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Riassunto dettagliato e comprensibile del libro Mecenati e Pittori di Haskell, Sintesi del corso di Storia dell'Arte Moderna

Riassunto del manuale Mecenati e Pittori di Haskell. Riassunto dettagliato e sintetico, con tutto quello che c'è da sapere per prepararsi al meglio all'esame. A differenza di altri riassunti non si limita ad una riassunzione schematica, ma quella qui presentata è molto discorsive e di facile apprendimento.

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

In vendita dal 16/09/2023

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Scarica Riassunto dettagliato e comprensibile del libro Mecenati e Pittori di Haskell e più Sintesi del corso in PDF di Storia dell'Arte Moderna solo su Docsity! 1 RIASSUNTO “MECENATI E PITTORI. L’arte e la società italiana nell’epoca barocca” Francis Haskell Parte Prima: ROMA I. IL MECENATISMO ARTISTICO NEL SEICENTO 1.«Assunto al Pontificato Urbano ottavo - scriveva il cronista di cose d’arte Giambattista Passeri - parve veramente che in quel tempo ritornasse il secolo d’oro per la pittura, et i Nepoti di lui tutti favorevoli alle belle arti». Ma a ben guardare, il lungo pontificato di Urbano VIII, iniziato nel 1623, segnò più l’apice di un periodo di intensissima attività del MECENATISMO che non l’inizio di una nuova era. Per almeno trent’anni, l’austerità e rigori della Controriforma si erano attenuati sotto la spinta del lusso e dello spirito di iniziativa. Le sperimentazioni artistiche erano incoraggiate come mai prima o dopo di allora. Il regno di Urbano VIII comportò non solo un notevole incremento del mecenatismo artistico, ma anche un certo aumento del controllo. Gli immediati predecessori di Urbano, Paolo V e Gregorio XV, avevano delineato un modello al quale egli si limitò a uniformarsi. Il completamento di San Pietro, la costruzione e la decorazione di un ampio palazzo, di una residenza in campagna e di una lussuosa cappella di famiglia in un’imponente chiesa di Roma, il mantenimento e l’arricchimento di varie fondazioni religiose, la raccolta di una galleria di dipinti e sculture erano ormai prassi comune. In essa vediamo riflessi i contrasti tra il Papa in veste di guida spirituale e temporale e l’uomo appassionato di arte alla testa di una famiglia orgogliosa e ambiziosa. I papi e i loro nipoti non erano certamente gli unici committenti, ma il loro crescente monopolio della ricchezza e del potere nel corso del secolo ne fece i leader e poi i veri propri dittatori del gusto. Questo processo raggiunse il culmine durante il regno di Urbano VIII e fu tra le cause di un certo declino in termini di varietà e di sperimentazione artistica. Fino all’elezione di questo Papa, cambiamenti e rivoluzioni erano all’ordine del giorno sulla scena romana, tanto che si parla di «rapidi mutamenti». Questi «rapidi mutamenti», con la conseguente ascesa di nuove famiglie, diedero forme precise alla protezione delle arti. Via via che si succedevano sul trono, i papi si circondavano di una corte di parenti, amici e clienti che convergevano a Roma da ogni parte d’Italia per impadronirsi dei posti vacanti negli uffici. Questi uomini incominciarono subito a costruire palazzi, cappelle e quadrerie e ad organizzare spettacoli di ogni genere. Erano committenti ansiosi di dare espressione alla loro ricchezza e al loro potere. Spesso, dopo la morte del pontefice, cadevano in disgrazia, e le loro entrare subivano un improvviso arresto. Ovviamente, con l’esaurirsi di tali entrate, essi cessavano anche di essere i principali committenti: degno di nota fu il caso del cardinale Alessandro Peretti Montalto, nipote di Sisto V, che continuò ad essere amato e rispettato anche dopo la morte di quel pontefice, tanto che gli artisti continuarono a lavorare per lui. Evidentemente non era questo il caso più comune. Roma, più che una nazione, era un simbolo. I nobili che costituivano la clientela papale continuavano a considerarsi piuttosto fiorentini, bolognesi o