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Le origini di Roma: Storia arcaica e primi conflitti, Sintesi del corso di Storia

Una panoramica della storia arcaica di roma, dalla sua fondazione fino alla prima repubblica. Vengono esaminate le fonti letterarie, le divisioni sociali, l'agricoltura, i conflitti con le popolazioni montanare e le guerre estere, come la guerra illirica e la seconda guerra punica. Vengono inoltre descritti gli eventi come la sconfitta dei galli e la grande guerra latina, che portarono alla espansione del territorio romano.

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

Caricato il 19/02/2024

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Scarica Le origini di Roma: Storia arcaica e primi conflitti e più Sintesi del corso in PDF di Storia solo su Docsity! STORIA ROMANA, Geraci Marcone QUALCHE NOZIONI INTRODUTTIVA Datazione e cronologia Il modo di indicare le date in riferimento alla nascita di Cristo non è mai stato utilizzato nel mondo antico; l’era “cristiana” è stata introdotta dal monaco DIONIGI ESIGUO (nativo della Scozia tra V-VI secolo d.C.) che elabora un sistema che riportava alla nascita di Cristo solo gli eventi accaduti dopo tale data, mentre quelli accaduti precedentemente venivano calcolati partendo dalla creazione del mondo. Il sistema si diffonde: - In Italia dal VII secolo - In tutta l’Europa occidentale nel X secolo La consuetudine di contare gli anni prima di Cristo venne introdotta soltanto nel corso del XVIII secolo per unificare il punto di riferimento. Datazione prima del cristianesimo: A Roma a partire dall’età repubblicana gli anni venivano indicati mediante i nomi dei magistrati eponimi (letteralmente “che davano il nome all’anno”) quindi in genere tramite la menzione dei due consoli. Il “Calendario Romano Repubblicano” rimane in vigore fino alla riforma di Cesare del 46 a.C. che prevede 355 giorni divisi in dodici mesi, quattro da 31 giorni, sette da 29 e uno da 28, e ad anni alterni veniva aggiunto un “mese intercalare”, artificio per uguagliare l’anno civile a quello solare e al ciclo delle stagioni, In queste antiche scansioni un’importanza notevole ebbero i giorni di mercato (nundinae) durante i quali la popolazione rurale confluiva nelle città per i propri commerci e aveva occasione di partecipare personalmente alla vita civica e sociale. I mercati avevano luogo regolarmente “ogni nono giorno” segnati sui calendari con un ciclo di lettere dalla A alla H. Dall’inizio dell’età imperiale tra i dotti si usa come punto di partenza la fondazione di Roma, 753 a.C. data fissata da MARCO TERENZIO VARRONE che partendo dall’inizio della repubblica nel 509 a.C. ipotizzò che ogni re avesse regnato 35 anni circa. Onomastica romana La denominazione dei cittadini romani nell’età antica si fondava su un solo nome ma col tempo a questo se ne aggiunse un secondo e poi un terzo. A evoluzione completata il nome completo di un cittadino romano libero comportava tre elementi (tria nomina): -Prenomen: nome personale -Nomen: gentilizio che indica il gruppo familiare, la gens di provenienza e veniva trasmesso di padre in figlio -Cognomen: soprannome individuale assegnato per caratteristiche fisiche, per le cariche o attività di alcuni esponenti della famiglia o in base al luogo di provenienza. Questo divenne ereditario per gli aristocratici per distinguere le varie famiglie appartenenti alla stessa gens. In caso di adozione l’adottato assumeva i tria nomina del padre adottivo a cui si aggiungeva un secondo cognomen tratto dal gentilizio della sua famiglia d’origine. Le donne romane di nascita libera ricevevano come nome il solo gentilizio paterno adattato al femminile e continuavano a portarlo anche da sposate. Gli schiavi erano denominati con un unico nome personale mentre i liberti, cioè gli ex schiavi, assumevano il prenome ed il gentilizio dell’ex padrone e portavano come cognomen il loro antico nome da schiavo. Il mondo di Roma Il mondo di Roma è definito “uno, duplice e molteplice”: - “Uno” → perché ci furono elementi unificanti come l’amministrazione, la cittadinanza, l’esercito e il diritto; - “Duplice” → perché il mondo romano fu fortemente influenzato da quello greco, soprattutto dal punto di vista linguistico e culturale (il greco rimase sempre il modo di espressione principale); - “Molteplice” → perché Roma lasciò convivere un mosaico molto vario di cittadinanze, di particolarità locali, di condizioni politiche, sociali e personali sotto il comune denominatore della romanità. Il sistema monetario Età Repubblicana: - Denario (argento) → 1 vale 10 assi, 1 vale 4 sesterzi - Sesterzio (argento) → 1 vale 2 e mezzo assi - Asse (rame) Sotto Augusto: - Aureo (oro) → 1 vale 400 assi, 100 sesterzi, 25 denari - Denario (argento) → 1 vale 16 assi, 4 sesterzi - Sesterzio (rame e zinco) → 1 vale 4 assi - Asse (rame) Sotto Diocleziano: - Aureo (oro) → 1 vale a1250 denari, 250 follis, 25 argentei - Nummus Argentus (argento) → 1 vale 50 denari, 10 follis - Follis (rame) → 5 denari - Nummo Radiato o Denaro (rame) PARTE PRIMA: I popoli dell’Italia antica e le origini di Roma CAPITOLO 1: L’Italia preromana L’Italia dell’età del bronzo e dell’età del ferro Tra il III e I millennio a.C. nella penisola italiana. si assiste ad uno sviluppo notevole: tra l’età del bronzo medio e la prima età del ferro si passa da piccoli centri a grandi organizzazioni protostatali e viene così colmato il distacco che aveva caratterizzato la cultura dell’Europa continentale rispetto a quella più evoluta che si era sviluppata già da tempo nel Vicino Oriente e in Egitto. Durante l’età del bronzo in Italia i siti nell’età del bronzo risultano dislocati un po’ ovunque ma prevalentemente lungo l’Appennino: ecco perché la cultura è stata denominata “appenninica”. Un fenomeno importante che si realizza in questa età è l’incremento demografico: si riduce il numero degli insediamenti mentre quelli che sopravvivono si estendono e questo implica uno sfruttamento più intenso delle risorse. Questo fenomeno è particolarmente evidente nella cultura “terramaricola”che si sviluppò tra il XVIII e XII a.C. nella pianura emiliana. Tale cultura diede vita a insediamenti di capanne che poggiavano su una sorta di impalcatura di legno, che aveva lo scopo di creare una difesa naturale dagli attacchi di animali selvatici e di isolarle dal terreno acquitrinoso. Con il nome “terramare” si definiscono i grossi tumuli di terra grassa e scura formati dai depositi dei primitivi insediamenti (terramarne). Tali villaggi avevano una forma trapezoidale, erano circondati da un argine e da un fossato ed erano attraversati da due strade principali perpendicolari tra loro. Durante l’età del bronzo recente è documentata un’intensa circolazione di prodotti, soprattutto di origine greca, e di persone. Questi contatti favorirono il formarsi di aggregazioni con differenziazioni al loro interno e poteri politici più forti. degli animali sacrificati per scopi religiosi. L’aruspicina si basa sul concetto di una fondamentale unità cosmica secondo cui negli organi si riprodurrebbe l’ordine dell’universo. Un monumento famoso dell’aruspicina è il fegato di Piacenza, forse strumento didattico di bronzo. Il problema della lingua L’alfabeto etrusco, composto di 26 lettere, è un riadattamento di quello greco. La difficoltà principale nel conoscere l’etrusco deriva dal fatto che si tratta di una lingua non indoeuropea, inoltre i testi a noi noti sono costituiti per lo più da brevi formule dove compaiono i nomi dei defunti e le cariche politiche ricoperte e questo spiega perché tra le parole etrusche a noi note predominino i nomi propri. Pochi sono i testi più lunghi: liber linteus di Zagabria, Tegola di Capua (che riporta un rituale funerario), Tavola cortonense (che riproduce un documento legale con indicazione dei confini di due proprietà). Importanti sono poi le lamine di Pyrgi: testo bilingue etrusco-fenicio relativo alla dedica di un tempio alla dea Uni. Tecnica e arte I siti archeologici delle città etrusche hanno lasciato una traccia archeologica modesta se si fa eccezione di grossi centri e necropoli. Queste ultime, disseminate ovunque nell’area di influenza etrusca erano organizzate come delle vere e proprie abitazioni sotterranee scavate nel tufo: nell’ VIII sec. a.C. alle tombe a pozzo che accoglievano le ceneri dei defunti si sostituirono quelle a fossa destinate all’inumazione dei defunti, e poi a camera. Le sepolture a camera avevano una sepoltura architettonica complessa: costruite come veri e propri appartamenti per i membri di una stessa famiglia, fornite di numerosi ambienti. Dal punto di vista della tecnica architettonica è notevole il grado di perfezionamento che gli etruschi raggiunsero nell’uso della copertura a volta e dell’arco. Anche le manifestazioni più significative dell’arte etrusca sono collegate all’edilizia sepolcrale, che ci ha lasciato reperti di statuaria, terracotta, pittura e oreficeria. Gli affreschi che decorano le tombe riproducono scene di vita quotidiana e soprattutto nella fase più tarda dominano scene dell’aldilà. Tra le tecniche più diffuse di produzione di ceramica, tipica è quella del vasellame di bucchero, ottenuto mediante una particolare cottura dell’argilla fino al raggiungimento di un colore nero lucente, a imitazione del metallo. Per quanto riguarda le attività economiche gli etruschi praticarono con successo oltre all’agricoltura, la metallurgia, e l’artigianato artistico. Gli oggetti in bronzo e oreficeria, cereali e anfore raggiunsero ampie aree del mediterraneo attraverso il commercio. Il ritrovamento in alcuni siti archeologici di una varia strumentazione agricola, che comprendeva anche l’aratro, dimostra conoscenza di tecniche relative alla coltura dei cereali, alla arboricoltura, alla tenuta dei vigneti. Gli etruschi furono abili sia nell’estrazione dei minerali sia nel trattamento dei metalli grezzi in apposite fornaci che garantirono una produttività di livello industriale. La lavorazione dell’oro e metalli nobili per lo più mirata a ornamentazione personale ci è testimoniata dalla ricchezza dei corredi funebri. CAPITOLO 3: Roma Le origini di Roma La storia di Roma arcaica rappresentò per molto tempo un campo di indagine affine agli studi sul Vecchio Testamento, fino a che il progresso scientifico liberò le ricostruzioni della Roma arcaica dalle implicazioni di carattere religioso e politico. A partire da fine Ottocento a rivoluzionare le prospettive e i metodi di ricerca contribuì l’archeologia con nuove scoperte, che in molti casi sembrano confermare la sostanziale veridicità del racconto tradizionale su Roma arcaica. A questo punto la negazione della tradizione letteraria, o “ipercritica” caratteristica del positivismo non parve più accertabile. La risposta più alta a tale questione è costituita dal I Volume della Storia dei Romani di Gaetano De Sanctis, pubblicato nel 1907, dove propose una riconsiderazione meditata delle fonti letterarie più attendibili. L’archeologia ha accertato anche la precocità e l’importanza dell’influenza greca e orientale su Roma e sul Lazio. Questa influenza si manifesta a partire dall’VIII sec e raggiunge il Lazio senza mediazione da parte degli Etruschi. Roma sembra ricevere dei prodotti di importazione greca prima di quelli etruschi. Le fonti letterarie Le testimonianze delle fonti letterarie rappresentano il primo blocco di informazioni con cui ci si deve confrontare per ricostruire la storia di Roma arcaica ma le opere risalgono a epoche molto posteriori agli eventi narrati. I primi storici che parlarono dell’Italia furono i greci nel V sec. a.C. e in greco scrissero i primi storici romani come Fabio Pittore e Cincio Alimento, alla fine del III sec quindi più di cinque secoli di distanza dalla fondazione di Roma. La comparsa della scrittura verso la fine del VII sec a Roma non determinò cambiamenti fondamentali. Tanto per la seconda quanto per la prima parte del periodo regio la tradizione orale deve aver avuto ruolo di rilievo nella trasmissione. La situazione non muta nella prima età repubblicana. I primi storici dei possiamo tuttora leggere le narrazioni su Roma arcaica vissero nel I secolo a.C. - Tito Livio di Padova (59 a.C – 17 d.C circa, sotto Augusto). Livio stesso si rendeva conto della fragilità su cui poggiava la sua ricostruzione della storia di Roma, almeno fino all’incendio nel 390 a.C. - Dionigi Alicarnasso, attivo durante età augustea. Scrisse Le Antichità romane diviso in 20 libri dalla fondazione di Roma allo scoppio della 1 guerra punica (264). Lo scopo di Dionigi era dimostrare che i romani erano popolazione di origine ellenica: a tale dimostrazione dedicato il primo libro dove è spiegato come il popolo romano è nato dalla fusione di ondate migratorie provenienti dalla Grecia. Ma un po’ ovunque fornisce argomenti a sostegno di questa tesi, comparando culti, istituzioni politiche, usi dei due popoli. La versione più diffusa della leggenda delle origini di Roma è la fondazione di Alba Longa e la dinastia dei re albani tra l’arrivo di Enea nel Lazio e il regno di Romolo. Nell’Eneide Alba longa è fondata dal figlio di Enea, Ascanio/Iulo, trent’anni dopo la fondazione di Lavinium, la città cui il padre dà il nome della moglie Lavinia. Virgilio mette in relazione il nome di Alba Longa con il prodigio della scrofa bianca che partorendo indica il numero di anni (30) che devono trascorrere per la fondazione della nuova città. Secondo la leggenda il fondatore e primo re della città di Roma, Romolo, figlio di Marte e di Rea Silvia, figlia di Numitore, ultimo re di Alba Longa privato del trono dal fratello Amulio. Nella tradizione trova posto anche l’antefatto del conflitto tra Cartagine e Roma: Enea dopo la caduta di Troia era giunto fino a Cartagine, dove aveva conosciuto Didone che si era innamorata di lui, e non riuscendo a trattenerlo presso di sè giurò un eterno odio che avrebbe contrapposto Cartagine alla città che Enea e i suoi discendenti si preparavano a fondare. I sette re di Roma La tradizione fissa il periodo monarchico dal 754 al 509 a.C., anno dell’instaurazione della Repubblica. In questo periodo avrebbero regnato 7 re: 1. Romolo: creazione delle prime istituzioni politiche tra cui un senato di cento membri 2. Numa Pompilio: primi istituti religiosi 3. Tullo Ostilio: campagne militari di conquiste con distruzione di Alba longa 4. Anco Marcio: fondazione colonia Ostia 5. Tarquinio Prisco: seconda fase della monarchia in cui gioca un ruolo importante la componente etrusca; a lui sono attribuite importanti opere pubbliche 6. Servio Tullio: costruzione delle prime mura della città e istituzione di comizi centuriati 7. Tarquinio il Superbo: assume tratti tipici del tiranno Vediamo le fonti sulle quali si basano i racconti 1. Opere storiche Livio e Dionigi sono venuti alla fine di una lunga serie di storici, ciascuno dei quali ha trattato la storia di Roma a partire dalla sua fondazione. Questi storici sono noti come annalisti perché hanno organizzato il materiale in ordine cronologico. Il primo romano a narrare la storia di Roma è stato Fabio Pittore (fine III sec) che scrisse in greco. Il primo storico romano a scrivere in latino è invece Marco Porcio Catone il Censore (234-148). 2. Tradizione familiare La società romana in età repubblicana era dominata dalla competizione tra le principali famiglie aristocratiche. Ciascuna cercava di accreditare il proprio titolo di superiorità sulle altre celebrando le glorie degli antenati. Una delle forme con le quali la storia familiare veniva celebrata è riconducibile all’uso di pronunciare elogi dei defunti nelle cerimonie funebri. Dato che gli storici erano aristocratici, potrebbero aver attinto a questi repertori. 3. Tradizione orale La struttura di molte leggende ha caratteristiche tali da rendere facile la trasmissione, tuttavia la tradizione orale è soggetta a forti distorsioni. Come canale di trasmissione sono stati indicati i canti celebrativi durante i banchetti o rappresentazioni durante le feste. 4. Documenti di archivio I primi storici hanno in comune una medesima struttura narrativa, che consiste nel menzionare per ogni anno i nomi dei magistrati principali e degli eventi ritenuti degni di nota. Tra queste possibili fonti ci sono gli Annali dei pontefici, ovvero la registrazione sommaria degli avvenimenti tenuta anno per anno dalla suprema autorità religiosa di Roma, il pontefice massimo. Gli eventi salienti di interesse pubblico erano riportati su una tavoletta di legno che veniva poi sbiancata con la calce che il pontefice esponeva all’ingresso della sua abitazione. Attorno al 130 questi Annali furono pubblicati da Mucio Scevola in 80 libri con il nome di Annales Maximi. Il problema è che neppure questi risalgono sino all’età regia. Importanti sono le informazioni forniteci dai cosiddetti “antiquari”, vale a dire quegli studiosi che a partire dal II sec si dedicarono a dotte ricerche su vari aspetti del passato romano → istituzioni politiche e militari, vita famigliare, religioni, costumi, lingua. Ne è un esempio l’opera di Varrone (I sec.), Sulla lingua latina. La storiografia moderna Sembra accertato che nel racconto tradizionale siano state fuse due versioni diverse delle origini di Roma: una greca, che ricollegava la fondazione della città alla leggenda di Enea, e una indigena, nella quale Romolo rappresentava un mitico re fondatore autoctono. Il racconto, per quanto leggendario, possiede alcuni elementi che si possono definire storici: la compresenza di popolazioni diverse alle origini (Sabini e Latini) e fase di predominio etrusco nel periodo finale della monarchia. La fondazione di Roma È difficile immaginare che Roma sia nata dall’oggi al domani per una scelta individuale, come vuole la leggenda. La nascita della città dovette essere piuttosto il risultato di un processo lento e graduale, per la quale si deve presupporre una sorta di federazione di comunità separate che già vivevano sui singoli colli. Villaggi sul palatino possono considerarsi come il nucleo originario della futura Roma, la cui storia inizio attorno all’VIII sec a.C. Il Palatino era articolato in tre alture separate tra loro da avvallamenti: il Palatium, il Germalo, la Velia. Roma sorgeva a ridosso del corso del Tevere, in una posizione di confine tra due aree etnicamente differenti che erano separate dal corso di quel fiume: la zona etrusca e il Lazio Antico (Latium vetus). Nel periodo in cui si colloca la nascita di Roma la differenza etnica era già nettamente definita. È improbabile che Roma abbia preso nome da fondatore Romolo, è più probabile il contrario, cioè che la città chiamata Roma fece immaginare che fosse stata fondata da Romolo, l’eroe eponimo, come era accaduto per città greche. È possibile che il nome Roma derivi da ruma, che significa mammella, nel senso di collina oppure da Rumon, termine latino arcaico che indicava il fiume Tevere. Il muro di Romolo Negli ultimi anni gli scavi condotti nel Palatino hanno portato alla luce (1988) i resti di una palizzata e di un muro databile all’VIII secolo a.C. Secondo l’archeologo italiano Andrea Carandini nella palizzata si deve vedere la linea dell’originario solco di confine, detto pomerio e nel muro arcaico il muro di Roma. Il racconto tradizionale sarebbe allora confermato: verso la metà del VIII sec un re sacerdote eponimo, Romolo, avrebbe celebrato un vero e proprio rito di fondazione tracciando con l’aratro i limiti della città. Il pomerio e i riti di fondazione anche in precedenza abbiano riflettuto sulle loro origini e la loro natura. Niebuhr, fondatore della moderna storiografia su Roma arcaica, all’inizio del XIX secolo elabora una teoria secondo la quale le leggende e le tradizioni di Roma arcaica erano state create nei canti recitati ai banchetti (carmina convivalia). È dunque ipotizzabile un corpus di poesia andato poi perduto. Grazie alle prove archeologiche noi ora sappiamo che nel VII e VIII sec l’uso del symposion era stato adottato dalle élite locali del Lazio e dell’Etruria. Appare quindi possibile che questi canti e storie abbiano contribuito a creare la memoria comune del gruppo, basata sulla celebrazione dei grandi fatti dei suoi membri passati e presenti. Gli hetairoi greci sono i sodales (compagni) del convivio: la logica di entrambe le culture è che la valorizzazione del passato rafforzava la coesione sociale del presente. Questo non significa riproporre la teoria di Niebhur perché questi canti difficilmente potevano essere elaborati come Niebuhr pensava e perché essi appartenevano a una ristretta élite aristocratica. Manca l’anello di congiunzione tra la fase favolistica, mitologica e quella storiografica. Secondo storico Wiseman, nel formarsi di una tradizione, all’atto degno di memoria di un personaggio seguiva la celebrazione del suo successo attraverso pubblici onori. Questo episodio veniva tramandato su due piani distinti: per il pubblico colto attraverso la rielaborazione nei carmina e per la massa di illetterati tramite ballate di cantastorie. Un esempio di elaborazione storiografica: Servio Tullio Servio Tullio risalta fra i re di Roma infatti egli opera grandi trasformazioni nella città sia a livello monumentale sia politico-istituzionale, tanto da poter essere considerato quasi un rifondatore. Le sue origini sono avvolte nel mistero, ma sappiamo dell’illegalità della sua presa di potere. Servio Tullio era nato schiavo e cresciuto al palazzo di Tarquinio Prisco. Un evento prodigioso lo segnala come predestinato a una sorte fuori dal comune: delle fiamme sprigionate senza una causa apparente intorno al suo capo mentre dormiva non gli causarono alcun male. Da allora godette della protezione a corte soprattutto per opera di Tarquilla, moglie del re. Divenne il più stretto collaboratore del re e ne sposa la figlia. Due sicari assolti da Anco Marcio feriscono mortalmente Tarquinio. La moglie, annuncia al popolo che il re si sta riprendendo, nascondendo la sua morte, e che ha disposto Servio a regnare in sua vece. Quando il popolo si era assuefatto a vedere Servio al potere, annunciò la morte del re. Nella tradizione storiografica si realizza un caratteristico meccanismo di amplificazione rispetto al nucleo primitivo. L’organizzazione centuriata che implicava la valutazione economica e numerica della popolazione poneva Servio in stretto rapporto con la moneta. Questa operazione è descritta nella storiografia perché era decisiva per introdurre la diversità tra i cittadini, prima distribuiti nelle curie in rapporto alla nascita, e distinguerli in base al livello di ricchezza. Essa segnava la fine della parità caratteristica dei comizi curiati. Si possono rintracciare anche amplificazioni di tipo eziologico che facevano di Servio l’ideatore di molteplici usi collegati con la moneta, come l’idea di riprodurre sui lingotti bronzei l’effigie di un bue o di una pecora. Questo meccanismo di amplificazione opera anche in altri ambiti. Una tradizione unanime attribuisce a Servio una serie di misure relative all’assetto territoriale e amministrativo di Roma. Secondo tale tradizione Servio creò tribù territoriali in cui i cittadini venivano iscritti sulla base del loro effettivo domicilio. Era automatico che al sovrano che aveva riorganizzato il territorio romano si attribuisse la creazione delle feste religiose. Infatti a Servio, con l’istituzione dei distretti territoriali, i pagi, si attribuiva anche quelle delle loro feste, i Paganalia. La famiglia L’organizzazione familiare si sostituisce al legame basato sui vincoli di sangue. La nozione di famiglia romana comprendeva un raggruppamento sociale ben più ampio di quello che siamo abituati a intendere oggi. A Roma facevano parte di una medesima famiglia tutti coloro che ricadevano sotto l’autorità di uno stesso paterfamilias, al quale spettava il controllo sui beni. Non c’era un termine che indicava il nucleo familiare ristretto. Il vincolo di fondo della famiglia romana non è rappresentato dai legami contratti col matrimonio ma piuttosto dal potere (potestas) esercitato dal pater sui suoi sottoposti. La famiglia romana arcaica presenta i caratteri di una società prestatale: era infatti un’unità economica, religiosa e politica. Questi aspetti ebbero riflessi anche sulle norme giuridiche: il primo diritto di un padre nei confronti dei figli era quello di rifiutarli nel momento della nascita, persino i figli legittimi entravano a far parte della famiglia attraverso un atto formale: l’accoglimento o il rifiuto era palesato dal padre con dei gesti pubblici, come prendere in braccio il maschio o dare ordine alla moglie di allattare la femmina. L’alternativa era quella di esporli. Tra i vincoli fondamentali della famiglia romana primitiva c’era quello religioso. I riti familiari si trasmettevano di padre in figlio e la loro osservanza era ritenuta doverosa. Gli antenati del ramo paterno furono i primi manes, oggetti di culto nella famiglia romana. Il diritto romano prevedeva che i figli rimanessero sotto l’autorità del padre fino a quando questi era in vita. Tra i diritti del padre c’era anche quello di diseredare i figli. Per tutelare i figli legittimi venne concesso di annullare il testamento se si riusciva a dimostrare l’insanità mentale del defunto nel momento in cui lo aveva redatto. Un uomo adulto non poteva nemmeno disporre del proprio patrimonio e al mantenimento economico (peculium) doveva pensarci il padre. I giovani che non riuscivano a farselo bastare non avevano altre alternative se non quella di diventare vittime degli usurai. La donna Il ruolo della donna aristocratica, che riceveva un’educazione intellettuale, non si esauriva nella sola vita domestica. La moglie accompagnava il marito nella vita pubblica, condivideva con lui il compito dell’educazione dei figli, anche se l’autorità nella casa e nella società rimaneva sempre quella del marito. Almeno in epoca arcaica e per buona parte dell’età repubblicana il carattere patriarcale della famiglia si riflette nella netta supremazia del marito sulla moglie. Il potere non era però potestas, ma manus, non aveva limiti: la può punire se ha commesso qualche mancanza ad esempio se ha bevuto vino durante un convito, e addirittura ucciderla in caso di flagrante adulterio. Lo scopo di norme così rigide è legato ad un concetto di matrimonio finalizzato solo ad avere figli legittimi. I romani si sposavano presto, ma la legge proibiva che le ragazze prendessero prima dei 12 anni. Era il padre a cercare uno sposo per le figlie attraverso una cerimonia di fidanzamento, detta sponsalia, con vari riti. La felicità di una sposa era subordinata alla sua capacità di avere figli: il destino delle donne sterili era quasi sempre il ripudio con il conseguente ritorno nella casa paterna. Molte morivano durante il parto. Si poteva accorrere all’adozione: serviva non solo a garantirsi una discendenza, ma anche per realizzare scelte patrimoniali (orfano erede di ricco patrimonio) o politiche. Il matrimonio era istituzione privata, ma aveva conseguenze giuridiche importanti. Esistevano forme diverse per contrarre un matrimonio: - confarreatio: divisione di una focaccia di farro tra i due sposi - mancipatio: atto di compravendita - usus: ininterrotta convivenza per un anno In mancanza di un atto che sancisse formalmente la nuova unione era fondamentale il ruolo dei testimoni per stabilire quando una convivenza era di tipo matrimoniale. Il divorzio era un atto altrettanto informale. Il ripudio era un atto semplicissimo e consisteva nella separazione di fatto dei coniugi anche se di norma avveniva per decisione dell’uomo. Per il divorzio consensuale bisogna aspettare ancora. Agricoltura e alimentazione La riorganizzazione dell’economia pastorale è uno dei caratteri fondamentali dell’Italia nella prima età del ferro per quel salto di qualità che si colloca tra X e IX secolo a.C. Questo processo, compiuto attorno al VIII secolo, implica il passaggio da un regime di seminomadismo a uno di regolare trasferimento del bestiame in altura con spazi e modalità ben definiti. La cosa vale in particolare per i popoli dell’Italia centrale. L’agricoltura di Roma arcaica era limitata dalle condizioni poco favorevoli del terreno, cui si aggiungeva la bassa qualità delle tecniche agricole. Nel Lazio arcaico è attestata la situazione tipica di economie povere o di sussistenza. Varie specie di cereali, soprattutto farro e orzo venivano associate tra loro anche con leguminose, come la veccia: è quella che i Latini chiamavano farrago. Lo scopo della farrago era quello di assicurare un minimo di sopravvivenza rispetto ad eventuali calamità atmosferiche che potevano colpire un raccolto. Successivamente la farrago fu riservata alla sola alimentazione animale e tornerà ad essere consumata dall’uomo in età medievale. Il cereale più coltivato in età arcaica era il farro: si seminava in quantità superiore al grano ma la sua resa era inferiore. Se si considera la scarsa produttività unita alla modesta estensione di terreno coltivabile si può capire come per Roma il soddisfacimento delle becessità alimentari rappresentasse un serio problema. La farina di farro non era impiegata per la panificazione ma era alla base della mola salsa e soprattutto della puls, tipico piatto romano, piatto semi-liquido che può considerarsi l’antenato della polenta. Nella Roma arcaica agricoltura e allevamento sono compresenti e vanno intese in un rapporto di interdipendenza. Le due attività dovevano essere complementari: il bestiame serviva a produrre il concime e gli animali da tiro servivano per aiutare l’uomo nel lavoro. Varrone formulò il mito di Roma pastorale. Le difficoltà conosciute da Roma nel V secolo, dopo l’istaurazione della Repubblica, offrono un importante riscontro della povertà di risorse agricole nell’area prossima alla città: il primo secolo della Repubblica fu l’unico periodo in cui lo Stato romano non si trovò nella condizione di trarre vantaggio dalle sue conquiste a favore dei consumi alimentari dei