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Riassunto della lotta per le investiture (998-1122), Sintesi del corso di Storia Medievale

Descrizione dettagliata e sintetica degli avvenimenti più importanti dell'XI secolo, tra scontri e accordi.

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

Caricato il 12/01/2023

Sofiaaaa181818
Sofiaaaa181818 🇮🇹

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Scarica Riassunto della lotta per le investiture (998-1122) e più Sintesi del corso in PDF di Storia Medievale solo su Docsity! LOTTA ALLE INVESTITURE – RIASSUNTO Introduzione Ci sono stati diversi episodi censura, come quello di Canossa, inflitto a Enrico IV da parte di Gregorio VII che lo lasciò vagare tre giorni sotto la neve in veste di penitente vicino al castello di Canossa. Oppure la presa della Bastiglia, che scandisce il significato di rivoluzione. Ciò portò una trasformazione e una mobilitazione delle masse attorno alla chiesa, rafforzando le monarchie costituzionali e la nascita dei comuni. La reformatio di papa Gregorio VII (riforma gregoriana) fu chiamata cosi per nascondere il suo carattere rivoluzionario, come altre rivoluzioni medievali non furono narrabili perché nascoste sotto l’espressione re- formatio, intesa come ritorno alla forma. La rivoluzione del XI, vista in modo negativo dalla civiltà medievale, non fu infatti narrata da chi la svolta ma dai loro nemici. Capitolo 1 La riforma imperiale La parte peggiore della rivoluzione fu la perdita del sistema antico tra impero ed episcopati (funzioni vescovili) causando una profonda crisi. Con l’età Carolingia e Ottoniana si aveva una forte integrazione vescovile, con fondazioni di monasteri episcopali privilegiate; ciò ne impediva le dispersioni dei patrimoni ecclesiastici e una stabilizzazione da parte dell’impero. Tutta via si avvertì il rischio di patrimonializzazione dei beni ecclesiastici da parte dei vescovi e delle loro famiglie. Al tempo di Enrico III si ebbe un progetto riformatore che non prevedeva l’esclusione delle autorità laiche dalla gestione della chiesa, ma anzi le migliori energie intellettuali e spirituali attorno alla curia romana. Questa rivoluzione fu mascherata come una restaurazione. All’inizio del 1045, una rivolta popolare a Roma ordita dai Crescenzi, costrinse papa Benedetto IX a fuggire, cedendo dietro pagamento il pontificato a Gregorio VII (Ildebrando) ; condannato per simonia (commercio peccaminoso di beni sacri) un anno dopo nel sinodo di Sutri. Enrico III si fece incoronare dall’appena eletto papa Clemente II nel 1046, che morì un anno dopo, ridando speranze a Benedetto IX, appoggiato dalla aristocrazia romana e da Bonifacio (marchese di Toscana). Monachesimo e riforma ecclesiastica Figure come Damiani, ha indotto la storiografia medievale a interpretare i mutamenti del XI secolo alla luce della relazione tra monachesimo e riforma ecclesiastica, che portò successo alla riforma cluniacense. L’abbazia borgognona di Cluny aveva intrattenuto relazioni strette con i laici; del tutto innovativa rispetto alla struttura orizzontale del monachesimo benedettino e di ispirazione per papa Gregorio VII. Una riforma nuova dell’ordine benedettino, ispirata a un monachesimo integrale. Si trovano due congregazioni che ricordano una specie di versione italiana del monachesimo cluniacense, ovvero i camaldolesi e i vallombrosani, che hanno un rapporto privilegiato col papato. Per l’eremo di Camaldoli si hanno due diverse narrative: nel medioevo si credeva che l’eremo (luogo solitario dove si praticava una vita di resilienza) fosse stato fondato nel 1012, da Maldolo (aretino che giustificava il nome latino di Camaldoli); l’altra era attribuita a Romualdo, priore generale dei camaldolesi e alla sua donazione nel 1033. A Camaldoli era possibile abbracciare la vita monastica ed eremitica in maniera flessibile; Rodolfo non pose la prima pietra per dell’ordine camaldolese ma ne disegnò il centro simbolico, come Giovanni Gualberto con la congregazione vallombrosana. La compresenza originaria di eremitismo e cenobitismo (cenobita/membro di una comunità di monaci) produceva una elasticità istituzionale. Inoltre, l’eremo di Camaldoli non fu né un modello ripetibile ne una tipologia originaria a cui aspirarsi; l’unica linea di tendenza è che per i pochi eremi medievali della congregazione è quella che porta all’eremitismo disperso, ovvero non più fatto di capanna distanti tra loro, a gruppi di celle (25 nel XVI secolo, adesso 20) sempre più vicine fino alla creazione di un eremo, anche se non potevano avere muri comuni. Anni cruciali, poiché coincidono con le tensioni tra il gruppo riformatore romano e la corte imperiale che trovano un punto di non ritorno nello scisma di Cadalo, tournant decisivo nella storia tra papato e impero. La congregazione camaldolese non era favorevole al gruppo di riformatori attorno alla curia romana già dal pontificato di Leone IX Capitolo 2 La costruzione del gruppo riformatore romano attorno a Leone IX Leone IX era un