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Riassunto della "Vita" di Vittorio Alfieri e le sue opere, Schemi e mappe concettuali di Letteratura Italiana

Riassunto capitolo per capitolo della "Vita" di Vittorio Alfieri e delle sue opere più importanti

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

2022/2023

Caricato il 09/01/2023

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4.7

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Scarica Riassunto della "Vita" di Vittorio Alfieri e le sue opere e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! Introduzione della vita Nell’introduzione Alfieri espone i motivi per cui ha scritto la sua vita: non per scopi egoistici ma proprio per celebrare la bellezza della vita, non per arroganza ma per celebrare il dono della vita e questo sentimento non è comune a tutti gli uomini ma è tipico dei poeti perché hanno una sensibilità maggiore rispetto agli altri. Inoltre, perché è abitudine accompagnare le opere teatrali con la vita dell’autore quindi Alfieri non lascia che sia uno sconosciuto a scrivere le sua vita perché verrà esaltata per vendere più copie, lo fa egli stesso che è sicuro che scriverà la verità. Alfieri promette ai lettori di scrivere tutta la verità anche se qualcosa ometterà, cercherà di disinteressarsi e di estraniarsi per svolgere un lavoro ben fatto. Ci anticipa la struttura dell’opera in cinque epoche: puerizia, adolescenza, giovinezza, virilità e vecchiaia. Primo autore ad inserire nella sua autobiografia l’età dell’infanzia, omessa da tanti, e a ritenerla utile in vista dei fatti della maturità (approccio puerocentrico, molto innovativo per l’epoca), ciò che siamo da piccoli si riflette sulla persona quando si è adulti, aspetto testimoniato dall’uso dei diminutivi tipo “omiccino”. Alfieri ci riferisce che cercherà di essere più breve possibile, tipico del suo modo di scrivere: battute brevi e concise, nella narrazione dell’opera è molto lineare senza digressioni inutile che farebbero perdere il filo principale della storia e infatti si svolgono nell’arco di 24h con i personaggi fondamentali. Inoltre, ci espressa in maniera molto diretta che se in alcune parti si dilungherà il lettore sarà “autorizzato” dallo stesso autore di saltare quelle parti. Ciò non vuol dire che sarà superficiale ma ci fornirà i dettagli veramente utili per comprendere l’immagine che vorrebbe noi lettori ci facessimo e dell’animo umano in generale (utilizza la metafora delle radici proprio per trasmetterci l’evoluzione). Non ci fornisce i nomi delle persone, solo se hanno fatto cose lodevoli EPOCA PRIMA Capitolo primo Vittorio Amedeo Alfieri nasce ad Asti il 17 gennaio del 1749 (in teoria è nato il 16 gennaio ma è stato registrato all’anagrafe il 17 che, quindi, rappresenta la nascita al mondo intero). È nato da una famiglia nobile e onesta ma lungo questo racconto lui ne svelerà anche gli aspetti negativi anche se per lui essere nobile comporta la libertà (possibilità di fare ciò che più voleva anche rinunciando i beni). Infatti, Pietro Giordani in “istruzioni per essere uno scrittore” ribadisca come è più facile diventare scrittori per i nobili perché hanno accesso a molti ambienti, informazioni… Il padre si chiamava Antonio Amedeo Alfieri Bianco conte di Cartemiglia definito come uomo di purissimi costumi, vissuto senza impiego presso la corte. La madre si chiamava Monica Maillard di Tournon, proveniente originaria della Savoia. Ebbe dei figli da un precedente matrimonio, Alfieri li cita ma non è un’informazione vera, anche lui fa confusione dimostrando il rapporto conflittuale che aveva con la madre (è molto fredda nella descrizione). Poi presenta la sorella Giulia a cui è molto legato. Pochi mesi dopo la sua nascita il padre muore a causa di una polmonite perché andava molto spesso a trovare Alfieri che veniva allattato da una balia a pochi chilometri da Asti. La madre si risposa in terze nozze con il Cavaliere Giacinto Alfieri di Magliano (stesso nome ma di un altro ramo) che ha la stessa età della madre al contrario di Antonio che avevano una grossa differenza d’età. Capitolo Secondo [1752] ricorda uno zio purtroppo deceduto che aveva delle scarpe inusuali al tempo con la punta quadrata, alla vista di quelle scarpe lui ripensa a questo zio: le sue carezze e i confetti che era solito dargli. Questo dettaglio riprenderebbe Marcel Proust quando l’odore della Madeline gli riporta alla memoria i ricordi dell’infanzia. Altri invece non sono d’accordo, tipo Guglielmetti, nel definirlo un anticipatore di Proust piuttosto un proseguimento della filosofia sensistica di Hume e Locke. Inoltre, anticipa il concetto di “memoria involontaria” di Leopardi nello Zibaldone. All’età di cinque anni si ammala di dissenteria e ha una prima esperienza di consapevolezza rispetto alla morte: poiché sono morti alla madre dei bambini dopo Alfieri, lui sentiva dai parenti ecc… che sono degli angeli così lui, durante questo periodo di malattia lui desiderò di morire per porre fine ai suoi patimenti diventando così un angelo. L’anno dopo vanno ad abitare nella casa del nuovo marito della madre, mandano Giulia in monastero ad Asti. Il ricordo di questo episodio è molto forte, si ricorda che ha pianto molto perché è la sorella è l’unica presenza costante della sua vita. Si ricorda che questo tipo di dolore sarà provato altre volte nella sua vita. Iniziò gli studi con il precettore Don Ivaldi, buon prete ma un po’ ignorante ma non era un problema perché anche gli altri suoi parenti erano ignoranti (i nobili non devono diventare dottori, frase che molte volte alfieri sentiva dire). Comportamento diverso dalla famiglia di Leopardi che invece tenevano alla conoscenza (la biblioteca). Quindi Alfieri parte svantaggiato. Capitolo terzo [1755] Una consolazione a questo periodo malinconico e caratterizzato dalla solitudine è quello di andare a seguire la messa alla chiesa del Carmine in cui officiavano dei frati molto giovani, ciò gli ricordava la sorella forse perché areno molto giovani e avevano dei visi angelici quasi femminili. Questo piccolo innocente amore lo porta a cambiare la definizione sul dizionario della parola “Frasi” e ci scrisse vicino “Padri”; viene considerato dall’autore l’origine delle sue passioni. In contemporanea a questo sentimento si inizia a delineare la malinconia che sempre lo ha contraddistinto. Successivamente questo umore malinconico si fece forte tanto che al età di sette/otto anni Alfieri tenti il suicidio mangiando l’erba del giardino sperando che sia cicuta (ne aveva sentito parlare a casa). Ovviamente non ce la fece e quando andò a cena con la bocca sporca e gli occhi gonfi per il pianto la madre insistette molto nel chiedergli cosa fosse successo, lui rivelò l’accaduto e fu messo in castigo. Capitolo quarto [1756] A questo punto si incomincia a delineare la sua indole contradditoria: delle volte taciturno e calmo ma anche loquacissimo e vivacissimo. Racconta il suo castigo della reticella: venne obbligato ad andare a messa alla Chiesa del Carmine con la reticella nei capelli, dove lo vedevano tutti soprattutto i fraticelli (capelli sono una costante). Capitolo Secondo Alfieri si trovava nel terzo appartamento seguito dal servitore Andrea che senza il controllo della famiglia diventò cattivo, un tiranno. Gli venne somministrata una prova per capire il suo livello e venne giudicato “Quartano” (ci sono dei livelli in cui si studiavano materie diverse), dopo tre mesi di un’assidua applicazione passò alla “Terza” perché aveva conosciuto la competizione e lo spirito di emulazione. Nella terza insegnava Don Degiovanni, un prete di minor dottrina di Don Ivaldi. In quella scoluccia inizia a studiare la letteratura latina ma gli argomenti erano trattati male e poteva tranquillamente paragonata ad una quarta in una buona scuola. Questo periodo è caratterizzato da un profondo spirito di competizione perché voleva battere il primo ma si annoiava comunque visto che erano insegnamenti scadenti (si traducevano le vite dei più importanti autori latini e l’insegnante non sapeva chi fossero, in che tempo sono vissuti o la forma di governo). Alfieri capisce che una cattiva istruzione è la causa della rovina della gioventù. Passato un anno, 1759, Alfieri fu promosso a Umanità in cui l’insegnante era Don Amatis, un uomo di “sufficiente dottrina” e con lui Alfieri progredì molto rafforzandosi nella lingua latina; anche lo spirito competitivo si faceva più aspro con un suo compagno nel fare il tema e nella memorizzazione dei passi in latino. Seconda manifestazione di un carattere appassionato perché lui sentiva proprio la rabbia, la collera che lo spingeva a dare di più, tuttavia, non lo odiava perché era un bel ragazzo, quindi, è anche la prima manifestazione della suggestione per il bello. Sempre in quel periodo gli capitò per le mani un volumetto di Ariosto perché per alcune settimane aveva ceduto il suo pollo della domenica per quel libro, primo incontro con la poesia. Ma poiché la sua cultura non era alta, non riusciva a capirlo. Subito dopo venne sequestrato dall’assistente perché era una lettura proibita essendoci all’interno delle scena abbastanza spinte che interessava ai giovani per una loro pulsione verso la dimensione sessuale Capitolo terzo Questi mesi in accademia contribuirono a peggiorare la sua situazione si salute: non cresceva di salute, era molto magro e molto pallido; inoltre, gli crescevano delle pustole nella testa che gli provocarono molto dolore. Iniziò a frequentare lo zio Benedetto Alfieri, primo architetto del re che aveva costruito il teatro dell’Accademia. (lo zio cavalier pellegrino era diventato governatore di Cuneo, quindi, andò a viverci). Lo zio Benedetto era molto affettuoso con il piccolo Alfieri e gli trasmise l’amore per l’architettura (lo zio ogni volta citava Michelangelo o si inchinavo o si toglieva il capello in segno di rispetto), amava sia il nuovo che l’antico (è un esempio la chiesa di Carignano fatta a foggia di ventaglio). Questo giudizio che lui ha dello zio è con il senno di poi perché quando era piccolo lo trovava noiosetto e la cosa che più lo seccava era il suo parlare toscano e ci racconta che quando tornò a Torino con quel suo parlare all’inizio le persone lo prendevano in giro poi però cercarono veramente di impararlo. Capitolo quarto [1760] poiché era molto malaticcio lui era molto spesso schernito dai suoi compagni, lo chiamavano carogna talvolta aggiungendoci l’epiteto fradicia. Passa in Retorica ma andava abbastanza maluccio in latino e recuperò il volume dell’Ariosto di cui non è più appassionato (non apprezzava la tecnica dell’intreccio: interrompere sul più bello una scena per passare ad un’altra. Per lui era contraria al vero) perché il sotto Priore era andato a vedere un partita di pallon-grosso (diversa disciplina rispetto alla palla al bracciale che descrive Leopardi in una sua poesia). Lesse più di una volta con avidità l’Eneide tradotta da Annibal Caro di cui copiava le traduzioni. Aveva scoperto inoltre Metastasio perché leggeva i libretti delle Opere quando erano messe in scena a Carnevale. Lesse anche le commedie di Goldoni ma la passione per la commedia non ebbe seguito in quanto il germe della tragedia era già insito in lui Alfieri utilizza molto spesso le metafore di botanica per trasmettere la maturazione ed evidenziare il suo percorso per diventare autore tragico. Fu anche costretto a comporre dei componimenti che erano per compito ad un ragazzo che gli dava delle palline oppure uno scappellotto, all’inizio ci si impegnava e il maestro si era stupito per l’improvviso miglioramento del ragazzo, Alfieri però si stancò e andava sempre più deteriorando il suo lavoro; così dopo che venne ridicolizzato per un errore commesso di proposito il bullo non si fece più fare i compiti da Alfieri. Grazie a questa esperienza imperò che è la paura che governa il mondo. [1761] Alfieri riuscì ad entrare a Filosofia dove studiava anche Geometria, venne spostato nel secondo appartamento dove aveva il privilegio di uscire dall’accademia per frequentare le lezioni che si tenevano all’Università. Il fatto di essere uno dei più piccoli spinse Alfieri a distinguersi in quell’ambiente rispondendo ai quesiti ma erano solo frutto di memoria perché lui delle filosofia non ne capiva niente. Stessa cosa vale per la Geometria che era stata fissata subito dopo pranzo quindi la maggior parte dei ragazzi dormivano a quell’ora compreso il professore (“il che faceva un bellissimo concerto”). In filosofia la sveglia era più tardi rispetto alla classi inferiori: la sveglia era alle 7 invece che alle 5:45, poi c’era da dire le Orazioni poi studiare fino alle 7:30. Il motivo della perdita di salute di Alfieri era data dal regime duro. Capitolo Quinto Nell’inverno del 1762 tornò lo zio governatore di Cuneo che vedendolo così malaticcio riuscì ad ottenere dei privilegi alla mensa e anche il permesso di andare a mangiare da lui per pranzo; infatti, contribuì a farlo crescere e a recuperare la salute. Inoltre, lo zio pensò di far trasferire la sorella Giulia da Asti a Torino allo scopo di far allontanare lei da un altro giovane di cui si era invaghita ma non era giusto per lei. Entrambi si risollevavano a vicenda il morale soprattutto quando piangevano entrambi permettendogli di sfogare tutte le emozioni. Andò con lo zio Benedetto a vedere un opera di Goldoni “Mercato di Malmantile” al teatro di Carignano (ospitato per la notte da Benedetto) cantata dai migliori cantanti italiani. Di quell’opera fi molto colpito dalla musica specialmente le voci contralto femminili. Andò 15 giorni a trovare lo zio a Cuneo e quel viaggio gli giovò moltissimo anche se durante il tragitto si vergognava perché andava a passo d’uomo, sintomo che non vuole essere mediocre. In questo breve soggiorno a Cuneo compose un sonetto in italiano anche se conosceva solo Ariosto e Metastasio che sono due autori molto diversi dalla sue futura visione (Metastasio scrive con l’accompagnamento musicale, l’altro invece in ottava perché era il metro per la poesia narrativa). Questo suo primissimo esperimento non fu incoraggiato dallo zio anzi lo disapprovò burlandosi perché era un uomo molto rigido, Alfieri riflette su quanti versi buoni o cattivi questo zio soffocò. Passa ad Etica ma gli studi vanno molto male così lo zio gli propone un regalo se riusciva ad andare bene ma non arrivò mai, magare se glie l’avesse chiesto sarebbe arrivato come era successo con la nonna. Capitolo sesto Iniziò ad avere una mensilità, un paghetta che però spendeva Andrea per suo conto. Iniziò la carriera avvocatesca di diritto canonico per intraprendere la carriera diplomatica ma riebbe quel suo sfogo sulla testa peggiore dell’altro; fu costretto a tagliare i capelli e a indossare un parrucca. Ovviamente fu per lui motivo di scherno ma per non rimanerci male e non dare soddisfazione a chi lo derideva, imparò a fare dell’autoironia sulla sua condizione. Con il maestro di Geografia aveva imparato un po’ di francese dato che egli era della valle d’Aosta e aveva scoperto una suo nuova passione che gli sarà molto utile nei suoi viaggi. Lesse il Gil-blas ma anche Cassandre, Almachilde e le memorie