cittadini. Una circostanza negativa per Roma nella prima età repubblicana è rappresentata dall’arrivo dei Volsci nel Lazio meridionale, all’inizio del V secolo a.C. La calata dei Volsci nell’unico territorio che potesse fornire rifornimenti alimentari adeguanti fu all’origine di carestie e tensioni sociali. La proprietà della terra in Roma arcaica La prima forma di proprietà era limitata sola alla casa e all’orto circostante (heredium) ed era esclusa la terra arabile e quella a pascolo. Oltre al termine heredium nelle fonti compare il termine sors, che si applica bene alla nozione di proprietà trasmissibile per via ereditaria e a quella di lotto assegnato per sorteggio. I primi due secoli della Repubblica conoscono un sostanziale assestamento che fu progressivamente modificato quando, dal IV sec, iniziarono le assegnazioni di terreno conquistato. Sino a quel momento i dislivelli di capacità economica all’interno del ceto dirigente romano rimangono modesti. L’ideologia indoeuropea nei racconti sulle origini di Roma Il termine indoeuropei indica una popolazione vissuta attorno al IV millennio nella pianura rossa. Tra III-II millennio gli indoeuropei si spostarono in varie direzioni e in genere imposero la loro lingua ai popoli conquistati ma ne adottarono la scrittura. Uno studioso francese, Georges Dumézil ha cercato di ricostruire l’universo mentale degli indoeuropei, che ha ricondotto a un’ideologia trifunzionale basata sul presupposto che le cose venissero classificate con riferimento costante a tre ambiti distinti tra loro ma complementari: la potenza del sovrano (che si manifesta secondo due aspetti, uno magico e uno giuridico); la forza fisica; la funzione della prosperità materiale. Nella storia di Roma arcaica Dumézil ha rintracciato un’importante eredità indoeuropea in una serie di episodi, come quello del ratto delle Sabine. Anche nella teologia romana si sarebbe tenuta traccia del sistema indoeuropeo: così si spiega l’associazione del dio primario, Giove, a due divinità minori, Terminus, divinità dei confini, e Iuventus, divinità della giovinezza. Quanto a Servio Tullio Dumézil avrebbe ritrovato alcune caratteristiche attribuite a questo re in un mitico sovrano indiano soprattutto per quanto riguarda le modalità di acquisizione della regalità e l’opera di organizzazione del censo. La scoperta del Lapis Niger La storia di Roma arcaica si è avvalsa del contributo decisivo dell’archeologia. Una stagione di scavi e ritrovamenti importanti si ebbe alla fine del XIX secolo. La scoperta nel 1899 nell’angolo del Foro, di una pavimentazione in marmo nero distinta dalla restante pavimentazione in travertino suscitò grande scalpore e fu subito associata a fonti letterarie che accennavano a una pietra nera nel Comizio, che contrassegnava un luogo funesto, forse la tomba di Romolo. Al di sotto della pavimentazione fu scoperto un complesso monumentale arcaico, comprendente una piattaforma su cui sorgeva un altare. Vicino ad esso era il tronco di una colonna recante il testo mutilo di un’iscrizione: dalle poche parole leggibili si deduce che si tratta di una dedica fatta a un re e che si minacciano pene terribili per chi avesse violato questo luogo. Il re in questione doveva essere un vero monarca, il che riconduce questo complesso a un’età molto arcaica. Le origini di Roma secondo un imperatore romano La tradizione sulle origini di Roma fu messa in discussione dagli stessi antichi: Cicerone riconosceva l’oscurità della storia più arcaica. Noi possediamo la ricostruzione di Claudio, imperatore appassionato di antichità etrusche. Nel 48 d.C. pronunciò in senato un discorso a favore dell’ammissione nell’assemblea di alcuni illustri rappresentanti della provincia della Gallia. Per dimostrare la tradizionale apertura di Roma nei confronti degli stranieri, prende spunto dalle vicende delle origini: fornisce informazioni desunte dalla tradizione antiquaria romana ed etrusca. Il suo discorso fu trascritto su una tavola di bronzo ed è presente negli Annali di Tacito. Questo discorso è concentrato su come nella successione imperiale si fossero inseriti estranei o addirittura stranieri. Licinie Sestie 367 a.C. sarebbe stata creata la magistratura collegiale del consolato. Il più serio argomento a favore di questa teoria è la cerimonia dell’infissione del chiodo nel tempio di Giove Capitolino a opera del praetor maximus. Le altre magistrature Le crescenti esigenze dello Stato indussero la creazione di nuove magistrature che sollevassero i consoli da alcune loro competenze: anche queste cariche furono caratterizzate da annualità e collegialità. - Questori: risalirebbero al periodo regio o al primo anno della Repubblica; originariamente erano due e assistevano i consoli nelle attività finanziarie. In un primo tempo è probabile che i questori fossero designati a discrezione dai consoli stessi mentre in seguito la carica divenne elettiva. Oltre ai questori finanziari vi erano i quaestores parricidii, incaricati di istituire i processi per i delitti di sangue che coinvolgessero i parenti. Il reato di alto tradimento era competenza dell’apposito collegio dei duoviri perduellionis. - Censori: nel 443 a.C. il compito di tenere il censimento fu affidato a loro. In seguito, tra la fine del IV e gli inizi del III sec, si affidò ai censori anche la redazione delle liste dei membri del senato. Da questa competenza si sviluppò una generale supervisione sulla condotta morale dei cittadini (cura morum) che conferiva ai censori ampi poteri di intervento su diversi aspetti della vita pubblica e privata. Di regola questi magistrati venivano eletti ogni 5 anni e la carica durava 18 mesi. La dittatura In caso di necessità, i poteri della Repubblica potevano essere affidati a un dictator, che veniva nominato a propria discrezione da un console, un pretore o un interrex, su istruzione del senato. Il dittatore inoltre non era affiancato da colleghi con eguali poteri, ma assistito da un magister equitum (comandante della cavalleria) da lui scelto e a lui subordinato. Contro il dictator non valeva l’appello al popolo o l’opposizione del veto da parte dei tribuni della plebe. Dati i poteri straordinari di questa magistratura la sua durata venne limitata a un massimo di sei mesi, anche se ci si aspettava che il dictator deponesse la carica non appena si fosse risolta la situazione per la quale era stato nominato. Il titolo originario di magister populi (comandante dell’esercito) fa intendere come il dictator venisse nominato soprattutto per fronteggiare crisi militari. L’inappellabilità delle risoluzioni prese dal dictator fece tuttavia della carica anche uno strumento con il quale il patriziato dominante poteva tenere sotto controllo le aspirazioni della plebe. I sacerdozi e la sfera religiosa A Roma non c’era una netta distinzione fra la sfera religiosa e quella politica: la medesima persona poteva in effetti rivestire contemporaneamente una magistratura e un sacerdozio. - Flamini: costituiscono un’eccezione in questo senso e più che sacerdoti di una divinità essi rappresentavano la personificazione terrena del dio stesso. In particolare le tre supreme divinità della prima Roma repubblicana, Giove, Terminus e Iuventus erano rappresentati rispettivamente dai flamines Dialis, Martialis e Quirinalis. Dodici flamini minori poi erano addetti al culto di altrettante divinità. Al flaminato era connessa una serie di tabù religiosi che limitarono il diritto a rivestire cariche politiche; I tre più importanti collegi religiosi, quelli dei pontefici, degli auguri e dei duoviri sacris faciundis, avevano poteri che coinvolgevano direttamente la politica - Collegio dei pontefici: guidato da un pontefice massimo, costituiva la massima autorità religiosa dello stato. Ai pontefici spettava la nomina dei 3 flamini maggiori e avevano anche il controllo sulla tradizione e l’interpretazione delle norme giuridiche e sul calendario. Si diveniva pontifex per cooptazione (venendo scelto dagli altri membri del collegio) e lo si rimaneva a vita; - Collegio degli àuguri: aveva la funzione di assistere i magistrati nel loro compito di trarre gli auspici e di interpretare la volontà degli dei che avveniva soprattutto attraverso l’osservazione del volo degli uccelli ma anche di altri fenomeni naturali come tuoni e fulmini. Un presagio sfavorevole consentiva al senato di bloccare immediatamente ogni procedimento e questo dimostra che gli auguri avevano una forte valenza politica; - Duoviri sacris faciundis: incaricati di costudire i Libri Sibillini, un’antichissima raccolta di oracoli, e di consultarli per trovarvi rimedio a varie ed eventuali situazioni. Non di rado la soluzione consisteva nell’introdurre a Roma un culto straniero. La denominazione del collegio mutò con il crescere del numero dei componenti che divennero 10 nel 367 e 15 alla fine dell’età repubblicana. Accanto ai tre collegi sacerdotali maggiori vi erano gli aruspici e i feziali. - Aruspici: incaricati di chiarire la volontà divina mediante l’esame delle viscere delle vittime sacrificali, (disciplina che aveva le sue origini in Etruria); - Fetiales: avevano una rilevante funzione politica in particolare loro dovevano dichiarare guerra attenendosi a un complesso cerimoniale previsto per assicurarsi il favore degli dei nel conflitto che si stava aprendo. L’espressione bellum iustum significa infatti guerra dichiarata secondo le corrette formalità. Questi avevano anche il compito di trasmettere una richiesta di riparazioni o un ultimatum e nella conclusione di un trattato. Il senato Il vecchio consiglio regio formato dai capi delle famiglie nobili, sopravvisse alla caduta della monarchia, anzi divenne il perno della nuova Repubblica a guida patrizia. La composizione del consiglio era decisa dai consoli prima e dai censori poi, che sceglievano tra gli ex magistrati. Il principale strumento in possesso del Senato era l’auctoritas patrum, cioè il diritto di sanzione applicatosi in particolare agli atti legislativi e ai risultati delle elezioni usciti dalle assemblee popolari a partire dalla metà del V secolo. A fronte dei magistrati la cui carica durava generalmente un anno, la carica dei senatori era vitalizia. Inoltre dato che il Senato era composto da ex-magistrati questi non erano interessati a agire in contrasto con l’assemblea di cui stavano per entrare a far parte. Nel senato trovò espressione la leadership politica dell’elité sociale ed economica di Roma costituita prima dal patriziato e, in un secondo momento, dalla nobiltà patrizio-plebea. La cittadinanza e le assemblee popolari Il terzo pilastro dell’istituzionale della Roma repubblicana oltre alle magistrature e al Senato è costituito dalle assemblee popolari, di cui potevano far parte soltanto i maschi adulti di libera condizione e in possesso del diritto di cittadinanza. Si diveniva cittadini romani per diritto di nascita, in quanto figli legittimi di un padre in possesso della cittadinanza. Tuttavia Roma manifestò una notevole apertura: l’accoglienza nel corpo civico di elementi stranieri non era un fatto eccezionale. Inoltre i liberti, durante i primi anni della repubblica, avevano pienezza dei diritti civili. - I comizi curiati: durante l’età repubblicana persero progressivamente significato e la loro funzione più importante, quella di conferire ufficialmente i poteri ai nuovi magistrati, si ridusse a una mera formalità; - I comizi centuriati: assemblea più importante nella prima età repubblicana fondata su di una ripartizione della cittadinanza in classi di censo e, all’interno di queste, in centurie. Il meccanismo dei comizi centuriati prevedeva che le risoluzioni non fossero prese dalla maggioranza dei voti individuali, ma a maggioranza delle unità di voto costituite dalle centurie, assicurando così un consistente vantaggio all’elemento più anziano (tendenzialmente anche il più conservatore) della cittadinanza. Le centurie non avevano ugual numero di componenti: persone dotate del censo più alto e iscritte nelle classi di età dai 46 ai 60 anni (seniores) erano molte meno rispetto ai cittadini meno ricchi e iscritti nelle classi di età tra 17 e 45 anni (iuniores). La funzione più importante dell’assemblea centuriata era quella elettorale: spettava ai comizi centuriati l’elezione dei consoli e degli altri magistrati superiori. Abbiamo inoltre testimonianza di un’attività legislativa, limitata a materie di diritto internazionale, quali dichiarazione di guerra e conclusione dei trattati. - I comizi tributi: ultimi per data di creazioni e ricordati per la prima volta nel 447 a.C. quando venne affidata loro l’elezione dei questori. In questa assemblea il popolo votava per tribù territoriali, istituite da Servio Tullio secondo la tradizione. Il meccanismo di voto era solo apparentemente più democratico rispetto a quello vigente nei comizi centuriati dove i ricchi e gli anziani avevano una posizione di vantaggio. Anche nei comizi tributi c’era una forma di disuguaglianza: il numero tribù urbane, rimase sempre fisso a 4, come da tradizione, mentre il numero delle tribù rustiche si accrebbe dalle 16 di età regia a 31 nel 241 a.C. In tal modo la popolazione delle campagne aveva peso maggiore rispetto a popolazione urbana. Anche l’assemblea tributa aveva funzione elettorale tranne che per le materie di competenza dei comizi centuriati. Limiti delle assemblee popolari: 1. esse non potevano autoconvocarsi per iniziativa autonoma, spettava ai magistrati indire l’adunanza e sottoporre al voto le proposte di legge; 2. l’assemblea poteva solo accettare o respingere le proposte di legge, non modificarle; 3. la comparsa di qualche presagio infausto consentiva ai consoli, su avviso degli àuguri di interrompere le assemblee popolari: spesso ne viene fatto un uso strumentale per bloccare risoluzioni indesiderate; 4. ogni decisione dei comizi, doveva ricevere l’approvazione del senato prima di divenire vincolante. CAPITOLO 2: Il conflitto tra Patrizi e Plebei Il periodo che va dalla nascita Repubblica al 287 a.C. è dominato da guerre sostenute da Roma e contrasti civili fra patriziato e plebe, di natura economica e politica. Il problema economico La caduta dei Tarquini e i mutamenti nel quadro internazionale della metà del V sec a.C. ebbero ripercussioni nella situazione economica di Roma. La sconfitta subita dagli Etruschi a opera di Ierone di Siracusa nella battaglia navale a Cuma, nel 474 a.C. portò al crollo del dominio etrusco in Campania, causando indirettamente un danno anche a Roma, che era prosperata anche grazie alla sua funzione di punto di passaggio lungo la via commerciale che conduceva dall’Etruria alle città etrusche della Campania. La vendita del sale soffrì per il protrarsi delle ostilità con i Sabini, che controllavano il percorso che sarà noto con il nome di Via Salaria. Lo stato quasi permanente di guerra a Roma provocò continue razzie e devastazione dei campi. Al mutato quadro esterno fanno riscontro crescenti difficoltà interne: le annate di cattivo raccolto durante il V sec a.C. provocarono gravi carestie e, indebolita dalla fame la popolazione venne colpita da frequenti epidemie. La crisi economica è dimostrata anche da prove archeologiche: il numero delle ceramiche greche di importazione sembra crollare. Nella tradizione letteraria la crisi provocata dal progressivo indebitamento di ampi strati della popolazione ha un ruolo centrale nello scontro tra patrizi e plebei. Gli effetti dei cattivi raccolti e delle malattie colpivano i piccoli agricoltori che avevano minori possibilità e spesso per sopravvivere dovevano indebitarsi con ricchi proprietari terrieri. Frequentemente il debitore, incapace di estinguere il proprio debito, era costretto a porsi al servizio del creditore per ripagarlo del prestito: è l’istituto del nexum, che riduceva chi ne fosse vincolato a una condizione simile a quella di uno schiavo. Ma la sorte peggiore che poteva capitare al debitore era quella di essere venduto o messo a morte. Davanti alla crisi economica, le richieste della plebe concernevano: -una mitigazione delle norme sui debiti in particolare riguardanti il tasso massimo di interesse e la condizione dei debitori insolventi - una più equa distribuzione dei terreni di proprietà dello stato, l’ager publicus, Il problema politico Gli strati più ricchi della plebe erano meno interessati dalla crisi economica. Essi piuttosto rivendicavano una parificazione di diritti politici tra i due ordini infatti se la magistratura era stata aperta ai plebei il patriziato progressivamente ne aveva assunto pieno monopolio. Un'altra rivendicazione di ordine politico era quella di un codice scritto di leggi che ponesse i cittadini al riparo delle arbitrarie applicazioni delle norme da parte dei patrizi nel collegio dei pontefici. Le strutture militari e la coscienza della plebe Oltre ai problemi politici ed economici vi è la progressiva presa di coscienza della propria importanza da parte della plebe. Nella città antica l’esercizio dei diritti civici da parte del singolo è direttamente connesso alle sue capacità di difendere lo stato con le armi: la relazione tra diritti politici e doveri militari ha un carattere strutturale. Questa circostanza è dimostrata dall’ordinamento centuriato. Le centurie non furono solo unità di voto nell’assemblea popolare, ma rimasero unità di reclutamento dell’esercito: ciascuno doveva fornire il medesimo numero di uomini (100). Le centurie delle prime classi di censo, che comprendevano un numero limitato di cittadini, dovevano Tra le diverse spiegazioni la più lineare ritiene che nel 444-367 a.C. i consoli non siano stati sostituiti ma affiancati dai tribuni consolari: in altre parole, i due consoli, in possesso del diritto agli auspici e esclusivamente patrizi, sarebbero stati assistiti da alcuni dei tribuni militum. Il tribunato militare era già accessibile ai plebei nel V secolo ma di fatto i patrizi fino al 401 a.C. riuscirono a riservare i poteri consolari unicamente ai tribuni militum del loro ordine. Nessuna riforma pose rimedio alle difficoltà economiche della plebe. Spurio Melio, ricco plebeo che nel 440 a.C. distribuì a sue spese un forte quantitativo di grano ai poveri venne giustiziato perché la misura da lui adottata venne intesa come una mossa per assumere la tirannide. Le leggi Licinie Sestie La promulgazione del primo codice scritto di leggi e l’istituzione della nuova carica dei tribuni militari non avevano risolto il problema politico e economico. La crisi si accelerò dopo che la minaccia dei Galli si era allontanata da Roma. Nel 387 a.C. per rispondere alla fame di terra della plebe, i territori di Veio e di Capena vennero divisi e distribuiti ai cittadini romani, con la creazione di quattro nuove tribù territoriali. Pare che il provvedimento non sia stato sufficiente ad alleviare la crisi economica. Pochi anni dopo il patrizio M. Manlio Capitolino, eroe della resistenza contro i Galli, propose una riduzione o totale cancellazione dei debiti e una nuova legge agraria, sperando probabilmente di inaugurare un regime personale, ma davanti alla minaccia della tirannide Capitolino venne giustiziato. Dopo il tentativo di Capitolino, nel 376 a.C., l’iniziativa tornò ai riformisti, in particolare ai tribuni della plebe Caio Licinio Stolone e Lucio Sestio Laterano, esponenti di due ricche famiglie plebee che potevano contare sull’appoggio del patriziato. Presentarono un pacchetto di proposte per il problema dei debiti, la distribuzione delle terre dell’ager publicus e l’accesso dei plebei al consolato. I patrizi opposero resistenza e ottennero l’appoggio di qualche tribuno della plebe. Dopo una fase di anarchia politica, in cui i tribuni della plebe avrebbero impedito l’elezione dei massimi magistrati della Repubblica, Marco Furio Camillio, eroe della guerra contro Veio e vendicatore del sacco gallico, venne chiamato alla dittatura per risolvere la situazione. Le proposte di Licinio e Sestio assunseso il valore di legge. Le Leges Liciniae Sextie: 1) prevedevano he gli interessi che i debitori avevano già pagato sulle somme avute in prestito potessero essere detratti dal totale del capitale dovuto e che il debito residuo fosse estinguibile in tre rate annuali; 2) stabilivano la massima estensione di terreno di proprietà statale che poteva essere occupato da un privato; 3) sancivano l’abolizione del tribunato militare con potestà consolare e la completa reintegrazione alla testa dello Stato dei consoli, di cui uno poteva essere plebeo ma non era esclusa la possibilità che entrambi fossero patrizi. Nel 366 a.C. vennero create due nuove cariche riservate ai patrizi: - il pretore (preaetor urbanus) che aveva il compito di amministrare la giustizia tra i cittadini romani (nel 242 a.C. venne affiancato da un praetor peregrinus con il compito di dirimere le controversie che potevano opporre un cittadino romano e uno straniero); dotato di imperium, poteva essere messo alla testa di un esercito in caso di necessità; - due edili curuli, così chiamati dalla sella curulis (vi ci sedevano i magistrati patrizi) che avevano il compito di organizzare i Ludi maximi. Verso un nuovo equilibrio Le leggi Licinie Sestie del 367 a.C. segnarono la fine della fase più acuta della contrapposizione tra patrizi e plebei. Nel 342 a.C. secondo Livio un plebiscito ammise la possibilità che entrambi i consoli fossero plebei: da quell’anno vediamo però comparire regolarmente un console patrizio e uno plebeo. La prima coppia di consoli entrambi plebei compare solo nel 172 a.C. Nei decenni successivi alle leggi Licinie Sestie i plebei ebbero progressivamente accesso a tutte le altre cariche: già nel 366 a.C. si decise che gli edili curuli sarebbero stati scelti ad anni alterni tra i patrizi e i plebei; nel 356 a.C. venne nominato il primo dittatore plebeo, Caio Mario Rutilio; nel 351 a.C. Rutilio divenne il primo censore plebeo; nel 339 a.C. il dittatore plebeo Quinto Publilio Filone fece passare una legge in base alla quale il senato doveva ratificare un provvedimento legislativo prima che questo venisse votato, togliendo in pratica al senato il suo diritto di veto. Filone divenne poi il primo pretore plebeo. Nel 300 a.C., infine, un plebiscito Ogulnio consentì ai plebei l’ingresso nei collegi sacerdotali dei pontefici e degli auguri. Questo comportò il progressivo ingresso nel senato, reclutato tra gli ex magistrati. Nel 326 a.C. secondo Livio o nel 313 a.C. secondo Varrone una legge Petelia aboliva la servitù per debiti. La risposta ai problemi economici della plebe venne dalle conquiste che misero a disposizione vaste estensioni di terre, divise e assegnate individualmente o sfruttate per colonie. La censura di Appio Claudio Cieco Appio Claudio Cieco fu censore nel 312-311 a.C. Egli fece nel compilare la lista dei senatori e vi inserì alcune persone meno abbienti che non avevano ancora rivestito alcuna magistratura. Inoltre intervenì nella composizione delle tribù: il suo scopo era quello di favorire i membri della plebe urbana, che costituivano la maggioranza dei votanti, consentendo loro di iscriversi in una qualsiasi delle unità esistenti mentre in precedenza erano obbligati a registrarsi nelle sole 4 tribù urbane. Entrambe le riforme caddero nel vuoto: i consoli del 311 a.C. rifiutarono di riconoscere la nuova lista di senatori stilata da Appio Claudio; nel 304 a.C. i nuovi censori confinarono ancora una volta la plebe nelle quattro tribù urbane. Nello stesso periodo e sulla stessa linea politica di Appio Claudio, anche se non direttamente da Appio Claudio, venne introdotto, un nuovo criterio di valutazione del censo: il censo dei singoli cittadini, fino ad allora calcolato in base a terreni e capi di bestiame, a partire da questa età fu valutato anche in base al capitale mobile, in metallo prezioso, riconoscendo anche a coloro che non avevano investito in agricoltura o allevamento il proprio peso economico e quindi politico. All’edile Cneo Flavio, appartiene la decisione di pubblicare le formule giuridiche che era necessario impiegare nei processi: opera Ius civila Flavianum. Flavio avrebbe divulgato anche il calendario con i giorni fasti, durante i quali si poteva svolgere l’attività giudiziaria, e quelli nefasti, nei quali ogni attività pubblica era interdetta. Il calendario e le formule procedurali erano gli strumenti che avevano consentito una sorta di monopolio pontificale sulla giustizia. Ad Appio Claudio sono attribuite anche due opere pubbliche epocali: primo acquedotto della città e la via Appia, che congiungeva Roma a Capua (che si rivelò di importanza strategica nella guerra sannitica). La legge Ortensia Il 287 a.C. già nell’antichità veniva considerato il punto di arrivo della lotta fra patrizi e plebei. In quell’anno dopo che si era fatto ricorso per l’ultima volta alla secessione una legge Ortensia stabilì che i plebisciti votati dall’assemblea della plebe avessero valore per tutta la cittadinanza. Gli studiosi sono concordi nell’affermare che questa è la prima legge a equiparare totalmente i plebiscita alle leggi votate dai comizi. A partire dal 287 a.C. i concilia plebis tributa e i comizi tributi erano accomunati da un uguale sistema di voto per tribù e da uguali poteri. Era identica anche la loro composizione sebbene ai comizi tributi prendessero parte anche i patrizi mentre questi erano esclusi dai concilia plebis. Le due assemblee rimasero distinte dai magistrati che avevano il diritto di convocarle e presiederle: i consoli o pretori per i comizi tributi; i tribuni o gli edili della plebe per i concili plebei. La nobilitas patrizio-plebea Le leggi Licinie Sestie e le grandi conquiste della plebe chiusero per sempre l’età del dominio esclusivo sullo stato dei patrizi. Al posto del patriziato si venne formando una nuova aristocrazia, formata dalle famiglie plebee più ricche e dalle stirpi patrizie che si erano adattate meglio alla nuova situazione. A questa nuova elite si è dato il nome di nobilitas e venne a designare tutti i coloro che avevano raggiunto il consolato o che discendevano in linea diretta da un console (o un pretore). Si è conservato un manifesto degli ideali della nobilitas nell’elogio funebre di Lucio Cecilio Metello: era un buon soldato, ottimo generale, ha raggiunto le più alte cariche dello Stato, eccellente oratore, aveva acquisito grandi ricchezze in modo onorevole e aveva lasciato alla patria numerosi figli. La nobiltà patrizio-plebe si rivelò gelosa delle proprie prerogative: l’accesso a magistrature superiori era riservato ai membri di poche famiglie anche se questo monopolio non si basava su norme scritte ma sul controllo dell’opinione pubblica. La nobilitas divenne così esclusiva che per i pochi personaggi che raggiunsero i vertici della carriera politica pur non avendo antenati nobili, venne coniata una definizione specifica, homines novi. Prima di intraprendere la carriera politica un giovane romano doveva servire per almeno dieci anni nella cavalleria. Inizialmente il censo minimo per farvi parte era di 100.000 assi e poi venne elevato a 1000000 di assi: bisognava appartenere a una famiglia facoltosa. Il denaro però non era sufficiente: le assemblee elettorali erano controllate dai nobili attraverso i propri clienti. Per avere successo nelle elezioni era indispensabile ereditare la rete di clientele paterne o, nel caso degli homines novi, godere del patronato di qualche nobile influente. CAPITOLO 3: La conquista dell’Italia La situazione del Lazio alla caduta della monarchia di Roma Alla caduta della monarchia etrusca, Roma nel Lazio controllava un territorio che si estendeva dal Tevere alla regione Pontina. Tra la fine del VI e l’inizio del V secolo a.C. questa realizzazione rischiò seriamente di crollare e buona parte delle città latine approfittarono delle difficoltà interne di Roma per affrancarsi dalla sua egemonia. Le città latine si strinsero in una lega i cui membri condividevano alcuni diritti: 1. ius connubi: diritto di contrarre matrimoni legittimi tra cittadini di altre comunità latine; 2. ius commercii: diritto di siglare contratti aventi valore legale fra cittadini appartenenti a comunità diverse; 3. ius migrationis: grazie al quale un latino poteva assumere i pieni diritti civici in una comunità diversa dalla sua semplicemente prendendovi residenza. La battaglia del Lago Regillo e il foedus Cassianum La Lega latina sconfisse il figlio di Porsenna, Arrunte, nella battaglia di Aricia. Qualche anno dopo la Lega attaccò Roma e secondo la tradizione la guerra fu suscitata da Ottavio Mamilio di Tusculo, con la speranza di ricollocare sul trono di Roma il proprio suocero, Tarquinio il Superbo. In una leggendaria battaglia nel 496 a.C. sul lago Regillo i romani sconfissero la lega e Tarquinio uscì di scena e finì i suoi giorni a Cuma. Il trattato Cassiano siglato da parte romana dal console Cassio nel 493 a.C. prevedeva un accordo bilaterale tra Roma e la Lega Latina: le due parti si impegnavano non solo a mantenere tra di loro la pace e a comporre amichevolmente eventuali dispute commerciali ma anche a prestarsi aiuto nel caso una delle due parti fosse stata attaccata e l’eventuale bottino sarebbe stato equamente suddiviso. Gli alleati si riconoscevano i 3 diritti della lega latina. Tra gli strumenti più efficaci con cui gli alleati riuscirono a consolidare le proprie vittorie militari e a distribuire equamente i frutti della conquista è da ricordare la fondazione di colonie sul territorio strappato ai nemici. I cittadini dei nuovi centri provenivano sia da Roma sia dalle altre comunità latine e spesso venivano inglobati anche gli abitanti originari della località colonizzata. Si deve parlare di colonie latine infatti queste entravano a far parte della Lega e godevano dei diritti corrispondenti. Nel 486 a.C. Roma si alleò con gli Ernici, popolazione che abitava la valle del fiume Sacco, a sud-est di Roma, in un territorio incuneato tra i due popoli ostili, Equi e Volsci. I conflitti con Sabini, Equi e Volsi L’alleanza stretta da Roma con la Lega