raccolte poetiche di età augustea (richiesta di comprensione ai lettori, specificazione che chi sta scrivendo non è più lo stesso uomo del passato, il topos modestiae e l’esibita irrilevanza dei testi raccolti). Con ciò Petrarca fin dall’inizio seleziona il suo pubblico: intellettuali dotati di un’approfondita conoscenza della letteratura classica, ovvero gli umanisti, quella nuova cerchia di letterati che in quei decenni si stava formando. A differenza delle Familiares dedicate a Socrate e delle Epystole dedicate a Barbato da Sulmona, il Canzoniere non ha destinatario. Petrarca rinuncia alla dedica, ma non rinuncia ad evocare un gruppo di persone che assumano un ruolo simile a quello dei committenti nei cicli pittorici o nelle tavole del suo tempo. Lo fa raddoppiando l’estensione del prologo classico. Dopo i primi 5 sonetti, il racconto sembra entrare nel vivo, ma subito si interrompe perché seguono altri 4 componimenti inviati ciascuno a un destinatario storico e così viene duplicato lo schema 1 + 4. Il secondo prologo allinea personaggi di casa Colonna. Questo prologo allargato è interessanti per molti motivi. In primo luogo, perché si tratta di una cifra segreta, nella completa assenza di nomi o allusioni ai nomi, il riconoscimento è quindi affidato al lettore. Allo stesso modo la storia del personaggio coincidente con il poeta è costantemente allusa e delusa. Una serie di indizi rivela che la scrittura è sì autobiografica, ma il livello dell’autentica autobiografia non è mai toccato. Altro motivo di interesse è il potere di verificare subito con quanta intensità l’effetto libro si riverberi sui materiali d’occasione. Infine, il doppio prologo è rivelatore della doppia anima petrarchesca, con il tentativo di innestare l’antico sul moderno. 19. Tra gli anni ’40 e ’50, Petrarca diede vita a un progetto che puntava a rinnovare profondamente la sua immagine di letterato. La nuova letteratura avrà come oggetto privilegiato il suo stesso autore, sarà cioè autobiografica. Un’autobiografia da non intendere come resoconto veritiero, ma come costruzione di un personaggio ideale, che quindi mescola liberamente realtà e finzione. Del se stesso personaggio interessa l’animo, l’interiorità: altra caratteristica delle scritture autobiografiche sarà, allora, quella di fondere insieme discorso introspettivo e valutazione etica. Il valore etico risiede nel fatto che l’”io” viene proposto come esemplare e rappresentativo del “noi” dei lettori. Il tema autobiografico fa leva sull’esame di una conversione, sul tema del passaggio dall’errore alla saggezza. Quella della conversione è un luogo comune che Petrarca desume soprattutto da Agostino, arricchendolo però di armoniche filosofiche di stampo stoicizzante. La filosofia stoica appresa da Cicerone, Seneca e Agostino forniva a Petrarca un modello laico di saggezza. Saggio è chi ha il completo controllo delle passioni e dei sentimenti. Petrarca individua nel percorso stoicizzante verso l’apatia il punto saliente dell’autobiografia da consegnare ai posteri. Tradotto in racconto, quel percorso richiede in una conversione. E qui si inserisce l’altro modello, Agostino, con il suo esempio di grande intellettuale che ha una conversione al centro della sua vita, che racconta in un libro autobiografico: le Confessiones. Facendo interagire agostinismo e stoicismo, a cavallo tra gli anni ’40 e ’50, Petrarca giunge ad abbozzare un complicato intreccio di testi nel quale elementi di realtà ed elementi fittizi convivono. La disinvoltura con la quale Petrarca mescola realtà e finzione si spiega soprattutto con la sua certezza che la letteratura consenta di raccontare una vita esemplare più vera di quella vissuta. Ma accanto alla fiducia umanistica nella moralità della letteratura, agisce anche uno stato di necessità. A differenza di Agostino, nella biografia di Petrarca non c’è una conversione a cui appigliarsi, egli quindi è costretto a forzare non poco i dati delle realtà. Il compito, non facile, è quello di raccontare una sua biografia che non urti troppo con la realtà nota al pubblico, ma che nello stesso tempo possa fornire credibilità “storica” alla mutatio, a una conversione collocata intorno quarantesimo anno della sua vita. La giovinezza è per definizione l’età “appassionata”, l’età del disordine morale. In una vicenda di conversione è quasi scontato che il momento negativo sia impersonato dall’autore da giovane. Petrarca molto spesso retrodata esperienze che non si sono esaurite dentro alla giovinezza. Alla giovinezza non come ordine cronologico, ma come connotazione di carattere morale si fa riferimento alle Familiari come opera iniziata in quel periodo, alle Epystole, offerte al dedicatario come frutti da una Musa giovanile e infine, l’errore amoroso è fin dal sonetto proemiale “giovenile”. 