importante vescovo di Toul, scelto da Enrico III dopo due pontificati di Clemente II. Dopo il suggerimento da parte di Ildebrando, si fece eleggere dal clero e dal popolo romano nel 1049; questa scelta di procedura canonica, si interpretò come l’inizio di una nuova forma ecclesiastica. La riforma di papa Leone IX fu all’insegna dell’imperializzazione del papato, mediante il quale la sede romana assorbì dall’impero molte caratteristiche per delle basi nuove. Ildebrando dopo il <<salvifico consiglio>> fu elevato da arcidiacono (vicario vescovile) a economo (incaricato di provvedere all’amministrazione dei fondi) della chiesa romana. Mentre vescovi, cardinali e abati venivano deposti per symoniacam heresim, ne venivano ordinati altri da parte di Bonizone, una vera riforma dell’entourage di Leone IX. Questi ideali riformatori smentiscono la loro provenienza dalla Lotaringia (regno di Lotario I, tra Francia e Germania) L’itineranza del papa, che non soggiornò completamente a Roma, che fu solo presidiata da persone a lui fedeli, fa riflettere sulla proiezione del papato verso le periferie geografiche della cristianità. Gli stessi vescovi partecipi alla svolta leoniana avevano infatti una cultura documentaria, con produzione di documenti a carico di vescovi, abati e arcivescovi dell’élite colta. L’invenzione della “simonia” Parola che deriva da Simone, il mago che secondo gli atti degli apostoli cercò di comprare lo Spirito Santo; cosi il suo nome restò legato a qualsiasi tentativo di comprare col denaro una carica ecclesiastica. Si creò un enorme dibattito, che mise in secondo piano la elezione dei vescovi e abati, sulle definizioni delle pratiche che potevano essere simoniache, divenne un problema politico. Era comune fino a quel momento, pagare per confermare la carica ecclesiastica e il rapporto vassallitico, ma la situazione cambiò con Enrico III e con essa il grado di condanna per queste pratiche. Dal dibattito ne derivò una definizione complicata di simonia, pratica diffusa in tutta la cristianità già dall’era carolingia. I papi insediati da Enrico III erano favorevoli alla distruzione di questo sistema promosso non solo dall’impero ma anche dai vescovi e abati che lo consideravano un fatto normale. Pier Damiani nel liber gratissimus (lettera 40) sosteneva che il vero autor del sacramento non era chi lo amministrava, ma Cristo e il sacerdote è soltanto un minister, uno strumento di cui si serve l’autor. Da La stabilizzazione del controllo della sede apostolica da parte dei riformatori (movimenti mirati al ripristino del prestigio e dell’autonomia della chiesa) passava però dall’individualizzazione di una procedura che li mettesse al riparo dalle ingerenze dell’aristocrazia romana, tutt’altro che rassegnata a rinunciare al papato che aveva in travisto nelle difficoltà dinastiche dell’impero, il riaprirsi di antichi margini di manovra. Il sinodo quaresimale del 1059 fu emanato il decreto sull’elezione pontificia –decretum de electione papae- pervenuto in due redazioni, una autentica e una modificata all’interno della curia di Clemente III (contrapposto come papa a Gregorio VII da Enrico IV). Le differenze delle due versioni non sono eclatanti. Il decreto infatti era la risposta dei riformatori allo scisma del 1058 che aveva portato all’elezione di Benedetto X. Mirava a escludere l’aristocrazia romana dalla scelta dei cardinali e vescovi. Alessandro II e lo scisma di Cadalo La morte di Umberto di Silva Candida e Niccolò II portò alla fine del perno ideologico del gruppo riformatore. Il papa successivo fu Alessandro II, con un passato patarino ed eletto dai riformatori, anche se non avevano coinvolto la corte imperiale. Ciò provocò nel vulnus del decreto del 1059 la possibilità all’aristocrazia romana di poter scegliere un nuovo pontefice su accettazione di Enrico IV. Fu convocato un concilio a Basilea e fu eletto il papa Onorio II (Cadalo) Si aprì nuovamente uno scisma. Alessandro II non lasciò Roma ma si rifugiò in un monastero della città. Goffredo di Lorena dopo la morte di Enrico III e la riappacificazione con la corte tedesca, temeva un aumento di potenza dei normanni, fautori di Alessandro II. Intanto nella corte tedesca l’arcivescovo Annone (favorevole ad Alessandro II) rapì Enrico IV e costretto Agnese (la madre) a ritirarsi nel monastero di Fruttuaria; il successivo concilio di Augusta, 1062, permise ai normanni e ad Alessandro II di ritornare a Roma e di condannare Cadalo, riprese poi l’attività riformatrice di Niccolò II e dei rinnovamenti contro simonia e nicolaismo. Lo scisma ormai ricomposto dimostrò ai fautori romani che l’impero poteva costituire un intralcio. L’ordinamento ecclesiastico tra la propria legittimità dalle prerogative dal disegno provvidenziale e il potere regio può essere messo in discussione, se e quando chi lo detiene non obbedisca a Dio. La scelta di essere un rex proprius (re proprio) piuttosto che un rex Dei (re Dio) comporta che i sudditi hanno il diritto di disprezzare il loro re. La sede apostolica