Latina e gli Enici si rivelò preziosa per fronteggiare la minaccia proveniente da tre popolazioni che dagli Appennini premevano verso occidente: i Sabini, Equi e Volsci. Questo movimento faceva parte di un moto più generale che coinvolse quasi tutta l’Italia tra la fine del VI e l’inizio del V secolo di cui furono protagoniste popolazioni italiche definite osco-sabelliche. Le loro sedi originarie, nelle regioni dell’Appennino centrale e meridionale, non erano in grado di assicurare sopravvivenza di popoli con forte indice di crescita demografica: l’unica soluzione risiedeva nella migrazione verso terre più fertili che assume la forma della cosiddetta, primavera sacra. Le fonti riportano un serie interminabile di conflitti tra Roma e le popolazioni montanare e l’esito fu spesso favorevole a Roma anche se non si giunse mai a una svolta definitiva. - Volsci: discesi dagli Appenini verso la fine del VI secolo a.C., riuscirono ad occupare la parte meridionale del Lazio, un tempo parte del regno di Tarquinio il superbo. il militarismo e l’estendersi dello Stato romano sono stati analizzati nel più vasto panorama di un’“anarchia interstatale multipolare” mediterranea entro cui gli stati lottavano per il potere tramite la guerra, in un sistema di rapporti internazionali rudimentali: tale situazione sarebbe stata destinata a durare all’infinito in mancanza di uno stato prevalente. La capacità di Roma sarebbe stata quella della costruzione di un sistema di relazioni a formula multipla rivelatosi vincente rispetto a quelli messi in atto delle altre potenze. Roma ebbe successo per la sua superiorità nel creare e nel gestire una rete di alleati e nella sua capacità di coinvolgere numerosi stranieri nella sua stessa politica. Ne scaturisce la cosiddetta confederazione romano-italica, un sistema per cui gli eserciti erano costituiti per meno di un terzo da cittadini romani e per oltre due terzi da forze alleate (socii o amici). In uno stato di anarchia diffusa, le alleanze di stati sotto seria minaccia tendono ad essere stipulate con la grande potenza ritenuta meno incombente. Un caso tipico è la richiesta di aiuto di Capua ai Romani del 343 a.C.: Roma non era meno pericolosa dei Sanniti, semplicemente meno incombente. Il primo confronto con i Sanniti La posizione di potere raggiunta da Roma nel Lazio, trovò espressione nel trattato che venne concluso con i Sanniti nel 354 a.C. nel quale il confine tra le zone di egemonia delle due potenze veniva fissato al fiume Liri. I Sanniti occupavano un’area più vasta di quella di Roma che si estendeva lungo la catena appenninica tra i fiumi Sangro e Ofanto. Il terreno consentiva lo sfruttamento agricolo ed era particolarmente adatto alla pastorizia ma era relativamente povero e incapace di sostenere una crescita demografica infatti l’unico rimedio alle carestie era la migrazione verso terre più fertili. Dal punto di vista politico il Sannio era organizzato in pagi (cantoni) entro i quali si trovavano uno o più vici (villaggi), governati da un magistrato elettivo chiamato meddiss. Più pagi costituivano una touto (tribù), alla testa della quale si trovava un meddiss toutiks. Le quattro tribù dei Carricini, Pentri, Caudini e Irpini formavano la lega Sannitica che possedeva una sorta di assemblea federale e poteva nominare, in caso di guerra, un comandante supremo. Nel corso del V secolo alcune popolazioni staccatesi dai Sanniti avevano occupano le ricche regioni costiere della Campania: qui sotto l’influenza degli Etruschi e dei Greci, si allontanarono progressivamente dalla cultura sannitica, adottando l’organizzazione politica della città-stato. Alcune di esse nella prima metà del IV secolo si riunirono in una Lega campana, con centro a Capua. I contrasti tra Sanniti e Campani si acuirono e la tensione sfociò in guerra aperta nel 343 a.C. quando i Sanniti attaccarono la città di Teano, nella Campania settentrionale, abitata dai Sidicini che si rivolsero per aiuto alla Lega campana, e in particolare a Capua, che chiese aiuto a Roma. La decisione di attaccare i Sanniti, pur avendo da poco concluso un trattato, venne presa, secondo Livio, quando i Capuani, disperati, decisero di consegnarsi totalmente a Roma mediante un atto di deditio. Più probabile è che a Roma si giudicasse imperdibile l’occasione che si offriva di impadronirsi della regione più fertile e ricca d’Italia. La prima guerra sannitica 343-341 a.C. si risolse rapidamente con un parziale successo dei Romani che sconfissero il nemico a Capua già nel primo anno di guerra. D’altra parte però Roma non furono in grado di proseguire energicamente l’offensiva a causa di una rivolta dell’esercito impegnato in Campania, dunque acconsentì alla pace offerta dai Sanniti nel 341 a.C.: ill trattato rinnovava l’alleanza del 354, riconoscendo a Roma la Campania e ai Sanniti Teano. La grande guerra latina L’accordo del 341 a.C. portò a un sorprendente ribaltamento delle alleanze, costringendo Roma, sostenuta dai Sanniti a fronteggiare Latini, Campani, Sidicini, Volsci e Aurunci. L’insoddisfazione di Campani e Sidicini per gli esiti della prima guerra sannitica si saldò alla volontà dei Latini di distaccarsi dall’alleanza soffocante con Roma e al desiderio dei Volsci di prendersi una rivincita. Quanto agli Aurunci forse avevano paura di trovarsi accerchiati. Il conflitto (341-338 a.C.) noto come grande guerra latina, fu durissimo ma vinse Roma. La Lega latina venne disciolta: alcune città vennero incorporate nello stato romano come municipi, altre conservarono la loro indipendenza formale e i consueti 3 diritti ma non poterono più intrattenere alcuna relazione tra di loro. Alle vecchie città latine si vennero ad aggiungere nuove colonie latine, fondate da Roma e composte sia da cittadini romani che da alleati: questi acquistavano cittadinanza della nuova colonia insieme ai diritti. Lo status di Latino perdette connotazione etnica e venne a designare una condizione giuridica in rapporto con i cittadini romani. I Latini furono obbligati a fornire truppe a Roma in caso di necessità. Inoltre ottennero il diritto di voto nelle assemblee popolari di Roma nel caso si fossero trovati in città nel momento in cui venivano convocati i comizi, pratica che è attestata per la prima volta nel 212 a.C. La nuova concezione dello status latino è dimostrata dal caso di due città che si erano ribellate a Roma, Tivoli e Preneste: nonostante i loro abitanti fossero di etnia latina, vennero privati dei 3 diritti e divennero semplici alleati di Roma. Il rapporto con gli alleati veniva creato da trattati che, pur lasciando loro una completa autonomia interna, le legavano a Roma per la politica esterna e le obbligavano a fornire le truppe in caso di guerra a proprie spese. Ciò consentì a Roma di ampliare la propria egemonia e il proprio potenziale militare senza per questo costringerla ad assumersi i compiti di governo locale. Al di fuori del Lazio, nelle città dei Volsci e dei Campani, Roma concedette una forma parziale di cittadinanza romana: civitas sine suffragio. I titolari erano tenuti agli stessi obblighi dei cittadini romani, tra cui servizio di leva e pagamento tributum, ma non avevano diritto di voto e non potevano essere eletti alle magistrature. Conservavano un’ampia autonomia interna. Ad Anzio infine venne creata una piccola colonia i cui abitanti conservarono la piena cittadinanza romana. Nei decenni seguenti verranno fondate altre colonie fondate sul modello di Anzio, generalmente sui 300 coloni e destinate a sorvegliare le coste. Alla conclusione della grande guerra latina, Roma possedeva tutte le regioni che andavano dalla sponda sinistra del Tevere a Nord, al golfo di Napoli a sud, dal Tirreno a ovest, ai contrafforti degli Appennini a est: un territorio non tanto ampio quanto quello dei Sanniti ma più ricco e popolato. La seconda guerra sannitica La fondazione di colonie di diritto latino a Cales e a Fregelle, che i Sanniti consideravano di propria pertinenza, provocò una nuova crisi nei rapporti tra le due potenze. La causa concreta della seconda guerra sannitica (326-304 a.C.) è da ricercare nelle divisioni interne di Napoli, dove si fronteggiavano le masse popolari, favorevoli ai Sanniti e le classi più agiate, filoromane. I romani sconfissero la guarnigione dei Sanniti a Napoli e conquistarono la città, ma non riuscirono a penetrare nel Sannio: nel 321 a.C. i romani vennero circondati al passo delle Forche Caudine e costretti alla resa. Per compensare la perdita di Cales e Fregelle, avvenuta a seguito della sconfitta del 321 i Romani, dopo vi fu un’interruzione nelle operazioni militare, rinforzarono le posizioni in Campania, creando due nuove tribù e allacciando una serie di rapporti con comunità dell’Apulaia e della Lucania sperando di isolare e circondare la Lega sannitica. Le ostilità si riaccesero nel 316 a.C. quando i Romani attaccarono la località di Saticula, tra Campania e Sannio. Le prime operazioni furono favorevoli ai Sanniti che nel 315 a.C. conseguirono un’importante vittoria a Lautulae, interrompendo le comunicazioni tra Campania e Lazio. Nell’anno successivo però Roma iniziò a recuperare il terreno perduto con una strategia a lungo termine impensabile per i Sanniti. Saticula fu riconquistata nel 315 a.C., Fregelle venne ripresa e le comunicazioni con la Campania ristabilite e migliorate; una serie di colonie latine iniziarono a cingere il Sannio in una sorta di assedio. Roma procedette a preparare il suo esercito al confronto finale con i Sanniti: lo schieramento a falange, adatto in una pianura senza ostacoli, si era rivelato incapace di manovrare su un terreno accidentato come quello del Sannio. La legione venne suddivisa in 30 reparti (manipoli), risultato della riunione di due centurie dove una era formata da 60 soldati. La legione era schierata su tre linee, ciascuna delle quali composta da 10 manipoli: i primi ad affrontavano il nemico erano i principes, poi gli hastati e i triarii. Nel corso del tempo l’ordine di schieramento delle tre linee era destinato a mutare. L’ordinamento manipolare era in grado di assicurare una maggiore flessibilità all’esercito romano impegnato nelle regioni montuose dell’Italia centro-meridionale. Negli stessi anni cambiò anche l’equipaggiamento dei legionari che adottarono lo scudo rettangolare e il giavellotto in uso presso gli stessi Sanniti. Le differenze nell’armamento dei soldati appartenenti alle diverse classi censitarie, sensibili nei primi eserciti della Roma repubblicana andarono progressivamente diminuendo. Roma fu così in grado di affrontare una minaccia su due fronti: a sud contro i Sanniti, a nord contro una coalizione di Stati etruschi tra i quali verosimilmente le maggiori città dell’Etruria interna erano costrette a siglare una tregua nel 308 a.C. Scongiurato per il momento il pericolo etrusco gli eserciti romani poterono concentrare il proprio sforzo contro il Sannio, coronato dalla conquista di Boviano, uno dei centri più importanti dei Sanniti e dalla pace del 304 a.C. Il trattato di alleanza tra Roma e i Sanniti del 354 a.C. venne rinnovato, e Roma tornò definitivamente in possesso di Fregelle e Cales. I vantaggi territoriali più consistenti si ebbero negli Appennini centrali a seguito delle operazioni militari che accompagnarono l’ultima fase della seconda aguerra sannitica: 1 Gli Ernici, accusati di ribellione, vennero inglobati nello Stato Romano come cittadini senza diritto di voto; 2 Gli Equi furono sterminati e nel loro territorio venne insediata una nuova tribù romana; 3 Le popolazioni minori osco-sabelliche che abitavano nell’odierno Abruzzo strinsero vari trattati di alleanza con Roma. La terza guerra sannitica La sconfitta del 304 a.C. era stata grave ma non aveva del tutto indebolito i Sanniti. Lo scontro si riaprì nel 298 a.C. quando i Sanniti attaccarono i Lucani. I romani di accorsero in aiuto degli aggrediti con i quali stipularono un trattato, ma la guerra contro i Sanniti si spostò a nord. Qui il comandante dei Sanniti, Gellio Egnazio, era riuscito a mettere in piedi una potente coalizione antiromana (Etruschi, Galli e Umbri). Nel 295 a.C. a Sentino gli eserciti riuniti dei due consoli romani, Quintio Favio Rulliano e Publio Decio Mure, riuscirono a prevalere su Sanniti e Galli, approfittato dell’assenza degli etruschi e degli umbri e potendo contare su contingenti di alleati superiori al numero stesso dei legionari romani. I Sanniti, battuti anche ad Aquilona nel 293 a.C., incapaci di reagire alla fondazione della colonia latina di Venosa e alla distruzione del Sannio furono obbligati a chiedere la pace nel 290 a.C. A nord i Galli, alleati con alcune città etrusche, tentarono di penetrare nell’Italia centrale ma furono bloccati nel 283 a.C. nella battaglia del lago Vadimone. La controffensiva romana colpì dapprima le città dell’Etruria meridionale, poi settentrionale e poi l’Umbria. Queste operazioni militari sono poco note a causa della perdita della narrazione di Livio (finisce nel 293) e di Diodoro Sicurolo (possediamo solo periodo posteriore al 302). Nella marcia verso l’Adriatico, nel 290 vennero sconfitti i Sabini e i Pretuzzi che abitavano nella regione corrispondente all’Abruzzo settentrionale. Parte del loro territorio fu usato per dedurvi la colonia latina di Hadria; agli altri abitanti dell’ager Praetuttiorium venne concessa la cittadinanza senza diritto di voto, come ai Sabini. Nell’Adriatico settentrionale venne annesso il territorio dei Senoni. Nella parte settentrionale di questa regione (ager Gallicus) venne fondata la colonia di Rimini nel 268 a.C. I Piceni, che abitavano nelle attuali Marche centro-settentrionale, vistisi ormai circondati da ogni parte tentarono una guerra contro Roma nel 269: dopo pochi anni furono costretti alla resa. In parte furono deportati e in parte ricevettero la civitas sine suffragio. Conservarono la propria autonomia Ascoli e la greca Ancona; la conquista del Piceno venne consolidata con la creazione della colonia a Fermo nel 264 a.C. Il risultato di queste operazioni militari fu l’ampliamento dei confini del territorio sotto il controllo di Roma lungo la linea che andava dall’Arno a Rimini. La guerra contro Taranto e Pirro Nel mezzogiorno d’Italia i Sanniti non erano definitivamente domati, alcune popolazioni loro affini come i Lucani e i Bruzi, conservavano la loro indipendenza, così come la più ricca e potente città greca Taranto. Secondo un trattato del IV sec, Roma era impegnata a non penetrare nelle acque del golfo di Taranto. Nel 282 a.C. Turi, una città greca sulle rive calabresi del golfo, minacciata dai Lucani, richiese l’aiuto di Roma. Nelle successive operazioni in difesa dei Turini, i Romani insediarono una guarnigione nella città e inviarono una flotta davanti alle acque di Taranto. Di fronte a questa minaccia, a Taranto prevalse la fazione democratica, ostile a Roma, sull’aristocrazia “filo-romana”. I tarantini attaccarono le navi romane e poi marciarono su Turi, espellendone la guarnigione romana e la guerra divenne inevitabile. Taranto face ricorso a Pirro, re dei Molossi e comandante della Lega epirotica: questa scelta era del tutto logica infatti l’Epiro (Grecia nord-occidentale/Albania meridionale) si trovava proprio sulla costa antistante la Puglia; inoltre Pirro era un generale di eccezionali qualità e di grandi ambizioni. Con abile mossa politica, il re diede alla spedizione il carattere di una crociata in difesa dei Greci d’Occidente, minacciati dai barbari romani e cartaginesi, procurandosi l’appoggio di tutte le potenze ellenistiche. Nella sua azione propagandistica Pirro: state incorporate dallo Stato romano o legate da trattati che prevedevano l’invio di truppe ma non il pagamento di un’imposizione in denaro e lasciavano alla comunità sociale una larga autonomia interna. In Sicilia la strategia intrapresa fu diversa: alle comunità ex cartaginesi venne imposto il pagamento di un tributo annuale, consistente in una parte del raccolto di cereali di cui la Sicilia era grande produttrice. L’amministrazione della giustizia, il mantenimento dell’ordine interno e la difesa dalle aggressioni esterne nei nuovi possedimenti siciliani vennero affidati a un magistrato romano inviato annualmente nell’isola, inizialmente a uno dei quattro questori della flotta (quaestores classici) creati nel 267 a.C. A partire dal 227 a.C. vennero eletti due nuovi pretori, che si affiancarono al pretore urbano e pretore peregrino: uno dei due magistrati venne inviato in Sicilia, l’altro in Sardegna, da poco caduta in potere di Roma. Da questo momento il termine provincia che originariamente indicava la sfera di competenza di un magistrato viene ad assumere progressivamente il significato di territorio soggetto all’autorità di un magistrato romano. La prima provincia romana di Sicilia non si estendeva sull’intera isola infatti esistevano ancora Stati indipendenti tra cui il regno siracusano di Ierone e l’alleata Messina. Tra le due guerre Il periodo che va dalla fine della I guerra punica (241 a.C.) allo scoppio della seconda (218 a.C.) vide un consolidamento delle posizioni delle due grandi avversarie. Per Cartagine i primi anni dopo la sconfitta furono per la verità drammatici. La città non era in grado di assicurare il pagamento delle numerose truppe mercenarie e i mercenari si ribellarono, coinvolgendo alcune popolazioni dell’Africa soggette a Cartagine. La rivolta fu soffocata a caro prezzo da Amilcare Barca. Quando i Cartaginesi allestirono una spedizione per recuperare la Sardegna, dove pure le guarnigioni dei mercenari si erano ribellate, si dovettero scontrare con l’opposizione di Roma. Cartagine fu accusata di voler aprire le ostilità contro Roma, che si dichiarò pronta a dichiarare guerra, ma i cartaginesi, che non erano pronti ad un conflitto si piegarono a Roma accettando di pagare un indennizzo supplementare e cedere la Sardegna che, insieme alla Corsica, andò a formare la seconda provincia romana dopo la Sicilia. Pochi anni dopo Roma intervenne nell’Adriatico. Qui il regno di Illiria, approfittando del declino dell’Epiro e della morte di Pirro, aveva esteso a sud la sua influenza sulla costa dalmata. Le scorrerie dei pirati illiri, spesso frutto di iniziative personali, arrecavano danni considerevoli alle città greche della costa orientale dell’Adriatico e ai numerosi mercanti italici. In risposta alle richieste d’aiuto, il senato inviò energiche proteste alla regina degli Illiri, Teuta e, davanti al rifiuto della regina di far cessare le azioni ostili dei suoi sudditi, decise di dichiarare guerra ne 229 a.C. La prima guerra illirica si risolse a favore di Roma: Teuta fu costretta a cedere la reggenza, agli Illiri fu proibito di navigare con più di due navi, disarmate a sud della località di Lissus e dovettero rinunciare a ogni pretesa sulle città greche, che divennero protettorato di Roma. Demetrio, collaboratore di Teuta, era passato dalla parte di Roma e venne ricompensato con possedimenti nell’isola dalmata di Faro. Qualche anno dopo Roma intervenne nuovamente in Illiria, a seguito di atti ostili intrapresi da Demetrio, di cui si temeva alleanza con il re di Macedonia Filippo V. Durante la seconda guerra illirica Demetrio fuggì presso Filippo V e Faro entrò nel protettorato romano. Si gettarono così le premesse per le ostilità tra Roma e la Macedonia. Maggiori sforzi richiese la conquista dell’Italia settentrionale. L’attenzione di Roma venne richiamata da un’incursione di Galli, che si arrestò davanti alla colonia latina di Rimini nel 236 a.C. Il tribuno della plebe Caio Flaminio propose di distribuire a singoli cittadini romani l’ager Gallicus: provvedimento consentiva di sorvegliare meglio il corridoio adriatico attraverso il quale i Galli potevano penetrare nell’Italia centrale, oltre ad avere risvolti politici e sociali. Per questo motivo la Legge Flaminia destò l’allarme dei Galli Boi, abitanti delle regioni intorno a Bologna e fu una delle cause della prossima guerra gallica che scoppiò poco dopo. Nello scontro, i Boi e gli Insubri (Gallia Cisalpina) ottennero l’appoggio di truppe provenienti dalla Transalpine, i Gesati, mentre i Galli Cenomani del territorio bresciano e i Veneti si schierarono dalla parte di Roma. I Galli riuscirono penetrare in Etruria e a ottenere qualche successo, ma nel 255 furono annientati a Telamone. A Roma ci si rese conto che la conquista della pianura padana era possibile e necessaria per allontanare definitivamente i galli: la breve ma violenta campagna si concluse con la vittoria sugli Insubri a Casteggio nel 222 a.C. e con la conquista del loro centro principale, Mediolanum (attuale Milano). La fondazione di due colonie latine, Piacenza e Cremone, doveva consolidare la conquista. All’indomani della vittoria della seconda guerra punica Roma procedette alla definitiva sottomissione della pianura padana, che aprì un territorio vasto e fertile agli emigranti originari dell’Italia centrale e meridionale, con la fondazione di numerose colonie, tra cui Aquileia nel 181 a.C. con la sua grande importanza strategica. Fondamentale per il consolidamento fu la costruzione di una rete stradale: 220 a.C. via Flaminia, da Roma a Rimini; 187 a.C. via Emilia, da Rimini a Piacenza; 148 a.C. via Postumia, da Genova ad Aquileia. Nel frattempo Cartagine si era ripresa e cercava di costruire una nuova base per la sua potenza in Spagna: la conquista della Spagna sembrava quasi un affare privato della famiglia Barca infatti le operazioni furono condotte da Amilcare, poi dal genero Asdrubale e infine da Annibale, figlio di Amilcare, ma questo non significa che i Barca non avessero il consenso del governo cartaginese. L’avanzata dei Barca destò l’allarme della città greca di Marsiglia che aveva interessi economici nella Spagna settentrionale, e di Roma, di cui Marsiglia era alleata. Nel 226 a.C. un’ambasceria del senato concluse con Asdrubale un trattato secondo il quale, per Polibio, gli eserciti Cartaginesi non potevano oltrepassare a nord il fiume Ebro, mentre per Livio il fiume venne riconosciuto come confine, implicando che anche i Romani non lo dovessero superare verso sud. Un potenziale elemento di contrasto tra Roma e Cartagine era costituito dal trattato di alleanza stretto da Roma con Sagunto, a sud dell’Ebro. La seconda guerra punica La sconfitta del 241 e l’umiliazione della presa della Sardegna da parte di Roma, avevano creato a Cartagine un forte sentimento di rivincita contro Roma. La questione di Sagunto fu abilmente sfruttata da Annibale per far esplodere il conflitto nel momento che egli riteneva più favorevole. I Saguntini, minacciati, chiesero aiuto a Roma ma la risposta del senato non era pronta e Roma si preparò concretamente alla guerra solo quando Annibale aveva già espugnato Sagunto nel 218 a.C. Il piano di Annibale era staccare da Roma i suoi alleati italici, infatti Roma doveva la vittoria nella prima guerra punica all’immenso potenziale umano e finanziario assicurato dal suo dominio sull’Italia. Dal momento che dopo il trattato di pace i cartaginesi avevano un’assoluta inferiorità nelle forze navali l’invasione dell’Italia poteva avvenire solamente via terra, attraverso le frontiere settentrionali dove Annibale sperava di guadagnare l’appoggio delle tribù galliche da poco sottomesse da Roma. Annibale partì nella primavera del 218 da Nova Carthago, con un esercito rafforzato dalle truppe spagnole e ben allenato alla disciplina militare dalle dure campagne in Spagna. Valicati i Pirenei Annibale riuscì ad evitare lo scontro con i romani di Publio Cornelio Scipione, inviato in Spagna per intercettarlo. L’esercito cartaginese attraversò le Alpi, con gravi perdite ma ottenne il sostegno dei Boi e degli Insubri. Sul fiume Ticino le superiori forze di cavalleria cartaginesi prevalsero su quelle romane. Il primo grande scontro si ebbe sul fiume Trebbia dove Annibale sconfisse gli eserciti di Scipione e del suo collega nel consolato Tiberio Sempronio Longo. Nel 219 Annibale riuscì a eludere gli eserciti romani che tentavano di bloccare il passaggio degli Appennini e a sorprendere le truppe del console Caio Flaminio al lago Transimeno. L’esercito romano venne annientato e Flaminio fu tra le vittime. A Roma iniziò a farsi strada l’idea che fosse impossibile sconfiggere Annibale in campo aperto, idea sostenuta anche da Quinto Fabio Massimo, nominato dittatore. Secondo Fabio era necessario evitare le battaglie e impedire che giungessero degli aiuti: la scarsità di mezzi e uomini avrebbe costretto Annibale ad arrendersi Per questo motivo Fabio Massimo fu detto il Cunctator, cioè il temporeggiatore. La strategia di Fabio Massimo alla lunga avrebbe portato alla vittoria, ma a breve significava la devastazione dell’Italia da parte dell’esercito cartaginese. Scaduti i 6 mesi di dittatura, a Roma si decide di passare nuovamente all’offensiva ma nel 216 a.C. Annibale annientò l’esercito romano a Canne la battaglia è considerata un capolavoro di arte militare, il più riuscito esempio di manovra di accerchiamento compiuta da un esercito numericamente inferiore agli avversari. La guerra sembrava persa per Roma: numerose comunità del sud defezionarono. Nel 215 a.C. Ierone di Siracusa morì e gli successe il nipote Ieronimo che decise di schierarsi dalla parte di Cartagine. Nello stesso anno i Romani vennero a conoscenza di un patto di alleanza tra Annibale e Filippo V di Macedonia, le cui ambizioni nell’Adriatico meridionale alimentate da Demetrio di Faro, erano ostacolate dal protettorato romano su alcune città greche. Gli alleati dell’Italia centrale rimasero fedeli e il ritorno della strategia di Fabio Massimo, consentì a Roma di riguadagnare posizioni nel Mezzogiorno. Nel 212 anche Taranto si schierò dalla parte dei Cartaginesi, ma un piccolo presidio romano continuò a occupare la cittadella e sorvegliare il porto, impedendo l’invio di rinforzi via mare ad Annibale. Nel 211 romani riconquistarono Capua e nel 212 Siracusa, grazie anche a un’epidemia che decimò l’esercito cartaginese giunto in soccorso. Nell’Adriatico 50 quinquiremi furono sufficienti per impedire un’invasione dell’Italia di FIlippo V e il suo congiungimento con Annibale. Roma riuì a paralizzare l’azione del re macedone creando una coalizione di Stati greci a lui ostili, tra i quali primeggiava la Lega etolica. Quando apparve chiaro che gli Etoli intendevano rinunciare alla lotta, Roma si affrettò a stipulare una pace, nota come pace di Fenice (205 a.C.) che lasciava immutato il quadro territoriale. Dopo la sconfitta sul fiume Trebbia, Scipione aveva raggiunto il fratello Cneo in Spagna e i due riuscirono a impedire che Annibale ricevesse aiuti dalla Spagna. Nel 211 combatterono contri i cartaginesi e vennero sconfitti e uccisi. I Romani riuscirono a ritirarsi con quanto rimaneva del loro esercito e a difendere la Spagna settentrionale fino a quando venne nominato comandante delle truppe in Spagna il figlio omonimo di Publio Cornelio Scipione che sarà noto col cognomen l’Africano. Il giovane venne scelto da un’assemblea popolare in virtù delle sue qualità personali. Nel 209 si impadronì della principale base cartaginese nella penisola iberica, Nova Carthago e sconfisse Asdrubale, fratello di Annibale, a Baecula. Asdrubale tentò di portare aiuto al fratello in Italia, ma la spedizione cartaginese venne bloccata dall’esercito romano e distrutta sul fiume Metauro nel 207 a.C. dove Asdrubale stesso cadde in battaglia. Annibale, ormai impotente, si vide costretto a ritirarsi nel Bruzio. Scipione nel frattempo sconfiggeva in modo decisivo gli eserciti cartaginesi di Spagna nella battaglia di Ilipa nel 206 a.C. Tornato in Italia, Scipione fu eletto console per il 205 e iniziò i preparativi per l’invasione dell’Africa: fondamentale per Roma fu l’alleanza con Massinissa, re dei Massili, in rivolta con Cartagine. Lo sbarco in Africa avvenne nel 204 e nell’anno seguente Scipione e Massinissa ottennero un’importante vittoria nella battaglia dei Campi Magni. Le trattative di pace fallirono per via delle dure condizioni dettate da Scipione, che mirava a eliminare per sempre la minaccia punica e per le speranze suscitate a Cartagine dal ritorno di Annibale. La battaglia che pose fine al conflitto si svolse nel 202 nei pressi della città di Zama dove la cavalleria numida dei Massinissa diede la vittoria ai romani. Il trattato di pace, siglato nel 201, prevedeva la consegna di tutta la flotta cartaginese tranne 10 navi, e il pagamento di una forte indennità. Cartagine inoltre doveva rinunciare ai possedimenti al di fuori dell’Africa e riconoscere ai suoi confini un potente regno di Numidia governato da Massinissa. Inoltre i Cartaginesi non avrebbe potuto dichiarare guerra senza il permesso di Roma. La seconda guerra macedonica Pochi anni dopo la conclusione della guerra contro Cartagine Roma si impegnò nel conflitto contro Filippo V di Macedonia. La coalizione di Stati greci aveva permesso a Roma di limitare il suo sforzo militare in Oriente e di concentrarsi contro Cartagine, ma aveva creato una rete di relazioni con alcuni Stati greci, tra i quali la Lega etolica, il regno di Pergamo e Atene, che inevitabilmente finì per coinvolgere Roma nel quadro politico dell’Oriente ellenistico. Causa della guerra fu soprattutto l’attivismo di FIlippo V nell’area dell’Egeo e sulle coste dell’Asia Minore che lo portarono a scontrarsi con il regno di Pergamo e la repubblica di Rodi. Le tensioni sfociarono nel 201 in una guerra aperta: Filippo fu battuto in una battaglia navale, ma poco dopo riuscì a infliggere una sconfitta alla flotta rodia a Lade. I coalizzati compresero che da soli non sarebbero riusciti ad allontanare la minaccia macedone, né potevano rivolgersi alle altre due grandi potenze ellenistiche: il re di Siria Antioco III aveva stabilito una sorta di intesa con Filippo V e l’Egitto, in difficoltà interne, era impegnato ad arginare l’ostilità della Siria stessa. Così si rivolsero a Roma. A Roma dopo un acceso dibattito le voci contrarie ad una nuova guerra