20. L'amore non è l'unico errore della gioventù, ma nel Canzoniere certamente è il più rilevante e anche questa scelta era in parte topica: quella amorosa è la passione per eccellenza dell’età giovanile. Ma si aggiungono due altre motivazioni: - L’insistere sulla dimensione amorosa consentiva a Petrarca una più agevole applicazione delle direttive stoicizzanti sulla saggezza. Se il saggio è uno e indiviso, l’innamorato è diviso perché in preda alle perturbazioni dell'animo e perché non hai il controllo di sé, ma dipende dall'oggetto d’amore. - Eleggere la passione amorosa a segno del disordine giovanile era anche un modo per recuperare dentro la biografia fittizia elementi della biografia reale. Petrarca, infatti, fin da giovane si era presentato al pubblico come poeta amoroso e per lungo tempo aveva tenuto la scena quasi unicamente in quel ruolo. Gli restava però il problema di fare di un rimatore d'amore un peccatore d'amore. Il problema non era piccolo perché il mito amoroso tendeva ad essere interpretato come uno schermo simbolico di quello parallelo alla gloria poetica, la poesia per Laura era stata percepita dai contemporanei come poesia per la laurea. Petrarca doveva irrobustire lo spessore realistico del personaggio di Laura e molti degli elementi referenziali che orientano verso una lettura realistica sono un'invenzione postuma. Il Canzoniere verrà alla luce in quanto il contenuto della poesia d'amore è stato condannato dall’autore, ma non è l'unico peccato di cui Francesco deve emendarsi: Agostino condanna in modo esplicito le attività di storico e di poeta latino di Francesco. Il comune denominatore fra questa letteratura e la poesia amorosa risiede nel fatto che sia il sentimento amoroso, sia l'attività letteraria finalizzata al conseguimento della gloria sono causa di alienazione per il soggetto. La letteratura umanistica è per Agostino una letteratura scritta per altri, che parla di altri e fa dimenticare se stessi, mentre il compito di un intellettuale cristiano è di scrutare in se stesso, di esaminare la propria anima alla luce della certezza della morte e in vista della salvezza. Invece di una ricerca letteraria che celebri gli eventi della storia con la speranza di conseguire la gloria fra gli uomini, Francesco dovrà collocare una letteratura di impronta filosofica che analizza gli stati e le contraddizioni del suo animo, in vista della gloria eterna. Agostino indica per nome le opere che Francesco deve abbandonare per la nuova letteratura: il De virus illustribus e l’Africa, perché il progetto della conversione contiene anche una grande sfida letteraria e Agostino auspicava che l'allievo si dedicasse all'autobiografia. Nel corso degli anni Petrarca aveva scritto una notevole quantità di testi in prima persona, lettere e componimenti lirici in volgare, che l'autore qualifica costantemente come nuge, piccole cose. La sfida insita nel progetto allora ha quasi il sapore di una scommessa: la scommessa di trasformare quelle piccole cose, una volta riuniti i libri, nei monumenti della nuova produzione autobiografica. Dal punto di vista ideologico, questo è il modo per rispondere sia agli insegnamenti di Agostino, sia all’ideale di saggezza mutato dalla filosofia stoica. Sul piano più specificatamente letterario, la scelta delle raccolte continuava la politica petrarchesca di reintrodurre nel circuito contemporaneo i generi letterari della classicità. A livello personale, infine, quella decisione che il Secretum connota di modestia rappresenta il più orgoglioso tentativo del nuovo intellettuale di monopolizzare l'intero sistema letterario, presentandosi in veste di scrittore e di soggetto della scrittura. Lo scopo ultimo cui mirava l'intero progetto della conversione avrebbe dovuto essere un grande intertesto, sospeso tra realtà e finzione, suddivisa al suo interno in tre capitoli distinti ma complementari: i 24 libri delle Familiares, i tre delle Epystole e il Canzoniere. Tutte e tre le raccolte giungeranno a complimento, ma dopo decenni dalla loro ideazione. 