di un uomo di valore (trarrà ispirazione per questo libro). Non riusciva ad imparare la musica, secondo lui causata dall’orario della lezione (subito dopo pranzo) in quando gli dava sonnolenza lasciandolo deconcentrato e stanco. Non andava bene nemmeno alle lezioni di ballo e di scherma a causa del suo corpicino minuto. La causa profonda a cui si deve quest’odio contro il ballo è perché è di origini francesi. La Francia è una nazione che non incontra il gusto di Alfieri perché: 1. Un giorno passò per la casa paterna la duchessa di Parma, francese di nascita, e il suo seguito era pieno di ragazze impiastrate del rossetto che solo le francesi utilizzavano, secondo alfieri bizzarro e ridicolo 2. L’altro motivo è puramente politico: i francesi sono stati i padroni di Asti più volte nella storia e non hanno fatto un buon lavoro nel governo. Capitolo settimo Muore lo zio paterno, aveva 60 anni circa ed era di salute malandato. Egli aveva un’erudizione disordinata. Non soffrì molto di questa perdita perché ormai poteva considerarsi libero perché non è più sotto la tutela dello zio avendo 14 anni per quanti riguarda l’eredità del padre (accresciuta anche da quella dello zio). Odeporica: ambito degli studi di testi che ha avuto uno sviluppo recente (dagli anni ‘70) e consiste nell’interesse critico nei confronti dei viaggi a partire dalla raccolta delle attestazioni. La valutazione critico letteraria ha conosciuto un grosso impulso a partire dagli anni 90 quando si è iniziato a distinguere quando un’informazione è informativa o estetica in senso letterario. Tra gli anni 80 e 90 si sentita la necessità di selezionare ciò che ha un valore estetico o un valore informativo, concentrazione anche i diari del sedicesimo delle grandi esplorazioni. Gli studi geografici si sono interessati alle relazioni di viaggio dei viaggiatori. Con lo studio, raccolta e valorizzazione si è aperto un grande dibattito critico tra odeporica e letteratura, quando si parla di testi letterari non è mai facile capire la loro importanza ma è frutto di un’ampia discussione; su questa discussione è intervenuto uno de grandi studiosi moderni dei testi di viaggio cioè Emanuele Kanceff che ha fondato un centro di ricerca sulla letteratura di viaggio. Nell’articolo “Odeporica e letteratura contro la dislessia” definisce che cos’è un testo di viaggio: in sostanza è molto ampia. «Esistono i testi di viaggio, sono quelli in cui viene descritto un viaggio. Questa descrizione avviene per motivi molteplici: conservare il ricordo dell’avventura corsa, fare opera utile per coloro che viaggeranno dopo, fissare sulla carta l’immagine di realtà che vengono recepite come straordinarie o strane o semplicemente diverse dal viaggiatore; nei casi migliori fare opera documentaria, geografica, storiografica. Per tutti questi sotto casi della scrittura di viaggio esistono esempi molteplici, che non val la pena di andare a cercare e mettere in lista: sottoprodotti della saggistica, taccuini privati, congerie di carte consunte dalle leghe percorse, fasci di lettere ingiallite e difficilmente decifrabili […] quante carte di questo genere riempiono i nostri archivi, e quanti libri ne hanno ricavato peregrini editori del passato, che ora giacciono in mucchi nelle biblioteche o sui banchetti degli antiquari!» I testi di viaggio sono quelli in cui è realmente scritto un viaggio? Secondo Kanceff l’idea è nefasta perché ha impedito gli studi critico letterari, quando si vanno a raccogliere in un bibliografia ci si ferma più su quelli che raccontano un viaggio, se ci si ferma a un dato di realtà si percepisce solo una parte del fenomeno che è quella fattuale ma a chi interessa l’elemento estetico letterario deve andare oltre questi meri dati. “Contro la dislessia” si intende lo studio da parte di un umanista di interpretazione e critica per comprendere la qualità di un prodotto letterario, contro l’accettazione di tutti libri senza uno studio approfondito. Nei testi di viaggio rientrano altre esperienze: lo scrivente come scrittore, un soggetto che fotografa un momento preciso dell’esistente e non della realtà, entrare nell’esperienza dell’individuo scrittore, non è mera descrizione ma fotografia dell’esistente. La GUIDA è la forma più neutra e utilitaristica della scrittura di viaggio e rientrano in questa funzione della scrittura di viaggio, fissare l’esistente. All’interno sono descritti gli itinerari, cosa andare a vedere e perché, gli alberghi, ristoranti, mezzi… se le guida sono fatte bene sono presenti delle descrizione Dal XVI secolo che vengono pubblicate tanto che è nata anche la specializzazione GUIDISTICA. Come capire la qualità di un prodotto: grado di fiction cioè grado di inventiva (genere che ha trovato molte difficoltà nel rinnovarsi). Quando si presenta in forma di appunto, mera lista con informazioni stringate non comporta una struttura di fondo con un grado di fiction 0 perché non è presente la descrizione. il criterio fondamentale del grado di fiction è la struttura di fondo. Dall’appunto veloce e schematico si passa, attraverso le abilità dell’autore, a una narrazione vera. Fenomeno dello spaesamento: lo straniamento che emerge con altri modi di essere uomini e donne, senso di confusione nel vedere azioni diverse da quello che si fanno di solito ovviamente in termini di cultura e costumi. Noi stessi siamo il centro autonomo con cui osserviamo il mondo circostante e diamo dei giudizi di valore in base ai propri costumi. L’epoca terza è l’epoca dei viaggi e amori e noi seguiremo alfieri nel suo vagabondare e cercheremo di capire come questi viaggi può essere spiegato in queste categorie. Nel momento in cui scrive i viaggi tiene conto dei documenti di viaggi e passa dal grado 0 di fiction ad un’opera letteraria perché è pieno di osservazioni e giudizi anche se farà di tutto per farci capire il contrario, dirà spesso che lui nei viaggi non ha visto niente e invece ha visto ciò che ha voluto vedere e ha attuato una serie si selezioni. Le carrozze sono il mezzo prediletto più dei viaggiatori stranieri perché è lo schermo mobile (secondo Attilio Brilli) perché è una sorta di guscio che ci permette di vedere le città tra sé e la realtà non avendo nessun contatto diretto con nessuno così da non mischiarsi dato da pregiudizi sull’Italia considerandola non sicura. Attilio Brilli è uno studioso all’università di Siena e una parte dei suoi studi si è dedicato al grand tour e petit tour che prevedeva il viaggio in Italia. Il viaggiatore si istruisce prima di partire leggendo dei saggi appositi stessa cosa che fa Alfieri. I libri più importanti sono: Voyage d’Italie del Masson ed. 1743, Observations su l’Italie par deux gentilshommes Suédois del Grosley ed. 1764 forse un Voyage historique et politique en Suisse, en Italie et en Allemagne del 1736. Seguono precisamente le tappe dei tour incontrando anche gli stessi problemi. Charles Victor Bonstetten, L’homme du Midi et l’homme du Nord, ou l’influence du climat (1824) testo secondo cui il clima influenza i caratteri delle persone ad esempio freddo determina la razionalità caratteristica delle popolazioni del sud; invece, il caldo determina l’irruenza delle popolazioni mediterranee. Lo stesso Leopardi la commenta nello Zibaldone. L’odeporica è onnicomprensiva cioè coinvolge tutti gli aspetti della narrazione. Quindi si studia gli aspetti stilistici, estetici per comprendere e selezionare la qualità di un prodotto letterario su un viaggio. Capitolo primo Viaggia in giro per l’Italia in un petit tour il 4 ottobre 1766 con un ajo inglese di nome John Tuberville Needham con il compito di istitutore perché doveva spiegare ciò che i signori dovevano andare a vedere che doveva essere un esperto in molte discipline, poi insieme ad un fiammingo e un olandese. Poi i due servi nel calesse e il servitore elia come avant courrier: viaggiava davanti per spianare la strada, consigliare negli acquisti, doveva avere competenze in ambito medico, trovare la migliore locanda. Sta 15 giorni a Milano in cui vede molte cose ma male tanto che preferisce Genova (tipico nella descrizione comparare le città ad un’altra). Tra le cose che vede sono dei manoscritti di Petrarca (codice virgiliano), all’inizio non ne capisce l’importanza però in fondo era interessato e appassionato, ci dice che lui aveva letto qualche suo verso ma non ci aveva capito niente. Sottolinea il passaggio tra prima e dopo la conversione poetica, ci fa un suo ritratto. Con gli altri ragazzi parlava francese e ci scriveva anche delle lettere (andava schiccherando: verbo ricorrente). Prime prova di scrittura in lingua francese. Dopo questi giorni a Milano passa pochi giorni a Bologna passando per Piacenza, Parma, Modena cioè l’attuale autostrada del sole (rappresentava la via che i viaggiatori prendevano per muoversi). A bologna ci passò pochi giorni e non vide granché. Verso fine ottobre arriva a Firenze e fu la prima città che gli piacque veramente in quel viaggio ma comunque meno di Genova e li ci passò un mese in cui vide gli Uffizi, la Galleria, Palazzo Pitti, varie chiese, tra cui Santa Maria del Fiore dove vide la tomba di Michelangelo su cui ci fece una riflessione: non si è un grande uomo, virtuoso se non lasciano qualcosa di stabile e concreto. A Firenze non impara il volgare toscano ma l’inglese e non il toscano, ne approfitta per fare una riflessione sulla pronuncia: lui un po’ parlava il toscano ma si vergognava di esercitarlo. A lui ripugnava l’idea di quella U lombarda e francese perché si faceva un’espressione buffa. Da Firenze parte alla volta di Lucca, Prato e Pistoia il primo di dicembre (a Lucca c’è stato un giorno che gli è apparso un secolo). Poi è andato a Pisa dove ha visto il complesso, Livorno che gli piacque molto perché assomigliava a Torino e per il mare (poiché c’era il porto si respirava un aria internazionale che piacque molto anche a Leopardi) e ci passa dieci giorni. Dell’atmosfera internazionale respirata nelle città e dalla compagnia lui provò un senso di vergogna di essere italiano perché era un nazione mota, divisa e avvilita invece le altre nazioni che erano potenti a livello politico lui provò una sorta di repulsione, quindi, cercò di imparare un’altra lingua. Da Livorno va a Siena ma non gli piace tanto il panorama ma sente per la prima volta parlare toscano, quello originario e non contaminato come quello fiorentino da molti influssi. Va a Roma viaggiando per un rotta tirrenica, liberandosi dell’aio con gli altri suoi compagni vede altre cose ma comunque lui fu colpito da San Pietro e voleva più volte ritornarci. Capitolo secondo [1767] lui va a Napoli per il clima migliore visto che era inverno (azione normale in questi tour). Entrano in un zona dove c’era il pericolo di essere rapinati dai briganti viaggiando con i vetturini per ragione di sicurezza. Racconta che Elia si era rotto un braccio cadendo da cavallo e grazie alle sue competenze mediche se lo rimise a posto e continuò a cavalcare. Ne approfitta per lodarlo perché è stato molto forte e coraggioso dimostrando di essere una persona con un tempra molto dura, secondo Alfieri i governi dovrebbero esaltare anche i piccoli esempi eroici. Ad agosto parte per Lione passando per Aix, Avignone e Valchiusa ma non li guarda. Rimane a Lione per tre giorni poi va in Borgogna poi infine a Parigi. Capitolo quinto Quando arriva a Parigi le sue aspettative vengono deluse perché la città non è bella come immaginava: strade, teatri, donne con i ceroni in faccia che non bastavano per fargli apprezzare il Louvre e la qualità degli spettacoli. Il fatto che il tempo non era bello a Parigi ne risentì del suo umore. È stato ospitato alla corte che stava in Compiegne ma lì non conosceva nessuno tutto settembre. A Novembre tornò l’ambasciatore di Sardegna che lo introdusse all’ambasciata di Spagna, giocò per la prima volta (il gioco era un’aggregante sociale). A gennaio andò a Lontra travolto dalla smania di vedere cose nuove ma le vedeva sempre inferiori rispetto a quelle che si aspettava. A Londra imparò ad apprezzare città come Napoli, Roma, Venezia e Firenze. Prima di partire per Londra viene introdotto alla corte di Versailles ma il re si comportò in un modo che sdegno Alfieri perché si comportò con sufficienza e superiorità. Ne approfittò per fare un riflessione riguardo la monarchia: i re plebei sono più funesti per la Francia e per il mondo dei re aristocratici. Capitolo sesto Metà gennaio del 1768, in piena rivoluzione industriale, va a Londra con il Marchese Rivarolo: dieci o undici anni più grande ingegnoso ma ignorante quanto lui, era di umore lieto e loquace, inoltre gli raccontava delle sue storiette d’amore. Londra gli piacque tantissimo: l’aspetto, i cittadini, l’innovazione con le industrie (ovviamente ha visto solo la facciata) e il governo (dice che volentieri ci sarebbe rimasto a vivere ma il clima non contribuiva alla sua malinconia). In questo periodo di lascia trasportare dalla vita mondana ma dopo tre mesi si stanca e ad una festa fa a gara con i cocchieri. Fa una visita nei paesi vicini. Arriva in Olanda e gli piace perché ha degli aspetti simili all’Inghilterra ma non sono così forti. Primo Intoppo amoroso: Conosce Cristina Emerentia Lewe van Aduard sposata ma con il marito di trasferisce in Svizzera lasciando Alfieri. Don Josè d’Acunha è diventato un suo amico anche durante la sua carriera gli manderà le sue opere. Per la prima volta in Haia è felice perché ha sia l’amore che l’amicizia quindi si trova nella massima condizione creativa. Inizia a leggere Macchiavelli che è un autore che all’epoca non si faceva studiare a scuola e lui è il primo a sdoganare questa cosa. Questa felicità non dura a lungo perché dopo una visita a spa e a Mastricht lei seguì il marito in Svizzera, la rivide dopo qualche tempo in Haia poi lei di punto in bianco se ne ritornò in Svizzera. Per lui fu uno shock e ci rimase malissimo tanto che tentò il suicidio fingendo di stare male. All’epoca delle malattie si curavano con le sanguisughe perché pensavano che ci fosse troppo liquido nel sangue (salassi). Alfieri così si sfascio la bendatura così da morire dissanguato ma Elia se ne accorse e glielo impedì e stette per alcuni giorni sotto sorveglianza sua. Ancora con l’animo a pezzi ma in saluta anche se non del tutto a livello parte per l’Italia: verso metà settembre parte verso Bruselles, Lorena, Alsazia, Svizzera e Savoia. Andò in Piemonte ma ci ripartì per andare dalla sorella. Poi Susa, Nancy, strasburgo, Basilea e Ginevra. Capitolo settimo [1768] torna a Torino in gran forma infatti è cresciuto di statura con molti libri comprati a Ginevra di filosofia come Rousseau, Montesquieu, Voltaire e simili sentendo un bisogno di applicare la mente in qualcosa. Le letture erano sempre francesi come Elosia di Rousseau che in generale non condivise la sua filosofia, infatti, quel libro non gli piace proprio perché è molto freddo; inoltre non comprendeva neanche il contratto sociale. Di Voltaire lesse le prose epoche cose dei versi. Invece Montesquieu è molto amato e l’Esprit di Helvetius non gli fece una buona impressione. Un libro che lo appassionò veramente furono le “Vite” di Plutarco che rilesse tantissime volte trasportato dalle emozioni. Si dedicò anche allo studio dei corpi celesti, non approfondì molto perché la scienza non era il suo ambito ma fece quel tanto per fargli comprendere la grandezza dell’universo. Nonostante gli studi lui sentiva accrescere dentro di lui la malinconia e venne convinto dal cognato di trovare una moglie, si stava per sposare ma lei all’ultime scelse un altro: questo avvenimento non turbò più di tanto perché non era pronto a mettere su una famiglia dopo le letture dei grandi uomini e dopo i due anni di viaggio, inoltre era ancora libero dagli impieghi di corte e incarichi diplomatici. Gli venne voglia di proseguire i suoi viaggi e riuscì a liberarsi dal Curatore in quanto aveva compiuto 20 anni. Capitolo ottavo Partenza maggio 1769 senza Elia e con una dolcissima malinconia ma stimolante perché mentre viaggiava leggeva Montaigne, rivide Milano e Venezia in più Trento, Innsbruck, Augusta e Monaco. Si fermò a Vienna dove ebbe la possibilità di conoscere Metastasio ma lo vide una volta adulare Maria Teresa, un’autorità dispotica così si rifiutò di incontrarlo. Si fermò un mese a Praga e Dresda poi Berlino dove venne presentato alla corte di Federico II di Prussia ma non si divertì affatto perché provava un senso di rabbia e visitò L’«universal caserma prussiana». Rimase ad Amburgo tre giorni poi partì per Copenhaguen che gli piacque tanto perché era simile all’Olanda quindi molto all’avanguardia e senza i regimi monarchici. 