furono soverchiate da un complesso di fattori: i timori di un’invasione dell’Italia; il desiderio di trovare in Macedonia terreno di gloria e di trionfi militari; la volontà di vendetta contro un sovrano che aveva colpito Roma in un momento difficile, alleandosi con Annibale all’indomani di Canne. Si inviò un ultimatum a Filippo, in cui gli si intimava di rifondere i danni di guerra inflitti agli alleati di Roma e di astenersi dall’attaccare gli Stati greci: probabilmente mossa propagandistica per presentare Roma come protettrice della Grecia, dato che la guerra era già stata dichiarata e che il senato difficilmente sarebbe tornato sui suoi passi anche se Filippo avesse accolto le richieste. Filippo comunque rifiutò l’ultimatum e la mossa diplomatica di Roma le valse il sostegno di alcuni Stati, tra cui Atene, militarmente ininfluente ma pur sempre la città più prestigiosa della Grecia. Alla fine del 200 a.C. l’esercito romano sbarcò in Apollonia. I primi due anni di guerra trascorsero senza che vi fossero azioni decisive: la Lega etolica decise comunque di aggiungersi alla coalizione antimacedone. Una svolta venne impressa nel 198 a.C. dal giovane comandante delle forze romane, Tito Quinzio Flaminio. Filippo dovette sgombrare le posizioni fortificate nella gola del fiume Aoo che sbarravano la strada per la Macedonia, ma un successo ancora maggiore si ebbe quando Flaminio nelle trattative di pace chiese la liberazione della Tessaglia, una regione che era sotto il dominio della monarchia macedone dai tempi di Filippo II. La richiesta venne respinta, ma destò grande ridotta a provincia romana e il suo governatore poteva intervenire per regolare le questioni greche. Tutte le leghe vennero sciolte e ovunque furono imposti regimi aristocratici di provata fedeltà. La terza guerra punica Dopo la rovinosa sconfitta nella seconda guerra punica, Cartagine si era ripresa con sorprendente rapidità almeno dal punto di vista economico infatti saldò con largo anticipo il pagamento della fortissima indennità di guerra, e fornì cereali per gli eserciti romani e Roma stessa. Inoltre Annibale fu costretto alla fuga in Oriente e il nuovo governo cartaginese aveva mostrato lealtà nei confronti d Roma. Un elemento che potenzialmente poteva turbare la situazione dell’Africa settentrionale era costituito dalle dispute tra la Numidia di Massinissa e Cartagine. Il re numida, approfittando del fatto che i limiti del suo stato non fossero stati fissati con precisione, avanzò pretese sempre più ambiziose su territori appartenenti al vicino. Cartagine non avendo potere di dichiarare guerra si rivolse a Roma, rimanendo il più delle volte delusa. Nel 151, dopo che Massinissa aveva inglobato alcuni territori dai Numidi, venne inviato un esercito cartaginese contro Massinissa, che venne però fatto a pezzi. La palese violazione della clausola diede voce a coloro che da tempo a Roma volevano la distruzione di Cartagine. Giocarono un ruolo nella decisione sia l’irrazionale timore che Cartagine potesse diventare ancora una volta un grave pericolo forse coalizzando le forze romane ancora presenti nel Mediterraneo, sia la costatazione che il conquistatore di Cartagine avrebbe acquistato per sé una gloria imperitura e per lo Stato romano un bottino immenso e un territorio fertilissimo. Nel 149 un imponente esercito sbarcò in Africa. I cartaginesi per evitare una guerra perduta in partenza acconsentirono a cedere una notevole quantità di armamenti. Quando i consoli che comandavano l’esercito romano chiesero di abbandonare la città loro decisero di resistere. Quella che si pensava potesse essere una facile azione militare si trasformò in un lungo assedio durato 3 anni sotto il comando di Publio Cornelio Scipione Emiliano entrato per adozione nella famiglia degli Scipioni. La città fu saccheggiata e rasa al suolo e il suo territorio trasformato nella nuova provincia d’Africa. La Spagna Roma nel medesimo lasso di tempo in cui aveva annientato le due potenti monarchie, la Macedonia e la Siria, ridotto all’obbedienza tutti gli stati dell’oriente ellenistico e distrutto la grande Cartagine non era riuscita a venire a capo della situazione in Spagna. All’indomani della seconda guerra punica i Romani si erano stabiliti in due zone distinte della penisola iberica: nel meridione intorno a Cadice e nel settentrione nella zona costiera a nord dell’Ebro. Nel 197 le due aree vennero organizzate come province di Spagna, Spagna Citerione a nord e Spagna Ulteriore a sud, governate da due pretori appositamente eletti. Le comunità spagnole soggette a Roma dovevano pagare un tributo, stipendium, e fornire truppe ausiliarie. La penetrazione verso l’interno fu lenta e difficile, ci furono numerose sconfitte e vittorie mai decisive: tra i legionari romani e le truppe degli alleati italici si diffondeva il malcontento per una guerra sporca, senza gloria, senza bottino e senza fine, malcontento che sfociò in episodi di resistenza alla leva. Nel 149 i romani crearono un tribunale speciale incaricato di giudicare il reato di concussione, la quaestio perpetua de repetundis, che tuttavia estese le sue competenze su tutti i casi di abuso di potere da parte di governatori provinciali. L’atteggiamento assunto da due governatiri delle province spagnole dimostra la varietà di approcci tentati da Roma: -Catone, avversario degli Scipioni, fu inviato nella Spagna Citeriore nel 195 in qualità di console e procedette alla sottomissione delle tribù dell’Ebro ma negli anni seguenti Roma fu costretta a impegnare numerose truppe nella provincia. -Ti Sempronio Gracco, padre dell’omonimo tribuno della plebe e governatore Spagna Citeriore tra il 180 e 178, dopo alcuni successi militari, cercò di rimuovere le ragioni dell’ostilità verso Roma e ottenne trattati di pace con alcune tribù celtibere che assicurarono a Roma qualche anno di pace. Dopo la guerra contro i Lusitani la lotta si spostò intorno alla città celtibera di Numanzia, nella Spagna settentrionale, dove nel 137 ci fu episodio emblematico delle difficoltà d Roma nella penisola iberica: il console Mancino, sconfitto, fu costretto a firmare una pace umiliante per i Romani. Il trattato fu peraltro disconosciuto dal Senato e la guerra numantina fu affidata al più abile comandante romano del tempo, Scipione Emiliano, eletto console per la seconda volta nel 134. Scipione conquistò e distrusse Numanzia nel 133 ma la vendetta su Numanzia non cancellò l’umiliazione del 137 a.C. PARTE 3: La crisi della Repubblica e le guerre civili (dai Gracchi ad Azio) Capitolo 1: Dai Gracchi alla guerra sociale L’età dei Gracchi (133-121 a.C.: una svolta epocale? La tradizione storiografica aristocratica ha identificato nell’età dei Gracchi l’origine della degenerazione dello Stato romano e l’inizio delle guerre civili. È indubbio che in tale periodo siano drammaticamente avvenuti fenomeni e problemi tra loro connessi che affondano le loro radici negli squilibri creati dall’espansione stessa del dominio romano. Mutamento degli equilibri sociali La guerra annibalica aveva inferto profonde ferite all’agricoltura: le continue campagne belliche avevano tenuto lontani i Romani dai loro poderi e le conquiste esterne avevano comportato un consistente afflusso di ricchezze nelle mani di pochi, un ampliamento delle occasioni di sfruttamento e di mercato e un’enorme massa di schiavi. I bottini di guerra molto consistenti erano caduti nelle mani di Roma e gli indennizzi dei vinti avevano fatto affluire a Roma ingenti capitali che avevano progressivamente modificato la struttura sociale ed economica romana, rimasta fino ad allora essenzialmente agricola. I Romani e gli Italici si erano introdotti nel grande commercio: i negotiatores anche nelle province di recente acquisite, esercitavano anche professioni bancarie. Tali attività avevano fatto fare fortuna a molti senatori (che le esercitavano tramite prestanome) e avevano favorito l’ascesa degli equites, la cui ricchezza era a un tempo fondiaria, finanziaria e mobiliare. Esclusi dalle cariche pubbliche, essi erano comunque interessati a difendere i propri interessi e a entrare nel tribunale permanente. Con l’infittirsi dei contatti con l’Oriente si diffonde sempre di più l’Ellenismo a Roma in Italia: i figli dei Romani più ricchi erano cresciuti da nutrici e precettori greci e sempre più di frequente schiavi greci colti (che venivano poi spesso liberati) amministravano case, proprietà e patrimoni dei loro padroni. Crisi della piccola proprietà fondiaria e inurbamento Lo sviluppo degli scambi commerciali aveva modificato la fisionomia dell’agricoltura italica: il massiccio ricorso alla mano d’opera servile, l’importazione di grano e di materie prime, la spinta verso culture più speculative costituirono una concorrenza sempre più rovinosa per la tradizionale agricoltura di autosussistenza. I piccoli proprietari terrieri si erano trovati nella necessità di vendere le loro proprietà. La concentrazione fondiaria che ne era derivata aveva accelerato ancora di più la tendenza verso un’agricoltura incentrata su prodotti destinati alla commercializzazione più che all’autoconsumo, bisognosa di vaste superfici coltivabili e fondata su grandi capitali e abbondante mano d’opera. Il modello di proprietà diventava la grande azienda agricola (la villa rustica) basata sullo sfruttamento di personale schiavile e diretta da schiavi-manager (vilici) che facevano lavorare schiavi-operai e artigiani e schiavi-agricoltori. Per i piccoli proprietari l’unico modo per sostenere la concorrenza era riconvertire le colture ma ciò esigeva forti spese infatti spesso erano costretti a vendere. Molti affluivano a Roma in cerca di un’occupazione e questo contribuì a creare una massa urbana sempre più consistente che diede problemi di sussistenza e di approvvigionamento. Rivolte servili Il moltiplicarsi delle ville rustiche e il dilatarsi delle zone destinate al pascolo, dove il bestiame era vegliato da schiavi armati favorirono le rivolte servili, soprattutto in Sicilia in cui le masse servili si sollevarono nel 140-132 e di nuovo del 104-100 a.C. La prima rivolta scoppiata a Enna si estese per tutta l’isola, con a capo Euco, schiavo siriaco. Roma fu costretta a inviare successivamente nell’isola tre consoli e solo ultimo di essi, Publio Rupilio, riuscì a domare l’insurrezione. Due fazioni dell’aristocrazia: optimates e populares I cambiamenti della compagine sociale si ripercuotono sugli equilibri della classe dirigente romana, dove cominciano a delinearsi due fazioni, entrambe scaturite dalla nobilitas: optimates e populares. • Gli Optimates si richiamavano alla tradizione degli avi, si autodefinivano boni, cercavano di ottenere per la propria politica l’approvazione dei benpensanti, ispirata da buoni principi e sostenitrice dell’autorità e delle prerogative del senato; • I Populares si consideravano difensori dei diritti del popolo, che conduceva un’esistenza miserevole e propugnavano necessità di ampie riforme in campo politico e sociale. Ci fu l’approvazione di tre leggi tabellarie, cioè concernenti l’espressione scritta del voto: la lex Gabinia tabellaria (139 a.C.) la introduceva nei comizi elettorali, la lex Cassia tebellaria (137) nei giudizi popolari e la lex Papiria tebellaria (131) nei comizi legislativi. Questione dell’ager publicus e il tentativo di riforma agraria di Caio Lelio Le guerre di conquista avevano fatto crescere l’ager publicus, terreno di proprietà collettiva dello Stato romano. Parti di esse erano concesse in uso a privati a titolo di occupatio: la proprietà rimaneva dello stato, ma l’utilizzo era garantito ai detentori dietro pagamento di un canone (vectigal). La crisi della piccola proprietà fondiaria favorì la concentrazione della maggior parte dell’agro pubbluco nelle mani dei proprietari più ricchi e di qui la necessità di norme che mirassero a restringere l’estensione dell’agro pubblico che poteva essere occupato legittimamente da ciascuno. L’ultima di tali leggi è stata proposta dal console Caio Lelio, ma il suo progetto aveva attirato l’opposizione dei senatori tanto che egli preferì ritirarlo. Tiberio Gracco Tiberio Gracco, figlio dell’omonimo Tiberio Gracco Sempronio, volle riprendere nell’anno del suo tribunato della plebe (133 a.C.) il tentativo di una riforma agraria tramite norme che limitassero la quantità di agro pubblico posseduto. La legge fissava all’occupazione di agro pubblico un limite di 500 iugeri (125 ettari) con l’aggiunta di 250 iugeri per ogni figlio fino a un massimo di 1000 (250 ettari) iugeri per famiglia. Un collegio di triumvuri avrebbe avuto poi il compito di ripartire i lotti e recuperare i terreni in eccesso, che sarebbero stati distribuiti ai cittadini più poveri, forse 30 iugeri (7,5 ettari) per persona e inalienabili. I fondi necessari sarebbero stati ricavati da tesoro di Pergamo Attalo III che, morto senza eredi, lo aveva lasciato in mano ai Romani. Lo scopo principale della legge era l’esigenza di ricostituire e conservare un ceto di piccoli proprietari, anche per garantire una base stabile al reclutamento dell’esercito. Sotto il profilo del diritto il progetto era legittimo perché dettava norme riguardanti la proprietà demaniale dello Stato; alcuni aspetti però toccavano prerogative che abitualmente erano del senato ad esempio la destinazione del tesoro di Attalo III. Dal punto di vista pratico i grandi proprietari terrieri si ritennero espropriati di risorse che consideravano ormai proprie. L’oligarchia dominante si oppose: il tribuno della plebe, Marco Ottavio, pose il suo veto, impedendone l’approvazione. Gracco propose all’assemblea di destituirlo perché era venuto meno all’obbligo di fare gli interessi del popolo e una volta dichiarato decaduto Ottavio la legge Sempronia agraria fu approvata. Tuttavia l’opposizione non si placò: Tiberio, nel timore di perdere l’inviolabilità personale (sacrosantitas) e che venisse interrotta l’opera di ridistribuzione delle terre, pensò di candidarsi al tribunato per l’anno successivo. Fu facile per gli avversari insinuare che egli aspirasse al potere personale così venne assalito e ucciso insieme a molti dei suoi sostenitori da un gruppo guidato dal pontefice massimo Publio Cornelio Scipione Nasica. La commissione agraria, Scipione Emiliano e gli alleati latini e italici La morte di Tiberio non pose fine all’attività della commissione triumvirale. Fu però ben presto chiaro lo scontento degli alleati latini e italici, le cui aristocrazie di ricchi proprietari si ritrovavano a dover restituire larghe porzioni di agro pubblici in beneficio di nullatenenti romani. Interprete delle lamentele fu Scipione l’Emiliano. Morto improvvisamente Emiliano, Fulvio Flacco, membro del triumvirato agrario divenuto console nel 125 a.C. propose che tutti gli alleati che ne avessero fatto richiesta avrebbero potuto ottenere la cittadinanza romana o almeno il diritto di appellarsi al popolo contro eventuali abusi di magistrati romani. Questa proposta fu respinta e Flacco preferì non insistere. L’irritazione degli alleati fu evidente dalle rivolte di Asculum e soprattutto della colonia latina di Fregelle che fu rasa al suolo: la repressione fu spietata. Caio Gracco Nel 123 a.C. fu eletto tribuno della plebe Caio Gracco, che riprese e ampliò proposta fratello Tiberio. • La legge agraria fu perfezionata e ampliata e aumentati i poteri della commissione triumvirale. Caio propose l’istituzione di nuove colonie di cittadini romani sia in Italia sia nel territorio della distrutta Cartagine; comando della guerra. Mario riorganizzò esercito: ogni legione risultò articolata non più in trenta piccole unità (manipoli), ma in dieci coorti di circa 600 uomini, ciascuna delle quali costituiva un’unità tattica sufficientemente grande per operare con una certa autonomia. Riorganizzo anche l’addestramento, equipaggiamento, armamento e insegne. Quando i Germani ricomparvero nel 103 i Romani si rivelarono in grado di affrontarli. Cimbri e Teutoni si erano divisi: i Teutoni avanzavano verso la Gallia meridionale, i Cimbri si accingevano a valicare i passi delle Alpi centrali. Mario affrontò prima i Teutoni nel 102, sterminandoli ad Aquae Sextiae e l’anno dopo i Cimbri che furono annientati ai Campi Raudii. Eclissi politica di Mario, Saturnino e Glaucia Mario, impegnato sul fronte militare, aveva pensato fosse utile appoggiarsi a Lucio Apuleio Saturnino, nobile che nel 104, fu sostituito dal senato con un proprio membro nell’incarico di Questor Ostiensis, cioè di soprintendente frumentario degli approdi alle foci del tevere. Mario lo aveva aiutato a essere eletto tribuno della plebe nel 103 e in cambio Saturnino aveva approvato una distribuzione di terre in Africa a ciascuno dei veterani delle campagne africane di Mario. Aveva poi proposto una legge frumentaria che riduceva il prezzo politico del grano fissato da Caio Gracco. Grande importanza poi ebbe la sua lex de maiestate che puniva il reato di lesione all’autorità (maiestas) del popolo romano compiuto dai magistrati travalicando i poteri loro conferiti: il collegio giudicante era composto da cavalieri. Nel 100 a.C. Mario venne eletto al suo sesto consolato, Saturnino per la seconda volta tribuno della plebe e Caio Servilio Glaucia pretore. Contando sull’appoggio di Mario Saturnino presentò una legge agraria che prevedeva assegnazioni di terre nella Gallia meridionale e la fondazione di colonie in Sicilia, Acaia e Macedonia. Per bloccare ogni opposizione aveva fatto approvare una legge che obbligava i senatori a giurare di osservare legge agraria, il solo Cecilio Metello Numidico si rifiutò di giurare preferendo l’esilio. Restituite ai cavalieri le giurie permanenti per i processi di concussione. Per poter sviluppare il suo programma Saturnino ottenne la rielezione a tribuno anche per l’anno successivo mentre Glaucia si candidava al consolato. Durante le votazioni dell’anno successivo scoppiarono tumulti e un avversario di Glaucia fu ucciso. Il senato proclamò il senatus consultum ultimum e Mario, come console, si trovò nella situazione imbarazzante di doverlo applicare contro i suoi alleati politici. Saturnino e Glaucia furono uccisi e il prestigio di Mario venne fortemente minato, tanto che preferì allontanarsi da Roma per svolger una missione diplomatica presso Mitridate VI, re del Ponto che aveva mostrato mire espansionistiche. Pirati, schiavi, Cirenaica L’istallarsi in Anatolia aveva condotto Roma in stretto contatto con il fenomeno della pirateria. Mentre Roma si accingeva a concludere le guerre cimbriche, l’azione dei pirati che aveva i come fulcri Creta e la Cilicia, fu avvertita come pericolosa per gli affari dei negotiatores romani nei mari greci e nell’Egeo orientale. Nel 102 si decise d’intervenire inviando il pretore Marco Antonio con il compito di distruggere le principali basi anatoliche dei pirati e di impadronirsene. L’azione coronata da successi si protrasse per un paio di anni e fu accompagnata dalla costituzione di una provincia costiera di Cilicia con l’obiettivo di proteggere il commercio marittimo d’Asia. Il gravoso impegno militare richiesto dalle guerre cimbriche indusse Mario a domandare contingenti di soldati agli italici e a quelli d’oltremare. Tra essi Nicomede III di Bitinia declinò l’invito sostenendo che parte dei suoi uomini fosse stata presa dai pirati o venduta in schiavitù per debiti. A Roma si volle porre rimedio con un provvedimento che ordinava ai governatori provinciali di condurre inchieste rigorose in merito. Dopo una prima fase di applicazione che comportò il ritorno di molti allo stato libero l’opposizione dei detentori di chiavi riuscì a far si che il provvedimento non venisse applicato. Ne scaturirono numerose rivolte servili, tra cui le più note sono quelle delle miniere del Laurion in Attica (103 a.C.) e in Sicilia (104-100 a.C.). I comandanti ottennero inizialmente scarsi risultati e riuscì a reprimerle Manio Aquilio, che aveva accompagnato Mario contro i Teutoni. Nel 96 a.C. venne lasciata a Roma per testamento parte del territorio Tolemaico, la Cirenaica. Seguendo la politica di non farsi coinvolgere in zone lontane dai propri interessi non fu dato alcun seguito alla questione che fu ripresa solo nel 75-74 a.C. quando l’emergere di circostanze indussero a dedurvi delle province. Marcio Livio Druso e la concessione della cittadinanza agli italici Il decennio successivo al 100 a.C. presentò forti tensioni politiche e sociali tra le parti che si erano contrapposte durante le guerre giugurtina e germaniche e i ripetuti consolati di Mario. Un provvedimento del 98 rese obbligatorio intervallo di tre nundinae (tre settimane) tra l’affissione di una proposta di legge e la sua votazione. Venne vietata inoltre la lex satura, cioè di una disposizione che includesse più argomenti non connessi tra loro. Continuava il conflitto tra senatori e cavalieri per impadronirsi in esclusiva dei tribunali permanenti per i processi di concussione. Era evidente una disfunzione del sistema. Nel 95 legge una Licinia Mucia aveva istituito commissione per verificare le richieste di cittadinanza romana che venivano avanzate e per espellere da Roma ogni residente italico e latino che fosse risultato illegalmente inserito nelle liste di censo. In questa atmosfera fu eletto come tribuno della plebe nel 91 Marco Livio Druso che tentò di destreggiarsi tra le varie parti con una politica di reciproca compensazione: -da un lato promulgò provvedimenti di contenuto popolare: una legge agraria volta alla distribuzione di nuovi appezzamenti e alla deduzione di nuove colonie e legge frumentaria che abbassava ulteriormente il prezzo politico delle distribuzioni granarie; -dall’altro restituì ai senatori i tribunali per le cause di concussione proponendo però l’ammissione dei cavalieri in Senato che veniva aumentato da trecento a seicento membri; -infine propose la concessione della cittadinanza romana agli alleati italici. L’opposizione fu vasta e furono dichiarate nulle tutte le sue leggi. Quando Druso venne misteriosamente assassinato il sentimento degli Italici giunto a punto di non ritorno. La guerra sociale La differenza di stato giuridico e sociale tra cittadini di Roma e alleati latini e italici non aveva suscitato grandi contestazioni agli inizi del II secolo a.C. quando trovava riscontro in differenze etniche e culturali. Ma essa aveva perso molta della sua ragion d’essere via via che le conquiste e gli scambi commerciali avevano sempre più unificato il quadro e le aristocrazie sia romane che italiche tendevano a perdere le loro ancestrali particolarità. Diventava ancora meno accettabile quando serviva a giustificare una diseguaglianza di trattamento nei vari aspetti della vita civica. La condizione di cittadino romano era divenuta sempre più vantaggiosa e ciò aumentò l’irritazione e la rivendicazione degli Italici. -Delle distribuzioni agrarie beneficiavano i soli cittadini romani mentre gli Italici non solo ne erano esclusi ma vedevano riassegnati ai cittadini terreni da loro a lungo utilizzati e messi a coltura. -Non avevano parte nelle decisioni politiche, economiche e militari che pure li riguardavano. -Nell’esercito gli alleati continuavano a pagare l’imposta destinata al soldo delle loro reclute, mentre i cittadini ne erano dispensati. -Ricevevano una parte meno importante del bottino e punizioni più gravi; -Non potevano avere funzioni di comando. L’assassinio di Druso fu per gli alleati il segnale che non vi era altra possibilità di difendere le loro rivendicazioni che la rivolta armata contro Roma. La rivolta partì da Ascoli dove un pretore e tutti i Romani residenti nella città vennero massacrati nel 90. L’insurrezione si estese sul versante adriatico, presso le popolazioni tra le quali era più ampio il processo di integrazione con Roma. La guerra fu lunga e sanguinosa e i Romani si ritrovarono a combattere contro avversari armati e addestrati allo stesso modo loro, con le stesse tecniche di attacco e di difesa. Gli insorti si erano dati istituzioni federali comuni, una capitale, Corfinium, nel Sannio, subito ribattezzata Italica e una monetazione proprio.I loro scopi però non erano completamente unitari: in alcuni prevaleva l’esigenza di conseguire la cittadinanza romana, in altri lo spirito di rivalsa contro Roma. Si spartirono tra i due consoli due principali settori d’operazione: a settentrione il console Publio Rutilio Lupo con Strabone e Caio Mario contro Quinto Poppedio Silone, capo dell’intere federazione italica; nel meridione Lucio Giulio Cesare con Lucio Cornelio Silla. Si ebbero sconfitte e distruzioni su entrambi i fronti. Lupo morì e lasciò al comando a Mario. Nel 90 Roma maturò una soluzione politica del conflitto con scopo di limitarne estensione: - con un primo provvedimento vennero autorizzati i comandanti militari ad accordare la cittadinanza agli alleati che combattevano ai loro ordini; - venne poi approvata su proposta del console Lucio Giulio Cesare una legge, lex Iulia de civitate, che concedeva la cittadinanza romana agli alleati rimasti fedeli e alle comunità che avessero deposto in fretta le armi; - a questa si aggiunse la lex Plautia Papiria che estendeva la cittadinanza agli Italici che si fossero registrati presso il pretore di Roma entro 60 giorni; -Cneo Pompeo Strabone faceva attribuire il diritto latino agli abitanti dei centri urbani a nord del Po: ai magistrati di queste comunità veniva così aperto l’accesso alla cittadinanza romana. Tali misure circoscrissero la rivolta. I successi furono per lo più conseguiti da Strabone che riuscì ad espugnare Ascoli e da Silla che riconquistò la maggior parte del Sannio e della Campania spezzando le ultime resistenze dei ribelli italici. Con la concessione della cittadinanza a tutta l’Italia fino alla Transpadana si inaugurava un processo di unificazione politica dell’Italia sia una nuova fase nella storia delle istituzioni di Roma. Le aristocrazie italiche erano riuscite a fondare i presupposti per un loro accesso alle magistrature e poi in senato. Per esercitare i loro diritti i neocittadini dovevano assolutamente recarsi a Roma per partecipare alle assemblee. CAPITOLO 2: I primi grandi scontri tra fazioni in armi Mitridate VI Eupatore I Parti, della dinastia degli Arsacidi, che provenivano dalle zone del Caucaso e al di là del Mar Caspio e che si erano via via insediati nell’altopiano iranico, avevano sistematicamente sottratto possedimenti orientali al regno seleucide fino a occupare stabilmente la Mesopotamia e la Babilonia. Nella penisola Anatolica era in atto un forte frazionamento politico e Roma vi aveva favorito la coesistenza di molti piccoli Stati dinastici. Divenuto re del Ponto nel 112, Mitridate VI Eupatore era riuscito a stabilire accordi con la vicina Bitinia per dividersi le zone limitrofe Panflagonia e Galazia. Dal 104 il senato attento alle sue mosse e dopo che Mitridate VI si era impossessato della Cappadocia, si era recato presso di lui in una missione diplomatica di osservazione. Nel 92 Silla era intervenuto per ripristinare sul trono di Cappadocia un re più gradito ai Romani. Approfittando della guerra sociale, Mitridate aveva ripreso la sua politica espansionistica, facendo invadere la Cappadocia da Tigrane, re d’Armenia, e spodestando dalla Bitinia il nuovo re Nicomede IV. Verso il 90 a.C. Roma decise di inviare in Oriente una legazione, capeggiata da Manio Aquilio, con incarico di rimettere sui loro troni i legittimi sovrani in Cappadocia e Bitinia. Nicomede IV si ritenne autorizzato a condurre scorrerie nel territorio del Ponto. Mitridate si decise alla guerra contro i Romani. La sua azione si fondò su un’opera efficacissima di propaganda rivolta al mondo greco a cui si presentò come sovrano filelleno ed evergete (benefattore), sollecito al bene e alla libertà di tutti, che ripristinava le autonomie locali e concedeva e concedeva immunità da tributi sfruttando il malcontento verso i Romani che era diffuso in Oriente. Mitridate fu presto padrone di tutta l’Asia e per suo ordine più di ottantamila tra Romani e Italici, compresi donne e bambini, vennero massacrati. Anche l’isola di Delo, caposaldo del commercio romano in Oriente, e Atene fecero causa comune con nuovo liberatore. La guerra acquistava il carattere di una vera e propria sollevazione del mondo greco contro il dominio romano. Solo Rodi rimase fedele a Roma. Verso la fine dell’88 a.C. un esercito pontico invadeva la Grecia centrale, ottenendo l’adesione della Beozia, di Sparta e del Peloponneso, mentre la flotta si dirigeva in Africa. Roma affidò il comando della guerra a Lucio Cornelio Silla, uno dei due consoli che si trovava nell’assedio di Nola. Tribunato di Publio Suplicio Rufo e il ritorno di Mario; Silla marcia su Roma Nel 78 a.C. uno dei consoli, Lepido, tentò di ridimensionare l’ordinamento sillano proponendo il richiamo dei proscritti in esilio, il ripristino delle distribuzioni frumentarie a prezzo politico e la restituzione agli antichi proprietari delle terre confiscate a favore dei coloni. L’opposizione ai suoi progetti scatenò una rivolta in Etruria, dove ci furono pesanti espropriazioni. Lepido, partito per assumere il governo nella provincia Narbonese (77) si fermò in Etruria dove fece causa comune con i ribelli e marciò poi su Roma, reclamando la restaurazione dei poteri dei tribuni della plebe. Il senato rispolverò contro di lui l’arma del senatus consultum ultimum e venne conferito eccezionalmente a Pompeo l’imperium, pur non avendo rivestito alcuna magistratura superiore (strappo all’ordinamento sillano). La rivolta venne stroncata: Lepido fuggì in Sardegna dove morì di lì a poco e il suo lungotenente Marco Perperna con il restante esercito si trasferì in Spagna a ingrossare le fila degli ex mariani capeggiati da Sertorio. Ultima resistenza mariana, Sertorio Quinto Sertorio si era distinto nelle file mariane, contro i Cimbri e i Teutoni e nella guerra sociale. Nell’82 aveva raggiunto il posto di governatore della Spagna Citeriore, dove aveva creato una sorta