è considerata interpreti della volontà divina. L’irruzione delle masse cittadine: la pataria milanese Pier Damiani era invelenito con l’eremo di Gamugno, dopo la visita di un milanese che lo ha definito delirioso. Il visitatore era Erlembaldo; il capo della pataria milanese Arialdo gli consigliò di diffidare l’entrata in un monastero, ma di continuare a difendere la fede cattolica contro gli eretici. Erlembaldo aveva ancora dei dubbi, e non percorrendo la via regia ma un itinerario originale, visitò i monasteri dell’Italia centrale (dove poi si imbatté nell’eremo di Gamugno). Per Pier Damiani, nulla doveva fallo scindere dalla sua vocazione, per Arialdo invece le esigenze della riforma giustificavano la non entrata nel monastero. I dubbi furono sciolti da Alessandro II che lo esortò a combattere per la fede al fianco dei patarini. Torniamo nel 1045, dove l’arcivescovo di Milano Ariberto, chiese a Enrico III quattro candidati appartenenti al clero urbano. In questo modo i capitanei, lo strato superiore dell’aristocrazia cittadina non avrebbero potuto controllare il centro della città. La scelta di Enrico III era per evitare gli scontri che l’avevano contrapposta all’impero dei tempi di suo padre Corrado II. I capitanei presero un’iniziativa: i membri dell’alto clero (ordinari) abbandonarono l’arcivescovo sull’altare durante una liturgia solenne che seguì poi un’accusa di simonia davanti a papa Leone IX, fatti gravissimi. I primi segnali di intemperie si manifestarono nella pieve di Varese, ove il diacono Arialdo, richiamava gli ecclesiastici alla povertà, essenziale per lui era che i sacerdoti distinguessero il loro stile di vita dai laici rifiutando ogni forma di unione con le donne. Sono stati vani i tentativi di dare una precisa connotazione sociale al movimento , dispregiativamente definito pataria (straccione). Arialdo e Landolfo costrinsero tutto il clero diocesano a sottoscrivere un editto che impegnava i sacerdoti alla castità. Guido da Velate voleva risolvere con un sinodo, dove Arioldo e Landolfo si rifiutarono di partecipare e furono scomunicati. Dopo la morte di Landolfo in un attentato, Arioldo istituì a Porta Nuova una canonica dove ospitava chierici e monaci ostili ai suoi superiori. Se la lotta per le investiture fu una rivoluzione medievale, la pataria milanese ne rappresentò la manifestazione più estrema. Adozione da parte di Arialdo e dei suoi seguaci delle dottrine di Umberto di Silva Candida in materia di ordinazioni simoniache; più comodo appariva ai patarini il dualismo di matrice umbertina, convinti della necessità di avere un clero degno per condurre i fedeli alla salvezza, dove simoniaci e nicolaiti li sprofondavano nella dannazione eterna. Nel XIII secolo il termine “patarino” fu sinonimo di eretico, poiché molti gruppi eterodossi avrebbero replicato la furia anticlericale milanese nel sovvertire la gerarchia ecclesiastica (il contrario dei patarini del XI secolo, che volevano una gerarchia “pulita”) I legati ottennero da Giudo da Velate un giuramento pubblico contro la simonia e il nicolaismo, sottoscritto dagli ordinati. Obbligo di ritiro e di riconciliazione per tutti coloro che avevano pagato la carica. I patarini ne rimasero delusi perché si era rafforzato un sistema ecclesiastico che essi osteggiavano. Nel frattempo, Anselmo da Baggio era stato eletto papa (Alessandro II). Il papato cercava di guidare le iniziative di riforma che partivano dalla periferia e caratterizzate da una forte presenza laicale ma che si proponeva come luogo necessario per la risoluzione dei conflitti; il problema non era più quello di capire se i vescovi potessero essere giudicati, ma da chi. In questa fase della storia della pataria si inserisce la consegna del vexillum Sancti Petri a Erlembaldo, che simboleggia l’appoggio della sede apostolica al movimento patarino. Erlembaldo era infatti un miles, un guerriero reclutato dal papato per combattere battaglie tra le strade di Milano, ove la violenza tra i patarini e i loro nemici erano frequenti. Guido da Velate fu scomunicato da Alessandro II dopo la sua rivelazione di funzione dilatoria, dopo che nulla era cambiato nel versare denaro per ottenere cariche. Ne rispose con una assemblea, 1066, dei milanesi dove accusò Arialdo e Erlembaldo di voler sottomettere la chiesa ambrosiana al papato; funzionò e molti patarini abbandonano i loro capi e lasciando terra libera ai nemici. Arialdo si rifugiò nel catello di Legnano, dove fu tradito e consegnato ai fautori dell’arcivescovo, dove fu ucciso. Erlembaldo dopo ciò raccolse una folla di milanesi e si mise in marcia per recuperare il corpo nella rocca di Arona, di colui che era un martire della causa patarinica. Divenne Sant’Arialdo nella basilica di Sant’Ambrogio a Milano, venerato da laici e chierici. A Roma nel 1068, Erlembaldo ottiene la canonizzazione di Arialdo, appoggio pontificio con l’ordine di costringere il ceto milanese a non accettare nessun arcivescovo che non fosse eletto dal papa. Fu ucciso dagli antipatarini