21. Passeranno circa 10 anni prima che la redazione Correggio trovi un suo assetto. Il sonetto proemiale che occupa subito per sempre questa posizione è un vero testo programmatico. Esso espone le linee lungo le quali si muoverà il libro. Non colpisce tanto che un sonetto introduttivo a una storia d'amore ignori del tutto la donna amata, quanto che addirittura non parli quasi d’amore; la parola stessa compare una sola volta, al verso 7. Il sonetto ottiene un duplice obiettivo: concentra il discorso sull’io dello scrivente, presentato come il vero e unico protagonista della storia e impedisce che il passato da cui ora lo scrivente prende le distanze sia caratterizzato in senso esclusivamente erotico. Della sua propria passione il poeta parla in termini di errore e di vaneggiamento. L'errore nel quale il significato più ovvio di peccato si associa quello di sviamento, è ideologicamente omogeneo al “vario stile”. Infatti, il testo ha cura di mettere in ordine la varietas stilistica con l’instabilità psicologica del soggetto, diviso fra speranza e dolore, a significare che “vario stile” non è una definizione retorica che denunci il venir meno della distinzione degli stili, ma espressione tecnica della filosofia morale che evidenzia un difetto etico. Nel disordine morale rientrano anche la vergogna che nasce dall’essere fabula vulgi e l’accenno alle “rime sparse” con cui si apre il sonetto. Le rime sono sparse per gli stessi motivi a causa dei quali è “vario” l’animo dello scrivente: la dispersione materiale dei testi rivela la dispersione interiore di un innamorato alienato a se stesso. “Il giovenile errore” ha una valenza soprattutto laica: se il peccato cristiano è un errore, non è detto, all’inverso, che ogni errore sia un peccato. La guarigione si manifesterà non come pentimento della colpa o come anelito di salvezza, ma come riconquista dell’autocontrollo nella ricomposizione dell’io diviso. Il sonetto presenta un secondo discorso sull’errore, che a differenza del primo, lo connota proprio come colpa (“vaneggiar”). Lo ribadisce la necessità del pentimento affermata nell’ultima terzina. È questo secondo discorso ad ispirarsi ad Agostino. La condanna dell’amore è giustificata dall’osservazione che anche il sentimento più casto e nobilitante (e non era peraltro quello di Petrarca per Laura) nei confronti della persona più nobile e degna è pur sempre peccaminoso, dal momento che esso sovverte la scala dei valori anteponendo la creatura al Creatore. Petrarca fa di questa accezione il punto centrale del suo Canzoniere e lo ribadisce anche nel sonetto 3, nel quale racconta come l’amore per Laura sia nato il giorno della morte di Cristo. I problemi venivano dal radicalismo agostiniano. La condanna morale del sentimento amoroso introduce nel libro una contraddizione insanabile. I due tempi della tesi ideologica non si applicavano bene ai tempi di crescita di un libro scritto nel passato e ordinato nel presente. La contraddizione investiva a pieno il ruolo di Laura. Come condannare infatti il sentimento amoroso e nello stesso tempo assolvere l’oggetto di quel sentimento? Se la soluzione della donna angelo era preclusa dall’etica agostiniana, inevitabilmente la donna amata avrebbe dovuto indossare i panni della nemica. Ma ciò urtava contro l’immagine femminile trasmessa dalla lirica romanza e contro il dato specifico che il libro avrebbe dovuto tratteggiare una Laura negativa conservando i testi nei quali si presenta come agente benefico. Inoltre, la pretesa di Agostino entrava in rotta di collisione con uno degli stimoli più importanti soggiacenti all’idea del libro: l’intenzione di emulare Dante facendo di Laura un equivalente di Beatrice. In quest’ottica non era possibile caricare l’eroina del libro di responsabilità etiche negative. Tutto ciò impedisce a Petrarca di chiudere il libro. Le attese di pentimento suscitate dal proemio non vengono esaudite. La morte di Laura è vissuta come perdita irreparabile, non come l’evento che apre un’altra e diversa storia spirituale (RVF 292). A scompaginare la tesi iniziale è stata proprio Laura, perché a mano a mano che il racconto procede, il suo personaggio conosce una profonda metamorfosi. Ma la direzione del suo cambiamento è opposta a quella
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