di Stato Mariano in esilio mettendo insieme altri esuli della sua fazione, Romani e Italici residenti in Spagna e anche parte degli indigeni. Tutti i tentativi di abbatterlo si erano rivelati vani soprattutto grazie alla sua perfetta conoscenza del paese. Verso la fine del 77 si erano congiunte a Sertorio, che controllava tutta la penisola iberica, le truppe superstiti di Lepido al comando di Marco Perperna. Questa consistente presenza di profughi gli consentì di istituire a Osca, scelta come sua capitale, un senato di 300 membri e una scuola. Corsero voci di alleanza con pirati, strette per ampliare la propria sfera d’azione in vista di un attacco alla città stessa. A questo punto il Senato decise di ricorrere a Pompeo affidandogli la Spagna Citerione con attribuzione di imperium straordinario. Arrivato in Spagna nel 76 Pompeo subì alcune sconfitte da Sertorio tanto che sollecitò l’invio di rinforzi. Ottenutili, la situazione migliorò mentre nel campo avversario cominciavano a manifestarsi dissapori verso Sertorio, costretto a metodi drastici. Furono organizzati complotti verso di lui finché Perperna lo assassinò a tradimento nel 72: venne sconfitto e giustiziato da Pompeo. La rivolta servile di Spartaco Nel 73 era scoppiata la terza grande rivolta di schiavi, questa volta a Capua in una scuola per gladiatori, dove questi furono raggiunti da altri gladiatori, schiavi e uomini liberi ma ridotti in miseria. Se ne posero a capo due gladiatori, Spartaco e Crisso. La rivolta si estese a tutto il sud Italia ma mancava tra i ribelli un piano unitario: Spartaco voleva condurli al di là delle Alpi verso propri paesi d’Origine; Crisso preferiva razzia e saccheggio. Il senato affidò poi a Marco Licinio Crasso, pretore, un comando eccezionale e un considerevole esercito e Crisso riuscì a isolare Spartaco e i suoi, che sconfisse poi in Lucania. Spartaco cadde in battaglia e migliaia di prigionieri furono fatti crocifiggere da Crasso lungo via Appia, tra Roma e Capua. Schiera di superstiti tentò la fuga verso nord ma fu intercettata in Etruria da Pompeo e annientata. Il consolato di Pompeo e Crasso e lo smantellamento dell’ordinamento sillano 70 a.C. Pomepo presentò la candidatura al consolato per il 70 a.C. pur essendo molto al di sotto dell’età minima richiesta e non possedendo i requisiti di carriera infatti non era passato attraverso la trafila ordinaria delle cariche (questura, edilità, pretura). Anche Crasso si candidò e vennero eletti consoli. Fu allora portato a compimento lo smantellato dell’ordinamento sillano, sebbene già nel 75 venne abolito il divieto ai tribuni di ricoprire altre cariche. Nel 73 i consoli avevano fatto approvare una legge frumentaria (lex Terentia Cassia) che ripristinava le distribuzioni a prezzo politico del grano. Pompeo e Crasso restaurarono nella loro pienezza i poteri dei tribuni della plebe: essi poterono di nuovo proporre leggi all’assemblea popolare e opporre il veto alle iniziative degli altri. Furono eletti i censori, che epurarono il senato e condussero il censimento. Furono modificate infine il pretore Lucio Aurelio Cotta, fratello del console del 75 a.C. fece modificare la composizione delle giurie dei tribunali permanenti, togliendone l’esclusiva ai senatori e ripartendole in parti uguali tra senatori, cavalieri e tribuni aerarii (categoria vicina a cavalieri). Al successo della riforma di Cotta non è estraneo il processo per malversazione contro Caio Verre, propretore in Silicia dal 73- 71 a.C. la cui accusa era condotta da Marco Tullio Cicerone che lo aveva trasformato in una denuncia contro il malgoverno senatorio nelle province e contro la collusione tra governatori corrotti e giurie senatorie compiacenti. Pompeo in Oriente; operazioni contro i pirati; nuova guerra mitridatica Tra l’80 e il 70 a.C. in Oriente emersero due minacce: pirati e Mitridate. La pirateria aveva ripreso forza per l’indebolimento delle strutture politiche locali e per l’importanza assunta dal commercio di schiavi. I Romani avevano tollerato che l’avevano estirpata dai mari circostanti l’Italia, avevano tollerato che essa continuasse a Oriente perché trovavano un forte tornaconto nel mantenimento di una attività che alimentava i traffici di mano d’opera schiavile verso la penisola. I Pirati attaccavano lente navi commerciali e di conseguenza il trasporto delle merci era diventato difficile, rischioso e costoso. Dopo ripetuti infruttuosi tentativi di combattere i pirati, nel 78-75 a.C. si tentò di rafforzare la presenza romana in Cilicia. nel 74 fu inviato contro i pirati con un comando speciale Marco Antonio che venne sconfitto a Creta. Le operazioni contro Creta furono poi affidate nel 69 a Quinto Cecilio Metello che le condusse con grande energia ed efficacia fino alla completa riconquista dell’isola che divenne provincia romana. Nel frattempo era divenuta inevitabile una nuova guerra contro Mitridate: l’occasione si era presentata nel 74, quando alla morte di Nicomede IV di Bitinia risultò che questo re aveva lasciato il suo regno in eredità ai Romani, con un testamento sospetto. Mitridate decise di invaderla e contro di lui furono mandati due consoli che sgombrarono la Bitinia e occuparono il Ponto, costringendo Mitridate a rifugiarsi in Armenia presso Tigrane. Lucullo, console, invase l’Armenia e ne conquistò la capitale Tigranocerta e di qui si spinse verso l’antica capitale Artaxata tra la Catena del Caucaso e il Mar Caspio. Ma la sua marcia fu interrotta dai suoi soldati, stanchi e dai finanzieri romani che fecero pressioni perché fosse destituito, sdegnati dai provvedimenti economici da lui assunti per alleviare la situazione economica. Mitridate e Tigrane ne approfittarono per riprendere le ostilità. Nel 67 il tribuno Aulo Gabino propose misure drastiche contro i pirati, le cui incursioni stavano colpendo le forniture di grano a Roma, e che per questo scopo fosse attribuito per tre anni a Pompeo un imperium infinitum su tutto il Mediterraneo. Nonostante la violenta opposizione senatoria, esso fu approvato. Ripartito il Mediterraneo in 13 settori, Pompeo cacciò i pirati dal Mediterraneo e li sconfisse in Cilicia. Nel 66 un tribuno della plebe, Caio Manilo, propose che venisse esteso a Pompeo il comando della guerra contro Mitridate. Subentrato nel comando a Lucullo Pompeo convinse il re dei Parti a tenere impegnato Tigrane mentre egli marciava verso il Ponto. Sconfitto e cacciato dal Ponto, Mitridate fu costretto a rifugiarsi nel Bosforo Cimmerio, dove si trafisse per non cadere in mano dei romani. Pompeo aveva intanto compiuto una spedizione lungo il Caucaso nel 65, giungendo quasi al Mar Caspio. Confermato a Tigrane il trono dell’Armenia, lo privò però dalla Siria che diventò provincia romana. Poi passò in Palestina dove si impadronì di Gerusalemme e del suo tempio e formò uno Stato autonomo ma tributario. Riorganizzate le sue conquiste in Asia, riuniti la Bitinia e il Ponto in un’unica provincia, ampliata la Cilicia fino ai conflitti con la Siria Pompeo tornò a Roma, carico di gloria e di bottini, sicuro che il senato avrebbe ratificato i suoi provvedimenti e avrebbe ricompensato veterani. Il consolato di Cicerone e la congiura di Catilina A Roma, durante l’assenza di Pompeo ci fu una grave crisi. Lucio Sergio Catilina, discendente da una famiglia aristocratica decaduta, si era arricchito durante gli eccidi dell’età sillana, ma aveva dilapidato somme enormi per mantenere un elevato tenore di vita. La sua campagna per ottenere il consolato nel 65 a.C. fu respinto per indegnità. Prosciolto dall’accusa di concussione, ci riprovò nel 63 sostenuto da Marco Licinio Crasso al quale era legato Caio Giulio Cesare, nobile ma sprovvisto dei mezzi necessari per contendere con i suoi pari la gara per gli onori pubblici e vicino ai popularis. Vinse l’elezione come console un homo novus di Arpino, Marco Tullio Cicerone, vittorioso accusatore di Verre e sostenitore di Pompeo che nella campagna elettorale aveva attaccato la corruzione, la violenza e le collusioni politiche di Catilina. Catilina non demorse e nel 62 si ripresentò alle elezioni con un programma politico basato sulla cancellazione dei debiti (novae tabulae) rivolto agli aristocratici rovinati dalle dissipazioni, agli indebitati, ai coloni, ai figli dei proscritti ma fu battuto nuovamente alle elezioni. Catilina mise mano a una cospirazione che mirava a sopprimere i consoli, terrorizzare la città e impadronirsi del potere: il piano fu scoperto e sventato da Cicerone, che indusse il senato a emettere un senatus consultum ultumum e con un attacco durissimo (Prima Catilinaria) costrinse Catilina ad allontanarsi da Roma e a raggiungere a Fiesole le sue bande armate. Acquisite le prove scritte della congiura tramite intercettazione di alcune lettere, Cicerone poté arrestare 5 tra i capi della cospirazione; il senato, trascinato da Marco Porcio Catone, si pronunciò per la pena di morte e Cesare fu il solo a insistere per la condanna a carcere a vita. Cicerone provvide a far giustiziare i condannati. Catilina venne affrontato da un esercito nei pressi di Pistoia e cadde combattendo. Egitto, Cipro e Cirenaica La grande distanza e i buoni rapporti avevano tenuto il regno tolemaico d’Egitto lontano dalle mire di Roma. I tre nuclei principali (Egitto, Cipro e Cirenaica) avevano avuto fasi in cui si erano trovati uniti sotto un unico sovrano e altre in cui erano stati retti da differenti monarchi. Alla morte di Tolomeo VIII Evergete II nel 116, le contese tra i successori fecero si che ci si rivolgesse ripetutamente ai Romani, come garanti del trono. Di questa politica fanno parte anche i Testamenti che legavano il regno al popolo romano, forse per tutelarsi dagli avversari o per saldare debiti politici o pecuniari. Nel 96 sarebbe stata lasciata così a Roma la Cirenaica. Anche Tolemeo X Alessandro I, in lotta con fratello Tolomeo IX Soter II, legò per testamento l’Egitto a Roma, anche se tale atto è stato spesso attribuito a suo figlio Tolemeo XI Alessandro II. Gli unici Tolemei rimasti nell’80 erano due figli di Tolomeo IX, il maggiore dei quali, Tolemeo XII Aulete, gli Alessandrini proclamarono re d’Egitto e il minore re di Cipro. La principale preoccupazione dell’Aulete fu quella di farsi riconoscere da Roma, che rifiutava di farlo: ne venne a capo solo dopo 20 anni con l’appoggio di Cesare. Il problema egiziano ridivenne attuale quando Pompeo ebbe ridotto la Siria provincia romana e regolato il territorio palestinese. Nel 63 una legge agraria proposta dal tribuno della plebe Publio Servilio Rullo parve includere l’Egitto in un vasto progetto di assegnazioni fondiarie, ma venne bloccata da Cicerone. Nel 58 seguì la rivendicazione di Roma su Cipro e la conseguente annessione. Sempre nel 58 Tolomeo XII, re Egitto, venne cacciato e si rifugiò a Roma, sotto la protezione di Pompeo. Nel 55 Aulo Gabino lo riportò ad Alessandria con la forza. CAPITOLO 3: Dal primo triumvirato alle Idi di Marzo Il ritorno di Pompeo e il primo triumvirato Nel 62 a.C. sbarcava a Brindisi Pompeo, convinto di ottenere dal senato l’approvazione delle sue richieste. In Senato però i suoi nemici politici lo umiliarono facendo rimandare di giorno in giorno questi riconoscimenti e talvolta opponendosi a essi. Pompeo allora si avvicinò a Crasso e al suo emergente alleato Cesare, con i quali strinse un accordo nel 60 a.C. chiamato dai moderni “primo triumvirato”, che è un accordo privato e segreto di sostegno reciproco in base al quale Cesare sarebbe dovuto essere eletto console per il 59 e avrebbe dovuto varare una legge agraria che sistemasse i veterani di Pompeo, Crasso avrebbe ottenuto vantaggi per i cavalieri e compagnie di appaltatori. L’accordo fu cementato dal matrimonio tra Pompeo e la figlia di Cesare, Giulia. Caio Giulio Cesare console L’accordo diede immediatamente i suoi frutti e Cesare fu eletto console per il 59: fece votare due leggi agrarie che prevedevano una distribuzione ai veterani di Pompeo di tutto l’agro pubblico rimanente in Italia, ad eccezione della Campania, e di altre terre acquistate da privati e per i fondi necessari sarebbero stati utilizzati i bottini di guerra di Pompeo. In un secondo tempo venne incluso nelle assegnazioni l’agro campano, in cui c’erano cittadini nullatenenti e padri di famiglie numerose; furono poi ratificate tutte le decisioni di Pompeo in Oriente e fu ridotto di un terzo il canone d’appalto delle imposte delle province d’Asia, come voleva Crasso. Fu approvata una lex Iulia de repetundis che ampliava e migliorava la precedente legislazione sillana sui di procedimenti di concussione. Un altro provvedimento prevedeva la pubblicazione dei verbali delle sedute senatorie e delle assemblee popolari. Sul finire del consolato, il tribuno della plebe Publio Vatinio fece approvare un provvedimento che attribuiva a Cesare per 5 anni il proconsolato della Gallia Cisalpina, dell’Illirico con tre legioni e il diritto di nominare i propri legati e di fondare colonie. Essendosi poco dopo reso vacante il governo della Gallia Narbonese su proposta di Pompeo il Senato dovette aggiungere alle competenze di Cesare anche l’assegnazione di questa provincia con una quarta legione. Tribunato di Publio Clodio Pulcro Cesare, insieme a Crasso e Pompeo appoggiò la candidatura al tribunato della plebe di Publio Clodio Pulcro che fece, un ex patrizio che coinvolto in un clamoroso scandalo nel 62 a.C. e perciò senza speranze di poter proseguire la Nello stesso anno Pompeo aveva proposto un provvedimento che prescriveva che dovessero trascorrere 5 anni tra una magistratura e una promagistratura. La norma mirava a scoraggiare la corruzione infatti molti si indebitavano oltremisura per raggiungere la pretura o il consolato sicuri di potersi rifare l’anno successivo esercitando nelle province la propretura o il proconsolato, ma costituiva anche una minaccia per Cesare che se fosse riuscito a diventare console alla fine della carriera sarebbe divenuto privato cittadino. Una seconda legge obbligava poi tutti a presentare le proprie candidature di persona. A partire dal 51 iniziarono le discussioni sul termine dei poteri di Cesare: Cesare voleva l’estensione del comando sino a 49 per potersi candidare al consolato del 48 “in assenza”; i nemici volevano l’immediata sostituzione di Cesare già dal 50. Con la nuova procedura diveniva più facile rimpiazzarlo infatti il successore di Cesare sarebbe potuto essere scelto in qualsiasi momento tra quelle persone che avevano occupato una magistratura cinque o più anni prima. Nel 50 il tribuno della plebe Caio Scribonio Curione, propose che per uscire dalla crisi si dovessero abolire i poteri straordinari sia di Cesare che di Pompeo e il Senato si pronunciò a favore di questa misura. Cesare si mostrò favorevole se anche Pompeo l’avesse fatto, ma i suoi avversari ottennero che si ordinasse a Cesare di porre fine unilateralmente alle sue cariche. Il senato votò il Senatus consultum ultimum affidando ai consoli e a Pompeo il compito di difendere lo stato. Vennero inoltre nominati i successori di Cesare al governo delle province assegnategli. Appresa questa decisione Cesare attraversò in armi il Rubicone, che segnava il confine tra Gallia cisalpina e territorio di Roma, dando inizio alla guerra civile. Pompeo, con i consoli e buona parte dei senatori abbandonò la città diretto a Brindisi, per imbarcarsi verso l’Oriente. Cesare, adducendo a propria giustificazione la tutela dei diritti del popolo e della propria dignitas, percorse rapidamente l’Italia, travolgendo le scarse resistenze, ma non riuscì a fermare in tempo il piano di Pompeo di trasferirsi in Grecia. Ritornato per breve tempo a Roma, Cesare cominciò ad affrontare la minaccia occidentale, rivolgendosi contro le forze pompeiane in Spagna con le sue truppe concentrate in Gallia. Cesare assalì e sconfisse i pompeiani spagnoli presso Ilerda. Tornato a Roma, rivestì la carica di dittatore al solo scopo di convocare i comizi elettorali che lo fecero console per il successivo anno 48 a.C. Nel frattempo Pompeo aveva posto il suo quartier generale a Tessalonica mentre le navi sulla costa adriatica impedivano eventuali sbarchi di Cesare. Cesare compì una traversata in pieno inverno e riuscì a traghettare sette legioni e a porre l’assedio a Durazzo ma poichè la flotta pompeiana bloccava l’arrivo di altre legioni e l’esercito di Pompeo era troppo numeroso per essere affrontato, quando Cesare provò ad attaccare la città fu respinto. Avanzò allora verso la Tessaglia, inseguito da Pompeo: lo scontro decisivo avvenne a Farsalo nel 48 e si tradusse in una disfatta pompeiana. Pompeo, intravista la sconfitta, fuggì verso Egitto, dove contava di trovare rifugio presso i figli di Tolomeo XII Aulete, che aveva aiutato a recuperare il trono, ma in Egitto era in corso una contesa dinastica tra Tolomeo XIII e Cleopatra VII (prescelta del padre) e i consiglieri del re, giudicando compromettente l’accogliere Pompeo lo fecero uccidere non appena sbarcato a Pelusio. Arrivato anche Cesare in Alessandria, si trattenne oltre un anno con lo scopo di dirimere le lotte tra i due fratelli e assicurarsi l’appoggio del regno ricchissimo e grande produttore di grano. Assediato dai partigiani di Tolemeo ad Alessandria fu costretto ad attendere rinforzi prima di poter affrontare in battaglia il re che fu poi rovinosamente sconfitto e trovò la morte nel Nilo. Cleopatra fu confermata regina d’Egitto insieme al fratello minore Tolemeo XIV e, partito Cesare, diede alla luce un figlio che chiamò Tolomeo Cesare. Nel frattempo, Farnace, figlio di Mitridate, aveva tentato di approfittare della situazione per recuperare i territori paterni. Cesare marciò contro di lui, sconfiggendolo a Zela nel Ponto. Cesare poi sostò brevemente a Roma dove dopo aver fatto fronte al malcontento delle sue truppe che attendevano di essere congedate, partì per l’Africa dove si erano rifugiati e riorganizzati i pompeiani vinti, che si erano assicurati il sostegno del re di Numidia, Giuba. Dopo alcune difficoltà iniziali Cesare conseguì una vittoria a Tapso. Il regno di Numidia divenne provincia romana dopo che Giuba si suicidò. Ritornato a Roma, Cesare celebrò tutti i suoi trionfi, sulla Gallia, sull’Egitto, su Farnace e su Giuba e poi fu costretto a partire per la Spagna, dove avevano ripreso fiato i suoi avversari sotto la guida dei figli di Pompeo, Cneo e Sesto. A Munda l’esercito nemico fu distrutto e riuscì a salvarsi solo Sesto Pompeo con la fuga. Cesare, ormai padrone della situazione poteva tornare a Roma a completare la sua opera di riorganizzazione politica. Cesare dittatore perpetuo Mentre si trovava in Egitto, Cesare era stato nominato dittatore per un anno; poi prima di partire per la campagna d’Africa era stato eletto al suo terzo consolato per il 46 a.C.; poi gli venne conferita la dittatura per 10 anni; nel 45 ricoprì il quarto consolato; nel 44 a partire dalla fine di febbraio venne nominato dictator perpetuus, cioè dittatore a vita. Aveva accumulato molti poteri straordinari: dopo Tapso era stato fatto per tre anni praefectus moribus, con l’incarico di vigilare sui costumi e di controllare le liste dei senatori, dei cavalieri e dei cittadini; gli fu riconosciuta la facoltà di sedere tra i tribuni della plebe; poi assegnata la potestà tribunizia che gli conferiva tutte le prerogative dei tribuni, come l’inviolabilità personale, il diritto di veto; e ancora gli fu attribuito il potere di fare trattati di pace o dichiarazioni di guerra senza consultare il senato o il popolo, di raccomandare i suoi candidati alle elezioni, di assegnare ai propri legati province pretorie; e infine gli vennero offerti gli onori del primo posto in senato, del titolo di imperator a vita (imperium) e di quello di padre della patria. Dal 49 aveva dato luogo a molte riforme: -erano stati concessi il perdono e il richiamo in patria degli esuli; -vennero accordate facilitazioni ai debitori sia per il pagamento di canoni arretrati sia per la modalità di rimborso dei prestiti. -il diritto di ottenere la cittadinanza romana venne esteso a agli abitanti della Transpadana ad abbracciare ormai tutta l’Italia fino alle Alpi; ne beneficiarono anche alcune comunità della Spagna, Gallia e Africa. Tra il 46 e 44: -il senato fu portato da 600 a 900 membri, con l’immissione di molti seguaci di Cesare provenienti da tutte le regioni dell’impero; -fu aumentato numero questori, pretori, edili: venivano garantite così maggiori possibilità di carriera politica ai suoi sostenitori; -furono abbassate le qualifiche censitarie necessarie per l’ammissione all’ordine equestre; -le giurie dei tribunali permanenti furono ripartite tra senatori e cavalieri; -furono indotte sanzioni più severe nei confronti di quanti si fossero resi colpevoli di malversazioni -venne rivisto il sistema tributario provinciale; -fu regolamentata la durata dei governatori limitandola a un anno per i propretori e a due per i proconsoli; -fu promulgata una legge suntuaria per porre freno agli sperperi e all’ostentazione di ricchezza; -fu vietato ai cittadini tra venti e sessant’anni, residenti in Italia di rimanere assenti dal paese per più di tre anni consecutivi e fu consentito ai figli di senatori di allontanarsi solo per incarico dello Stato. Inoltre: -i collegia furono riportati alle loro funzioni originarie di corporazioni religione o di mestiere, -furono confermate distribuzioni gratuite del grano ma diminuito numero beneficiari; -per decongestionare Roma e l’Italia fu realizzato un programma di colonizzazione e di distribuzione di terre per i cittadini veterani di Cesare e i cittadini meno abbienti, in parte in Italia ma soprattutto nelle province. Ci fu una considerevole attività di ristrutturazione e una serie di lavori pubblici migliorarono l’aspetto di Roma e contribuirono a fornire lavoro. Per combattere la disoccupazione in Italia venne ordinato ai proprietari di impiegare anche nei pascoli non meno di un terzo di uomini liberi. Effetti duraturi ebbe la riforma del calendario civile compiuta da Cesare insieme all’astronomo alessandrino Sosigene. Questa riforma, completata e corretta da papa Gregorio XIII regola ancora oggi l’alternarsi degli anni ordinari e bisestili. Le idi di marzo L’eccessiva concentrazione di poteri, il moltiplicarsi di onori senza precedenti, il fatto che ogni carriera politica potesse ormai svolgersi solo con l’appoggio di Cesare, alcuni atteggiamenti suoi e di alcuni suoi collaboratori che parvero rivelare un’inclinazione verso la regalità, allarmarono non solo i pompeiani superstiti ma anche alcuni sostenitori di Cesare. Nei primi mesi del 44 Cesare aveva preparato una grande campagna militare contro i Parti, con l’intenzione di stabilire l’egemonia romana in Asia compromessa dal disastro di Crasso e dagli scontri tra pompeiani e cesariani. A Roma venne diffuso l’oracolo secondo cui i Parti sarebbero potuti essere sconfitti solo da un re e ciò aumentò i sospetti di aspirazioni monarchiche di Cesare. Fu allora ordita una congiura prima della sua partenza per l’impresa partica: alle idi di marzo (15 marzo) del 44 a.C. egli venne ucciso nella curia di Pompeo, dove doveva presiedere una seduta del senato. CAPITOLO 4: Agonia della Repubblica Eredità di Cesare; guerra di Modena Abbattuto Cesare, i Cesaridici non si erano preoccupati di eliminare anche i suoi principali collaboratori: Marco Emilio Lepido, console e governatore della Gallia, e Marco Antonio, uno dei suoi più fidati luogotenenti. Questi cominciarono a riorganizzarsi mentre i cesaricidi dimostrarono la totale mancanza di un programma che andasse al di là dell’assassinio di Cesare e di una proclamazione di aver restaurato la libertà repubblicana da lui minacciata. Antonio riuscì a imporre una politica di compromesso, che venne ratificata dal senato: da un lato l’amnistia per i congiurati e dall’altro la convalida degli atti di Cesare e il consenso ai suoi funerali di Stato. Publio Cornelio Dolabella fu console insieme ad Antonio e dopo il consolato ad Antonio sarebbe toccata la Macedonia, e a Dolabella la Siria. Fu abolita la dittatura dalle cariche di stato. Antonio approfittò del possesso delle carte private di Cesare per far passare una serie di progetti di legge che egli sostenne di avervi trovato e che gli assicurarono grande popolarità facendone l’autentico interprete della politica di Cesare e il suo continuatore. Alla lettura del testamento si scoprì che egli aveva nominato come erede effettivo per i tre quarti dei beni suo figlio adottivo, Caio Ottavio, suo pronipote. Il resto del patrimonio andava ad altri due parenti di Cesare Lucio Pinario e Quinto Pedio. Appena saputo del testamento Ottavio giunse a Roma e reclamò l’eredità e una volta entratone in possesso, nonostante l’ostruzionismo di Antonio, pose la tutela e la celebrazione del padre adottivo e la vendetta della sua morte al centro della sua politica. Ebbe l’appoggio dei cesariani e dei veterani, mentre il senato lo vedeva come un mezzo per arginare lo strapotere di Antonio, il quale allo scadere del suo consolato si era fatto assegnare al posto della Macedonia le due province della Gallia Cisalpina e Gallia Comata per controllare l’Italia più da vicino. Quando Antonio mosse verso la Cisalpina, il governatore originariamente designato, Decimo Bruto, si rifiutò di cedergliela e si rinchiuse a Modena assediato da Antonio: ebbe inizio così la guerra di Modena nel 43 a.C. Il senato ordinò ai due consoli Aulo Irzio e Caio Vibio Pansa di muovere in soccorso di Decimo Bruto. Ad essi venne associato con imperium propretorio anche Ottavio. Antonio fu battuto e fu costretto a ritirarsi verso la Narbonese, dove contava di unirsi a Lepido. Il triumvirato costituente; le proscrizioni; Filippo Poiché entrambi i consoli erano scomparsi, Ottavio chiese al senato il consolato per sé e ricompense per i suoi soldati. Al rifiuto, marciò su Roma: nell’agosto del 43 venne eletto console, in spregio a ogni regola, insieme al cugino. I due consoli fecero revocare l’amnistia e istituirono un tribunale per perseguire gli assassini di Cesare. Lo scontro determinante avvenne ad Azio nel 31 a.C con una battaglia navale vinta da Agrippa per Ottaviano. Antonio e Cleopatra si rifugiarono in Egitto, ma Ottaviano vi penetrò e prese Alessandria. Prima Antonio e poi Cleopatra si suicidarono e l’Egitto fu dichiarato provincia romana. Anche Tolomeo Cesare venne ucciso. PARTE QUARTA: L’impero da Augusto alla crisi del III secolo CAPITOLO 1: Augusto Azio e la cesura tra storia repubblicana e storia del principato Nel 31 a.C. Ottaviano, grazie alla vittoria di Azio, si trovò ad essere padrone assoluto dello Stato romano. Le soluzioni via via adottate da Ottaviano finirono progressivamente per segnare una cesura fondamentale nella storia romana. Da indagini approfondite è apparso che le forme che scaturirono dalla duratura presenza del primo imperatore sulla scena politica siano state frutto di continui aggiustamenti e ripensamenti pur connessi a una logica di fondo. Ottaviano raggiunse i suoi risultati lungo un arco di tempo molto lungo quindi non si tratta di un atto rivoluzionario ma di un adattamento naturale e molto graduale. L’impero si è definito e consolidato per tappe. Convenzionalmente si fa iniziare il principato, cioè il regime istituzionale incentrato sulla figura di un princeps, nel 31 a.C. Arriva così a compimento il processo di personalizzazione della politica che aveva visto l’emergere, nella tarda Repubblica, di figure di politici e generali che avevano affermato il proprio potere personale grazie alla disponibilità di eserciti fedeli, alle guerre di espansione e allo sfruttamento economico delle province. Il rapporto con gli organismi repubblicani e il potere del principe: la traslatio dello Stato al volere decisionale del senato e del popolo romano nel 27 a.C. Il ritorno in Italia di Ottaviano nel 29 a.C. fu segnato dalla celebrazione di tre trionfi: per le campagne dalmatiche nel 35-33, per la vittoria di Azio nel 31 e per la vittoria sull’Egitto del 30 a.C. Gli anni dal 30 al 27 furono determinanti per l’impostazione del progetto ottavianeo di ritorno alla normalità senza rinunciare all’acquisita posizione di preminenza. Dal 31 al 23 a.C. Ottaviano fu eletto ininterrottamente console. Il processo di riconoscimento giuridico della nuova forma istituzionale iniziò in realtà solo nel 27. In una famosa seduta del senato, Ottaviano rinunciò formalmente a tutti i suoi poteri straordinari, accettando solo un imperium proconsolare per 10 anni sulle province non pacificate, la Spagna, la Gallia, la Siria, la Cilicia, Cipro e l’Egitto. Qualche giorno dopo il senato lo proclamò Augusto, epiteto che lo sottraeva alla sfera propriamente politica per proiettarlo in una dimensione sacrale infatti il termine augusto va ricollegato al verbo latino augere che significa innalzare. Importante è un documento che va sotto il nome di Res Gestae: è un vero testamento politico che Augusto redasse poco prima di morire, in cui si coglie l’alone carismatico che circondava la sua persona e che lo rendeva effettivamente princeps, primo uomo dello stato. La politica di Augusto è ispirata alla prudenza e al compromesso con la tradizione senatoriale repubblicana. La crisi del 23 a.C. Tra il 27 e il 25 Augusto si recò in Gallia e poi in Spagna, dove combatté contro gli Asturi e i Cantabri che non si erano sottomessi al dominio romano. Così facendo dimostrava di provvedere alla pacificazione dei territori provinciali e nello stesso tempo rafforzava il contatto con l’esercito e con i veterani nelle province. Anche negli anni successivi alternerà periodi triennali passati nelle province e periodi biennali a Roma in modo che l’assestamento del nuovo ordine potesse compiersi gradualmente e in modo da rispettare la prassi secondo la quale a Roma governavano il senato, il popolo e i magistrali, mentre lui, come console/promagistrato pacificava le province. Nel 23 si verificò una grave crisi: In Spagna Augusto si era ammalato e si sentì