nel 1075; i suoi seguaci trovarono rifugio fuori da Milano, a Piacenza e Cremona, diffondendo cosi il movimento. Enrico IV scelse un nuovo arcivescovo, Tedaldo, il quale avrebbe partecipato al sinodo del 1080 dove si elesse l’antipapa Clemente III. Cinque anni dopo Tedaldo morì senza mai aver avuto il controllo della città, e finì anche Gregorio VII. I tempi della patarina milanese erano finiti. La rivoluzione dei monaci: la “pataria” fiorentina Ispirato dalle idee di Umberto da Silva Candida, Giovanni Gualberto e i suoi monaci di Vallombrosa erano armati di uno zelo anti-simoniaco. Il loro obbiettivo era Pietro Mezzabarba, successore di Niccolò II, anche se morì poco dopo. Ma sappiamo che la sua elezione è avvenuta in un contesto polito ed ecclesiale confuso dopo lo scisma di Cadalo. Pietro Mezzabarba riassume in sé le caratteristiche della chiesa feudale in un sistema in cui la legittimità non era stata messa in discussione. Testimonianza di Bernoldo, cronista gregoriano che molti fiorentini prestarono giuramento a Mezzabarba. Lui visse e pagò la confusione degli anni Sessanta del XI secolo, infatti è poco documentato, ma sappiamo che i suoi doveri pastorali avversavano i modelli riformatori; nonostante il suo consenso, Giovanni Gualberto non si scoraggiò ad accusarlo di simonia visto che aveva ottenuto la cattedra episcopale dietro somma di denaro da suo padre. Agli attacchi dei seguaci di Giovanni Gualberto inviò i suoi armati contro il monastero vallombrosano di San Salvi nel 1067. I vallombrosani sventolarono scritti che davano la dimostrazione della sua non validità, non predicando solo in verbis e scriptis ma anche alogicamente, anche solo battezzando in tre pievi della città senza il crisma (l’olio di consacrazione del vescovo), come fecero i patarini. Papa Alessandro II si dimostrò nei confronti dei patarini fiorentini fu molto più prudente, essendo che molti monaci e chierici fautori di Arialdo e di Erlembaldo si rifugiavano a Vallombrosa. Il papato cercava di imporsi proibendo ai seguaci di Giovanni Gualberto di predicare al di fuori del chiostro (cortile del monastero); tentò con un sinodo ma non fornì soluzioni, poiché l’assise (assemblee di giustizia) non giudicava il vescovo Mezzabarba ma i suoi accusatori, i vallombrosani. Con ciò i vallombrosani richiamavano il popolo di Firenze a Settimo per la prova del fuoco della colpevolezza di Mezzabarba nel 1068 (iniziativa poco gradita ad Alessandro II). Pietro Igneo, scelto dai vallombrosani, superò la prova uscendo indenne da una camminata tra le fiamme, con il trionfo della loro veritas. L’efficacia propagandistica della prova del fuoco risiedeva nella capacità di produrre consenso dei fedeli prescindendo alla loro adesione, e il risultato fu la deposizione del vescovo simoniaco; non tornò più a Firenze ma si ritirò nel monastero di Pomposa. Pietro Igneo divenne invece una figura di spicco, tanto da essere eletto cardinale da Alessandro II nel 1072. Gregorio VII appoggiò i vallombrosani, e le invita a estirpare la zizzania nel campo del Signore; a favore delle fondazioni vallombrosane e la loro lotta alla riforma, come dimostrato nella seconda prova del fuoco a Lucca da un anonimo monaco di Gualberto intorno al 1084 contro il vescovo Pietro. Capitolo 3 Papa a furor di popolo Progressiva crescita della conflittualità del re contro l’aristocrazia, a partire dall’attacco dei principi alle risorse economiche imperiali durante la crisi del potere centrale dovuta alla minorità di Enrico IV, dove appena ne uscì provò a riequilibrare il sistema. L’avversione del re Enrico IV verso la nobiltà era nella divergenza tra interessi dei principi e gli sforzi compiuti dal sovrano per consolidare e riformare il potere imperiale. I principali nemici dell’imperatore, a nord delle Alpi, furono i sassoni. In Sassonia il progetto riformatore aveva preso corpo velocemente, con uno dei centri nevralgici dell’impero, il palazzo Goslar, che Enrico III aveva ampliato costruendovi accanto la chiesa dei Santi Simone e Giuda. Anche Enrico IV fece edificare nel 1065 una fortezza e altri otto castelli che fece amministrare da un ceto di funzionari di provata fedeltà. Questa presenza militare massiccia consentiva a Enrico IV di conferire il potere imperiale un livello alto, che limitava molto il potere dell’aristocrazia sassone. Ciò scoppiò in una ribellione dei nobili, che costrinsero Enrico IV a fuggire dalla Sassonia. Nel 1075 però ne uscì vittorioso dalla battaglia di Homburg e li sottomise di nuovo. I toni si alzano: i dictatus papae e la prima scomunica di Enrico IV Il papa iniziò il suo progetto di riforma riunendo i sinodi a Roma con regolarità, per ribadire i provvedimenti anti-simoniaci. Il sinodo quaresimale del 1075 svoltò i rapporti con la corte tedesca, dove vi furono minacciati di scomunica molti vescovi stretti a Enrico IV, che gli fu vietato di interferire nel conferimento degli episcopati. Come ogni rivoluzione, quella gregoriana ha il suo manifesto, che scatenò reazioni dal mondo