1770 iniziò a parlare un po’ in italiano con il ministro di Napoli in Danimarca, legge i dialoghi dell’Aretino e continua i suoi studi di Montaigne, rilegge Plutarco. Partenza a fine marzo 1770 per la SVEZIA nel «ferocissimo inverno» STOCCOLMA e fu ammaliato dalla bellezza della natura simile a quella descritta nei canti di Ossian e sempre quelle immagini ritrovate nei versi di Cesarotti. Inoltre, rimase affascinato dalla società svedese come dalla sua forma di governo perché era una monarchia ma equilibrata non assoluta. Capitolo nono Partenza a metà maggio 1770 per la Russia passando per la Finlandia vide Uppsala, la famosa università e la cava di ferro. In Finlandia ebbe un episodio rischioso perché dovette aspettare tre giorni che il ghiaccio si sciogliesse per riuscire ad andare in Russia. Queste tappe nel nord Europa erano molto rischiose. La Russia non gli piacque per niente perché era sotto un regime autoritario e non gli piaceva l’ambiente “barbari vestiti da europei”. Era contro Caterina II nonostante fosse un’imperatrice illuminata lei la considerava non diversa dagli altri regnanti autarchici soprattutto dopo le voci secondo cui ha ucciso il marito per prendere il potere. Ritornò a Berlino e si fece un giro per la Germania poi ritornò in Olanda a Spa dove comprò dei cavalli. Poi a Londra con dei suoi amici. Capitolo decimo [1771] A Londra incontra Penelope Pitt sposata con un marito molto geloso (aveva 21 anni), lui la vedeva a teatro perché era compagna di palco del principe di Masserano e anche durante le passeggiate nei parchi. Per lei aveva sviluppato una sorta di dipendenza affettiva per cui non riusciva a non vederla e ne sentiva la mancanza, però a fine giugno sarebbe dovuta ripartire per la campagna e lui non l’avrebbe più rivista. Intanto lei per una decina di giorni non sta a Londra ma in una villa vicina e lui per cercare di far passare il tempo per non pensare a lei e la mancanza fa lunghe passeggiate con il cavallo comprato a spa. Un giorno con il Marchese Caraccioli salta un ostacolo molto alto e cade da cavallo, per salvare il suo orgoglio lo risalta bene ma si è slogato una spalla (questo salto pericoloso lo fece perché il coraggio era amplificato da questo sentimento amoroso). Per questo incidente dovette restare a letto ma il secondo giorno si alza e va a trovare la donna amata aumentando così il dolore alla spalla, a teatro quando si rincontrano il marito lo chiama accusandolo di averlo visto lì nella sua casa e lo sfida a duello in cui rimane ferito. Dopo un quarticello trovò la Pitt a casa di sua cognata, lo aiuta con la ferita e gli spiega come ha fatto il marito a sapere che lui era stato a casa loro quella notte, inoltre gli aggiunge che loro erano in via di divorzio Capitolo undicesimo Durante il processo venne fuori le tresca amorosa della donna con un groom, Alfieri dovette pagare una pena pecuniaria per la relazione extra coniugale con la donna, il quale per sottrarsi abbandonò l’Inghilterra. Capitolo quindicesimo [1775] decide di rompere definitivamente con Gabriella Falletti e lo fece chiudendosi in casa per non vederla e sentirla sfidando così sé stesso facendosi tagliare pure i capelli e passò così per due mesi poi gli venne in mente di scrivere qualcosa: un pometto di 14 versi e lo inviò a Padre Paciaudi definendolo buono, personaggio che gli consigliò delle lettura in italiano e gli rimandò di conseguenza un Cleopatra che ha scritto questo padre e la confrontò con la sua valutandola inferiore. Studiando approfonditamente i poeti italiani e imparò ad apprezzare quel primo sonetto. Riprese quella Cleopatra iniziale e la modificò, questo periodo fu proficuo per lasciarsi alle spalle questo amore e riprendere possesso del suo intelletto. Si fece legare da Elia. A Carnevale si vestì da Apollo con la cetra e decantò al ballo i suoi versi svergognandosi per togliersi dalla testa quell’amore. Scrisse la versione definitiva della “Cleopatra tragedia” e la mandò a Pacaudi che lo rimandò con delle postille con consigli e la riscrisse con più ostinazione. Poi la mandò ad un suo coetaneo Agostino Tana che aveva una formazione filosofica. Nel 1775 fece recitare la tragedia definitiva ed ebbe successo. Cleopatra trama Prima opera di Alfieri ma non è presente delle prime pubblicazioni, non rispetta il metodo “ideare, stendere e verseggiare” e oscilla tra l’italiano e il francese con delle goffaggini espressive, opera grezza, una struttura inadeguata. È presente la reggia/labirinto metafora dell’amore tossico ma elemento presente in tutte le tragedie di alfieri. Usa l’endecasillabo sciolto ma la versificazione è incerta e le rime sono irregolari. Spinta verso l’autobiografia perché Alfieri si ritrovava in Antonio, tratta temi sia amorosi che politici ma resta comunque contenutisticamente disomogenea (solo io quinto atto è il migliore). Alfieri resta comunque insoddisfatto per le inverosimiglianze che scivolano nel comico. EPOCA QUARTA VIRILITA’ Alfieri e Siena Una città molto importante anche se all’inizio non lo colpì moltissimo perché era il periodo di dissolutezze. Dopo la conversione letteraria il passo successivo è la conquista della lingua. Andò a Firenze e a Siena, una seconda volta, a Siena ebbe una rivelazione (scrittura d’impeto) molto più che a Firenze perché era una città con molti stranieri quindi anche la lingua è contaminata. All’inizio scrive in lingua francese e predilige la scrittura d’ impeto: un forte sentire che emerge è che un qualcosa che non può essere né studiato né appreso ma derivato dalle proprie passioni. Quindi con la conversione letteraria deve imparare il toscano per avere uno stile tragico italiano che sia degno appunto dei degli altri generi. Quindi il primo viaggio letterario in Toscana a Siena ma ci si sofferma poco, Firenze e Pisa; nei luoghi che secondo lui sono i custodi del volgare toscano, in particolare, appunto dove c'era una fiorente università. Viene introdotto da Giovanni Maria Paciaudi entrando in contatto con questi professori per avere consigli sul toscano, contatti che sbloccheranno i lavori. L'incontro viene descritto nella Vita ed è una parte importante anche se lui ne rimane un po’ deluso in quanto il professore che lesse una sua opera non conosceva a fondo questo genere e quindi gli aveva consigliato Bonarroti lontano dalla sua idea di tragedia. Alfieri giustifica questo suo rivolgersi ai professori Pisa dicendo che lì non era interessato ad avere consigli sullo stile ma sulla lingua, infatti, con un professore manterrà i contatti anche dopo con Lampredi, infatti, gli manderà una prima edizione delle tragedie. Il giudizio che ne darà lo studioso è di critica nei confronti dello stile e di approvazione per i contenuti e questo è un po’ l'archetipo di quello che sarà il giudizio delle tragedie degli Alfieri per un primo periodo. La seconda tappa è a Firenze dove verseggia per la seconda volta il Filippo. L’ideale dello stendere, ideale e verseggiare non viene ancora spiegato ma parla più volte di una seconda stesura. Poi ad ottobre torna a Torino, sempre con il primo e unico scopo di formarmi uno stile proprio ed ottimo della tragedia. Nel secondo viaggio letterario in Toscana non si sofferma più a Pisa, a Firenze, ma andare direttamente a Siena. Il secondo viaggio letterario in Toscana avverrà l'anno successivo e Alfieri si reca subito a Siena perché vuole farla diventare una città letteraria e basta quindi lontano da distrazioni come potevano essere quelle delle donne quindi lontano da distrazioni amorose e tutto focalizzato sulla lingua (dove c'è il toscano migliore). Proprio in occasione del secondo viaggio letterario che alfieri interrompe la narrazione per spiegare il suo metodo nei dettagli: ideare stendere e verseggiare. Siena è importante anche dal punto di vista personale per l'autore perché incontra uno dei suoi amici più cari Francesco Gori Grandellini anche se è figlio di un mercante invece Alfieri è un borghese; ma quello che li unisce, al di là della classe sociale è il sentire comune, riconoscersi l’uno nelle passioni dell'altro. Spesso utilizzerà proprio Francesco Gori come un alter ego, lo fa nella “vita” e nella “virtù sconosciuta”. Nelle sue opere c’è il rapporto di dialogo nel quale in realtà è un dialogo con sé stesso quindi Alfieri ci apre un po’ la sua controparte per spiegarci, per sviluppare il suo pensiero. Inoltre, Gori è importante per la conversione letteraria. Incontra Gori in un salotto culturale, quello di Teresa Regoli Mocenni (le donne hanno un ruolo rilevante), nella “Vita” lui parla solo di Grandellini ma c’erano anche altre persone “Crocchietto senese”. Per Alfieri e i salotti sono importanti perché sono luoghi di cultura e perché può leggere le sue tragedie in anticipo ad un pubblico ristretto; entra in contatto con pensieri politici diversi ed entrerà in contatto con idee molto avanguardista: si affrontano tematiche politiche rilevanti, come ad esempio il passato glorioso della Repubblica senese e si discute delle riforme che i Granduca di Toscana Pietro Leopoldo voleva mettere in atto. Quindi ambienti importanti non solo per la cultura ma perché davano spazio alle opere dei partecipanti, ci furono moltissime poetesse ed improvvisatori come Francesco Gianni, e funzionava che si lanciava un argomento poi il poeta schiccherava dei versi. Pietro Giordani era ferocemente contrari agli improvvisatori perché riteneva che fosse un sistema di produzione assolutamente vuota ma era favorevole a una produzione poetica profonda e importante, è anche utile dal punto di vista del progresso della civiltà. Teresa Regoli Mocenni è la madre dell’amata di Foscolo che aiuterà economicamente Foscolo. Francesco Gori Grandellini è il figlio di un mercante e inizia quella carriera pur avendo interessi culturali. Stende un saggio sull'arte senese su Domenico Beccafumi ma è stato completamente ignoto ai suoi contemporanei perché questo saggio è stato pubblicato negli anni 80 del Novecento; Alfieri aveva intenzione di pubblicarle ma era nello stesso periodo in cui stava pubblicando le sue tragedie. Era fortemente repubblicano, Siena è una città che è sempre stata indipendente da Firenze ed è stata sempre gelosa della sua libertà. Introduce Alfieri nei salotti quando era molto giovane. Nel 77 il Granduca Pietro Leopoldo stava tentando una manovra dispotismo illuminato ma per Alfieri resta comunque un despota però in generale viene colta questa apertura dai salotti. Francesco Gori Grandellini sarà importante per la conversione letteraria perché gli farà leggere Machiavelli, autore fondamentale per l’ideologia politica; infatti, Alfieri pubblicherà le opere politiche più importanti per primo “della Tirannide” che ha una gestazione lunghissima perché verrà composto negli anni 80, poi 10 anni dopo viene pubblicato sempre a Siena. Dedicherà Grandellini “la congiura dei pazzi”, tragedia di argomento mediceo ispirati proprio dalle conoscenze. È presentato come Alter ego dell'autore e non solo nella vita ma anche nella Virtù sconosciuta dove il dialogo con l'amico è in realtà un dialogo con sé stesso. Però Alfieri riconosce che sono affini sia per passioni che per idee politiche; quindi, questo si tramuta in un'amicizia molto forti. Nella “virtù sconosciuta” riprende il passato glorioso della repubblica di Siena andando proprio a riprendere gli affreschi del Beccafumi riguardano le virtù. Alfieri elogia la sua virtù seppur sconosciuta, quindi c'è sempre quest'idea politica di fondo che lega agli amici oltre all'assetto reciproco. Giudica il Gori per non aver avuto un ruolo importante con i suoi scritti nella città. Elogia il Gori per la sua virtù, esempio di saper vivere sotto un tiranno senza scendere nella viltà. Della tirannide: trattato diviso in due libri, il primo riflette su chi è un tiranno e sul secondo come si può vivere sotto il tiranno. Viene ispirata dalla lettura di Machiavelli, ma non solo, ci sono altre opere che circolano legalmente o meno tra le stamperie senesi alcune delle quali sono il “saggio sul dispotismo” di Mirabau e la “costituzione d’Inghilterra” de Lohl. Un tiranno per Alfieri è qualsiasi monarca, quindi non c'è una distinzione fra monarchia assoluta e tirannide, come magari avveniva nel nell'epoca antica nell'epoca classica, perché un re poteva non essere considerato un tiranno. Anche Montesquieu è uno degli ideatori del dispotismo illuminato, lui crede davvero che un re illuminato possa fare meno danni di un tiranno. Ma per Alfieri no. Secondo Alfieri, quindi, la tirannide e qualsiasi forma di potere che non preveda un rispetto delle leggi. Quindi il re, non dovendo rispettare le leggi e forzatamente un tiranno, e quindi ponendosi al La proposta è quella che vi accennavo prima di chiedere all'imperatore di rinunciare al suo potere e favorire l'instaurazione della Repubblica; quindi, fermamente ordinarie per sempre in tal maniera lo Stato che ha limitato ai perpetuo autorità, non pervengano dopo tenne i cattivi principi. Per non perdere gli ultimi provvedimenti dati fatti dei buoni, poiché aver regolato la Repubblica necessari non sono, ed essendovi pure impedire, non possono sia essi poi molti altri non buoni ne succedono. Quindi vengono riprese molte delle tematiche della tirannide. La Tirannide è forma di governo del singolo, in questo caso il singolo. Il singolo è Pino e Traiano perché fermandolo, impedisce a chi verrà dopo di lui di prendere il potere. Perché è vero che magari per Plinio Traiano è un imperatore, tutto sommato. Comunque, il panegirico si conclude con un esito negativo perché, come anticipato dalla tirannide perché nessun principe è disposto a cedere proprio potere in favore del popolo, quindi, all'inizio Alfieri finge di ritrovare. Si