in fin di vita. L’aspetto più delicato del principato augusteo riguarda la successione del principe. In linea di principio il problema non esisteva infatti i poteri conferiti ad Augusto erano individuali e non trasmissibili ad altri. Con la sua morte la gestione della cosa pubblica sarebbe tornata agli organi istituzionali dello stato. Ma la situazione che si era venuta a creare presupponeva che alla testa dello stato ci fosse una sola persona e la mancanza di precedenti e di una prassi per la sua sostituzione implicava il pericolo di vuoto di potere. Si sarebbero potute scatenare altre guerre civili. In assenza di figli maschi, la sua unica figlia Giulia venne data in sposa prima a Marcello, nipote di Augusto e poi, dopo la morte di Marcello, ad Agrippa, fedele generale che divenne così un possibile aspirante. Augusto depose il consolato che aveva detenuto ininterrottamente dal 31 e ottenne un imperium proconsulare, definito imperium maius, che gli consentiva di agire con i poteri di un promagistrato su tutte le province ma non gli consentiva quando si trovava a Roma di agire nella vita politica: per ovviare a tale impedimento il principe ricevette dal senato il potere di un tribuno della plebe, vitalizio, anche se rinnovato annualmente. In virtù di esso Augusto diveniva protettore della plebe di Roma, poteva convocare i comizi, porre il veto agli altri tribuni e godere della sacrosanctitas. Il senato inoltre aggiunse il potere di convocare il senato. Augusto continuava a detenere dei poteri che, presi singolarmente, erano compatibili con la tradizione repubblicana, ma lui li deteneva contemporaneamente. La rinuncia alla carica di console lasciava la disponibilità della carica all’aristocrazia senatoria e inoltre con l’introduzione nel 5 d.C. dei consoli suffetti si aumentò il numero dei posti da ricoprire. Le elezioni si erano ristabilite in forma regolare dal 27 a.C. In realtà erano controllate da Augusto attraverso la nominatio (accettazione della candidatura da parte del magistrato che sovrintendeva l’elezione) e la commendatio (raccomandazione da parte dell’imperatore stesso). Nel 5 d.C. Augusto realizzò un sistema di compromesso che teneva conto della nuova realtà politica. Di fatto all’assemblea popolare fu attribuito un ruolo del tutto marginale, mentre si perseguiva una sorta di equilibrio tra principe e senato. Perfezionamento della posizione di preminenza Nel 22 a.C, in seguito a una carestia, Augusto rifiutò la dittatura offertagli e assunse la cura annonae, cioè l’incarico di provvedere all’approvvigionamento di Roma. Nel 19-18 esercitò anche i poteri di censore, ottenendo privilegi consolari tra cui il diritto di utilizzare le insegne dei consoli. Anche ad Agrippa fu riconosciuto un imperium proconsulare di 5 anni con il quale si recò in Oriente mentre Augusto si trovava a Roma. Tra il 22 e il 19 a.C. Augusto sistemò la questione partica e armena tramite trattative diplomatiche e riuscì a recuperare le insegne delle legioni di Crasso e Marco Antonio. Intanto Agrippa, ritornato a Roma, sposò la figlia di Augusto Giulia. Nel 18 sia Augusto che Agrippa si videro rinnovare per 5 anni l’imperium proconsulare, e Agrippa ricevette anche la tribunicia potestas così da rendere la sua posizione sempre più vicina a quella del principe. Agrippa aveva due figli, Lucio Cesare e Caio, i quali vennero adottati da Augusto diventando i suoi successori designati. Nel 12 a.C. quando morì Lepido, la carica di pontefice massimo venne attribuita ad Augusto. L’ultima espressione di riconoscimento della sua posizione di preminenza fu conferimento titolo pater patriae nel 2 a.C. I ceti dirigenti (senatori ed equites) Sia nell’iniziativa politica a Roma sia nel governo dell’Impero, cioè nell’amministrazione delle province, si ebbe una duplice sfera di competenza: quella tradizione repubblicana e quella specifica del princeps. Il Senato, principale organo della politica romana, aveva visto profonda trasformazione nella sua composizione tradizionale con un aumento dei suoi membri da 600 a più di 1000. Augusto mirò a ripristinare la dignità e il prestigio dell’assemblea senatoria favorendo l’accesso delle élite provinciali più fortemente romanizzate. Nel 29/28 Augusto, in veste di console, si fece conferire potestà censoria e procedette alla lectio senatus, cioè alla revisione delle liste dei senatori espellendo dall’assemblea le persone indegne ovvero quelle la cui origine e il cui censo non corrispondeva agli standard previsti. Nel 18 condusse una revisione più radicale, riportando il numero dei senatori a 600 e rendendo la dignità senatoria una prerogativa ereditaria. Durante Repubblica chi possedeva censo di 400 mila sesterzi e rispondeva ad alcune caratteristiche che ne definivano la dignità apparteneva al ceto equestre. Quindi anche i figli dei senatori inizialmente erano cavalieri fino a che non accedevano alla questura. I senatori si distinguevano dagli equites per aver intrapreso una carriera politica e avevano la possibilità di mostrarlo portando il laticlavio, una larga striscia color porpora sulla toga. Nell’ultima fase della repubblica numerosi figli di cavalieri e senatori avevano usurpato di questo diritto, portando il laticlavio senza essere realmente membri del senato. Augusto la vietò ai figli di cavalieri e innalzò il censo minimo per entrare in senato a un milione di sesterzi. In alcuni casi Augusto poteva concedere il diritto di entrare in senato a chi non apparteneva alla famiglia senatoria. Naturalmente era necessario rivestire una magistratura ma Augusto si riservava la facoltà di intervenire designando a una carica i propri cittadini. Addirittura poteva inserire delle persone tra le fila di coloro che avevano rivestito una magistratura attraverso la procedura dell’adlectio. In questo modo Augusto realizzò una distinzione netta tra ordo equester e senatus creando un vero e proprio ordo senatorius formato dalle famiglie senatorie. L’appartenenza all’ordo equester fu codificata attraverso principi generali e appositi senatoconsulti: anche qui l’intervento del principe poteva essere determinante per accedere al ceto equestre. Si definivano così i due raggruppamenti da cui veniva reclutata la classe dirigente dello Stato Romano, gli amministratori militari e civili e i più importanti ufficiali dell’esercito. I senatori detenevano tutte le più importanti magistrature a Roma e le maggiori posizioni di comando civile e militare in provincia. Poiché il loro numero non era sufficiente, vennero impiegati anche dei membri dell’ordine equestre, anche in campito militare e amministrativo. Cursus honorum senatorio (successione delle cariche pubbliche riservate al massimo ordine dello Stato) in età imperiale attraverso tappe: • vigintivirato: non era una vera e propria magistratura ma la denominazione collettiva di diversi collegi magistratuali e le funzioni erano quattro (decemviro per il giudizio delle controversie che doveva giudicare le cause concernenti lo stato civile dei cittadini; triumviro per la pena capitale, triumviro per la coniazione dell’oro, dell’argento e del bronzo, quattuorviro per la cura delle vie di Roma). Il numero complessivo di magistrati che detenevano queste quattro funzioni erano 20 (10+3+3+4), per questo vigintivirato. • un anno di servizio militare: c’erano due tipi di tribunato militare, quello rivestito dagli appartenenti all’ordine senatorio e quello dei membri dell’ordine equestre • quaestor: vi erano diversi tipi di quaestor (quaestor urbanus che era un tesoriere del senato, quaestor propraetore provinciae incaricato dell’amministrazione finanziaria delle province del popolo romano, quaestor principis che era un portavoce dell’imperatore presso il senato, quaestor consulis che era un portavoce del console presso il senato). • tribunus plebis/aedilis: le due magistrature erano sullo stesso piano infatti un uomo politico poteva rivestire l’una o l’altra e i patrizi potevano saltare il grado tribunizio/edilizio del corsus honorum per passare al gradino successivo. • praetor: vi erano diversi tipi di praetor (praetor urbanus che amministrava le cause giudiziarie dei cittadini romani, praetor peregrinus che amministrava la giustizia nelle cause in cui almeno una delle due parti non aveva la cittadinanza romana, praetor aerarii incaricato della sovrintendenza dell’aerarium, la cassa statale). Gli ex pretori erano chiamati a rivestire alcune funzioni tra cui legato legionis, che era il comandante della legione, legatus Augisti pro praetore provinciae che era il governatore di una delle province imperiali, proconsul governatore di una delle province del popolo romano di minore importanza. • consul: i consoli possono essere ordinari o suffetti cioè quelli che entravano in carica nel corso dell’anno sostituendo i consoli ordinari. Gli ex consoli potevano rivestire alcune funzioni per esempio curator operum publicorum, legatus Augusti pro praetore cioè il governatore di una delle più importanti province imperiali, proconsul cioè il governatore di una delle più importanti province del popolo romano (Africa e Asia), praefecus urbi. • censor: la censura, vertice della carriera viene rivestita solo dagli imperatori. La carica scompare con Domiziano. Carriera equestre in età imperiale attraverso tappe: • comandi militari: in genere tre (comando di un reparto della fanteria ausiliaria, comando di un reparto legionario, comando di un reparto della cavalleria ausiliaria). La propaganda di Augusto non riuscì, tuttavia, a mascherare un insuccesso cioè la mancata sottomissione della Germania. L’obiettivo da conseguire era la linea del fiume Elba. All’Elba i Romani arrivarono con Druso nel 9 a.C. e con altri generali, ma il territorio germanico a oriente del Reno non fu mai stabilmente sottomesso. Nel 6 d.C. scoppiò una grande rivolta delle tribù germaniche che riuscirono a far fronte comune contro l’invasore. Nel 9 d.C. nella foresta di Teutoburgo Quintilio Varo fu sconfitto da Arminio e tre legioni furono annientate. Negli anni successivi si tentarono altre spedizioni in Germania ma si trattava di operazioni di carattere limitato. La frontiera rimase il Reno. La successione I poteri che Augusto aveva via via ricevuto dal senato e che insieme al suo carisma ne avevano creato l’auctoritas non costituivano una vera e propria carica a cui qualcuno potesse succedere, né tali poteri potevano essere trasmessi con un singolo atto a una persona della sua famiglia senza ledere le prerogative dell’ordinamento repubblicano. Augusto non aveva figli maschi ma solo una figlia femmina, Giulia, quindi doveva trovare il modo di far si che la sua posizione di potere non andasse perduta con la sua morte ma rimanesse nella sua famiglia senza però imporre una svolta apertamente monarchica alle istituzioni. La prima preoccupazione di Augusto fu quella di integrare la sua famiglia nel nuovo sistema politico e nella propaganda ideologica celebrandone l’ascendenza divina. Come pater familias sottolineava inoltre il carattere romano tradizione della propria gens e la ampliava con i successivi matrimoni della figlia Giulia e le adozioni allargando l’area del suo prestigio anche ad amici stretti e collaboratori. L’erede scelto all’interno della famiglia avrebbe ricevuto non solo il patrimonio privato ma anche una sorta di prestigio che gli garantiva accesso privilegiato alla carriera politico-militare e un ruolo singolare nella res publica. Fu attraverso il matrimonio di Giulia con il nipote Marcello, figlio di sua sorella Ottavia, che Augusto nel 23 a.C. cercò di inserire un discendente maschio nella famiglia dotandolo di prerogative quali l’ammissione al senato e il consolato prima dell’età prevista, per renderlo il più possibile adatto ad assumere almeno alcune delle proprie competenze, visto che si sentiva vicino alla morte per la grave malattia che lo aveva colpito in Spagna. Augusto recuperò la salute e superò la crisi politica mentre Marcello morì nello stesso 23 a.C. La seconda personalità a cui Augusto fece attribuire poteri analoghi a quelli che lui aveva accumulato fu Agrippa, il quale divorziò dalla prima moglie e sposò Giulia. Agrippa ricevette l’imperium proconsolare e la potestà tribunizia. Nel 17 Augusto adottò i figli di Agrippa, Caio e Lucio Cesari, preparandoli a un eventuale successione al padre, ma nel 12 Agrippa morì quando i due ragazzi erano ancora minorenni, ma comunque morirono anche loro giovanissimi. Augusto si rivolse poi ai figli della terza moglie Livia, nati dal primo matrimonio di lei con Tiberio Claudio Nerone: Tiberio e Druso. Tiberio divorziò e sposò Giulia nell’11 a.C, ricoprì due volte il consolato e celebrò persino trionfo per campagne germaniche nel 7 a.C., ricevette nel 6 a.C. la potestà tribunizia, ma poi si ritirò dalla vita politica e si autoesiliò nell’isola di Rodi, forse a causa del pessimo rapporto con Giulia. Tornò a Roma nel 2 a.C. dopo aver sciolto il matrimonio con Giulia, colpita da uno scandalo a causa dei suoi amanti e condannata all’esilio dal padre che aveva proposto a Roma una serie di leggi moralizzatrici. Augusto pretese che Tiberio adottasse Germanico, figlio di suo fratello. Tiberio adottò Germanico e Augusto adottò contemporaneamente Tiberio. A Tiberio successivamente furono attribuiti la potestà tribunizia e l’imperium proconsolare. Nel 13 d.C. celebrò trionfo sui germani e gli venne conferito un imperium pari a quello di Augusto in modo che potesse intervenire in tutte le province e che l’esercito potesse essere interamente sotto il suo comando. Così alla morte di Augusto esisteva una personalità con pari poteri in campo civile e militare. Organizzazione della cultura Uno specifico programma figurativo esaltava la pacificazione e una fittizia discendenza da una progenitrice divina Venere e un mitico progenitore, Enea. Ma la politica culturale di Augusto non trovò espressione solo nelle arti figurative e nella trasformazione architettonica di Roma. La celebrazione della pace e della figura provvidenziale di Augusto si manifestò anche in pubbliche cerimonie, nella letteratura, nella monetazione e nel coinvolgimento degli intellettuali nella promozione del consenso al suo programma di restaurazione morale all’interno dello Stato e di pacificazione all’esterno. Uno dei documenti che lascia intendere come Augusto interpretasse la propria opera è la sua autobiografia Res Gestae in cui egli ripercorre tutte le tappe del proprio operato. Attraverso le opere di storici come Tito Livio o dei grandi poeti dell’età augustea possiamo intendere quali fossero i messaggi, le idee e la politica culturale dell’epoca. Virgilio nelle Ecloghe e nelle Georgiche canta la pace che il nuovo regno ha garantito e il ritorno alla sicurezza nella tradizionale vita dei campi, nell’Eneide celebra Enea come antenato di Augusto e profetizza il suo dominio universale. Pure in Orazio, Properzio, Ovidio si riflette la propaganda dominante dell’epoca. L’adesione degli intellettuali al programma del principe si doveva in gran parte a Mecenate. Questi con un’opera di persuasione o di aiuto, riuscì a legare poeti e artisti agli ideali della politica augustea e a coniugare il fiorire di una raffinata letteratura basata sui modelli della cultura letteraria greca con l’adesione ai tradizionali valori italici e romani. Non si deve pensare però ad un’adesione totale degli intellettuali: dobbiamo tener conto di quanto non ci è pervenuto e di ciò che può essere stato sottoposto a cancellazione. Sappiamo dell’esistenza di voci dissidenti, come quella di Asinio Pollione o dello storico Timagene; lo stesso Ovidio, che fece parte del circolo di Mecenate, fu accusato di aver scritto canti che non erano in linea con la riforma dei costumi di Augusto. Altri momenti importanti di esaltazione della figura di Augusto furono le celebrazioni di particolari ricorrenze e l’istituzione di un vero e proprio culto della sua persona. Per le prime possiamo ricordare le celebrazioni dei ludi saeculares, tenuti a Roma nel 17 a.C. secondo gli antichi riti per proclamare la rigenerazione di Roma, o la celebrazione dei giochi che si tenevano ogni quattro anni a Nicopoli, la città fondata sul luogo dell’accampamento di Ottaviano ad Azio, per ricordare la vittoria del 31 a.C Per quanto riguarda la celebrazione della persona di Augusto il suo nome era inserito nelle preghiere del collegio sacerdotale dei Salii, il suo compleanno veniva celebrato pubblicamente ed era prescritto che al suo Genio dovesse essere reso omaggio anche privatamente. Nelle province orientali venne istituito un vero e proprio culto dell’imperatore. In Occidente invece c’era il culto di Cesare divinizzato oppure venivano dedicati altari o tempi al Genio di Augusto, ma non direttamente alla sua persona. CAPITOLO 2: I Giulio Claudi Una dinastia? La morte di Augusto avvenne in Campania nel 14 d.C. Il suo corpo fu trasportato a Roma e le ceneri furono tumulate nel mausoleo fatto costruire in Campo Marzio. Tiberio in senato fece presente come per lui sarebbe stato difficile assumere la somma dei poteri del padre e suggerì piuttosto al senato di affidare la cura dello Stato a più persone, ma il senato lo spinse ad accettare poteri. Era diventato impossibile per il senato pensare a un ritorno della Repubblica senza presenza dell’autorità di un singolo. Tra 14 e 68 d.C. il potere rimase all’interno della famiglia Giulio-Claudia, cioè di discendenti della famiglia degli Iulii cui Augusto apparteneva in quanto era stato adottato da Giulio Cesare, e di quella dei Claudii, cioè dalla famiglia di Tiberio Claudio Nerone, il primo marito di Livia (ultima moglie di Augusto) da cui lei ebbe Tiberio e Druso. Alla morte di Tiberio il potere passò potere a Caligola, figlio di Germanico, il quale era a sua volta il figlio di Druso, e Agrippina. Era una designazione che si basava sulla linea familiare infatti Caligola discendeva per linea femminile da Augusto (infatti sua nonna materna era Giulia, figlia di Augusto) e per linea maschile dai Claudi (il nonno paterno, padre di Germanico, era Druso, fratello di Tiberio). Poi a Claudio, fratello di Germanico, ed è il primo princeps estraneo alla casa Giulia. Infine l’ultimo esponente della dinastia fu Nerone, figlio di Agrippina minore (figlia di Germanico e Agrippina maggiore) e discendente della famiglia Claudia e di quella Giulia solo per parte di madre infatti il padre era un aristocratico estraneo alla famiglia di Augusto. Tiberio (15-37 d.C.) Malgrado la scarsa popolarità di cui Tiberio godeva e la poca simpatia che il suo predecessore aveva per lui, il suo governo fu una positiva prosecuzione di quello augusteo. Dalle fonti emerge il problema dei rapporti tra principe e senato, che durerà per tutta la storia imperiale, ma l’ostilità delle fonti, in particolare Tacito, non deve ingannare: i tratti negativi del carattere di Tiberio, la diffidenza, forse l’invidia nei confronti di personaggi della casa imperiale più popolari di lui, oscurano la sua volontà di rispettare le forme di governo repubblicano già valorizzate da Augusto. Il rifiuto di onori divini da lui più volte ribadito dimostrano il suo spirito tradizionalista. Altre fonti hanno messo in luce invece il valore di Tiberio sia come militare sia come uomo di governo. Tiberio fu un amministratore accorto dello Stato, capace di fronteggiare in modo adeguato delicate congiunture economiche. Durante il suo principato ha modificato definitivamente il sistema elettorale con il passaggio delle votazioni dai comizi a partecipazione popolare al senato. Ma una collaborazione tra principe e senato non corrispose a una comunanza di intenti politici. Durante tutto il suo periodo di governo Tiberio si trovò a fronteggiare una opposizione che rivendicava l’autonomia decisionale e la libertas del senato. All’inizio del suo regno si ebbe la stabilizzazione della frontiera renana ma Tiberio non perseguì ampliamenti territoriali in Germania. La morte di Germanico può essere considerata un caso di delitto politico: Germanico per tutte le sue qualità era un predestinato all’Impero. Tiberio per impedirgli di proseguire il suo disegno di conquiste in Germania lo mandò in Siria dove dovette collaborare con il proconsole Pisone, che forse lo uccise per i gravi contrasti emersi. Morto Germanico si aprì a Roma un contrasto politico tra Tiberio e Agrippina che riuscì a riunire attorno a sé un partito di sostenitori. Si trattava di affrontare il problema della successione alla quale erano candidati il figlio di Tiberio, Druso minore (che tuttavia morì nel 23 d.C.) e uno dei tre figli di Germanico e Agrippina. La svolta nel regno di Tiberio si ebbe a partire dal 23 d.C., quando il prefetto del pretorio Seiano iniziò a crearsi un forte potere personale grazie alle truppe e fiducia di Tiberio. Dal 26 d.C., quando Tiberio lasciò Roma per Capri, Seiano dominò di fatto la vita politica a Roma influenzando in modo determinante le decisioni dell’imperatore e probabilmente aspirava anche alla successione. Nel 31 d.C. dichiarò Agrippina nemico pubblico e imprigionò i suoi due figli accusandoli di tramare contro l’imperatore. Antonia, madre di Germanico riuscì a risvegliare in Tiberio i sospetti su Seiano che fu arrestato e immediatamente giustiziato e processato. Gli ultimi anni del regno di Tiberio non furono felici: scoppiò una grave crisi finanziaria e si acuirono i contrasti con il senato. Si aprì un periodo di terrore segnato da suicidi, processi e condanne. Agrippina si suicidò e i suoi due figli furono uccisi. Rimanevano come possibili successori Tiberio Gemello, figlio di Druso minore, e Gaio, detto Caligola, l’unico sopravvissuto dei figli di Germanico: Tiberio li nominò entrambi eredi congiunti ma alla sua morte, avvenuta nel 37 d.C., il senato riconobbe come suo unico erede Caligola, forse anche grazie all’intervento del prefetto del pretorio Macrone. Caligola (37-41 d.C.) L’impero di Gaio, detto Caligola, fu relativamente breve ed è ricordato soprattutto per le sue stravaganze. Gaio fu accolto con entusiasmo dall’esercito e dalla plebe inaugurando una politica di donativi, grandi spettacoli e ambiziosi piani edilizi che portò all’esaurimento delle riserve finanziarie lasciate da Tiberio. Il senato non era invece favorevole e questo trova riflesso nel ritratto che di Gaio ci ha lasciato Svetonio, dove viene descritto come un folle tiranno, scarsamente interessato al governo dell’Impero e preoccupato solamente di rafforzare il suo potere personale. Le fonti imputano alla malattia mentale di Caligola la sua inclinazione verso forme di dispotismo orientale e l’ondata di esecuzioni, di cui cadde vittima anche il prefetto del pretorio Macrone. In politica estera Caligola si curò di ripristinare in Oriente un sistema di Stati cuscinetto, con i cui sovrani aveva rapporti di amicizia. Ci fu uno scontro con gli ebrei: Caligola per affermare la propria divinità volle porre una propria statua nel Tempio di Gerusalemme suscitando le proteste della popolazione che lo considerava un gesto sacrilego. La richiesta di Caligola aveva risvegliato i violenti conflitti tra Ebrei e Greci nella città della Giudea e dell’Oriente. Nel 41 gennaio Caligola cadde vittima di una congiura organizzata dai pretoriani. La sua morte evitò che scoppiasse il conflitto in Giudea e pose fine ai dissidi nelle città orientali. Il breve principato di Caligola costituisce un episodio premonitore dei rischi inerenti alla struttura stessa del Principato esposto ai rischi di involuzione autocratica e assolutistica. Claudio (41-54 d.C.) Neppure il successore di Caligola, suo zio Claudio ebbe dalla sua parte il favore delle fonti antiche: ce lo presentano come uno sciocco inetto, dedito a manie erudite. Malgrado il suo rispetto per il senato Claudio riformò l’amministrazione centrale che fu divisa in 4 grandi uffici (un segretariato generale e altri tre rispettivamente per le finanze, le suppliche e istruzione dei processi da tenersi davanti all’imperatore). A capo di questi dipartimenti furono chiamati dei liberti, cui la carica conferisce un potere Si erano create le condizioni per una nuova guerra civile, che vide contrapposti senatori, governatori di provincia e comandanti militari che con il sostegno dell’esercito assunsero il titolo di imperatore. Tacito definì quest’anno: longus et unus annus che svelò un caposaldo del potere, cioè che la proclamazione di un imperatore poteva avvenire anche fuori Roma ed essere appannaggio dell’esercito. Soprattutto l’esito finale, con la proclamazione a imperatore di Vespasiano, mostrò come il principato potesse essere rivestito anche da un uomo di origini modeste che solo recentemente era entrato nell’ordine senatorio. La crisi del 69 a.C. fu determinata dunque dalla presenza di quattro imperatori, Galba (esponente dell’aristocrazia senatoria), Otone (esponente dei pretoriani) Vitellio e Vespasiano (entrambi esponenti dell’esercito) che si combattevano l’uno contro l’altro. GALBA: Era un anziano senatore, governatore della Spagna Terraconense. Venne proclamato imperatore dai suoi soldati quando giunse la notizia a Roma della ribellione delle truppe galliche di Vindice, ma egli rifiutò il titolo ritenendo che i militari non avessero il diritto di conferirglielo. Comunque si diede da fare per ottenere il sostegno degli oppositori di Nerone e ottenere l’appoggio dei pretoriani. Galba fu poi riconosciuto imperatore, e accettò il titolo, da una delegazione di senatori ma non seppe guadagnarsi la popolarità e gli appoggi necessari per mantenere il potere. OTONE: Era stato un amico di infanzia di Nerone ed era popolare soprattutto tra i pretoriani e l’ordine equestre. Fu proclamato imperatore il 15 gennaio del 69 ma contemporaneamente le legioni sul Reno, non riconoscendo la sua autorità, proclamarono imperatore Aulio Vitellio. AULO VITELLIO: Era un senatore di rango consolare che aveva rivestito cariche importanti: ebbe il sostegno degli altri eserciti delle Germanie ma anche della Rezia, della Gallia e della Spagna. Riconosciuto imperatore mentre si trovava in Gallia, Vitellio ebbe grandi difficoltà a frenare i soldati che avevano combattuto per Otone e anche a controllare la disciplina dei propri, che si diedero a saccheggi e devastazioni. VESPASIANO: Apparteneva a una famiglia italica di Rieti. Nerone, che ne aveva riconosciuto l’abilità militare e non aveva da temere la sua fedeltà, lo aveva mandato a sedare la rivolta in Giudea nel 66 con tre legioni. Vespasiano venne acclamato imperatore dalle truppe stazionate ad Alessandria, poi dagli eserciti presenti in Giudea, dalle legioni della Siria e infine quelle danubiane. Mentre si trovava in Egitto Vespasiano fu riconosciuto imperatore dal senato grazie all’intervento di Muciano che governò Roma per un primo tempo insieme a Domiziano, il figlio minore di Vespasiano. Dinastia flavia (68-96 d.C.) Con Vespasiano ebbe inizio la dinastia Flavia che comprende il periodo di Impero di Vespasiano stesso e dei suoi due figli Tito e Domiziano. Il fatto di avere due figli e di poter garantire una certa stabilità all’Impero fu uno dei fattori di successo di Vespasiano. L’idea della trasmissione dinastica del potere sarà celebrata attraverso l’esaltazione della aeternitas imperii, ovvero della stabilità dell’istituzione imperiale. Tale ideale, introdotto già in età tiberiana, riemerge ora in un momento in cui è necessario infondere sicurezza all’opinione pubblica scossa dalle guerre civili. La dinastia durò fino al 96 d.C., quando Domiziano suscitò grande opposizione, venne ucciso e venne proclamato un nuovo princeps. Vespasiano (69-79 d.C.) Il principato di Vespasiano rappresenta un progresso nella razionalizzazione dei poteri dell’imperatore e nel definitivo consolidamento dell’Impero come istituzione. L’autorità del nuovo princeps fu definita da un decreto (lex de imperio Vespasiani) del senato approvato dai comizi, in cui si elencano tutti i poteri del princeps. Vespasiano dovette fronteggiare il grave deficit nel bilancio provocato dalla politica di Nerone e dalla guerra civile. I provvedimenti presi gli diedero la fama di imperatore tirchio, ma in realtà fu un ottimo amministratore riuscendo a risanare il bilancio dello Stato. Estese ai cavalieri la responsabilità di alcuni uffici togliendoli ai liberti, fece fronte alla crisi di reclutamento dovuta al peggioramento delle condizioni sociali ed economiche dell’Italia, favorendo l’estensione della cittadinanza ai provinciali e reclutando sempre più spesso i legionari dalle province. La politica di integrazione con le province si manifestò anche con la concessione del diritto latino alle città peregrine della Spagna e con l’immissione in senato di numerosi esponenti delle élite delle province occidentali. Il denaro per la ricostruzione del Campidoglio e per le nuove opere edilizie a Roma tra cui la costruzione del Colosseo e del Foro Romano vennero anche dal bottino di guerra, specialmente quella Giudaica Negli anni del suo impero Vespasiano stabilì l’ordine nelle zone di confine lasciate sguarnite dalle truppe che avevano partecipato alle guerre civili, così sul Danubio e in Britannia. In questa ultima provincia riprese una politica di estensione che fu portata avanti poi da Agricola sotto il principato di Domiziano. In Germania annette l’area dei cosiddetti agri decumates, lungo il corso superiore dei fiumi Reno e Danubio che servono poi a Domiziano come base per la costruzione della fortificazione del limes germanico. In Oriente abbandonò la politica dei regni clienti, aggregandone i territori alle province esistenti o creando delle nuove province. Complessivamente riuscì a godere di un certo consenso e abbiamo notizia solo di un episodio di opposizione: alcuni senatori cinici e stoici, reclamavano maggiore considerazione delle prerogative senatorie. Vespasiano reagì a tali dissensi mettendo a morte e bandendo alcuni filosofi di Roma. Tito (79-81 d.C.) Per la successione Vespasiano seguì il sistema avviato da Augusto: Tito oltre a ricoprire insieme