antico. Gregorio VII creò un sunto, il dictatus papae, (dimensione autoriale) scritto il suo pensiero sui vescovi e sulla nuova chiesa; privi di datazione, ci sono pervenuti all’interno del registro di Gregorio VII, il quale contenenti lettere in ordine cronologico e quindi possibilmente collocabile nel 1075. Le ventisette asciutte proposizioni che formano il dictatus papae enunciano i privilegi, le prerogative e le funzioni del papa o della chiesa di Roma. Uno strumento di lotta politica contro a chi si opponeva da Dio. La misura della fede secondo Gregorio VII era la chiesa romana, che nell’immediato avrebbe costituito la pietra di paragone sulla quale giudicare l’ortodossia dottrinale, trasformando ogni questione teologica in un problema politico, a prescindere dai contenuti dottrinali. Il protagonista del dictatus papae è il papa, ben ventidue proposizioni lo riguardano, quasi a sottolineare l’eccezionalità del suo piano istituzionale, l’unica autorità universale. La novità introdotta da Gregorio VII va letta infatti come un sintomo del tentativo del papato di assorbire, non solo il monopolio del controllo del sacro, ma anche il monopolio della gestione dell’eredità romana e imperiale. Il papa poteva deporre gli assenti e rappresentava la suprema istanza di appello per tutte le chiese; poteva istituire nuove leggi e stabilire la canonicità di una norma o di un libro. All’indomani di un sinodo quaresimale, si aprì una trattiva con Enrico IV. La notte di Natale del 1075, un fautore dell’imperatore attentò la vita di Gregorio VII, ma riuscì a salvarsi. Enrico convocò al sinodo di Worms i vescovi tedeschi e lombardi che denunciarono Gregorio VII per la sua protervia contro i vescovi e per la sua elezione irregolare senza consenso del re. Enrico IV confermava tutte le accuse, in primis quella di aver trattato come servi i vescovi e lui stesso. Si evince quanto fossero importanti i vescovi all’interno del sistema e quanto fosse rivoluzionaria l’ideologia gregoriana; con questo Enrico IV invitava il popolo romano e il clero ad allontanare Ildebrando e ad accogliere il nuovo pontefice da lui nominato. Nel 1076, informato Gregorio VII, reagì scomunicando sia i vescovi lombardi e tedeschi che avevano partecipato al sinodo, sia Enrico IV. Dichiarava di poter agire in questo modo poiché vicario di Pietro. Questo provvedimento scioglieva i sudditi da ogni obbligo di fedeltà al sovrano e ridava speranza ai Sassoni. Lo stesso episcopato che sosteneva Enrico IV, ne prese le distanze dopo il sinodo di Worms. I vescovi del XI secolo creavano efficaci nessi di continuità facendo in modo che si riversasse su di loro l’ombra della santità del fondatore della diocesi e ne stabilizzasse l’autorità. la crudeltà del sovrano aveva colpito molti nobili tedeschi, che insieme con vescovi pensarono di approfittare della scomunica, per procedere a una nuova elezione a Tribur , ma si concluse perché Enrico IV provò a riappacificarsi con il papa. Una nuova assise fu convocata, presidiata da Gregorio VII. Fu però stata rinviata per consentirgli di arrivare in Germania ed approfittare della debolezza di Enrico IV di fronte ai principi tedeschi. Il re a sua volta capì il tranello, e che doveva sottomettersi al papa; doveva impedirgli di arrivare in Germania o andargli in contro, e cosi fece, lo aspettò al castello di Canossa. La fine di un mondo: Canossa Nel 1077, la comitiva regia raggiunse il castello; dove risiedeva la padrona di casa Matilde di Canossa, titolare del distretto pubblico tra Lombardia, Toscana ed Emilia, la marchesa Adelaide di Susa e l’abate Ugo di Cluny, padrino di Enrico IV. Il papa non sembra ben disposto verso il sovrano, e dopo l’inutilità delle pressioni dei mediatori, Enrico IV decise di fare il primo passo; secondo le lettere di Gregorio VII, il re in misere vesti, rimase tre giorni davanti al portone del castello chiedendo misericordia e pietà. E visto che Gregorio VII non voleva passare da uomo crudele e tiranno, Enrico IV fu riammesso alla grazia della comunione. Enrico era soddisfatto, poiché tutti stupiti dalla crudeltà di colui che dovrebbe insegnare il perdono, e Gregorio ne era consapevole. Il bacio della pace tre Gregorio ed Enrico ha molta valenza istituzionale politica nell’alto medioevo come il banchetto di riconciliazione. L’iniziativa del re di presentarsi in umili vesti davanti al castello avesse preceduto la conclusione delle trattative, riconducendo il rituale di sottomissione alle forme della penitenza ecclesiastica. È evidente che ciò era poco naturale, ma fosse il risultato tanto di meditare strategie quanto di relazioni in tempo reale di fronte alle mosse dell’avversario. L’intuizione geniale che aveva avuto Enrico e il suo entourage a trasformare una deditio in un rito penitenziale mise alle strette Gregorio VII, obbligandolo a concedergli il perdono; l’episodio di Canossa rappresenta un momento importante tra lo scontro di Enrico IV e Gregorio VII, ma il suo significato fu soggetto a varie interpretazioni. Il dubbio