apre il panegirico rivolgendosi all'elettore e dicendo che ha trovato un qualcosa, questo panegirico di Plinio, in una versione diversa da quella che va, che è stata più pubblicata, più divulgata e che lui ne fa la traduzione. Il Senato inteneriti da questa orazione piangessero e venne data tanta gloria a Plinio. Il destinatario quindi, è un personaggio, un principe, a cui si osa proporle di schierare da radice il Principato, perché ha apertamente e generosamente si è manifestato in lui l'essere un cittadino, non solo un principe o un tiranno. Al Re Luigi XVI di fare più concessioni nei confronti. Il popolo, in particolare del terzo salto, che, come sappiamo, è quello che ha fatto la rivoluzione. Ma il destinatario vero è Pietro Leopoldo Ci sono delle somiglianze tra la virtù del panegirico e quella dell'opera dedicata al Gori, non sono altro che due facce della stessa medaglia, una è la virtù pubblica e l'altra è la virtù privata. Se ci fate caso entrambe le opere, comunque, non portano un esito positivo nel primo caso, poiché il Gori era un personaggio privato avremmo potuto sviluppare la sua virtù in senso pubblico, nel caso del panegirico, invece, il Traiano non possedeva la virtù privata, ma solo la virtù pubblica. E quindi questo gli permetteva di essere un ottimo imperatore, ma di non riuscire a rinunciare al proprio potere in favore del popolo. Perché, secondo la lettura che dà lo studioso. Del Traiano non vengono ripresi gli aspetti personali, quindi quelli che potevano riguardare la lettura. Quindi il Traiano ha segnato da Alfieri e colui che ha posto in atto le virtù pubbliche e a tutte questo gli possiamo chiedere di rinunciare al potere, però non lo ha le virtù private. Viceversa, il Gori ha potuto coltivare solo in atto questo privato sentimento e sarebbe potenzialmente idoneo e degno a realizzare le pubbliche virtù. Entrambe falliscono per forze superiori nel caso del panegirico, la forza superiore è quella della tirannide alla quale l'uomo si può opporre ma fino ad un certo punto. Questi elementi ricorrenti nelle tragedie dove spesso il tiranno il vincitore, quindi comunque l'uomo può pensare di porsi contro questa forza, ma la vittoria non è scontata. Nel caso invece della virtù sconosciuta la virtù privata subisce un'altra forza naturale, più forte dell'uomo che è la forza della morte, con la quale sparisce anche la virtù di Gori. Sostanzialmente questo e quello che vuole trasmettere Alfieri: una virtù che resta sconosciuta viene poi conosciuta solo grazie alla sua intercessione, che quindi non ha lasciato niente di memorabile per i posteri. Entrambe le virtù falliscono per motivi diversi, per forze diverse, però sono accomunati da questo da questo esito. In conclusione, con la morte del Gori Alfieri vede Siena con malinconia e tristezza ma comunque gli restano degli amici (crocchietto senese con cui passare del tempo in maniera rilassata). Capitolo primo [1775] si mette in testa di diventare autore tragico, era ostinato, era contro qualsiasi forma di tirannide ma era ignoranza di qualsiasi regola dell’arte tragica. Dovette ristudiare da capo la grammatica. Con la Cleopatra si rese conto del suo livello attuale che non era molto alto e la prova del miglioramento erano il Polinice e il Filippo che erano concepite in francese perché si esprimeva meglio in francese e non utilizzava il metodo in maniera adeguata ma un po’ disordinata. Decise di imparare il toscano, tradusse le sue opere in toscano per quanto poteva facendosi aiutare dal Paciaudi o Alliud, compose dei versacci, lesse Dante che gli risultava difficile, Tasso con cui aveva dei problemi e Ariosto, pure Petrarca che pure gli risultava difficile. Lesse inoltre delle tragedie italiane e della prosa sempre italiana. L’Etruria vendicata trama Al 1778 la concezione della composizione del poema in ottave, l’argomento del poema è l’uccisione del duca Alessandro de Medici, tiranno di Firenze da parte del cugino Lorenzino avvenuta nel 1537. La fragile trama dell’opera si svolge nel giro di poche ore: a Lorenzino de Medici dormente appare la libertà circondata dalle ombre d’illustri tirannicidi la quale lo esorta a liberare la Toscana dall’oppressione tirannica del cugino e degno di gloria imperitura. Anche Alessandro ha una visione notturna, quella del Timore che gl’intima di onorarlo sotto la minaccia d’una possibile prossima morte. La descrizione dei due risvegli si svolge all’insegna di una calcolata opposizione che sente di tracciare i profili contrari dei due personaggi, Lorenzo dopo l’apparizione rinvigorito e pronto all’azione, invigorito; Alessandro resta inchiodato al letto e si mette ad urlare. Atterrito il duca fa convocare il consiglio. Lorenzino viene esortato dalla madre e dalla sorella Bianca a uccidere, esce di furia dirigendosi al palazzo ducale ma una guardia lo blocca e si apparta sull’Arno e dal fiume s’alza il fantasma Savonarola che gli consiglia di usare l’astuzia e l’inganno impiegati ai suoi giorni. L’assemblea convocata dal duca interrotta da un malore di Alessandro, la sua cotta gli ha tolto il respiro, rimasto solo col confessore Plenario (esempio negativo delle religione al servizio del potere) convince ad uccidere il cugino Lorenzo, un cortigiano persuade il duca a recarsi da Bianca con inganno ad aprire il portone; al perfido Alessandro si mostra dal balcone non Bianca ma la libertà che ha assunto le sembianze della sorella di Lorenzo e lo invita ad entrare; ingannato a sua volta, il duca varca la soglia e affrontato dal cugino lo uccide. La creazione dell’opera non seguì rigide tappe compositive fissate per i teatri teatrali, ma senza uno schema di riferimento in maniera disordinata, Etruria assolse la funzione di esercizio stilistico e consentì al poeta di esercitarsi nell’uso delle rime da cui lo avevano distolto gli sciolti della produzione drammatica. Il poema è condotto su diversi registri che concorrono a creare l’effetto di un agrodolce terribile: Lorenzo, campione libertario è esente da qualsiasi inflessione ironica viene descritta al modello eroico proposto nelle tragedie, il tiranno Alessandro è il ritratto in termini satirici e acremente grotteschi (elemento comico amaro). Il tiranno appare preda della paura che lo induce ad agire vigliaccamente per Lorenzo come per gli eroi libertarie delle tragedie di non riuscire a portare a termine l’impresa. Un motivo di interesse contenutistico Etruria è costituto dell’accoglimento di temi dell’Alfieri teorico, ininterrotta paura del tiranno, la giustificazione e inanità del tirannicidio compiuto da persona isolata, talvolta necessario ma improduttivo disgiunto dal consenso popolare, il fatale servilismo delle arti figurative, il legittimo ricorso alla religione quale strumento di persuasione e azione liberatrice. Emerge una convergenza di due opposti atteggiamenti di Alfieri nei confronti della religione che si possono ricercare nei suoi trattati politici: nella Tirannide si svolgerebbe la critica della religione, cattolica, superstizione contraria alla libertà in accordo con la dottrina illuminista, e invece nel Principe e delle lettere avrebbe avuto luogo la riabilitazione visto come un impulso naturale proprio dello scrittore resta comunque inalterata per tutto il percorso la concezione strumentale della religione. Si instaura un confronto fra religiosi e letterati, entrambi a snaturamento una volta accettata la protezione dei principi. Alfieri nella “Vita” rileva i difetti dell’opera definendola sconnessa difatti l’autore appare a disagio alle prese con l’epica per la sostanziale estraneità della sua ispirazione ai ritmi del poema narrativo e la presenza di topoi epici che implicano l’immissione di posticce allegorie e prodigi di cui egli stesso sembra denunciare il carattere artificiale. Se ne avvale per esaltare l’operato dell’eroe, tuttavia, trattenersi dalle demistificazione illuminista. Nella svalutazione del Medioevo, Alfieri condivide il giudizio del suo secolo, al punto che la volontà di innalzare il personaggio di Ildovaldo lo induce a derogare in parte a una corretta caratterizzazione storica, per conferirgli un non so che di ondeggiante fra i costumi barbari dei suoi tempi e il giusto illuminato pensare dei posteriori, per cui egli non viene ad avere una faccia interamente longobarda. Questa diseguale frammentaria tragedia, così efficace e terribile in alcune parti è insolitamente ricca nei punti più deboli, di modi melodrammatici un libretto però senza musica. Ottavia trama Scena unica è la reggia di Nerone e parte dell’azione si svolge di notte. Ottavia è la moglie ripudiata di Nerone e di lui ancora innamorata forzatamente, è convocata a corte per essere sottoposta a una grave umiliazione divenire la schiava di Poppea, amante di Nerone; accusata calunniosamente di adulterio da Tigellino (complice di Poppea) a lei toccherà tentare di scolparsi; dopo una nuova falsa accusa lanciata contro la giovane donna, ella sceglie il suicidio avvelenandosi. Anche Ottavia appare come altri personaggi alfieriani una vittima predestinata. Su di lei si accanisce l’odio di Nerone e di Poppea, ed è un odio che, come accade spesso in Alfieri, si direbbe non motivato se non forse dell’impossibilità di tollerare l’innocenza stessa della giovane donna. Di Ottavia è però anche la debolezza e l’irresolutezza che non l’abbandonano nel corso dello svolgimento dell’azione quel suo temere e desiderare la morte; di qui l’importanza del personaggio di Seneca, maestro del morire a cui Ottavia ricorre per trarre conforto e forza in compenso lo stesso Seneca beneficia artisticamente del rapporto con la giovane guadagnando via via in energia e incisività. L’opera è viva soprattutto grazie al personaggio femminile, la cui trepida ma irrinunciabile dignità risalta contro la sommaria violenza di Nerone e i volgari intrighi di Poppea e Tigellino. La donna cerca il confronto con Seneca per non cedere salvando la propria fama d’innocenza (tema del confronto con la morte). Il suicidio eroico di Seneca costituisce il mezzo di riscatto più autentico per il filosofo stoico, che nella prospettiva alfieriana non si sottrae all’accusa di intellettuale compromesso con il potere politico. L’opposizione al tiranno e la volontà di emendare le proprie colpe sul personaggio gravi un giudizio fondamentalmente scettico che ne inibisce l’azione, una prima conferma in tale nesso giunge dall’analisi della catastrofe come, per esempio, il ridimensionamento del ruolo di Seneca, in un primo momento egli avrebbe dovuto somministrare il veleno a Ottavia, in qualità di maestro del morire in seguito glielo rifiuta e nega persino di possedere. Anche Seneca ammette il suo fallimento dovuto alla mancata denuncia del potere tirannico. Come se il coinvolgimento per quanto riluttante nei delitti di Nerone lo avesse reso definitivamente indegno di farsi portavoce della verità Seneca è costretto a rinunciare al ruolo che ha tradito cedendo ad altri il suo compito; nell’ultima battuta della tragedia, infatti dopo aver preannunciato la propria morte, il filosofo volge lo sguardo ai posteri. Il Nerone dell’Ottavia è descritto come quel tal personaggio che in sé tutta l’atrocità, possiede i tratti caratteriali e la statura storica necessaria per fungere da tiranno archetipo ma nella variante del leone. Nessun altro despota alfieriano raggiunge la cupa ferocia di questa personaggio. Gli elementi comici sono dunque esclusi dalla tragedia, l’imperatore calato in un differente registro espressivo, viene definito crudelmente buffone. Con un’operazione completare al rifiuto di una caratterizzazione comica, Alfieri proietta sul personaggio di Nerone i tratti specifici dei tiranni più efferati della tradizione classica. Alfieri è stato criticato (da Cesarotti ad esempio) per aver reso Ottavia innamorata del suo persecutore, auto contraddicendosi perché nella tirannide spiega che il tiranno non era in grado di suscitare dei veri affetti, ma allo stesso tempo la compassione è somma per Ottavia e non ci sono scusa che giustificano Nerone Alfieri ammirò la resistenza coraggiosa delle ancelle che difendono Ottavia e nel gruppo spicca Marzia che patisce il supplizio intonando inni solenni alla santa onestà di Ottavia, prima di spirare da forte. Il personaggio di Marzia che difende la padrona di fronte all’imperatore e al prefetto, Alfieri doveva aver apprezzato l’arditezza della battuta, ma non appropriarsene nella sua opera, data l’oscenità del concetto incompatibile con il decoro tragico si decise di escluderla attuando un tentativo di compensazione l’affastellamento retorico. Il sacrificio della frase fosse fatto un po’ a malincuore sembra emergere dalla stesura, in cui è Seneca ad appropriarsene e opponendosi a Tigellino che minaccia la reputazione di Ottavia (indugiando un atto di sfida eroica al tiranno). Merope trama Anche per la Merope, ideata, stesa e verseggiata nel 1782, si potrebbe parlare di repliche e svolgimenti poco originali delle prime tragedie, repliche. Opera di grande perizia letteraria e teatrale è la Merope, nacque d’impulso quando il poeta riteneva concluso la propria carriera di tragico dopo 12 tragedie. Una merope aveva composto nel primo Settecento, Scipione Maffei, frutto dei benemeriti interessi teatrali del grande erudito e letterario veronese adoperò per ridare dignità e orgoglio al teatro italiano. Lo sviluppo della tematica sentimentale volta alla celebrazione dell’affetto materno, infatti la dedica alla madre, anziché dell’amore galante impostosi sulle scene francesi, inoltre i lieto fine dell’opera corrispettivo artistico dell’incipiente fiducia nel dispotismo illuminato. La principessa troiana, infatti afflitta per la morte del figlio che è costretta a cedere alla vendetta dei Greci, fornire accenti anche alla Merope, venendo a costituire un paradigma dell’amore materno utile a integrare la vena di Alfieri non a suo agio nello svolgimento di un tema estraneo alla sua ispirazione principale. Non solo termina con la morte dell’usurpatore e l’ascesa trono di Egisto, ma adombra un cambiamento di regime interpretabile come una svolta costituzionale, Egisto dopo aver ucciso Polifonte, depone la scure e si rende al giudizio del popolo da cui riceve legittimazione e con il quale instaura un patto. Pur nella sostanziale estraneità del soggetto agli interessi dominanti di Alfieri possibile riconoscere alcune componenti della sua drammaturgia, al di là della questione politica certe soluzioni strutturali come la riduzione di personaggi a quattro con la soppressione dei confidenti e la morte in scena del tiranno. Il confronto con l’opera di Maffei giudicata esemplare e con il modello francese permette ad Alfieri di provare l’efficacia della sua drammaturgia e in definitiva la superiorità del metodo adottato. I modi e gli affetti familiari sono in contrasto con modi e sentimenti concitati e feroci, quest’opera è vicina nel carattere al ben più complesso e fuso, non meno imprevisto, Saul. Cresfonte, re dei Messeni, è stato trucidato insieme a due suoi figli dal fratello Polifonte, che si è insediato sul trono e intende sposarne la vedova, Merope; ma un terzo figlio superstite, Egisto, rientra in incognito in