al padre alcune magistrature, tra cui il consolato e la censura, era stato eccezionalmente prefetto del pretorio pur non appartenendo all’ordine equestre ma a quello senatorio, e già dal 71 aveva ricevuto l’imperium proconsolare e la potestà tribunizia ma anche i titoli di Augusto e di pater patriae. Nel 79 d.C., dopo la morte del padre prese il potere Tito. Il suo breve regno, chiamato dagli antichi “amore e delizia del genere umano” fu funestato da gravi calamità naturali in particolare l’eruzione del Vesuvio. La popolarità di Tito è legata a politica di munificenza, in parte giustificata da questi eventi catastrofici, che si discosta dalla parsimonia del padre. Domiziano (81-96 d.C.) La fama risente dell’ostilità tradizione storiografica. Se il suo regno, relativamente lungo, è contraddistinto da uno stile di governo autocratico, e quindi odiato dal senato, la sua azione politica fu efficace. Si preoccupò dell’amministrazione delle province, di reprimere gli abusi dei governanti e di promuovere compiti burocratici del ceto equestre. Rinunciò a vaste conquiste militari a favore di operazioni di consolidamento della frontiera. Dopo una campagna combattuta nell’83 d.C. in Germania, sul medio Reno, contro i Chatti, il territorio conquistato fu controllato attraverso l’impianto di accampamenti fortificati collegati tra loro da una rete di strade, e con opere difensive presidiate da soldati ausiliari sul limes. In questo periodo fu segnata la linea esterna di confine oltre il Reno, lungo la catena dell’Alto Tauno, tra il fiume Lahn e il fiume Meno, attraverso la costruzione di importanti opere difensive costituite da torri di guardia di legno e terrapieni che collegavano tra loro gli accampamenti degli auxiliarii. Si inaugurò così un sistema di difesa dei confini che a partire da Adriano fu impiegato per tutto l’Impero. La parola limes, che nel I secolo designava le strade che si inoltravano nei territori non ancora conquistati, dotate di posti fortificati e destinate a facilitare la penetrazione della romana, passò ad assumere il significato di frontiera artificiale, in cui le strade limitanee servivano a collegare tra loro gli accampamenti e di fatto a disegnare la linea di separazione tra l’impero e i territori esterni. Nell’85 si andava profilando il problema della Dacia, attuale Romania, nella quale il re Decebalo era riuscito a unificare le varie tribù e a guidarle in varie incursioni contro il territorio romano. Una prima campagna non ebbe successo, la seconda, guidata da Domiziano in persona, fu interrotta da rivolta di Saturnino, governatore della Germania superiore, proclamato imperator dalle sue legioni. Domiziano fu costretto stipulare una pace provvisoria. La rivolta di Saturnino ebbe pesanti ripercussioni sulla politica di Domiziano: inaugurò un periodo di persecuzione ed eliminazione di persone sospettate di tramare contro di lui. Lo stile autocratico costò caro a Domiziano, che si era autoproclamato censore a vita e si faceva chiamare “signore e dio”. Egli nel 96 d.C. cadde vittima di una congiura, cui partecipò forse anche sua moglie. Il senato, dopo la sua morte, proclamò la sua damnatio memoriae, cioè a decretare che fossero abbattute tutte le sue statue, cancellato il suo nome dalle iscrizioni e distrutto ogni suo ricordo. Di conseguenza la storiografia di matrice senatoria, Tacito e Plinio il Giovane, ci lascia di lui l’immagine di un pessimo e dispotico imperatore. Il sorgere del cristianesimo Il cristianesimo, che nasce dall’ebraismo, si sviluppa tra il I e il II secolo d.C. come religione strutturata scaturita dalla predicazione del suo fondatore, Gesù Cristo, originario di Nazareth, in Galilea, al tempo di Augusto e morto in croce sotto Tiberio, riconosciuto dai cristiani come figlio di Dio venuto in terra a portare il messaggio universale di salvezza. Le prime comunità cristiane sorsero in seguito alla predicazione di Gesù e all’annuncio degli apostoli della sua resurrezione dai morti. Le comunità cristiane si organizzarono in un primo tempo in forme diverse nelle singole città mentre invece dall’inizio del II secolo prevalse la struttura di comunità guidate da un singolo responsabile detto episcopos. L’autorità romana imperiale aveva affrontato la questione giudaica non distinguendo tra ebrei e cristiani, considerandola un problema di nazionalità piuttosto che di religione. Augusto aveva concesso alle comunità ebraiche dell’Impero la libertà di culto, la possibilità di conservare i propri costumi e di mantenere il proprio legame con il tempio di Gerusalemme. In diverse occasioni le comunità ebraiche furono avvertite come elemento estraneo. Sotto Tiberio gli ebrei furono espulsi da Roma insieme ai seguaci dei culti egizi perché la diffusione di culti stranieri veniva vista in contrasto con il mos maiorum. Caligola, attraverso l’affermazione del culto dell’imperatore vivente, ha provocato una grave crisi nei rapporti con i Giudei e tra questi e le comunità greche. Claudio poi ristabilì la tolleranza inaugurata da Augusto, ma anch’egli nel 49 d.C. espulse gli ebrei da Roma. A partire da Nerone, divenne evidente il contrasto tra l’autorità imperiale e la nuova religione cristiana, la quale veniva considerata come sovversiva e pericolosa, in quanto non poteva integrarsi in nessun modo con la religione tradizionale e il culto imperiale. Anche l’opinione pubblica riteneva che i seguaci della setta fossero dediti a pratiche mostruose. Nerone approfittò di questo clima per accusare i cristiani dell’incendio di Roma avvenuto nel 64 d.C. e si iniziò contro di loro una cruenta persecuzione in cui trovarono la morte Pietro e Paolo. Gli ultimi anni di Nerone videro anche la rivolta degli Ebrei in Palestina. Dopo che Vespasiano e Tito ebbero stroncato la rivolta e distrutto il tempio di Gerusalemme e annientato gli ultimi focolai di resistenza, non furono poste limitazioni al culto. Ebrei e cristiani subirono invece l’ostilità di Domiziano che per attuare una politica di legittimazione religiosa volle promuovere la figura del principe come rappresentante di Giove sulla Terra. Non sappiamo se il fatto di praticare la religione cristiana fosse di per sé un reato. A tal proposito risulta importante una testimonianza che ci è pervenuta dall’epistolario di Plinio il Giovane, il quale in una lettera all’imperatore Traiano, gli chiede come si sarebbe dovuto comportare nei confronti delle comunità cristiane e Traiano rispose che gli ebrei non dovevano essere ricercati ma dovevano essere puniti solo se espressamente denunciati e non si accettavano denunce anonime. Inoltre se chi veniva denunciato affermava di non essere cristiano e ne dava prova non doveva essere punito. Nel corso del II secolo d.C. il cristianesimo mise salde radici in tutto l’Impero, diventando un fenomeno che non poteva più essere ignorato dalle autorità, anche se processi, denunce e persecuzioni continuarono contro singoli o comunità continuarono. CAPITOLO 4: Il II secolo Il II secolo d.C. è considerato l’età più prospera dell’Impero romano che, sicuro nei suoi confini, poté godere di un notevole sviluppo economico e culturale. La stabilità conseguita con il regime successorio instauratosi a partire da Nerva, per cui al consanguineo è preferito colui che mostra di saper meglio governare, contribuì alla ordinata amministrazione dell’Impero. A questa soluzione non si è arrivati in modo indolore. L’adozione di Traiano da parte di Nerva avvenne in uno stato di grave necessità quando la fedeltà dei pretoriani a Domiziano sembrava far sì che si ripetessero per Roma nel 97 i giorni delle guerre civili del 69. Nerva (96-98 d.C.)a Adriano avvertì l’importanza del ceto equestre per l’amministrazione finanziaria e ne riorganizzò la carriera: introdusse una distinzione tra carriera civile e militare, una scala di rango definita sulla base del compenso e estese il campo d’azione dei cavalieri con l’impiego di procuratori equestri. I nuovi funzionari furono impegnati in incarichi relativi all’amministrazione del patrimonio imperiale, all’amministrazione fiscale, agli uffici dell’apparato burocratico. Adriano come successore scelse il console Lucio Elio Cesare che adottò, ma questo morì prematuramente, allora la sua scelta si indirizzò verso un senatore della Gallia Narbonense, Arrio Antonino, il quale a sua volta adottò Lucio Vero, figlio del console Lucio Elio, insieme a un nipote della propria moglie, il futuro imperatore Marco Aurelio. Antonino Pio (138-161 d.C.) Il regno di Antonino Pio si pose in continuità con quello del suo predecessore. Tuttavia Antonino rinunciò ai grandi viaggi attraverso l’Impero infatti già nella carriera precedente aveva privilegiato gli incarichi amministrativi piuttosto che militari e aveva trascorso gran parte della sua vita in Italia. Ebbe buoni rapporti con il senato, fu un coscienzioso e parsimonioso amministratore. Lo statuto delle città Nell’età di Antonino l’impero raggiunse l’apogeo del suo sviluppo e del consenso presso l’élite delle province e delle città. Elio Aristide, retore greco, scrisse un elogio dell’Impero Romano in cui sottolinea il processo di integrazione dei ceti dirigenti provinciali e il valore attribuito alla vita cittadina. Nell’impero romano vi era una grande varietà di tipologie cittadine e soprattutto una grande diversità di statuti, a seconda del loro grado di integrazione nello Stato Romano: 1. Città peregrine, cioè quelle preesistenti alla conquista, si distinguono in base al loro status giuridico: • città stipendiarie: pagano un tributo; • città libere: hanno diritti speciali concessi da Roma; • città libere federate: città libere che hanno concluso un trattato con Roma su un piede di eguaglianza; 2. Municipi: città a cui è stato concesso di elevare il proprio status precedente e ai cui abitanti è accordato il diritto romano o latino; 3. Colonie: città di nuova fondazione con apporto di coloni che godono della cittadinanza. La colonia adotta il pieno diritto romano ed è organizzata a immagine di Roma. Con Claudio le città potevano divenire colonie come privilegio onorario senza che ci fosse né una nuova fondazione nè un effettivo trasferimento nella città di nuovi coloni ma come riconoscimento del grado di romanizzazione raggiunto dalla comunità. Si realizzava così una gerarchia tra le città tale da favorire lo spirito di emulazione dato che le città peregrine aspiravano a diventare municipi di diritto latino e questi ultimi desideravano ottenere il diritto romano. L’evoluzione delle singole città comportava, attraverso l’estensione del diritto latino o della cittadinanza romana, l’integrazione dei provinciali nell’Impero. Le città inoltre costituivano il punto di riferimento delle attività economiche e il nucleo della vita culturale. Marco Aurelio (161-180 d.C.) Salito al trono, Marco Aurelio, divise il potere con il fratello adottivo Lucio Vero: questo è il primo caso di doppio principato. All’inizio del regno si riaprì questione orientale con i parti: la guerra, condotta da Vero, si concluse vittoriosamente nel 166, ma fu causa indiretta della crisi degli anni successivi. L’esercito tornando dall’Oriente portò con sé la peste, che causò lutti e devastazioni in molte regioni con gravi conseguenze economiche. Inoltre si crearono le condizioni affinchè i barbari del Nord, soprattutto Quadri e i Marcomanni, avanzassero oltre il Danubio. Essi invasero la Pannonia, la Rezia e il Norico e giunsero persino a minacciare l’Italia. Marco Aurelio e Lucio Vero furono quindi impegnati nella difesa della frontiera danubiana. Come risposta a questa situazione d’emergenza si creò la praetentura Italiae et Alpium, cioè la difesa avanzata dall’Italia e dalle Alpi. Morto Lucio Vero nel 169, Marco Aurelio riuscì a ristabilire la situazione preesistente e a respingere i barbari a nord del Danubio solo nel 175. Un sintomo del malessere dell’impero fu la rivolta del governatore di Siria Avidio Cassio che nel 175 si autoproclamò imperatore, ma venne ucciso dalle sue stesse truppe. Marco Aurelio fu uno stoico e autore di un’opera di riflessione morale dal titolo A se stesso. Egli incarna l’immagine dell’imperatore-filosofo, con un’alta concezione del proprio dovere verso i sudditi. Con lui si tornò alla prassi della successione dinastica: gli successe il figlio Commodo, che risultò del tutto indegno della carica. Durante il regno di Marco Aurelio nel 177 a Lione avvenne un episodio di cruenta persecuzione contro i cristiani. Commodo (180-192 d.C.) Commodo divenne imperatore a soli 19 anni e si dimostrò la perfetta antitesi del padre. Concluse definitivamente la pace con le popolazioni che premevano sul Danubio, rinunciando al progetto del padre di controllare anche regioni a nord del fiume. Le inclinazioni dispotiche, la sua stravaganza e le innovazioni religiose determinarono la rottura con il senato, di cui perseguitò svariati membri. Dal 182 al 185 il governo fu di fatto in mano al prefetto del pretorio Tigidio Perenne: quando questo fu ucciso, il suo ruolo fu preso da Cleandro che si fece nominare prefetto del pretorio senza aver percorso le precedenti tappe della carriera. Cleandro approfittò del disinteresse di Commodo per le istituzioni per vendere i titoli di console e altre magistrature, per promuovere dei liberti al senato e per rovesciare le decisioni dei tribunali in cambio di denaro. Furono sospese le somme per i sussidi delle istituzioni alimentari e per i donativi ai soldati. Una grave carestia che colpì Roma nel 190 d.C. fece cadere il potere di Cleandro. L’imperatore poi lasciò il governo in mano a un Cortigiano Ecleto e al prefetto del pretorio Leto, che completarono il dissesto delle finanze e ordirono la congiura che mise fine al regime nel 192 d.C.e poi a Eclecto e Leto, che ordirono la congiura del 192. Commodo non mostrò cura per le province né per gli eserciti stanziati nell’Impero. Il consenso interno era fondato sulla plebe di Roma e sui pretoriani piuttosto che sull’aristocrazia e sul senato. Tuttavia sotto il principato di Commodo ci furono fenomeni di integrazione della cultura provinciale con l’accoglienza di molte divinità straniere nel pantheon romano. Commodo si propose come divinità in terra e questo atteggiamento fu un ulteriore elemento di dissenso con il senato. La tradizione filosenatoria dipinse Commodo come il peggiore dei tiranni, sprezzante nei confronti del senato e di Roma, propugnatore di un regime depravato e sanguinario tanto che alla sua morte la sua memoria fu condannata e il suo nome cancellato. L’economia romana in età imperiale Uno dei fattori che caratterizzarono la storia economica dell’impero è rappresentato dall’eccezionale fabbisogno alimentare di Roma contando che vi era concentrato circa un milione di abitanti e che un sesto dell’intera popolazione della penisola italiana si trovava a Roma. La gestione del complesso dei servizi finalizzati al vettovagliamento di Roma era affidata alla prefettura dell’annona, riservata a un personaggio di rango equestre. Il grano veniva fatto confluire dall’Egitto e dall’Africa settentrionale, l’Olio dalla Betica, la provincia più meridionale della Spagna e il vino dalle Gallie. La domanda molto alta era alla base di un commercio su larga scala che necessariamente doveva sollecitare la produzione provinciale. Date le note difficoltà e l’alto costo del trasporto per terra, le rotte marittime erano particolarmente utilizzate. A partire dalla seconda metà del I secolo era chiara la forte presenza delle province sul mercato italico. Nelle province si andò realizzando l’urbanizzazione e la monetizzazione, l’incremento dell’area del mercato. Inoltre l’intensificazione delle colture è riconducibile all’organizzazione di aziende agricole, le “ville”. Il grado di sviluppo conosciuto dall’economia romana all’inizio dell’età imperiale è stato tanto importante da richiedere una categorizzazione a sé stante: va considerata come una “peculiare economia preindustriale”. PARTE QUINTA: Crisi e rinnovamento (III-IV secolo) CAPITOLO 1: La crisi del III secolo e le riforme di Diocleziano La crisi del III secolo e le riforme di Diocleziano Già durante il regno di Marco Aurelio e del figlio Commodo si manifestarono diversi fattori di crisi che divennero ben presto veri e propri elementi di disgregazione. In campo politico il senato si trovò esautorato a vantaggio dei militari, dato che i bisogni dell’esercito crescevano per contenere la spinta delle popolazioni barbariche; in campo fiscale la svalutazione della moneta impoverì i ceti medi, portando con sé la decadenza economica delle città; ci fu inoltre una profonda crisi morale, dovuta alla diffusa sfiducia nei valori tradizionali. Tali elementi di crisi, aggravandosi nel III secolo, portarono lo stato Romano in una situazione difficile. Due furono le componenti decisive in tale processo: l’esercito all’interno e i barbari all’esterno. L’accresciuta importanza dell’esercito, che si trovò nella condizione di nominare imperatori a suo piacimento, va messa in relazione con l’accentuata pressione dei popoli barbari ai confini. Ulteriore elemento di disgregazione era costituito dalla grave crisi economica, dovuta alla necessità di finanziare un esercito sempre più esigente. Il forte bisogno di reperire risorse per il mantenimento delle legioni determinò come conseguenza la crescita della pressione fiscale e il fenomeno dell’inflazione: la forte perdita di valore della moneta è una delle calamità che afflissero la popolazione civile e l’economia delle città in questo periodo. Tendenze assolutistiche Il nuovo ruolo dell’esercito incise particolarmente sulla trasformazione dell’ideologia del potere imperiale verso forme sempre più assolutistiche. Cambia anche rapporto con il senato: l’imperatore riconosce al senato solo la funzione di organismo burocratico soggetto alla propria autorità assoluta, che dipende sempre più dall’appoggio dell’esercito come base essenziale del potere. Gli imperatori militari di origine illirica, cercarono di far fronte alla gravità della situazione, ma risultarono totalmente estranei alla tradizione del regime senatorio. L’adozione del culto solare da parte di questi imperatori si spiega con il fatto che esso era molto popolare nell’esercito ed era quello che si adattava meglio al rafforzamento del potere imperiale in chiave assolutistica. Il cristianesimo La crisi morale dell’Impero, nel quale si diffonde una progressiva sfiducia nei valori religiosi e civili tradizionali favorisce il manifestarsi di nuove religioni. Il III secolo è l’epoca decisiva per il definitivo costituirsi delle strutture primitive della Chiesa cristiana. Mentre la nuova fede conquista consensi sempre più ampi presso la gente che aveva bisogno di nuovi punti di riferimento, è evidente l’avversione da parte dell’autorità politica: è significativo che proprio in un momento di grande difficoltà, quando nel 250 d.C. il pericolo barbarico si manifestò in tutta la sua gravità, il potere imperiale decise di scatenare, per reazione e paura, la prima grande persecuzione dei cristiani. Dinastia dei Severi Dopo Commodo ci fu un periodo di regni effimeri: Pertinace, scelto dai congiurati, tentò una restaurazione in senso filosenatorio, Didio Giuliano, acclamato dall’esercito, cercò di sostenersi appoggiando le richieste dei pretoriani. Ma la vera lotta per il potere riguardava chi aveva il controllo delle forze militari più ingenti: governatori Settimo Severo (legato della Pannonia Superiore), Pescennio Nigro (governatore della Siria) e Clodio Albino (governatore della Britannia). Settimio Severo, un generale africano, ottenne la vittoria sui rivali nel 197 d.C. e mosse i suoi soldati alla volta di Roma. Diede vita a una dinastia che resse le sorti dell’Impero sino al 235 d.C. Con Severo ha inizio una “monarchia militare”, nella quale l’autorità dell’imperatore si basa sulla forza degli eserciti. Ucciso Aureliano nel 275 d.C. ci fu il breve regno dell’imperatore senatorio Tacito (275-276 d.C.). Durante il successivo governo di Probo (276-282) si ebbero vari pronunciamenti militari e una rinnovata pressione barbarica sulla frontiera renana e danubiana. Probo riuscì a ottenere significativi successi su questi fronti ma fu ucciso mentre preparava una campagna contro la Persia. Il suo successore, Caro, conquistò la capitale nemica, Ctesifonte, nel 283 ma perì ucciso in una congiura militare. Stessa sorte toccò ai figli Numeranio e Carino. Alla fine solo detentore del potere si trovò a essere l’illirico Diocleziano (284-305): il suo regno durò un ventennio, durante il quale egli riuscì a riorganizzare lo stato romano e a creare le condizioni per la sua sopravvivenza. Diocleziano e Dominato Con Diocleziano si chiuse l’età buia che va sotto il nome di crisi del III secolo. Si tratta si un’età di riforme e di novità, a cominciare da quella che dava una diversa organizzazione al potere imperiale centrale. Da questo momento si fa iniziare la fase del cosiddetto “dominato” rispetto a quella precedente detta “principato”. Il regno di Diocleziano è contraddistinto da una forte volontà restauratrice dello Stato a tutti i livelli politico-militare, amministrativo ed economico. Probabilmente, per garantire una migliore difesa alle regioni più minacciate, Diocleziano stabilì la sua sede in Oriente, a Nicomedia, la capitale della Bitinia. Tra le varie riforme particolarmente importante è quella che riguarda il potere imperiale: Diocleziano concepì un sistema in base al quale al vertice dell’impero c’era un collegio imperiale composto da quattro monarchi, detti tetrarchi dei quali due (detti Augusti) erano di rango superiore ai secondi (detti Cesari). Tale sistema aveva come fine quello di fronteggiare meglio le varie crisi regionali attraverso una ripartizione territoriale del potere e anche di garantire una successione ordinata senza nuove guerre civili: i due Augusti cooptavano i due Cesari e così era previsto che facessero a loro volta questi ultimi una volta divenuti Augusti. Questa riforma fu attuata gradualmente: nel 285 Diocleziano nominò Massimiano come cesare, con il compito di reprimere una rivolta nelle Gallie, e l’anno successivo lo elevò al rango di augusto; i due cesari Costanzo Cloro, che era associato a Massimiano nel governo dell’Occidente, e Galerio, che in Oriente affiancava Diocleziano, furono proclamati solo nel 293 a.C. Lo sforzo di Diocleziano nel riordino dell’amministrazione fece crescere la burocrazia statale, consistente in uomini al diretto servizio del sovrano, le cui funzioni erano distinte da quelle militari. L’esercito fu ulteriormente potenziato e le truppe migliori furono messe a disposizione dei tetrarchi. Il numero delle province aumentò, mentre si riduceva l’estensione del loro territorio: si voleva evitare che i vari governatori diventassero troppo influenti e potenti tanto da aspirare al potere centrale. Diocleziano si impegnò a fondo anche nella riorganizzazione del sistema economico e fiscale: l’imposta fondamentale era quella che gravava sul reddito agricolo (il sistema di calcolo si fondava su una particolare base imponibile che teneva conto del rapporto tra terra coltivabile (iugum) e numero di coltivatori (caput). Per semplificare il calcolo, realizzabile solo grazie a un censimento capillare dei terreni (catasto), l’impero fu suddiviso in 12 unità regionali, dette diocesi. Quanto alla riforma monetaria si deve tener presente che al momento della salita al trono di Diocleziano, il denario, moneta usata maggiormente, era di fatto ormai una moneta di bronzo appena rivestita d’argento il cui valore veniva imposto per legge dallo stato senza corrispondere al suo valore reale. Diocleziano coniò monete d’oro e d’argento ma queste scomparvero dalla circolazione perché la gente preferiva tesaurizzarle. Per bloccare la continua ascesa dei prezzi delle merci e dei servizi Diocleziano impose un calmiere nel 301 con il quale si indicava i prezzi massimi che non era consentito superare. Diocleziano emanò poi altri due editti che manifestano il suo spirito conservatore, uno che riguarda la tutela del matrimonio e l’altro la messa al bando dei Manichei. In campo militare i successi più significativi riguardano la repressione delle rivolte in Britannia e in Egitto. Inoltre nel 298 il cesare Galerio al termine di una campagna vittoriosa, impose ai persiani una pace gravosa. Come previsto dal sistema tetrarchico, il primo gennaio del 305 Diocleziano e Massimiano abdicarono e al loro posto entrarono Costanzo per l’Occidente e Galerio per l’Oriente, che scelsero a loro volta due nuovi cesari, Severo e Massimino Daia. Il sistema tetrarchico entrò subito in crisi: già nel 306, alla morte di Costanzo Cloro, l’esercito proclamò imperatore il figlio Costantino. Inoltre Massenzio, figlio di Massimiano, rivendicò per sé il potere imperiale. Diocleziano aveva promosso un’intensificazione del culto imperiale facendosi chiamare Iovius. La violenta persecuzione contro i cristiani (303-304) riconducibili alla volontà di rafforzare l’unità dell’Impero anche sul piano religioso, iniziò verso la fine del suo regno, quando la Chiesa aveva consolidato le proprie strutture. In Oriente durò per diversi anni mentre in Occidente finì quasi subito. La fine delle persecuzioni fu ordinata da Galerio nel 311, esse proseguirono nelle regioni sottoposte al governo di Massimino Daia e poterono dirsi definitivamente concluse nel 313. CAPITOLO 2: Da Costantino a Teodosio Magno: la tarda antichità e la cristianizzazione dell’Impero Un’età di rinnovamento e non di decadenza La storiografia moderna indica con l’espressione “tarda antichità” il periodo che inizia con Costantino e arriva a Giustiniano, in contrasto con la definizione di “Basso impero” legata all’idea che questo sia un periodo di inarrestabile decadenza. Due concetti valgono a esemplificare gli aspetti che caratterizzano in senso negativo la tarda antichità: quello di “Dominato”, con riferimento alla posizione dell’imperatore rispetto al sistema, e “Stato coercitivo”, con riferimento a una società in cui la divisione tra poche categorie privilegiate, honestiores, e la grande massa dei deboli, gli humiliores, è sempre più netta. Oggi il pregiudizio negativo sulla Tarda Antichità può considerarsi superato perché si è imposta la coscienza della vitalità e della ricchezza delle esperienze culturali e artistiche di questa epoca complessa. All’interno di questa epoca si può distinguere una fase particolarmente significativa che inizia con il regno di Costantino e finisce con la morte Teodosio I: essa coincide con il IV secolo e con il definitivo affermarsi del cristianesimo come religione ufficiale dell’impero. Dopo le riforme di Diocleziano e Costantino le esigenze dello Stato, per il mantenimento della sua burocrazia e di un esercito imponente, sono tali da porre una forte pressione sulla società. Il governo dello Stato è diretto dai detentori delle più alte cariche civili e militari. Inoltre in conseguenza delle riforme di Diocleziano l’imperatore non risiede più a Roma e questo comporta distacco dell’aristocrazia senatoria dagli organismi di potere. In questo periodo si assiste alla scomparsa dell’ordine dei cavalieri, che viene assorbito da quello senatorio. Il Senato non ha più un potere reale: vi si accede come in passato dopo che si è rivestita la questura ma ormai le magistrature non implicano alcuna capacità decisionale. Il rapporto con la plebe urbana di Roma è particolarmente delicato: l’organizzazione di giochi e approvvigionamento alimentari, ricade sulle principali famiglie senatorie. La carica chiave è la prefettura urbana che rimane appannaggio dell’aristocrazia senatoria. Ci sono vincoli legislativi alle libertà individuali delle persone: c’è il patrocinium, il patronato rurale dei grandi proprietari sui lavoratori alle loro dipendenze. La società che si viene formando non è però immobile perché c’è la possibilità di ascesa sociale. La cultura e la scuola sono canali notevoli in questo senso. Costantino (306-337 d.C.) Costantino condusse per alcuni anni una politica prudente che conosce una svolta nel 310, quando abbandona ogni legame con i presupposti ideologici della tetrarchia: a partire da questo momento egli mostra di propendere per una religione monoteistica. Mentre Galerio moriva nel 311 d.C. dopo aver ordinato di cessare le persecuzioni contro i cristiani, Costantino ebbe la meglio su Massenzio nel 312 d.C. nella battaglia del ponte Milvio, sul Tevere, e poté impadronirsi di Roma. Questa vittoria ha un significato che trascende quello della storia perché fu ottenuta nel segno di Cristo da un imperatore che dichiarava di aver abbandonato in quella circostanza il paganesimo per il cristianesimo. La conversione di Costantino fu un evento rivoluzionario: significò l’inserimento delle strutture della Chiesa nello Stato con l’imperatore che si sente abilitato a intervenire nelle questioni dottrinali. Il cinico Costantino che si converte al cristianesimo per puro calcolo politico probabilmente non è mai esistito, né è esistito il Costantino cristiano da sempre che aspetta solo l’occasione per poter manifestare i suoi veri sentimenti. Piuttosto dobbiamo immaginare Costantino come un uomo dotato di grande ambizione e dominato dal senso imperativo di una missione, per la quale voleva una protezione ultraterrena e il monoteismo cristiano era il più adatto a rispondere a tale esigenza. All’inizio del 313 Licinio e Costantino si incontrarono a Milano dove si accordarono sulle questioni di politica religiosa: l’accordo è noto come Editto di Milano. Ma la pace tra Licino e Costantino, che ormai avevano il controllo su tutto l’impero, durò poco e lo scontro finale, che fu preceduto da una persecuzione anticristiana da parte di Licino, si ebbe nel 324 quando Costantino con la vittoria di Andrianopoli divenne il solo imperatore. Nel 314 Costantino convocò ad Arles un sinodo di 33 vescovi nel tentativo di sanare il contrasto tra rigoristi e moderati a proposito dell’atteggiamento da tenere nei