è che Enrico era sciolto dalla scomunica oppure era reintegrato nel possesso dei suoi poteri? I sassoni e i principi tedeschi non erano contenti, al punto che non ne riconoscevano alcun potere effettivo sul piano politico istituzionale; infatti organizzarono un’assemblea nel 1077 dove elessero re di Germania Rodolfo di Svevia, confidando che Gregorio VII sarebbe stato lieto della sostituzione. L’episodio di Canossa fu in realtà una sconfitta di tutte e due i protagonisti, a meno di due mesi dall’accaduto, i principi tedeschi avevano messo il papa di fronte al fatto compiuto senza preoccupazioni e come se non fosse successo nulla a Canossa. In realtà Gregorio non prese partito né per Enrico né0 per Rodolfo, sognava un’assemblea presidiata da lui. Gregorio tornò a Roma, anche se prima di tornare nell’Urbe indugiò, soprattutto dopo un grave fatto di cronaca successo: Nel 1077, il prefetto Cencio di Giovanni Tignoso era stato ucciso in un attentato da colui che a sua volta aveva cercato di uccidere Gregorio, morto poi a Pavia dopo aver cercato di incontrare Enrico IV, che voleva allontanare da sé il sospetto di esserci lui dietro. La carica di prefetto è la più importante tra quelle riservate ai laici nella città di Roma, rappresentava l’autorità pubblica nella città con amministrazione della giustizia e mantenimento dell’ordine pubblico. Era l’unico giudice in grado di emanare sentenze di morte e si occupava anche di giustizia civile. La legittimazione della violenza rivoluzionaria: la militia Christi L’assassinio di uno dei principali collaboratori e alleati di Gregorio VII, ci porta al centro del progresso rivoluzionario, in quanto ne toccano due aspetti essenziali, come la legittimità della violenza e la scelta dei soggetti autorizzati ad agire all’interno della prassi rivoluzionaria. Egli fu considerato il primo martire dei tempi nuovi, che ricopriva la figura del miles Christi, un laico particolarmente devoto e somigliante ai sacerdoti. Però la predicazione di Cencio non doveva togliere tempo al ruolo che rivestiva nella società; insomma i confini dovevano essere rispettati e un fedelissimo come Cencio doveva essere invitato a non sorpassare i limiti ecclesiologi. La novità nel suo caso consisteva nel trovarsi in mezzo a ecclesiastici, che quel modello di interazione tra loro e i laici volevano abbattere e trasformare. La scelta però sta nello schierarsi con i riformatori o con la corte imperiale. Pier Damiani sosteneva per lui una vita vissuta nella sua vocazione in un monastero o eremo, al contrario Gregorio glie lo vietò, ordinandogli di conservare la sua carica, per combattere la giustizia e vivere la sua militia per Cristo. La scelta di Gregorio è guidata dal fatto che gli servono principi non solo contro l’imperatore, ma per il ruolo che loro svolgono nella società amministrando la giustizia. I martiri usavano le armi per difendere e uccidere, poiché la trattatistica politica altomedievale aveva giustificato l’impiego legittimo della violenza da parte del re; ma nella seconda metà del XI secolo, durante il pontificato di Gregorio VII, si pose in modo nuovo il tema della militia dei cristiani, perché non combattevano più in quanto sudditi del re, ma in quanto cristiani. Tutti i cristiani erano chiamati ad essere milites Dei anche se privi di responsabilità pubbliche, poiché si giustificava con la convinzione che il cristiano avesse il dovere di lottare fino alla morte contro gli eretici, e che il suo sacrificio assumesse i connotati del martirio, la forma più completa della passione di Cristo. In realtà il diritto canonico fino al XIII secolo non accolse questa forma di cristianizzazione dell’esperienza militare, conservando la concezione agostiniana della guerra giusta, a servito del re. La continuità tra questa ideologia e la crociata è oggetto di dibattito, visto che già nel pontificato di Alessandro II e Gregorio VII, la sede apostolica aveva progettato spedizioni militari contro i “pagani”. La progressiva affermazione dell’idea che il cristiano in quanto tale e non più suddito del re, potesse conseguire dei meriti spirituali combattendo, fu l’effetto più clamoroso del potere politico di Gregorio. 1080: il mondo alla rovescia, primo tempo: la scomunica di Enrico IV Canossa fu la presa della Bastiglia dell’XI secolo. Il sinodo quaresimale del 1078 aveva stabilito che le ordinazioni amministrative dagli scomunicati erano prive di validità, per poi essere rinnovato nel 1080, dove Enrico IV fu scomunicato nuovamente da Gregorio, per non aver mantenuto gli impegni presi a Canossa. Ai chierici fu però vietato di prestare giuramento feudale ai signori laici. Al concilio era presente l’imperatore di Costantinopoli Alessio I, che invocava l’aiuto dei cavalieri occidentali per resistere all’invasione dei turchi selgiuchidi, per tutta risposta Urbano II gli prestò soccorso, e la spedizione condusse ala conquista di Gerusalemme nel 1099. (prima crociata) L’episcopato di Urbano II prevedeva di penalizzare il ruolo svolto dai