città, vendica il padre e i fratelli e libera la madre dalle nozze con l’usurpatore, uccidendolo. Saul trama L’azione della vicenda si svolge nel campo degli ebrei, guidati dal re Saul contro i filistei, un guerriero valoroso di umili origini, diventato re per volere divino. Ormai diventato anziano, Saul è abbandonato da Dio ed è tormentato dalla vecchiaia e dalla sua ansia di potere, di dominio assoluto, sospetta addirittura che Davide, marito della figlia Micol, aspiri a prendere il suo posto da re. Davide era il nuovo prescelto da Dio, però non aveva alcuna intenzione di prendere il potere di Saul, anche se quest’ultimo pensava ciò. In preda al delirio, Saul manda in esilio il genero con accuse ingiuste, poi dopo si riappacifica con lui, ma nonostante tutto rinasce questa angoscia che lo spinge ad ordinarne l’omicidio. Davide è costretto quindi a partire. Saul, accecato dalla rabbia, uccide il sacerdote Achimelech che egli ritiene simpatizzi per Davide, chiede la distruzione di tutto ed in preda alla follia si rende conto dell’uomo che è diventato e nella battaglia contro i filistei cerca di trovare la morte. Quando i filistei attaccano il campo degli ebrei, l’esercito di Saul era ormai stanco e molti membri vennero uccisi. Saul ordina al ministro Abner di portare in salvo la figlia Micol ed infine si uccide trafiggendosi con la propria spada. Fu steso e verseggiato nello stesso 1782, come ricorda nella Vita Alfieri offerto a Papa Pio VI per la dedica, per ottenere la protezione del pontefice contro la crescente ostilità del cardinale di York nei confronti della sua relazione con l’Albany, Pio VI rifiutò; la dedica del Saul all’abate Tommaso Valperga di Caluso. Nacque interesse per la Bibbia, in particolare per il vecchio testamento perché espressione estetica del mondo arcaico da affiancare ad Omero e Ossian, si pone al centro il dramma di Saul (un re ormai delegittimato che ha perso la certezza della propria autorità ma anche un uomo che avverte il declino senile, nei confronti di David prova ammirazione e invidia riconoscendo in lui se stesso giovane) e non il biblico trionfo, della giustizia divina che acceca e schianta gli orgogliosi e si ritrovano nel nuovo protagonista tratti dei tiranni delle precedenti tragedie. Il rapporto tra Saul e David ricorda quello tra Filippo e il figlio Carlo, impossibilità di abbandonare il potere regale e sopravvivere, ha costantemente la percezione di una forza superiore e sottratta al suo controllo. Molto è simile ma tutto è mutato, la stessa scena non è più la chiusa reggia ma il campo degli Israeliti; notturni sono il primo e il quinto atto, ma la notte non incombe soltanto luttuosa e ostile come in altre tragedie foriera di minaccia è anche per il tiranno che di notte vede compiersi il suo destino. Vi è nel Saul un’insolita presenza di notazioni temporali, un’attenzione ai mutamenti di luce: della Notte del primo atto, che sta per cedere il campo all’almo sole, all’alba che si annuncia alla fine dell’atto, dalla piena e serena bell’alba che apre il secondo atto, alla notte in cui è immerso il quinto atto. Filippo è un sovrano spagnolo intollerante e geloso che non sopporta l’idea che nella sua corte si coltivino dei sentimenti che il sovrano non può controllare. Non ama i suoi figli in particolare il figlio Carlo gli appare come un nemico, è sia l’antagonista della storia sia la vittima a cui è inibita l’azione quindi l’unica via d’uscita è la morte. Isabella, la moglie di Filippo, è un personaggio più complesso e nel corso della storia subisce una mutazione. È divisa tra il sentimento di fedeltà e lealtà ma anche di timore, lei invece ama anche Carlo infatti sono stati fidanzati. L’unica cosa che può fare per ribellarsi è il suicidio eroico come affermazione della amore per Carlo e protesta contro il sovrano. La notte è un elemento ricorrente e simbolico nel teatro alfieriano riprendendo sia il gotico inglese sia la poetica del sublime. Per arrivare alla versione definitiva questa tragedia subisce 4 versificazioni andando a cambiare sia i contenuti sia degli aspetti formali; nel cambiamento di lingua Alfieri lascia il lessico patetica sentimentale per attingere ad un lessico più imponente attingendo dai classici come Dante. Filippo è offeso nella maestà non più nei suoi sentimenti perché questo amore tra Isabella e Carlo si colloca come un atto ribello all’autorità del sovrano. Tuttavia, emerge anche la sfumatura politica perché Carlo è commosso dalla sorte dei Fiamminghi (provincie ribelli) quindi esprime una sorta di solidarietà ideologica perché praticamente non si schiera contro il padre appoggiando i fiamminghi, questa presa di posizione è passiva come è passivo Carlo, questa sfumatura risolve anche il contrasto tra tiranno e anti-tiranno. Si completa il passaggio tra il troppo sentire cioè l’eccesso di sensibilità al forte sentire cioè eccesso di vitalità. Il rapporto tra il padre e il figlio si sovrappone a quello di tiranno e anti tiranno infatti il legame familiare evidenzia le affinità di carattere come la grandezza d’animo anche se orientata anteticamente e Filippo rinuncia al ruolo di padre per essere tutto re. Riprende il dramma di Metastasio nella dicotomia tra padre e sovrano ma anche delle scelte formali, nonostante questo dramma alfieriano allo stesso tempo si distacca da quello di Metastasio perché denuncia i meccanismi di potere invece Metastasio li celebra. Si elimina la figura del confidente per dar luogo ad uno monologo interiore, recupera la catastrofe tragica che culmina con la morte annullando il classico elemento ricompensa ai buoni e la punizione ai cattivi (andando in contrapposizione con il teatro settecentesco). Polinice trama Attinge dalla Tebaide di Stazio in preda ai bollori giovanili dopo averlo letto e anche dalla traduzione di Seneca. Etocle è il tiranno e l’eroe è Polinice che ha il ruolo dell’antagonista positivo. Etocle e Polinice e anche Antigone dopo sono i figli di Edipo e Giocasta, dovevano governare ad anni alterni ma Etocle non rispetta questo patto per questo scoppia una guerra detta guerra dei 7. Si accordano per una riconciliazione ma Etocle punta ad avvelenare Polinice aiutato dallo zio Creonte (anche lui con ambizioni di potere) invece Polinice, aiutato dallo zio Argo mette l’esercito fuori Tebe. Creonte (con l’intento di rendere impossibile la riappacificazione) dice a Polinice che il fratello lo voleva avvelenare e lui fa avanzare l’esercito che attacca la città. Nella tragedia alfieriana Polinice implora il perdono ma Etocle lo uccide in un abbraccio davanti alla madre, personaggio secondario come Antigone che assiste a tutta la scena di terrore (nella tebaide è il contrario). Si nota la confusione generazionale data dall’incesto di Edipo fin dall’inizio dalle parole di Giocasta (di edipo io sono moglie e madre). Qui emerge in maniera forte la confusione data dalla reggia-labirinto data dalla corruzione snaturante del potere. All’inizio la dimensione del fato è importante ma poi Alfieri ci ripensa perché per i contemporanei non è facile accettare le credenze religiose. Antigone trama Antigone è la sorella di Polinice ed Etocle, inoltre è la prima tragedia alfieriana scritta interamente in italiano e composta con il suo metodo. L’estrema linearità nel tempo, spazio e personaggi la rende molto innovativa rispetto alle tragedie precedenti sue e non sue. Già Creonte parte in quarta perché emana un decreto che sancisce il divieto di sepoltura di Polinice tendendo una trappola ad Antigone perché sicuramente avrebbe trasgredito allo scopo di sposarla e ottenere il trono ma lei già nutre dei sospetti nei confronti di questo zio e un rapporto privilegiato con Emone (riesce a descrivere il suo carattere). Il problema delle esequie non è centrale ma è solo il pretesto della tragedia. Le azioni in questa tragedia sono tenui perché ha scopo quello esporre il personaggio che si pone in opposizione e continuità nei confronti della famiglia, cerca il riscatto opponendola alla pietà sentendo anche una certa nostalgia per gli affetti familiari mancati perché macchiati, lei morirà di una morte non colpevole ma consapevole che Creonte vuole perpetuare i crimini. Il fatto che Creonte perpetui il male cercando di acquisire il potere è un’azione che cerca di identificare il potere con il male. Il potere è svincolato dalle regole morali e Antigone intende smascherarlo La morte non colpevole di Antigone è anticipata da dei dubbi se è giusto o no espiare le colpe degli altri con una sua azione per giunta così estrema e lo confessa ad Argia (moglie di Polinice, personaggio lineare e mite che punta solo ad ottenere il corpo di Polinice alleandosi con Antigone l’esclusa delle famiglia. Senza di lei la tragedia sarebbe muta perché è una sorta di rifugio per le sofferenze della protagonista). La presenza non è violenta e paralizzante e la sua vittoria non è piena perché ha paura di una rivolta di Argo, Emone si uccide davanti al padre ed è il primo personaggio che può scegliere tra la ragione di stato o l’affetto del padre. La tragedia termina con Argia che torna in patria con Polinice e pronuncia delle parole miti nei confronti del tiranno perché i personaggi femminili non sono animati da delle spinti libertarie, si assiste ad una scrematura del tema politico del potere a vantaggio di una tragedia in cui emergono gli affetti familiari. Alfieri consigliava a teatro l’esposizione del cadavere di Antigone impiccato ma poteva danneggiare la finzione scenica così l’autore nell’edizione stampata lascia la scelta ai registi. Agamennone trama Riprende Tieste e l’Agamennone di Seneca sopprimendo il tema troiano cioè la comunanza dei destini dei greci e troiani per cui la morte di Agamennone corrispondeva a quella di Priamo e l’eliminazione di questo tema comporta l’eliminazione di personaggi come Cassandra e Euribate. La protagonista è Clitennestra, moglie di Agamennone ma ama Egisto, coltiva un rancore per la morte di Ifigenia. È totalmente soggiogata al volere di Egisto che gli chiede di uccidere il marito per placare l’ombra della figlia ma il suo scopo era vendicare il padre Tieste ucciso dal fratello Atreo padre di Agamennone. La dimensione psicologica della protagonista è caratterizzata dalle contraddizioni che oscilla tra la passione e il senso di colpa. A questo eccesso tipico degli adulteri si contrappone l’estrema umanità di Agamennone che cerca di ritrovare la pace domestica e dimenticare il delitto della figlia. Infatti, Agamennone è un ottimo re che aspira solo alla tranquillità e serenità domestica. Elettra si modifica spesso durante tutta la storia da giudice severo e accusatorio si trasforma in una disperata che assiste impotente a tutte questi episodi familiari. Clitennestra uccide Agamennone in camera da letto con un pugnale (lo stesso con cui è morto Tieste) e lei si rende conto alla fine delle vere intenzioni di Egisto. Ma anche con questo Egisto non è salvo perché c’è ancora Oreste (altro figlio di Agamennone) che è stato messo in salvo da Elettra. Quest’ultima è un personaggio che si rivelerà nella tragedia Oreste che darà il pugnale al fratello per vendicarlo ed è vista come una sacerdotessa votata a vendicare le sciagura familiari. Tragedia borghese perché le aspirazioni di potere sono messe in secondo piano rispetto al triangolo amoroso. Oreste trama Oreste torna da Argo per vendicare il padre uccidendo Egisto, viene aiutato dalla sorella Elettra e Pilade. Dalla furia (furore e cieca violenza) uccide anche la madre che appare in rapporto ad Egisto divisi e slegati da questo delitto in comune Rilesse Plutarco, stese l’”Ottavia”, “Timoleone”; riverseggiò il “Filippo”. Verseggiò “Rosmunda” e “Ottavia”. Capitolo ottavo Episodio brutale con la Storlberg e il marito e per la sua protezione è costretta ad andare ad andare a Roma vicino al cognato. All’inizio soggiorna in un convento a Firenze, poi va a Roma. Alfieri ne approfitta per andare a Napoli passando quindi per Roma. Lavora alle tragedie. Capitolo nono Riprende gli studi a Roma, voleva andare in Francia ma non ci riuscì. Legge la bibbia e completa il Saul. Completa definitivamente le sue 14 tragedie che andava a leggere nei vari salotti letterari e veniva lodato. Capitolo decimo Per la prima volta in un salotto di letterati recita l’Antigone. Decide di dare in stampa delle opere nel 1783 all’inizio pensò Roma poi però scelse Siena grazie a una conoscenza che poteva sorvegliare il lavoro. Diede in stampa quattro tragedie (Filippo, Polinice, Antigone e Virginia) che vengono accolte con durezza per lo stile Capitolo undicesimo, dodicesimo tredicesimo A Pio VI volva dedicare il Saul ma non ottenne il consenso. La relazione con la Stolberg è di dominio pubblico, quindi, genera scandalo e deve lasciare Roma. Scrive la quinta ode dell’America libera. Alfieri per promuovere il suo libro si reca a Siena da Gori poi Pisa, Firenze e Venezia. Fa un tour letterario sulle tombe dei poeti. A bologna incontra i più importanti esponenti dell’illuminismo come Pietro Verri e Parini. Invia le tragedie a uomini di cultura. A Parigi incontra Goldoni e finisce le sue opere Capitolo tredicesimo A Torino prima di partire rivide gli amici d’adolescenza ma lo salutavano gelidamente o non lo salutavano per niente e questo lo indignò. Si presentò al re e ad un ministro che gli propose di continuare a lavorare per il regno anche da fuori ma lui non accettò. Fece una considerazione positiva nei confronti del sovrano che lo accolse in maniera molto cordiale. Gli toccò assistere ad una rappresentazione della sua Virginia ma in lui stava avvenendo il processo di disinganno di gloria cioè sta diventando consapevole che la gloria arriverà dopo di lui. Salutò la madre con affetto perché conosceva le sue virtù nonostante fosse stata una madre con dei difetti. Appena uscito dallo stato si sentì più libero anche grazie al fatto che la moglie stava per avere l’ok per sciogliere il matrimonio. Intanto la Stolberg stava andando nel Tirolo (Alfieri a Roma non ci poteva andare per motivi morali). Sta a Siena e incontra il Gori che lo consola per la lontananza della sua dama. Capitolo quattordicesimo Non riusciva a stare senza di lei così decide di andare in Germania, giunge lì in agosto, scrisse delle tragedie come Agide, Sofonisba e Mirra (ispirato dalle metamorfosi di Ovidio). Riaccesero il suo desiderio di gloria. Questo periodo felice per Alfieri si interruppe con la morte del fratello più piccolo del Gori e poi con la morte stessa dell’amico. Iniziò un periodo molto straziato per Alfieri ma per fortuna c’era Luisa che alleviava anche se in maniera piccola le sofferenze. Si dovettero separare dopo questi ultimi giorni di dolore. In viaggio verso Siena pianse, non ci poteva rimanere a Siena e si trasferì a Pisa. Capitolo quindicesimo Luisa passa a Bologna l’inverno mentre Alfieri è a Pisa. Legge Plinio il minore e il panegirico a Traiano e ispirato da questa lettura anche lui in maniera impetuosa scrisse il suo panegirico, aveva avuto un buon effetto: riacceso l’intelletto e attenuato i dolori. Pubblicò il suo terzo volume di tragedie e chiese l’opinione di Cesarotti che poi venne pubblicata in giornale con le postille