confronti di coloro che avevano abiurato nel corso delle persecuzioni dioclezianee. Costantino fu sempre preoccupato di salvaguardare l’unità della chiesa, come mostra il fine per cui convocò il concilio di Nicea nel 325 dove venne condannato l’arianesimo, dottrina che negava la natura divina di Cristo. Allo scopo di rendere più efficiente l’amministrazione provinciale le Dioecesi in cui era stato diviso l’Impero da Diocleziano, furono raggruppate in 4 grandi prefetture (Gallie, Italia e Africa, Illirico e Oriente) rette ciascuna da un prefetto del pretore. Dopo Andrianopoli ci fu la fondazione da parte di Costantino di Costantinopoli (odierna Istambul) nel 330, che diventa la nuova Roma: Costantino voleva dar vita ad una capitale libera da qualsiasi contaminazione con il paganesimo. L’allestimento della nuova capitale nel sito dell’antica Bisanzio riconosceva anche l’importanza dell’Oriente all’interno dell’Impero. Costantinopoli fu dotata nel corso degli anni delle tsrutture che la dovevano equiparare a Roma. Ebbe anche un suo senato, inizialmente di 300 membri e poi 2000, comunque di minor prestigio rispetto a quello romano. Quale fosse l’idea che Costantino aveva della propria funzione rispetto all’Impero e alla Chiesa ci è chiarito da vescovo Eusebio di Cesarea, autore di una Storia Ecclesiastica e Vita di Costantino: la sua teologia politica è incentrata sulla figura del primo imperatore cristiano. L’imperatore è presentato come “vescovo dei laici”. Tra le riforme attuate da Costantino una delle più significative riguarda l’esercito che prevedeva la creazione di un consistente esercito mobile, detto comitatus, che accompagnava l’imperatore. I soldati che ne facevano parte ricevevano una paga più alta rispetto agli altri. Così i soldati collocati direttamente sulla frontiera, i limitanei, finivano per essere soldati di second’ordine, di scarsa esperienza e mal pagati. Il comando dell’esercito mobile fu affidato a due generali uno della cavalleria e uno della fanteria. Il problema militare non fu però superato infatti l’esercito mancava di soldati e per sopperire a ciò si ridusse l’altezza richiesta, si rafforzò l’ereditarietà della professione militare e si concessero privilegi ai veterani per attirare dei volontari. Ma poiché le varie categorie di lavoratori erano a loro volta vincolate alla loro condizione, i soldati finirono per essere reclutati tra i barbari che premevano alle frontiere. La minaccia barbarica era così grave da non consentire soluzioni definitive: vennero combattuti e venne iniziata una politica di assorbimento nei quadri dell’organismo imperiale, dalla quale derivò una disomogenea barbarizzazione della società. Lo storico latino Ammiano Marcellino ci descrive due battaglie decisive: la vittoria di Giuliano Cesare a Strasburgo nel 357 sugli Alamanni e il tragico episodio di Adrianopoli nel 378, quando la disfatta e la morte dell’imperatore Valente ad opera dei Goti, consentirono la penetrazione di migliaia di barbari nell’area balcanica e crearono le premesse di negoziati con l’imperatore Teodosio, che sfociarono nel 382 in un trattato con il quale i Goti erano accettati in Tracia e in altre regioni. La morte di Costantino e la fine della dinastia costantiniana Costantino fu battezzato in punto di morte dal vescovo della sua città, Eusebio. Sorprende che a fronte di un’opera di riforma così sistematica dello Stato Costantino non abbia affrontato il problema della successione. Alla morte di Costantino i suoi 3 figli raggiunsero un accordo per il governo congiunto dell’impero: Dopo la crisi del III secolo per un sovrano si trattava di trovare sorgente di legittimità alternativa al senato cui ci si potesse appellare per tenere a freno gli eserciti. Indebolitasi la necessità di preservare il rapporto con l’elite senatoria, gli imperatori si rivolsero altrove. Il popolo poteva fornire un sostegno diretto con acclamazioni e manifestazioni di consenso di vario tipo, ma era necessario trovare uno strumento che fissasse in termini chiari e stabili origine e finalità di chi deteneva il potere. Secondo le teorie ellenistiche, il sovrano governava come legge vivente, quale incarnazione della perfetta giustizia. In effetti il sovrano non doveva render conto a nessuno ma non per questo si sottraeva alla legge proprio perché ne era l’incarnazione. Un compito specifico del buon sovrano consiste nell’incrementare il sentimento morale dei sudditi, per questo si deve presentare loro come immagine della divinità. La sacralizzazione dell’imperatore ha una lunga storia dietro di sé. Lo stesso epiteto di Augusto, attribuito a Ottaviano, suggerisce l’idea di una persona posta al di sopra degli uomini comuni, in virtù di doti personali e sovrannaturali. Anche i sovrani sasanidi del regno di Persia si presentavano come rappresentanti e promotori della religione di Zaratustra, assumendo il ruolo di restauratori della vera religione contro le false credenze. Diocleziano pensa che l’imperatore è tale per grazia divina e utilizza questo fondamento per ridare vigore all’Impero romano vacillante per l’anarchia interna e la pressione dei barbari. La bellezza del monarca, immune dalle manchevolezze umane, era un criterio cui Costantino aveva dato importanza nell’immagine che egli desiderava circolasse di lui. Fuori linea è suo nipote Giuliano: profilandosi come anti-Costantino non poteva accettare la deumanizzazione della figura del sovrano. Costantino: una figura controversa La fine della dinastia costantiniana pone in evidenza il problema della non coincidenza del destino dell’Impero con quello della Chiesa. Il fallimento del disegno politico è oscurato dal merito di aver cristianizzano lo stato romano. La Vita di Costantino di Eusebio contribuì al culto dell’imperatore come un santo. Inoltre era un modo per proteggere la fama di Costantino dalla polemica suscitata contro di lui dagli ambienti pagani: in uno scritto satirico, i Cesari, Giuliano aveva presentato Costantino come un dissoluto e dissipatore, che colmava di doni gli amici e che cercava nel cristianesimo una religione che gli garantisse il perdono dei suoi peccati, ma soprattutto equiparava la rivoluzione costantiniana a un atto di rottura con la traduzione che aveva garantito la grandezza dello stato romano. Secondo Santo Mazzarino la storia del Tardo Impero può essere letta alla luce delle figure di Costantino e Giuliano: Giuliano dopo la morte divenne un simbolo di battaglia ideologica agitato da quanti attribuivano al cristianesimo la rovina dell’impero. Una conferma delle valutazioni negative del regno di Costantino ci è dato da un trattato in forma anonima, Sulle cose della guerra, che contiene un duro attacco alla politica monetaria di Costantino, che avrebbe comportato un ulteriore impoverimento dei ceti più deboli. Attorno alla figura di Costantino si formano varie leggende: una ha come protagonista la madre Elena, che avrebbe ritrovato la Croce di Cristo. Una società repressiva La tarda antichità è un’età di forti contraddizioni: malgrado la cristianizzazione della società e della legislazione erano presenti caratteri autoritari e repressivi. Durante l’età repubblicana l’uso della tortura riservato ai soli schiavi o nei casi di presunta cospirazione contro lo stato: nel tempo la tortura divenne ammissibile nei confronti di chiunque fosse sospettato di tramare contro l’imperatore. A Costantino si deve una costituzione, del 316, che estendeva la tortura ai membri dell’élite provinciale, i curiali, in caso di falsificazione dei documenti. Per la stessa condanna a morte si andarono elaborando forme di esecuzione più crudeli. In questa prospettiva significativo è l’indebolimento di status dei cittadini liberi ma di condizione sociale più debole, gli humiliores, rispetto ai ceti privilegiati degli honestiores. È constatabile un miglioramento nella posizione delle donne, dei figli e degli schiavi. Diverse spiegazioni si possono avanzare per la tendenza all’inasprimento delle pene: • indubbio parallelismo tra i progressi delle tendenze assolutistiche nel governo e il connesso sviluppo del culto imperiale • difficoltà dell’amministrazione nel far applicare le leggi Le prese di posizione delle personalità più significative sia del pensiero stoico sia di quello cristiano appaiono misurate: Seneca non dice mai che le pene fossero sproporzionate ai delitti; Agostino esige dal proconsole d’Africa che i nemici della Chiesa fossero puniti secondo quel che richiede la mansuetudine cristiana. Riforma del paganesimo promossa da Giuliano Giuliano tentò di promuovere il ritorno del paganesimo. Oltre a ricorrere a misure discriminatorie nei confronti del cristianesimo, si impegnò in un complesso disegno di riforma della religione pagana tradizionale che si ispira ad alcune forme organizzative della Chiesa cristiana. Pagani e cristiani alla fine del IV secolo d.C. Il dibattito che oppone cristiani e pagani ha il suo momento più alto nella controversia che nel 384 d.C. oppose il prefetto di Roma Quinto Aurelio Simmaco, al vescovo di Milano, Ambrogio. La questione era il ripristino in senato dell’altare della Vittoria, presente in senato sin dai tempi di Augusto e fatto rimuovere da Costanzo II. Essa può apparire secondaria ma in realtà vi si deve vedere un valore simbolico: Simmaco in fondo chiede solo tolleranza verso una fede praticata per tanti secoli, Ambrogio, che persegue un’idea ben precisa del ruolo della Chiesa, la rifiuta. PARTE SESTA: La fine dell’Impero romano d’Occidente e Bisanzio CAPITOLO 1: La fine dell’Impero romano d’Occidente L’Impero romano e i barbari Attorno alla metà del IV secolo i Goti erano la forza predominante nel Ponto, divisi in Greutungi e Tervingi. Le relazioni tra Roma e Goti furono condizionate dal trattato di pace di Costantino del 332, che contiene un importante elemento di novità perché poneva le condizioni per l’impiego di barbari goti come soldati al servizio di Roma. La situazione ebbe una svolta drammatica quando i vari regni gotici entrarono a loro volta in crisi per la pressione esercitata su di loro dagli Unni, che avevano distrutto le loro terre settentrionali. I Tervingi fecero richiesta per essere ospitati nella Tracia, al riparo da queste incursioni: Roma acconsentì in cambio del loro impegno a fornire soldati in caso di necessità. Il disastro di Adrianopoli del 378 d.C. fu catastrofico per l’impero e le conseguenze furono decisive per la sua sopravvivenza: il trattato del 382 con cui si chiuse questa fase critica finì per consentire definitivamente l’insediamento di Goti in Tracia, all’interno dunque delle frontiere dell’Impero romano. Oltre agli aspetti militari questa situazione aveva risvolti sociali: l’integrazione di popolazioni è stata una prassi usuale di Roma ma è soprattutto nell’esercito che si nota una presenza più massiccia di Germani. Gli imperatori romani si appoggiarono sempre di più alle truppe germaniche e ai loro capi. L’influsso dei Germani sulla politica interna si basa sulla loro posizione guadagnata all’interno della gerarchia militare. È incerto se abbiano occupato cariche anche nell’amministrazione civile. Nell’esercito le possibilità di carriera si basavano essenzialmente sulle capacità personali e sul favore imperiale. L’esclusione dei senatori dai comandi militari ebbe come conseguenza il cambiamento della base sociale di reclutamento degli ufficiali. L’impiego di barbari come coloni su terre dell’impero risale all’età di Marco Aurelio. A Costantino forse si deve il primo insediamento di nuclei consistenti di barbari entro i confini dell’Impero. Dunque l’Italia settentrionale e centrale nel corso del IV secolo conobbe una serie di accantonamenti di barbari come risultato di una politica mirata e di accordi politici. La regolarità di tale prassi sembra essere alla base di una legge che risale alla fine del IV secolo con la quale si raccomanda di impedire che i barbari occupino un’estensione di terra pubblica superiore a quanto loro concesso. Solo eccezionalmente veniva concessa ai barbari la cittadinanza romana: almeno fino alla sconfitta di Adrianopoli è chiara la volontà degli imperatori di reclutare barbari per la terra e per l’esercito e mantenere la reciproca estraneità fra barbari e Romani. In un primo momento si cercò un’apposita legislazione per impedire le unioni miste al fine di ostacolare l’integrazione dei nuovi arrivati, ma è possibile che questo provvedimento, stabilito da Valentiniano I, abbia avuto breve durata. Inoltre questa legge non sembra aver avuto alcuna applicazione in Oriente dove il problema barbarico aveva forti implicazioni di carattere religioso, mentre in Occidente erano prevalenti i risvolti di carattere politico-sociale ed etnici. Cristianesimo e mondo barbarico La chiesa era sfavorevole ai matrimoni misti in virtù della disparità di culto. Le delibere conciliari non si interessano dei barbari in quanto tali, ma si interessano dei barbari solo indirettamente quando si occupano di eresie e di eretici. Ambrogio riteneva gravi le unioni con gli stranieri ma quando si trattava di questioni politiche egli prescindeva dalla fede religiosa e mostrava un atteggiamento conciliante e disponibile verso i barbari quando ne rilevava l’utilità per funzioni di difesa. L’integrazione dei barbari era vista come un problema sociale. Un indizio è costituito dalle leggi emanate dal figlio del successore di Teodorico dove erano previste gravi pene a chiunque assumesse modi di vestire propri dei barbari. La presenza barbarica all’interno dell’impero romano è un chiaro effetto della politica teodosiana: nel trattato del 382 era previsto che i Goti venissero insediati da Teodosio nella zona di frontiera danubiana e l’aspetto delicato di questo insediamento è il fatto che i Goti dovettero continuare a mantenere all’interno dell’Impero romano la loro struttura tribale, erano tenuti a pagare le tasse e a prestare servizio militare. Divisione dell’impero, Stilicone La morte di Teodosio nel 395 segnò un momento di svolta decisivo nella storia dell’Impero romano tardo che fu diviso territorialmente in due parti tra i due figli di Teodosio: Arcadio, cui toccò l’Oriente e Onorio, cui toccò l’Occidente. Non solo c’erano due imperatori, ma anche due corti, due amministrazioni, due eserciti del tutto autonomi. L’esito di tale smembramento risultò particolarmente rovinoso per l’Occidente, minacciato dalle sempre più frequenti e pericolose incursioni barbariche, mentre Oriente, doveva fronteggiare il tradizionale nemico persiano. Nelle intenzioni di Teodosio il principio unitario doveva essere mantenuto vivo dal generale Stilicone, cui affidò in tutela i due figli. Il compito di Stilicone però si rivelò impossibile da realizzarsi, in ragione del costante aggravarsi della situazione militare. Nel 398 Stilicone riuscì a sedare una rivolta in Africa ma poi all’inizio del V secolo una serie di invasioni barbariche scosse l’Impero. Nel 402-406 d.C. l’Italia fu invasa dai Goti e Stilicone riuscì a fermare la loro avanzata, ma alla fine del 406 la frontiera renana fu travolta da numerose popolazioni germaniche: il piano di Stilicone era di trovare una soluzione di compromesso almeno con i Goti che minacciavano direttamente l’Italia. Il suo piano suscitò la violenta reazione di una parte della corte imperiale, che nel frattempo si era trasferita a Ravenna considerata capitale meglio difendibile di Milano. Lo stesso Onorio si schierò contro Stilicone che, accusato di intesa con i barbari, fu messo a morte a Ravenna nel 408 d.C. Il sacco di Roma Nell’agosto del 410 d.C. Alarico, a capo dei Visigoti, entrò a Roma e la saccheggiò. I pagani attribuirono la responsabilità dell’evento ai cristiani. Dopo il saccheggio Alarico si diresse verso il sud Italia, portando con sé come ostaggio la sorella di Onorio, Galla Placidia. La morte improvvisa di Alarico evitò ulteriori traversie all’Italia infatti i goti si ritirarono nella Gallia meridionale dove dettero vita ad un vero e proprio stato con capitale a Tolosa. Il successore di Alarico, il cognato Ataulfo, sposò Galla Placidia, che così per un breve periodo divenne regina dei Visigoti, ma Ataulfo nel 415 fu assassinato. Poco dopo anche i Burgundi diedero vita a un regno autonomo. In Occidente un ruolo importante fu svolto dal generale Flavio Costanzo che nel 417 d.C. sposò Galla Placidia. Nel 421 d.C. Costanzo si fece proclamare imperatore, ma morì poco dopo, prima di ottenere il riconoscimento della propria sovranità da parte della corte di Costantinopoli. Nel 425 in Occidente fu insediato suo figlio, Valentiniano III, dopo che alla morte di Onorio, avvenuta nel 423, il potere era caduto nelle mani di usurpatore. Valentiniano in realtà era un bambino di soli sei anni che era stato portato dalla e a quelle dei suoi successori verso la metà del VI secolo la quasi totalità della Gallia passò sotto il dominio dei Franchi. Dopo un periodo dio crisi interna i Franchi tornarono ad assumere un ruolo di primo piano sotto la guida di Carlo Martello. Nell’Europa del Nord le azioni di pirateria condotte dalle popolazioni germaniche di Angli e Sassoni portarono all’occupazione di territori sempre più vasti, taluni dei quali erano stati romanizzati. Nasce così la Britannia Anglosassone. La società romano-germanica Al momento delle invasioni dei barbari, tra i Romani, soprattutto i ceti più elevati avevano aderito al cristianesimo. La maggioranza dei barbari, con l’eccezione dei Franchi, era cristiana ma di credo ariano. Gli invasori della Britannia erano addirittura pagani. Per quanto questo creasse le premesse per una segregazione completa tra i gruppi etnici, ogni regione conobbe realtà differenti. In taluni casi si ebbe una piena fusione, in altri si realizzò un dualismo amministrativo, con Romani e barbari sottoposti a gerarchie differenti. In ogni caso l’arrivo dei barbari non produsse la rottura dell’ordine sociale rigorosamente articolato in classi sociali rigide e ereditarie del mondo romano. Semmai l’arrivo dei barbari accelerò nelle varie regioni quel processo di allontanamento dal modello di vita classico che aveva interessato ampi strati sociali già a partire dal III secolo. La Gallia e le invasioni barbariche Poco dopo il 470, quando in Gallia penetrarono anche gli Ostrogoti si può dire che tutto il paese fosse ormai nelle mani dell’invasore. Il V secolo fu, in particolare per l’aristocrazia gallo-romana, un’epoca di grave crisi che la costrinse a riconsiderare le modalità in cui poteva mantenere la propria unità di ceto. Una delle opzioni era la ricerca di un’alta carica ecclesiastica. L’integrazione tra Romani e barbari nei nuovi regni Nel VI secolo d.C. un ruolo decisivo nell’evoluzione dell’idea dei Goti, da nemici del mondo romano a quella di fondatori del regno gotico d’Italia è svolta da Cassiodoro, senatore romano e ministro di Teodorico. Cassiodoro si sforzò di trasporre l’ideologia romana nelle realtà politiche del regno ostrogotico: Teodorico è presentato come il successore degli imperatori e il regno ostrogotico come il prolungamento dell’impero romano d’Occidente. Il monachesimo Una delle conseguenze delle invasioni germaniche del V secolo d.C. fu l’affermarsi del monachesimo in varie forme. C’erano comunità di religiosi che vivevano attorno al loro vescovo e c’erano poi delle vere e proprie fondazioni monastiche che si susseguirono a distanza di pochi anni l’una dall’altra. Il monachesimo si caratterizza per una mescolanza tra vita in solitudine e in comunità e per le forme moderate di ascesi. I monasteri ebbero una funzione importante come centri di cultura. Mentre la cultura classica si conservò solo negli ambienti dell’aristocrazia laica, l’istruzione cristiana avvertiva l’inconciliabilità tra i propri valori e quelli degli scrittori pagani. La conoscenza del greco scomparve quasi del tutto e la cultura che sopravvisse era legata esclusivamente alla lingua latina. Nel VI secolo scomparve definitivamente qualsiasi forma di istruzione pubblica e gli unici centri di vita culturale e di istruzione furono i monasteri. San Benedetto è il fondatore della vita monastica in Occidente e anche se alla base della sua conversione alla vita ascetica c’è il rifiuto di ogni commistione con lo studio della letteratura pagana, nell’organizzazione monastica benedettina è lasciato spazio alla cultura, almeno allo scopo che i monaci sapessero leggere le Scritture. All’interno dei monasteri il giovane monaco riceveva una preparazione religiosa e la necessità di una formazione adeguata anche per il clero fece si che sorgessero apposite scuole episcopali e presbiterali. Le trasformazioni della città alla fine del mondo antico Le trasformazioni della città romana tra la fine del mondo antico e l’Alto Medioevo sono diverse a seconda delle varie aree geografiche. Il caso dell’Italia, dove la tradizione urbanistica romana era particolarmente forte, è per certi aspetti esemplare. Nella maggior parte delle città il foro romano continuò a svolgere la sua funzione di centro economico in quanto sede del mercato, ma perse il suo ruolo di direzione politica con il venir meno dei consigli cittadini. Con il Medioevo si affermano in alternativa il palazzo regio e la cattedrale, che riflettono i principali poteri di ogni città quello statale e quello vescovile. L’età tardoantica è caratterizzata dalla costruzione di chiese di notevoli dimensioni all’interno delle città, non solo nelle capitali (Roma, Milano, Ravenna) ma anche in città minori. Si trattava di cattedrali o centri di culto minori. C’erano anche alcune chiese costruite fuori la città sopra le tombe dei martiri sepolti nei cimiteri romani. La differenza con l’età altomedievale è ben visibile: nell’alto medioevo la fondazione più comune è quella all’interno dell’area edificata, associata spesso a un piccolo monastero privato o a un’istituzione caritatevole; inoltre le chiese altomedievali si distinguono per le piccole dimensioni. Le cattedrali furono probabilmente collocate sin dall’inizio all’interno delle mura. L’acquisizione di terreno edificabile da parte della Chiesa non dovette però essere facile infatti le nuove cattedrali dovevano inizialmente trovare posto in aree occupate da edifici preesistenti. La disponibilità di tale spazio fu il risultato di un processo complesso in cui il ruolo dell’amministrazione imperiale appare importante infatti lo Stato aveva a sua disposizione un fattore decisivo, la terra, quindi con il suo aiuto era più facile acquisire spazi importanti all’interno del circuito delle mura. La costruzione delle mura tra la fine del IV e l’inizio del V sec avviene in un periodo in cui in tutto l’Occidente si verifica un’intensa costruzione di chiese episcopali. È questo il momento in cui le mura cittadine diventano una componente essenziale nell’iconografia delle città. Un nuovo tipo di alimentazione Ogni regime alimentare presuppone uno stretto rapporto con il sistema produttivo. In Occidente la fine dell’impero segnò un regresso di tutte le colture che avevano il loro centro di organizzazione nel sistema della villa e che potevano contare su una fitta rete di commercializzazione. Ci registra una riduzione delle colture dei cereali, della vite e dell’olivo che avevano invece caratterizzato l’economia romana dell’età imperiale. La base dell’alimentazione romana era infatti rappresentata dalla compresenza di grano, olio e vino, integrati da formaggi e carne. Questo, che è il modello alimentare classico, si contrappone quello tipico delle popolazioni barbariche che, vivendo in condizioni climatiche più umide e fredde avevano un’economia in cui i cereali e gli ortaggi integravano i prodotti del bosco e della foresta e un posto preponderante nella dieta era rappresentato dalla carne di cacciagione. I cereali nel mondo germanico servivano soprattutto alla produzione della birra. Dopo la caduta dell’impero si assiste ad una drastica riduzione della policoltura, cioè l’intreccio di diverse coltivazioni e inoltre le zone che prima venivano coltivate vennero abbandonate, anche per l’insorgere della malaria prodotta dall’acqua dei fiumi non più controllata. La conseguenza di questi fenomeni fu un crescente abbandono delle colture che necessitavano del clima mite del Mediterraneo, a favore di un ritorno all’economia di montagna, quella silvo- pastorale. Più di un’adozione del modello germanico si deve vedere nell’affermazione di tale sistema il risultato della crisi politica che investì anche le strutture produttive. Oltre ai maiali erano allevate pecore e capre che però venivano soprattutto utilizzate per ricavarne latte e lana. L’animale da carne rimaneva essenzialmente il maiale. Invece i bovini e gli equini erano molto scarsi e per questo venivano riservati al lavoro agricolo e ai trasporti. L’Italia durante la guerra tra Goti e Bizantini L’età di Teoderico (488-526 d.C.) nel complesso aveva significato un periodo di ripresa economica per l’Italia. La guerra tra Bizantini e Goti, con i suoi spostamenti di truppe da una parte all’altra della penisola, vanificò la possibilità che la ripresa si consolidasse. Le città subirono gravi distruzioni, mentre la fame, determinata dall’arresto della produzione agricola, provocava un drammatico calo demografico. CAPITOLO 3: Bisanzio L’Impero d’Oriente fino al regno di Giustiniano Nella storiografia moderna si parla di storia bizantina (da Bisanzio, antico nome di Costantinopoli) in quanto storia con caratteristiche proprie il cui inizio nel 330 è segnato dalla fondazione di Costantinopoli e la cui fine nel 1435 d.C. è segnata dalla la ripresa della città da parte dei Turchi. Nella partizione teodosiana l’Oriente era toccato ad Arcadio. Alla sua morte, nel 408, gli successe il figlio Teodosio II, un bambino di soli 8 anni: fu un regno molto lungo (fino al 450) durante il quale si dovette affrontare il pericolo barbarico, soprattutto gli Unni che arrivarono a minacciare la stessa Costantinopoli. Nel complesso l’Oriente riuscì ad uscire da questa difficile situazione senza rilevanti perdite e mantenendo la compattezza interna, tanto è vero che anche i Persiani furono tenuti a bada. Teodosio II è ricordato per la sua attività di riordino della giurisprudenza: nel 438 promulgò la raccolta delle leggi imperiali da Diocleziano in poi, il Codice Teodosiano. Teodosio morì senza eredi e il suo successore Marciano fu scelto dal senato. A travagliare la vita interna di Bisanzio furono le controversie di natura religiosa relative alla natura di Cristo. Durante i regni successivi si aggravarono anche i problemi di natura finanziaria. La critica situazione interna fu affrontata con successo da Anastasio che realizzò un’importante opera di riforma delle strutture fiscali. Egli riuscì anche a bloccare un’offensiva dei persiani tra il 502 e 503. Ad Anastasio succedette un ufficiale già avanti negli anni, Giustino e alla morte di quest’ultimo sul trono pervenne il nipote Giustiniano da lui adottato in precedenza. Il regno di Giustiniano (527-565) Il regno di Giustiniano rappresenta l’estrema conclusione del mondo antico. Egli attuò innanzitutto un riordinamento della giurisprudenza. Nel 528 egli costituì una commissione che aveva il compito di predisporre una nuova raccolta di costituzioni imperiali, il Codex Iustinianus; una seconda commissione fu incaricata di un’ampia scelta tra gli scritti più illustri giureconsulti e l’opera che ne scaturì è detta Digesto o Pandette; inoltre fu pubblicato un manuale contenente i fondamentali principi giuridici a uso degli studenti, le Istituzioni. L’insieme di queste parti forma il il Corpus Iuris Civilis che rappresenta il tramite fondamentale attraverso il quale la giurisprudenza romana è giunta fino a noi. Forte impulso fu dato anche all’attività edilizia e al commercio e a nuove attività economiche ttra cui la produzione della seta. Tuttavia Giustiniano non godette del favore degli storici contemporanei, in particolare Procopio gli rimprovera il ruolo giocato su di lui da sua moglie Teodora. Un ruolo importante avevano le controversie dottrinali tra cui la principale era quella che opponeva l’ortodossia (dove natura umana e divina coesistono in Cristo) e il credo monofisita (accentua la natura divina). Giustiniano aveva interesse a ricercare un’intesa con il papato, ma doveva tener conto dei notevoli sostegni di cui il monofisismo godeva in Oriente. Comunque non riuscì a trovare un’effettiva soluzione. Il forte legame di Giustiniano con la vita ecclesiastica spiega la proibizione dell’insegnamento ai pagani che comportò nel 529 la chiusura della scuola di Atene fondata nel IV secolo da Platone. Giustiniano portò avanti il grande disegno di riconquista dell’Occidente: si riprese l’Africa del Nord, la Sardegna e la Corsica. Ben più lunga e difficile fu invece la guerra per il dominio dell’Italia, che divenne prefettura d’Oriente nel 553. Nel 554 Giustiniano emanò un provvedimento legislativo specifico, la Prammatica sanzione, che stabiliva la vita politica ed economica della penisola dopo il lungo periodo di guerra. La restaurazione giustinianea in Italia fu interrotta nel 568 con l’arrivo dei Longobardi con cui si fa tradizionalmente iniziare il Medioevo. Costantinopoli Costantinopoli, la nuova capitale inaugurata da Costantino nel 330 d.C. al posto dell’antica Bisanzio sul Bosforo, già nel corso del IV secolo d.C. contava una popolazione di 100.000 abitanti. Durante il regno di Teodosio II la sua superficie fu più che raddoppiata. In età giustinianea la popolazione in città contava mezzo milione di abitanti. Una tale densità abitativa si spiega con le distribuzioni gratuite di generi alimentari, ma soprattutto con un’intensa attività economica. A Costantinopoli il re e la sua corte vivevano all’interno di un’aerea fortificata, isolati dal resto della città. Tra le attrattive della vita a Costantinopoli c’erano le cerimonie, con le fastose processioni imperiali e i giochi, in particolare le corse di carri. La società bizantina
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