monasteri riformarti ed esenti nel normale reggimento spirituale dei fedeli; tale linea politica si scontrava con i riformatori radicali come i vallombrosani, quali alle volte avevano condannato dei chierici indenni e incitato a forme di sciopero liturgiche più o meno gravi. Urbano II proseguiva una sorta di normalizzazione della rivoluzione, con creazione di strutture istituzionali stabili e rilasciando su larga scala la vita comune del clero mediante la fondazione di canoniche regolari e coordinando l’espansione delle congregazioni monastiche più sensibili alle istanze della riforma. Molti problemi relativi alla regolarità delle elezioni dalla parte di Enrico IV e Clemente III, potevano essere risolti grazie a un uso più intenso della interpretatio (procedimento diretto a conoscere il senso del comando giuridico) così che la sede apostolica poteva dispensare dalla legge a motivo della necessità. Con Urbano II il problema era stato quello di rafforzare il fronte riformatore per colmare il gap che separava i pochi vescovi riformatori da quelli guibertisti ed enriciani. Occorreva riproporre temi della riforma su scala più ampia, allargando le operazioni alla Francia e Inghilterra attraverso l’impiego di legati e vicari papali che proiettavano la sede apostolica verso le periferie Enrico IV rispose con una spedizione militare in Italia, che nel 1091 lo portò a espugnare Mantova e Canossa La pressione imperiale costrinse Urbano II a rifugiarsi nel Mezzogiorno, mentre Clemente III poteva rientrare a Roma e celebrarvi il concilio nel 1092. Enrico chiese a Matilde di Canossa di riconoscere Clemente III, ma si rifiutò, agevolando la ribellione del figlio di lui, Corrado (re di Milano). Milano, Lodi, Cremona e Piacenza si unirono in una lega antienriciana contro i loro vescovi, dove Matilde poi ne conquistò la pianura padana, mentre Urbano II nel 1094 tornava a controllare Roma. La “normalizzazione” della vita regolare Umberto II aprì una nuova fase nella storia vallombrosana, azzerando ogni possibile azione autonoma dei monaci toscani nella lotta contro la simonia. Partecipi degli ideali del papa, i vallombrosani volevano partire per una crociata, ma il papa li dissuase poiché coloro che avessero lasciato il mondo scegliendo la milizia spirituale non potevano prendere le armi e partire. La lotta anti-simoniaca venne condotta da Bernardo degli Uberti, non più abate vallombrosano ma vescovo di Parma, e ciò sugellava l’alleanza tra papato e vallombrosani. La congregazione assunse una fisionomia precisa, ispirata ai valori della carità, dell’obbedienza e del disprezzo verso il mondo (evitare mercati e negozi secolari). Si metteva la parola fine alla storia delle lotte anti-simoniache dei vallombrosani. Più in generale, anche di riguardo ai camaldolesi, possiamo dire che i progressi della struttura congregazionale si accompagnano al potenziamento degli strumenti di controllo e coordinamento interno e da un ricorso della scrittura teso alla fissazione di un patrimonio normativo e definitivo. Ne Giovanni Gualberto fondò i vallombrosani, ne Romualdo di Ravenna fondò i camaldolesi; entrambi fondarono le comunità originarie attorno alle quali si sarebbero sviluppate degli organismi congregazionali, che sperimentano nuove modalità di costruzioni di architetture istituzionali. Nel mondo camaldolese e vallombrosano la componente personale, che rinviava a modalità altomedievali di funzionamento delle istituzioni, ebbe importanza la messa a scritto di norme, agiografie e riti liturgici che consentiva modelli standardizzati di vita regolare. L’impalcatura istituzionale della rete monastica si fondava sulla centralità dell’eremo di Camaldoli ove Pasquale II (1113) riconosce che la congregatio erano confluite per Grazia di Dio in una sola comunità. Con il procedere del secolo XII essi avrebbero trovato rispondenza nella concreta pratica istituzionale attraverso l’omogeneizzazione organizzativa prodotta dalla diffusione del caput verso tutte le membra di una legislazione. L’indice di una mutata concezione della vita religiosa fu la produzione di una legislazione statuaria che non si limitava a mettere per iscritto la prassi consolidata ma aveva una funzione proiettiva a creare un modello normativo generale. Di contro i vallombrosani rivendicavano una sorta di primato nella specializzazione cenobitica (membri di una comunità di monaci) anche se l’afflizione l’una a l’altra congregazione non rispettava questa distinzione L’incorporazione nella rete monastica camaldolese o vallombrosana non comportava nemmeno la proposta di modelli di santità o culti fortemente connotati; al contrario, se si guarda alla strategia agiografica camaldolese, è facile rilevare che per tutto il secolo XI la tendenza a conservare i culti locali delle dipendenze una volta acquisite, senza eccedere nella proposta di santi legati all’eremo casentinese. Questa espansione doveva creare problemi, ma il privilegio di Urbano II (1090) autorizzava i vallombrosani a scegliersi il vescovo per