dell’autore. Capitolo sedicesimo Si ritrovò con la Stolberg nel Tirolo, a Strasburgo si divisero: lui a Pisa lei a Parigi promettendosi di incontrarsi d’estate. Queste speranza avevano riacceso l’intelletto, infatti, concluse “del principe e delle lettere”, ideò la “virtù sconosciuta” in onore di Gori, verseggiò l’”Abele”. Problemi di gotta che lo costrinsero a fermarsi. Andando a Parigi continuò a completare delle tragedie e ideò delle satire. Abele trama All’agosto del 1784 risale l’idea dell’Agide stesso anno 84-85 e verseggiato nel 1786; il soggetto attinto dalle Vite parallele di Plutarco. Agide alfieriano è personaggio meno incerto e inesperto, magnanimo ma non ingenuamente illuso. Non è più catturato con l’inganno ma esce dal tempio e con Agesistrata non vengono uccisi, ma si uccidono; un’altra innovazione alfieriana è il legame di parentela che intercorre tra i due re rivali, uniti dalla figura di Agiziade, moglie di Agide e figlia di Leonida posizione intermedia fra il padre persecutore e lo sposo perseguitato, i rapporti di parentela tra i personaggi di una tragedia esaltano la forza e la terribilità dei contrasti. Agide aveva operato a vantaggio della patria, cui voleva rendere libertà e splendore originaria, non è solo innocente, si è valso del potere per imprendere a pareggiare i cittadini fra loro e l’autorità delle leggi del gran Licurgo, offre di rinunciare al trono a vantaggio di Leonida sperando che prosegua l’opera di governo. E accetta di morire per non ripudiare quanto intrapreso. Il suo suicidio si aggiunge quello non meno eroico la madre Agesistrata che sarà da esempio alla plebe spartana. Adige è ben più intento a difendere a oltranza i privilegi dei ricchi spartani contro la plebe e contro le leggi di Licurgo, egli mosso da profondo risentimento nei confronti dell’antagonista. Da un punto di vista ideologico è molto simile all’opera su Panegirico di Plinio a Trajano, i due testi poggino sulla comune utopia del sovrano che rinuncia al potere assoluto per restaurare la libertà. Ma il panegirico non si allontana dalla linea moderata propria di Alfieri durante gli anni della Rivoluzione francese, nell’Agide invece si propone l’uguaglianza dei cittadini non solo di fronte ai diritti civili ma anche sul piano economico in quanto il re sostiene la necessità della redistribuzione delle ricchezze. Nella tirannide afferma che è difficile far durare una politica di libertà se la disparità di ricchezze è grande. In tale prospettiva occorre interpretare la tragedia di Agide, non suggerire proposte operative, ma paradigma ideale. Sofonisba trama Da Tito Livio è tratta la favola della Sofonisba ideata nel settembre del 1784 stesa nel dicembre successivo e verseggiata nel 1787; il testo trissiniano del 1514 segna la rinascita della tragedia classicista e in volgare in Italia, motivo per cui viene riproposto nella raccolta teatrale allestita nel 1723 da Scipione Maffei e rifatta a sua volta da Alfieri che aveva come obbiettivo quello di rifondare il teatro tragico italiano. Tragedia ha quattro personaggi essa è veramente un’orgia di gesti sublimi di dialoghi virtuosi; Scipione, Siface Sofonisba e Massinissa gareggiano in suprema generosità e astrattezza, sublime! Eppure, la riduzione della dimensione affettiva consapevole da Alfieri è perseguita da Alfieri che fa della protagonista un’eroina connotata in senso politico, invasa dall’odio verso i romani, degna erede di Asdrubale; la vena sentimentale che scaturiva dall’amore per Massinissa Sofonisba la soffoca per amor di patria. Rispetto alla regina e al suo amante, il personaggio di Scipione manifesta maggiore freddezza, Alfieri tenta invano di rimediarvi infondendo una sincera amicizia nei confronti di Massinissa, condottiero romano impedisce di seguire Sofonisba nella morte. Solo personaggio dotato di fuggevoli sfumature che suggeriscono come Alfieri abbia intravisto la possibilità di una complessa poesia, Siface una sorta di Saul sopravvissuto a sé stesso, consacrazione. Mirra trama L’ultima tragedia alferiana può però esser considerata non quella sul secondo Bruto ma la tramelogedia Abele, il termine del nuovo genere teatrale era di conio del poeta, lo inventò per designare una forma mista di tragedia e melodramma, oculata mescolanza avrebbe dovuto assuefare per gradi il pubblico italiano alla tragedia. Nello specifico, senza della musica, irrazionale le porte all’argomento soprannaturale, ma non era destina a fondersi con le strutture tragiche, ne risultava una bipartizione netta fra i personaggi fantastici e allegorici, destinati a esprimersi col canto e i tragici riservato impiego dello sciolto. La separazione fra le due categorie di personaggi, sancita dall’occupazione di due diverse scene sul piano dell’intreccio, dava infatti luogo ad azioni parallele e concomitanti, svolte su due diversi livelli della vicenda: quello umano e quello divino, il poeta aspira ad un' infrangibile coesione testuale. Il modello indicato da Alfieri era l’epica, che costituiva anche il paradigma stilistico, teorizzato per il genere, in opposizione alla frivola vacuità del linguaggio melodrammatico, la musicalità tramelogedia consentiva l’endecasillabo sonoro dell’epica, su cui la tragedia poteva modularsi alla scansione ritmica marcata del verso. Il progetto di non subordinare l’azione umana all’intervento divino trova concreta attuazione nell’Abele in quanto invidia di Caino e nucleo più autentico nella dichiarata predilezione di Eva per il figlio minore e non nel inverso gradimento che Dio manifesta per offerte dei due fratelli, come si legge nella fonte biblica, un riferimento all’episodio obbligata citazione nel quarto atto dell’opera, sulle labbra di un Caino esitante fra odi o e pietà. Il dramma risulta spostato dal rapporto metafisico al rapporto familiare, di conseguenza la maledizione divina della Bibbia nella tramelogedia è preceduta in parte sostituita di Adamo che chiede a Dio la sua attuazione. Il quinto atto dell’opera contempla una catastrofe tragica in accordo con le intenzioni dichiarate dell’autore, quasi a operare la transizione al genere nobile interno della stessa tramelogedia in cui la melodia ad agire come il puntello di un edificio; rispetto alla tragedia alla tipologia essenziale praticata da Alfieri. Il genere si distingueva anche per il ricorso a una spettacolarità che richiedeva la sontuosità di mezzi del melodramma, Alfieri suggeriva l’opera fosse messa in scena durante una festa di corte con il sostegno di principe e dei potenti per le tragedie di contenuto libertario. Il percorso dall’opera alla tragedia con la mediazione della tramelogedia, inoltro favorito negli auspici del poeta, anche il passaggio dalla nullità politica degli stati italiani della dignità di vera Nazione, ne veniva confermato l’indissolubile intreccio che univa la scrittura tragica all’impegno politico, a parte la discutibile motivazione pedagogica l’escogitazione rientra in sperimentalismo teatrale di fine secolo. L’argomento della morte d’Abele grande fortuna nel XVIII secolo, inizio di quello successivo, edificanti consolatorie a rovesciare su un Dio ingiusto l’accusa per il male diffuso nel mondo. Alceste seconda Non più che un geniale svago considerata l’Alceste seconda (ideata nel 1796, 1797-98, 1798) frutto studi di greco e nata dal proposito di correggere allo scrittore stonato dell’Alcesti d’Euripide da lui in versi italiani tra il 1796 e 1797, la migliore della sue traduzioni di tragedie greche, autore ultima scintilla di un Volcano che è presto a spegnersi, modificare le scene dell'originale greco e ridusse i personaggi risibile presente nel testo origliane, accento di quanto non facesse l’antico tragediogrado, sull’eroico sacrificio della moglie di Amdmeto, e carattere Fereo; pronto a sacrificarsi in cambio della vita del figlio. La determinazione di Fereo suscitava un certamen virtutis con la nuora, disposta a sua volta a morire per Admeto la tragedia a una situazione rappresentata da Alfieri. Contrasta invece con la produzione precedente la presenza del coro di matrone tessale, che conclude con un intervento lirico ogni atto dell’opera tranne il V; la traduzione e il rifacimento furono dedicate come la Mirra alla Albany con un sonetto che esplicitava il rispecchiamento fra la donna e la protagonista della tragedia simbolo di dedizione coniugale e fra lo stesso peota e Admeto, il tema della mote dell’amata doveva toccare le corde maggiori di Alfieri che nelle epistole agli amici aveva manifestazioni occasioni augurio di premorirle, per non affrontare il dolore di perdere la compagna di una vita. Si accorda col carattere di svago geniale il proposito dell’autore di presentare l’opera come una traduzione di un’altra Alcesti euripidea, da lui ritrovato come Panegirico di Plinio a Trajano pubblicato come traduzione del latino. Capitolo diciassettesimo e diciottesimo [1787] Verseggia bruto primo e brucia Sofonisba. Con Didot ci accorda per stampare tutte le tragedie esclusa la Cleopatra. La coppia fa ritorno a Martinsbourg dove li raggiunge l’amico Caluso, fa un incidente a cavallo e pochi giorni dopo Alfieri si ammala in maniera molto grave. A Kehl dà in stampa l’America libera, la virtù sconosciuta, l’Etruria vendicata, le rime, de principe e delle lettere e della tirannide. Verseggia bruto secondo e torna a Parigi. [1788] recupera dei libri lasciati a Roma, muore il marito di Luisa, nel salotto delle fidanzata conosce Andre Chenier a cui legge del principe e delle lettere. A Genova viene pubblicata una parodia dello stile alfieriano Capitolo diciannovesimo Indirizza a Luigi XVI una lettera in cui lo invita a cedere alle richieste dei popolari. Scrive una storia chiamata “le mosche e le api” in cui esprime il suo scetticismo verso la capacità delle classi popolari di ottenere la libertà. Scrive “Chenier diletto”. Assiste due volte all’Assemblea popolare e visita la Bastiglia distrutta, esalta l’atto rivoluzionario nell’de “Parigi sbastigliato”. La Londra pubblica altri scritti: la poesia appena citata, la favola, sto cazzo di principe e le lettere che si porta dietro da 85 anni, parte della tirannide. Parte Seconda Capitolo ventesimo [1790] inizia a tradurre l’Eneide, continua a rimanere allenato con il verso, inizia a tradurre Terenzio per cercare di avvicinarsi al modello comico (ricominciare il lavoro della tragedia). Si fecero un viaggio i Normandia Capitolo ventunesimo [1791] partirono ad aprile per l’Inghilterra che la considera sempre deludente ma questa volta un po’ di meno. Ricevono notizie sulla Rivoluzione francese riguardo questioni economiche che li costrinse a tornare in Francia. Sul traghetto per tornare a casa dopo il giro incontra Penelope Pitt. Già che c’erano fecero pure un giro in Olanda Capitolo ventiduesimo Il 20 giugno era fallita una congiura contro il re e le cose per gli aristocratici si fecero veramente pericolose: ad agosto decisero di scappare più precisamente il 20 agosto, ma siccome scappare non era così facile perché Alfieri aveva un libreria da 1600 volumi, poi c’erano i mobili e i vestiti da preparare si portarono avanti; riuscirono ad ottenere i passaporti e il 18 partirono. A confine si trovarono dei plebei che non volevano farli andare via perché non li riconosceva dai passaporti, Alfieri si spazientì e dopo un po’ di tempo che litigarono alla fine riuscì a passare. Andarono a Bruxelles dalla sorella di lei e ricevettero delle lettere di altri aristocratici che scapparono il 20 agosto che non li fecero passare la frontiera e furono arrestati. Linguaggio tragico di Alfieri Pagine di rilievo sono dedicate nella Vita ai propositi di ricerca di un ostile consono al proprio ideale di poesia tragica in quanto la nostra tradizione teatrale mancasse di modelli esemplari (fallimentare come Re Torrismondo di Tasso, non altre tragedie 1500-1700 attenzione Maffei e Riccoboni, tentativi compiuti nel XVIII secolo di dare infine all’Italia un degno teatro tragico che colmasse una mancanza allora avvertita. Troppo insoddisfacente gli appariva nella Merope del Maffei, condivide la scelta dell’endecasillabo sciolto.) Non costituivano un modello efficace le numerose traduzioni 1700 del teatro francese, a volte da letterati illustri come Cesarotti e Frugoni che Alfieri giudicava fiacche. Una parziale eccezione era costituita dalle opere di Voltaire e Corneille tradotte da Paradisi. Il linguaggio tragico1700 rapporti con il melodramma e successo di Metastasio con il modello, poeta cesareo Alfieri concezione eroica della tragedia come Corneille, in discussione il paradigma aristotelico dell’eroe mediocre per forma di catarsi e ammirazione, sulla pietà e sul terrore. Ne derivava una maggiore approssimazione della tragedia al genere epico, se poi Metastasio aveva declinato il principio teorico essenzialmente in funzione della vena patetico sentimentale del melodramma, Alfieri approssimazione della tragedia all’epica comportava il comune ricorso alla solenne maestosità del linguaggio. Modelli testi epici Ossian di Cesarotti, Tevide da Cornelio Bnetivoglio. In questi casi Aldieri al poema eroico per impadronisti della tecnica dell’endecasillabo sciolto, come modello metrico il poema in qualità di paradigma lessicale e stilistico, non sfuggì al lettore d’eccezione come Verri il quale menzione delle tragedie linguaggio epico. Se l’endecasillabo tragico rifiutava la levigatezza edulcorata del verso metastasiano e la musicalità interna, intendeva sonorità caratterizzante l’Ottava di Tasso, come esametro virgiliano. Se il tragediografo deve conferire allo stile tragico, nobiltà e grandi eloquenza dell’epica, Calzabigi deve evitarne il canto continuato per volgersi a una dizione scolpita. Iniziato nel 1778, quindi dopo la prima stesura della tirannide e importante politico alfieriano, la sua elaborazione discontinua e nel 1786 compiuto e riveduto della stampa nel 1789. Alfieri concepisce le lettere come un’azione, il poeta rappresenta l’espressione più alta di umanità la più bassa invece dal tiranno la cui libertà virtuale nell’abiezione non amando egli la verità. Il poeta è il contrario del tiranno e ha l’animo di un eroe dell’azione, mosso impulso identico a quello degli eroi e martiri. Il mondo eroico da lui rappresentato egli lo trova in sé: una concezione a suo modo in linea con la negazione del carattere mimetico della poesia, dottrina nel trattato. Nella sua valutazione del poeta, egli tende conservarsi e accentuarsi nel tempo. Alfieri, inoltre, si muove nella direzione del romanticismo perché mosso sforzato al canto del “furor natio”. Le altre arti e le scienze non condividono la condizione d’eccezione propria della poesia e se a quelle la protezione dei principi addirittura giova solo la poesia ne è danneggiata, i principi che non proteggono le lettere è dedicato il trattato. Anche le altre arti vengono corrotte della protezione. Sulla base di suggestioni elaborate dell’antico trattato del sublime Alfieri si distingue una poesia elevata e sublime, un’altra tutt’al più capace di raggiungere l’eleganza; la prima si muove da un impulso naturale la seconda da un impulso artificiale e prospera grazie alla protezione dei principi ma in definitiva non è vera poesia, l’impulso naturale è un bollore di cuore e di mente. Tale impulso cresce nella libertà. La vita solenne poeta non deve contraddire l’opera, il libro e l’uomo tutt’uno, un principio fragilissimo nei termini in cui lo poneva lo scrittore ma che almeno intendeva proporre un’immagine di poeta che non fosse quella arcadica, dell’abile e disimpegnato solennità. L’accademia dell’arcadia giocò un ruolo decisivo nella cultura italiana del primo 1700 in quanto ha rivalutato un modello stilistico sull’eleganza e sulla semplicità raggiungendo il massimo splendore nella fusione tra la lingua volgare e il latino. Nel suo trattato, Alfieri contestò questo canone condiviso all’epoca, a revisione le categorie estetiche, vengono impiegati i nuovi parametri attinti alla poetica pseudolonginiana in connessione stile sublime e magnanimità, autorizzata la priorità attribuita da Alfieri dimensione etico civile e qualità formali. La Commedia per quanto non esente da mende stilistiche rappresenta un modello insuperabile per i suoi alti contenuti ideologici ed energia robusta dizione e forte sentire, la propensione per lo stile sublime non comportava il rifiuto delle categorie classiche e la rinuncia all’eleganza espressiva. Nel del principe e delle lettere è delineata l’ipotesi di una futura ed elitaria società di liberi e nobili condizione sociale gode indipendenza economica e intellettuale, tali nobili letterari a differenza di altri aristocratici, lontani dalla corte, e operare senza controlli. Il penultimo capitolo trattato intitolato “divino machiavelli” è un’esortazione alla difesa del carattere e civiltà degli italiani, Italia più che di ogni altra contrada di Europa abbonda di spiriti a cui nulla manca per fare altre cose, nell’ultimo capitolo del Principe letto da Alfieri e cultura risorgimentale. Nell’ultimo capitolo fa una profezia dell’unificazione dell’Italia. IL PANEGIRICO DI PLINIO A TRAJANO Fu steso nel 1785, poi riveduto e stampato a Parigi nel 1787 e in seconda edizione nel 1789. Traiano non è più lodato solo per le sue buone qualità di sovrano, a un uomo intero stato e ha rivelato non volgari sollecito del bene pubblico è lecito chiedere un grande gesto per l’ordinamento repubblicano per gloria di cittadino di Roma, L’interesse di Alfieri per il discorso oratorio è evidente in molte sue tragedie in cui i personaggi prendono la parola in un consesso pubblico, tribunale o consiglio, la propria causa autore padroneggiare gli strumenti di retorica. Il panegirico dispiega al massimo l’abilità dell’autore offre un modello di scrittura esemplata maestosa architettura del periodare latino, distante da altre prose e in prevalenza paratattico. Quanto ai contenuti osservare riscrittura alfieriana non resta molto della forma originaria dal momento le lodi di Traiano sono ridotte a un ruolo marginale mentre il discorso di Plinio funzione parenetica. Il Panegirico lungi dal rappresentare uno sterile esercizio letterario posizione sul dibattito relativo al dispositivo illuminato. Nel testo latino Plinio esperienza repubblicana impero Traiano optimus princeps, riconosceva il potere assoluto dell’imperatore vincolato dalle leggi (legibus solutus) al letterato il compito di elaborare un modello ideale della regalità allo scopo di ispirare e orientare le decisioni del principe. L’impianto ideologico del panegirico pliniano poteva corrispondere nelle sue linee principali a quello che Alfieri rifiutava opponendosi all’idea che un monarca non sottoposto a leggi potesse essere optimus. Del resto, l’attualità dell’opera al dibattito politico del tempo sono testimoniate dal suo interesse suscitato dalle polemiche che ne seguirono. Il panegirico, partecipazione al dibattito politico del tempo testimoniate polemiche, reazione di alcuni contemporanei: Bossi compose un epigramma in difesa dell’assolutismo e Giovan Battista Vasco immaginò di aver trovato la risposta di Traiano a Plinio, invece ci fu stata un’iniziativa affine aveva spinto Diderot a chiedere non per un’ironica e incredule, finzione ma alla zarina Caterina II non semplice cittadina ma di rinunciare al potere assoluto per la monarchia moderata con le leggi al riparo dai possibili attacco al parlamento inglese. La virtù sconosciuta Il bellissimo dialogo, fu composto in Alsazia nel 1786 riveduto e stampato nel 1788 a Kehl, il dialogo con il suo amico Gori, appena deceduto, ha inizio nel pieno della notte, in un’atmosfera shakesperiana, colloquio in cui temi del pensiero alfieriano, quella della libertà dell’individuo e della sua indipendenza di giudizio in tempi di tiranni, quei tempi nel dialogo nella forma teorica degli altri trattati, rientrano nell'esame di coscienza e confronto delle due scelte di vita. I toni asserviti e oltranzistici dei trattati politici intimità del discorso dimensione umana, affiora nella virtù sconosciuta un pessimo ontologico mai enunciato, umanità composta di nati morti, le future generazioni non saranno migliori delle presenti, l’amor di fama non è che umano delirio. Disinganno di gloria Alfieri assegna nel 1789-90 in via di maturazione e trattenere lo scrittore superstite benefica illusione, ancora nell’operetta la vera fonte delle virtù il tema in sé illuminista nella commedia la finestrina. GLI SCRITTI CRITICI Tendenza tipica a valutare le proprie opere includendo dei documenti che chiarissero la loro poetica perché il poeta è il miglior critico di sé stesso. Ne approfitta per rispondere a delle accuse, per contestualizzare le sue opere, ribadire l’originalità confrontandole anche con il panorama europeo come, per esempio, quello con Calzabigi in “Calsabigi, Alfieri e Pepoli. Bel Guazzabuglio. 1783”. Il poeta difende con dei buoni argomenti il carattere dei personaggi, le peculiarità dello stile…. Critica anche il teatro contemporaneo giudicando gli interpreti incolti e mal pagati che contribuiscono a non far riscattare il teatro italiano, per Alfieri anche gli interpreti sono delle persone fondamentali per la buona riuscita dello spettacolo perché riescono a suggerire dei miglioramenti al testo. Inoltre il pubblico italiano doveva essere abituato alla nuova tragedia così da riconoscere la qualità di una buona tragedia da quelle scerse. Nel del principe e delle lettere Alfieri giunge a sostenere che il poeta miglior critico di sé stesso, una volta in lui si è freddato l’impeto dello scrittore necessario a creare. Il parere sulle tragedie elaborato a partire dal 1788, interessante obiettiva analisi dell’intera sua produzione tragica, e negli ultimi capitoli (invenzione, sceneggiatura e stile), una nuova difesa della sua poetica, la riduzione dei personaggi eliminazione del ruolo del confidente, inevitabile nel teatro francese e francesizzazione del tempo, la frequenza e brevità degli appassionati soliloqui e anche delle intenzionali scelte stilistiche. Circa la riduzione dei personaggi in particolare l’eliminazione del ruolo del confidente, si potrebbe adattare un’espressione il quale sosteneva di attenersi al principio dell’iceberg, e così un ideale dell’arte che rifugia dai discorsi analitici e dell’illustrazione troppo esplicita delle motivazioni del comportamento dei personaggi. TRA SFOGO AUTOBIOGRAFICO E SUBLIMAZIONE LIRICA: LE RIME Nel 1789 si concluse a Kehl la stampa della prima parte delle Rime che segnano l’inizio delle carriera poetica. Comprendono 188 sonetti e 1 canzone, 1 anacreontica, un capitolo in terza rima, due serie di Stanze e 45 epigrammi di vario metro; la raccolta è ripartita per generi metrici, ma non solo ai sonetti seguono gli scarsi versi d’altro metro e i polimorfi pungenti e bizzarri Epigrammi tale distribuzione per il criterio formale rispetto a quello cronologico, edizioni del canzoniere alternanze di sonetti e di canzoni, la numerazione al metro, discontinuità metrica. La prima parte include componimenti stesi tra il 1776 e il 1788, esercizi si accompagnano quelli che possono essere considerati i figli di un diario ricco e discontinuo ma mai abbandonato e visto come uno sfogo malinconico. Prove d’arte sonetti d’apertura del 1776 sono di gara coi sonetti pittorici, sono un soggetto mitologico e con abilità descrittiva; la seconda parte delle rime include un componimento sul ratto d’Europa del 1794, ben 9 sonetti e parte le bellezze palesi, legge nella Vita una ammirata nobildonna torinese, Carlotta Asinari di San Marzano. Si può ripetere per un sonetto dov’è dov’è del 1777 e rifatto nel 1781 esercizio di stile comico sui mariti traditi e sulla loro smania di conoscere le prove dell’infedeltà delle mogli, puri esercizi metrici. L’aspetto diaristico è evidente, le componenti spesso come reazione immediata agli eventi del vissuto e il poeta non manca di segnalare le date e le modalità della loro genesi, il modello supremo dell’Alfieri lirico diventa con scelta personale e lontana dalle motivazioni del petrarchismo arcadico. Oltre alla categoria dei pedanti, la satira polemizza anche con i modelli teatrali antagonisti della tragedia alfieriana ovvero Metastasio e Maffei limitando il carattere dei suoi personaggi in modo che appaiono sempliciotti e chiaretti. Nuovi bersagli sociali sono ora la plebe ovvero il ceto medio ovvero il ceto de più brutti, destinato a radunare de ceti tutti, i vizi tutti. Nella prima Alfieri descrive ascesa sociale di un volgare parvenu, esponente del proletariato cittadino condannato nei trattati politici che il poeta distingue dal ceto virtuoso dei piccoli proprietari terrieri. I contadini sono infatti celebrati anche nella satira successiva laboriosa e produttiva. Al contrario il protagonista della plebe, Giovanni deve il suo successo al denaro guadagnato illecitamente, la ricchezza gli consente di essere ammesso alla corte dei grandi, blasone posticcio che i nobili fingono di riconoscere. LA PRODUZIONE SATIRICA DEGLI ULTIMI ANNI: IL MISOGALLO E LE COMMEDIE IL MISOGALLO Il Misogallo (6 commedie) non nacque da un disegno schematico iniziale, solo tra il 1793 e il 1795 lo scrittore pensò a un’opera che raccogliesse i sonetti e gli epigrammi, le prose antifrancesi. L’elaborazione aggiunta di nuovi testi, si protrasse fino agli ultimi mesi del 1798, ultimo sonetto prima della conclusione e anche ultimo in ordine cronologico di composizione, datato 2 marzo 1798 occupazione di Roma da parte oltralpe e proclamazione della Repubblica romana. La distribuzione dei componimenti rispecchia un ordine in parte cronologico e in parte attento all’alternanza dei generi, che fa il Misogallo un prosimetro in cui confluiscono differenti registri espressivi, secondo un poeta ammonisca gravemente i suoi avversari ricorrendo all’aggressività dell’invettiva. Vi si avverte il predominio del grottesco; Non ha esaurito la vena polemica del poeta nonostante fosse stanco e privo di spunti, le illimitate potenzialità del soggetto, fonte di sdegno perenne e suscettibile di nuovi arricchimenti. Il misogallo è l’opera meno letta di Alfieri, dopo la pubblicazione fu accolto con un prevalente delusione dei contemporanei tanto che anche Foscolo lo definì canzoniere rabbioso suscettibile di nuocere alla reputazione dell’autore, complica la interpretazione della sua composizione come scrive Alfieri nella prosa prima a pezzi ed a caso, aggiunta la farraginosità delle invenzioni lessicali e il mordace risentimento che ne affaticano la lettura, come dei simboli utilizzati, menzionato la loro frequenza quelli estratti dal mondo animale e i referenti umani degradandoli in senso bestiale, ne è un esempio il termine gallo, i francesi con riferimento alla popolazione e all’animale omonimo. Il misogallo pur nei toni acrimoniosi e distruttivi, Alfieri a recuperare e difendere il sogno libertario coltivato negli anni e produzione letteraria dimostrando il fallimento della sua realizzazione in Francia al genio corrotto della nazione e non intacca la validità dei suoi principi. Facendo riferimento alla donazione dei beni alla sorella, Alfieri insiste sul carattere rapace dei rivoluzionari, in più occasioni volgari predoni intenti a sovvertire gli ordini sociali per imporre il più obbrobrioso servaggio, la dipendenza cioè dei possidenti e dei buoni, dai nullatenenti e dai rei. Al rovesciamento del sistema assiologico provocato dai francesi, corrisponde quello semantico, dal momento che la rivoluzione si appropria di simboli e del linguaggio libertario che erano appartenuti allo stesso Alfieri, costringendolo a un indefesso lavoro di rettifica e di distinzione rispetto alla pubblicistica giacobina, al mito della libertà venerata dal poeta. I partigiani della rivoluzione non vanno agli eroi romani che il rivestimento classico del presente introdotto nelle celebrazioni francesi. La visione di un Italia unita e vittoriosa, imprecisato conclude con una nota il Misogallo e intende innalzare la persona del poeta e in conflitto con il suo tempo. Fu questa conclusione, il sonetto alfieriano più celebre in Italia negli anni del risorgimento, il passato glorioso dell’Italia destinato a riprodursi nel futuro, collega le due epoche attraverso la negazione del presente avvilito, in cui il poeta figura isolata e statuaria. Il ruolo di vate contrappone ai cantori della rivoluzione, componenti del Misogallo parodiano gli inni celebrativi francesi e imperizia artistica. LE COMMEDIE l’uno: ripropone il dibattito sulla migliore forma di governo e promuovere la monarchia in quanto aspirazione dei tre contendenti al trono mascherati da Gobria; la trivialità dell’artificio impiegato per assicurare la vittoria di Dario sugli avversari conferma il discredito del personaggio, mentre la ricompensa che egli riserva al cavallo cui deve il regno stravolge grottescamente il principio esposto nei trattati e nelle tragedie secondo cui il tiranno odia e perseguita chi lo ha beneficiato. Fin dalla sua prima azione da sovrano, Dario lascia presagire gli sviluppi dispositivi del suo governo. I pochi mette in scena l’alleanza fra i Gracchi e il plebeo Gloriaccino, per contrastare l’ascesa al consolato del patrizio Fabio. L’attacco è quindi rivolto ai demagoghi mentre propugnato il rispetto delle classi sociali, ai Gracchi e a Gloriacchino si contrappongono i personaggi positivi del patrizio Fabio e del plebeo Lentulio fratello di Gloriaccino ma a differenza di lui conscio di quanta è distanza infra Patrizi e Plebe. i pochi i troppi verte sull’ambasciata ateniese ad Alessandro Magno guidata da Demostene ed Eschine, qui Alfieri raggiunge il grado più alto di aggressività espressionista poiché gli oratori greci ritraggono i giacobini francesi, sordidi e meschini inclini alle ruberie, essi sono i rappresentanti di un sistema democratico degradato in cui il dibattito fra le due parti si riduce a un disordinato schiamazzo le acquisizioni culturali di Atene coincidono con una forma abietta di sofismo e i proclami di indipendenza stridono con la pavidità e il servilismo di cui gli oratori danno prova di fronte ad Alessandro. l’antidoto: antidoto ai diversi veleni delle altre tre forme di assetto politico è il governo misto ovvero il costituzionalismo, esattamente la monarchia costituzionale. La soluzione della commedia lasciava sussistere una specie di camera dei Lord e