il crisma, l’olio santo e le consacrazioni purché fosse cattolico e in comunione con la chiesa romana. Si tratta di costruzioni istituzionali innovative e appoggiate da un papato che non cercava la lotta ma il compromesso; non aveva più bisogno di combattenti della riforma ma di monaci obbedienti. La lotta per le investiture e l’origine dei Comuni italiani In Italia lo sviluppo dei Comuni è stato più importante dell’evoluzione del mondo feudale. Come diceva Bordone, la riforma ecclesiastica difficilmente avrebbe contribuito a consolidare gruppi residenti urbani se in precedenza fosse mancato il concetto di civitas, che differenzia i suoi abitanti da quelli del contado. A distanza di una generazione dalla prima pataria, a Milano, i dibattiti e le proteste sul nicolaismo e simonia avevano ormai perso ogni significato concreto. Nella città l’arcivescovo e il nascente comune erano impegnati in un’opera di pacificazione e di ricomposizione del quadro politico religioso che si proiettava anche a livello delle relazioni tra le città. In questo quadro diventano centrali figure come Arialdo da Melegnano, inserito in diverse culture vassallitiche episcopali e legato a Matilde di Canossa, e allo stesso tempo membro del ceto cittadino. Esiste una retorica della pace cittadina, unita alla consapevolezza che i conflitti delle istituzioni ecclesiastiche turbavano l’intera civitas, mentre la pace interna della chiesa era utile per tutta la società. Il successo di Urbano nelle diocesi lombarde era molto limitato e possibile solo dove Matilde di Canossa riusciva a garantirgli il suo aiuto politico e militare. Nella maggioranza delle altre città i vescovi erano schierati con Enrico IV e Clemente III. Alla fine del secolo il successo della prima crociata (1099) determinò un entusiasmo generalizzato che fu usato per consolidare il nuovo equilibrio politico-ecclesiastico di Milano attraverso iniziative dalla forte valenza simbolica, ma incoraggiava anche l’arcivescovo a organizzare una nuova impresa in Oriente. Troviamo Diaberto, grande alleato di Urbano II, a cui assegnò la diocesi di Pisa contro il volere di vallombrosani e camaldolesi che lo ritenevano un simoniaco; nel frattempo i pisani avevano ottenuto da Enrico IV un diploma di assoluta fedeltà all’impero, il quale poi aveva dichiarato edificabile le aree lungo il fiume Arno, scatenando una guerriglia tra le grandi famiglie di armatori di navi. A Pisa come a Milano il vescovo cercò di ricomporre i conflitti interni alle città e tra le città e il contado. Diaberto tra il 1088 e il 1092 fece da garante costituzionale, dopo che le famiglie in lotta avevano prestato giuramento. Il documento pax et concordia vieta per il futuro di costruire o restaurare torri oltre una certa altezza, determinata su una base di un edificio preesistente. Nessuno potrà distruggere o danneggiare la casa di un altro e sarà possibile elevare le torri fino a 36 braccia, consentito nel diploma di Enrico IV del 1081. L’altezza delle torri era un’indicazione della potenza della famiglia proprietaria, nonché una posizione di vantaggio nel combattimento. A Pisa come a Milano la civitas si stava organizzando in forme istituzionali rinnovate soprattutto per regolare i conflitti tra le famiglie più potenti, che a questo scopo stipularono un patto giurato, con il vescovo garante. La scomunica in questo caso viene usata con scopo civile e politico, per isolare chi turba la pace interna della città, che non fu più usato contro i fautori di Enrico IV ma contro chi minacciava l’equilibrio. Si ebbe gradualmente un controllo vescovile nelle città, con sempre meno interventi regi e imperiali, poiché la scelta dei vescovi fu sempre più condizionata dagli equilibri all’interno della città e della chiesa locale. La lotta tra il papa e l’impero erose progressivamente la solidità del potere regio, aprendo le porte alla crescita dei comuni come “istituzioni totali”, capaci di metabolizzare al proprio interno i conflitti e di produrre sintesi instabili ma inclusive dei gruppi sociali che di volta in volta si affacciarono sulla scena delle città italiane con il bisogno di un adeguata rappresentanza politica e istituzionale. I comuni furono una reazione difensiva alla crisi, di compromesso tra le diverse fazioni. Alla ricerca di un compromesso: Pasquale II Con la morte di Urbano II nel 1099, e la salita al trono di Pasquale II, finiva un’epoca per la storia del papato Morì un anno dopo anche l’antipapa Clemente III, l’imperatore Enrico IV abdicò nel 1105 e morì nel 1106. Preso possesso di Roma, Pasquale, ne conservò il controllo per i successivi tre lustri; la sicurezza che con cui poteva guardare la situazione romana, gli permise di potersi assentare anche per lunghi periodi cosi da sfruttare l’itineranza per rendere presente il papato. Poteva oltretutto sfruttare la circostanza di essere il primo papa “moderno” a regnare su Gerusalemme, all’indomani dell’esaltante trionfo della prima crociata.
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