sopprimeva quella dei comuni, non godeva allora di una buona fama ritenuta corruttibile e corrotta. I personaggi delle prime tre commedie, Dario, Caio Gracco e Demostene, appaiono come ombre nella commedia conclusiva, l’antidoto dove sono evocati per consigliare Pigliatutto su quale mostro partorire alla moglie, il Senzagambe, il Treteste, il Senzatesta, allegorie delle tre forme di governo oggetto delle precedenti opere. Dalla mescolanza dei tre mali nasce però la libertà che presto diventa adulta. Le 4 commedie hanno dunque momenti di comicità farsesca e nella tesi politica trovano un più profondo movente, le commedie se per un verso si collegano al gusto per lo smascheramento proprio dell’illuminismo, per cui secondo un detto famoso coniato allora non ci sarebbe eroe per il suo cameriere dall’altro costituiscono il rovescio dell’umanità d’eccezione delle tragedie. Si potrebbe indicare una componente simbolica nella circostanza che alla prima tragedia composta da Alfieri si affiancasse la farsa i poeti. L’ideazione delle 6 commedie che eseguite risale al 1800. Alfieri lascia riposare le sue carte fino all’anno successivo, al metodo adottato anche per tragedie dato da verificarne l’interesse a distanza di tempo e a freddo per placare l’entusiasmo iniziale, poi stenderle in prosa e il progetto. Il suo lavoro diventa frenetico in quanto Alfieri procede sentendo vicina la morte. Le postille inserite nelle commedie testimoniano la stanchezza e la fretta dell’autore, diversi invece erano i piani originali per una gestazioni più distesa e destinata all’attività letteraria. È significativo che quella attitudine balzare in primo piano e in una forma esclusiva dopo la conclusione della sua carriera di autore tragico. Le particolari condizioni di spirito in cui versava Alfieri in quell’epoca, la delusione delle speranze della rivoluzione, i timori e l’irritazione per l’occupazione francese in Italia e in Europa, atmosfera livida delle commedie un modo degradato che reca traccia degli sconvolgimenti del presente. La riflessione sull’attualità politica attraversa in controluce soprattutto le prime cinque commedie e confligge con il progetto di realizzare un teatro con contenuti metastorici. In conclusione, la stesura dell’uno si legge una critica della Francia contemporanea. Al sublime plutarchiano succede un amaro disincanto, i Gracchi, Demostene e non sono in queste commedie, ometti ed esponenti, i Gracchi erano diventati un mito rivoluzionario e tema delle discussioni storico ideologiche del XVIII secolo, la svalutazione alfieriana della non certo virtuosa democrazia ateniese era invece in una linea un’opinione presente, pur se non universalmente condivisa, nell’ultimo Settecento, la quale contrapponeva piuttosto come società ideale oligarchia militare. Significava la già citata annotazione d’Alfieri nel manoscritto e i primi appunto relativi ai Troppi, e la stesura in prosa. Si veda anche in tarda epigrafia sa lui ideata per Solone. Nel personaggio del filosofo indicano sembra giungere a compimento un processo evidente nella prima commedia della tetralogia e proseguito nei Pochi. Il tema della svalutazione della parola che percorre la fase del pensiero di Alfieri, in cui la disillusione è amara trova un riscontro biografico nelle testimonianze dei contemporanei, e rinchiuso. Alfieri sembra infatti avvertire l’impotenza della parola e la sua incapacità di modificare la realtà e approda alla negazione nelle commedie. Il pessimismo latente nel pensiero alfieriano aveva avuto modo di manifestarsi. L’impegno professato sembra vanificarsi nelle commedie, lasciando spazio ad una muta protesta consapevolmente sterile e con un rifiuto della realtà e della storia, l’Antidoto chiude su una nota ottimistica la tetralogia è la commedia più debole pur indicativo positivo esito non fosse previsto dal progetto del 1788. Lo sconfinamento nella tragedia viene annunciato diametralmente nella sua stessa opera, vibrante denuncia di Clito. Criteri delle traduzioni aderenza al testo e sforza anche nei valori formali, viene indicato come rappresentativo dello stile sonante dell’epoca, in forza della protratta onomatopea. L’endecasillabo che riproduce in maniera approssimativa l’allitterazione e lo schema ritmico dell’originale che viene scartato a vantaggio di un più esangue, frequentativo non attestato nella tradizione rischiava di stridere nel contesto arcaizzante e solenne della traduzione latina, la cui sorveglianza stilistica non permetteva innovazioni. Il tentativo di trasferire nella traduzione italiana le figure foniche e ritmiche del testo di partenza segue principi di compensazione, per cui una soluzione stilistica può trasferirsi da una parte del discorso a un’altra. La gara con il modello si risolve in un’accentuazione fino all’eccesso degli effetti retorici ne consegue una perdita delle sfumature dei toni intermedi a favore di una tensione stilistica costante, per un’uniforme monotonia. Nel complesso, Alfieri aspira a realizzare una bella fedele all’originale per caratteristiche attenzione stilistica della resa italiana. Come emerge nella prefazione dei volgarizzamenti in cui l’autore si mostra consapevole della perdita intrinseca in ogni traduzione copia imperfetta all’originale la fedeltà al testo non viene intesa nel senso di una riproduzione aderente alla lettera e capace di cogliere l’indole dell’autore, processo creativo il sentire viene valorizzato rispetto alla componente logico razionale per le carenze conoscitive del poeta. Date le premesse teoriche che presiedono all’attività di traduttore Alfieri, si comprendono le critiche rivolte alle prolisse traduzioni italiane del teatro francese sia alla versione dell’Iliade di Cesarotti in una lettera a Caluso. L’EPISTOLARIO Il Settecento è un secolo che si caratterizza per produzione epistolare, socievolezza della cultura illuministica e alla circolazione delle idee promossa nell’ambiente cosmopolita dell’Europa del tempo, anche Alfieri non si sottrae alla pratica comune nonostante la ritrosia del suo carattere che si accentua negli ultimi anni della sua vita. Nel suo epistolare sono testimoniati i contatti instaurati con gli intellettuali dell’epoca come gli esponenti del mondo accademico toscano, quali Fabroni o Lampredi, o alcuni collaboratori del caffè; tra i suoi corrispondenti spiccano Capacelli, Pindemonete, Tiraboschi, Cesarotti. Rispetto alle lettere di tenore ufficiale, scambiate con gli eruditi e intellettuali interpellati nell’attività di tragediografo sono numerose e rapporti privati del poeta. Queste sono indirizzate ad amici senesi e all’abate Caluso, destinatari privilegiati all’epistolario. Mancano invece le lettere dell’Albany distrutte dall’esecutore testamentario; la perdita di parte dell’epistolario che si suppone cospicua, limita la testimonianza della corrispondenza poeta. Le lettere indirizzate a Penelope, trovano un epilogo 20 anni dopo quando il poeta la rivede a Dover e le scrive un’epistola piena di affetti, sull’incontro Alfieri compose un altro sonetto. Le epistole superstiti relative agli anni dei viaggi giovanili sono esigue ma costituiscono testimonianze importanti e tendenze dell’autore. La valutazione positiva dell’Inghilterra non si estende ad altri paesi, descritti queste lettere giovanili in un’ottica affina a quella assunta nelle opere mature; in particolar l’Universal caserma prussiana della via corrisponde all’immagine che viene proposta nelle epistolario e paese. La formazione illuministica del giovane Alfieri si manifesta nei richiami costanti alla dottrina dei philosophes, un segno di apertura al progresso scientifico l’insistenza con cui egli consiglia l’innesto dei vaiolo per le nipoti e discussa epoca come testimonia Parini. Dopo il 1771 l’epistolario riparte dal 1775, sono trascorsi pochi anni e decisivi la prima lettera che incontra, presenta la cleopatra a Paolo Maria Paciaudi, l’autore si rivolge al suo interlocutore e maestro pregandolo di voler leggere l’opera prima a titolo di tragedia, indi a titolo di poema con parole che pongono la consapevolezza teatrale di Alfieri fin dagli esordi della sua carriera. La volontà di consacrarsi alle Muse è ribadita nella lettera del 1777 alla Nina, Zondadari con cui intrattiene una relazione amorosa. In conformità con i propositi espressi nel giornale decide di interrompere il rapporto alla carriera letteraria, fatta pervenire con il canonico Ansano Luti e partenza dichiara con accenti in parte simili, in calce alla lettera anche la firma Alfieri il tragico annuncia il suo ingresso, testimoniato lettera del 1780 all’amico Arduino Tana. Le ultime affermazioni ricordano le impressioni, le recensioni negative delle tragedie e il loro esito, seguono le scelte poetiche, e la revisione delle tragedie finalizzata alla prestigiosa edizione parigina. Le lettere recano anche la testimonianza delle recite delle tragedie eseguite nel tempo, fornendo dati utili alla corretta contestualizzazione, non mancano dichiarazioni di poetica non mancano interessanti dichiarazioni di poetica giudizi sulle letture, questioni specifiche. Inoltrandosi nelle pagine dell’epistolario emergono gli interessi eruditi dell’ultima fase della vita di Alfieri specialmente per qual che riguarda lo studio appassionato del greco e si intensificano le ricerche dei libri per la costituzione della seconda biblioteca. La condanna della rivoluzione è un Leitmotiv della seconda metà dell’epistolario intrisa dell’odio misogallico, tanto che le lettere di ricostruire l’itinerario dell’Alfieri del bollore e dal fuoco naturale al disinganno e alla bile autodistruttiva. I destinatari ricorrenti della scrittura epistolare sono gli amici, abate Caluso Mario Bianchi e Mocenni questi ultimi due esponenti del circolo senese in cui Alfieri aveva riportato affetti, con il poeta amico scomparso ma sempre presente alla sua memoria, Gandellini cui sono dedicate pagine effusive dell’epistolario e da una pudica riservatezza sui sentimenti, si vedevano per le parole affrante rivolte a Mario Bianchi, nella lettera e menzionata. Se Alfieri aveva scelto amatissimo Checco cui contava di premorire quale esecutore di alcune sue segrete, Caluso curerà insieme all’Albany e le opere postume, in lettera nel 1786 spedita da Colmar, il poeta gli raccomanda la propria fama sia nello stampare che nell’ardere. A differenza di Gori che si era occupato della priam edizione delle tragedie, libera Siena, Caluso risiedeva in Piemonte paese soggetto a una censura severa di quella vigente in Toscana, impresa editoriale avrebbe incontrato a causa dei contenuti politici, il rispetto integrale dell’ideologia, non intende sottomettere ai criteri di un tribunale diverso da quello estetico, la raccomandazione si imponeva anche la produzione istituzione dell’abate, le cui idee politiche non coincidevano con Alfieri. Le lettere agli amici consentono di comporre un ritratto del poeta in parte differente da quello ufficiale, accanto alla serietà degli studi e furono libertari che ne promuovono un’immagine inflessibile si fa spazio, infatti, anche alla dimensione affettiva e agli aspetti più quotidiani, dell’esistenza e della passione per la cioccolata e gestione del patrimonio. IL MITO DI ALFIERI Se i contemporanei sia pure con eccezioni furono sconcertati in Italia dalla novità della poesia alfieriana una diversa accoglienza le fu riservata durante il triennio giacobino, Alfieri di rappresentato nei teatri delle repubbliche napoleoniche divenendo il drammaturgo ufficiale della rivoluzione italiana. I contenuti libertari delle sue tragedie si prestavano all’interpretazione degli avvenimenti del presente, non senza il ricorso a modifiche e manipolazione. Si confermò che l’uomo d’azione che era in lui ripiegato della letteratura dei tempi, opinione tardi Carducci e nel Novecento persino da Umberto Saba. Le pieces alfieriane entrarono nei repertori dei teatri giacobini e ambientazione romana, come la Virginia e i Bruti constante la prima traduzione o imitazione francese tragedia, funzionale alla propaganda rivoluzionaria argomento si tratta della Conjuration di Villetard apparsa a Milano nel 1798, Villetard impegnato nel movimento patriottico italiano e a sua volta autore di tragedie politiche esemplare anche a Alfieri accompagnatolo con una lettera dedicatoria che non valse ad attirargli la benevolenza dell’autore La traduzione di Petitot (nel 1802 la traduzione interno del corpus tragico realizzata da Petitot in una diversa prospettiva politica ammiratore, da letterato conservatore) segnò la prima vera diffusione europea dell’opera tragica alfieriana. La fama d’Alfieri diventò fama europea, pur se non incontrastata e solo quando il risorgimento italiano volle annetterlo, fra i suoi precorritori la sua immagine con l’assumere la dimensione ingannevole del poeta nazionale vanificata solo dalla critica novecentesca. Nel 1802 la città di Asti dedicò Alfieri onoranze, e in Piemonte il suo nome reverenza complesso dell’aristocrazia torinese non gli risparmiò odio e rancore, per Ludovico Breme nel 1816 dissuase la contesa d’Albany; la torinese Accademia dei Concordi, fondata nel 1804 in casa di Balbo, Cesare e Balbo… gli dedicò un vero culto praticato anche con cerimonie e ricorrenze e ad Alfieri si ispirarono gli artefici del fallito e maldestro moto piemontese del 1821, il nome del poeta ricorre nelle pagine del conciliatore, la rivista dei romantici milanesi nel quale la devozione per la sua figura contrasta con l’esigenza di un sistema drammaturgico in grado di rispondere alle nuove esigenze artistiche, perplessità manifestate dal periodo non è estraneo il giudizio critico su Alfieri espresso da Schlegel nelle sue lezioni sull’arte e letteratura drammatica pubblicate nel 1809-1811 un diverso apprezzamento del teatro manifestato da Goethe. Alferiani in gioventù furono Massimo d’Azeglio, e Alessandro Manzoni, astigiano nel sonetto alla musa e si ispirò al dialogo la virtù sconosciuta per il carme in morte di Carlo Imbonati in uno dei Sermoni giovanili composto nel 1804, le difese e il gusto metastiano dei contemporanei, lasciano emergere la conoscenza dei suoi scritti critici oltre alle opere poetiche, ammirazione del giovane Manzoni distanze del misogallismo e di Alfieri, si rivolgeva anche all’uomo modello di pura, incontaminata vera virtù. Non diversamente ad Alfieri guardò Leopardi, considerandolo piuttosto filosofo che poeta. Ma nessuno per Ugo Foscolo il tragediografo piemontese esperienza fondamentale, non essendo il cosiddetto alfierismo episodio di un momento della sua vita né un aspetto della sua personalità, il Foscolo uomo, poeta, politico, critico senza perseguire e svolgere. La presenza di Alfieri si avverte nei suoi scritti dalle tragedie giovanili, in ambiente veneto, la figura di Cesarotti, ne contrastava il successo opponendogli un differente modello teatrale, se nell’Ortis il protagonista parla del poeta come unico mortale che desiderava conoscere, e il suo suicidio risponde alla ragioni ideologiche degli eroi delle tragedie anche i sonetti foscoliani traggono stimolo delle rime, con instaurano un dialogo segreto.
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