veneziani che non romani. Il cardinale Maffeo Barberini (futuro papa Urbano VIII) «haveva gran genio di valersi d’Artefici della sua Patria; essendo egli Fiorentino». Naturalmente gli artisti cercavano di approfittare della situazione. Nel 1621 tu eletto papa il cardinale Alessandro Ludovisi. Qualche anno prima Domenichino era tornato nella natia Bologna dopo una lite con il cardinal Borghese. Ma con la salita al potere di Ludovisi si affrettò a rientrare a Roma, dove fu nominato architetto vaticano per intercessione del nipote del papa, Ludovico. Se consideriamo la carriera dei più importanti artisti che da Bologna seguirono all’inizio del secolo Annibale Carracci introducendo a Roma un nuovo stile pittorico, risulta evidente uno schema abbastanza preciso. - Dapprima troviamo il giovane pittore alloggiato, magari in un monastero, da un cardinale della sua città d’origine. - Per mezzo di questo protettore egli viene a contatto con qualche influente prelato bolognese che gli commissionerà una pala d’altare per la sua chiesa e alcune decorazioni per il palazzo di famiglia, dove ora l’artista verrà sistemato. La prima opera servirà per farlo conoscere e stimare pubblicamente, la seconda lo avvicinerà ad altri potenziali committenti nell’ambito della cerchia degli amici del cardinale. - Per molti anni il nostro artista lavorerà quasi esclusivamente per un limitato gruppo di clienti, fintanto che il crescente numero di pale d’altare da lui dipinte non avrà consolidato la sua fama presso un pubblico più vasto, procurandogli denaro e prestigio sufficienti a consentirgli di contare solo su se stesso. - A questo punto egli potrà assistere alla morte del suo signore o ad un mutamento di regime con un certo grado di tranquillità. Questo schema essenziale ricoprì un ruolo determinante per l’ubicazione delle più significative opere d’arte moderna a Roma. Tutte le grandi dimore patrizie (ad esempio i palazzi Aldobrandini, Peretti, Borghese) contenevano alcuni dei primi quadri e affreschi dipinti dai pittori bolognesi. Lo stesso vale per le chiese, che si dividevano in due categorie: quelle di cui era titolare un cardinale o per le quali un cardinale nutriva particolare venerazione e quelle dove egli desiderava avere sepoltura. Le une e le altre avevano una caratteristica in comune: l’antichità. Una chiesa titolare, per definizione, passava di cardinale in cardinale attraverso i secoli e in generale i papi e le loro famiglie si facevano seppellire nelle basiliche più antiche (Santa Maria Maggiore e Santa Maria sopra Minerva). Un nobile aveva anche un altro modo di contribuire allo splendore di Roma: costruire una nuova chiesa. Per fronteggiare la minaccia della Controriforma erano stati fondati nuovi ordini religiosi: gli Oratoriani, i Gesuiti, i Teatini, i Barnabiti e i Cappuccini. Le varie comunità straniere a Roma, fiorentini, lombardi e molti altri, facevano a gara nell’erigere nuovi templi sontuosi. La costruzione di tali edifici, tuttavia, richiedeva tempi lunghi. Raramente accadeva che l’uomo che aveva deciso di costruire una chiesa vivesse il tempo necessario per dirigerne la decorazione. Così 2 accadeva che le cappelle venissero cedute a chi era in grado di farle decorare. Ma i grandi cardinali badavano soprattutto ad abbellire le loro chiese titolari, i palazzi di famiglia e le tombe poste nelle più antica basilica. Inoltre, un acuto spirito di rivalità li rendeva riluttanti a lasciare un’impronta in una chiesa già cominciata da un altro. Il più delle volte, comunque, il completamento e la decorazione delle nuove chiese erano realizzati da mecenati ricchi ma di scarso peso politico che, non essendo in contatto con gli artisti più moderni, erano costretti a ripiegare sui favoriti di solida fama. Risulta perciò paradossalmente vero ciò che un viaggiatore beninformato avrebbe potuto notare verso il 1620, e cioè che buona parte dei migliori dipinti moderni a Roma si trovava nelle chiese più antiche. 2. Nei limiti dello schema tracciato c’era tutta una serie di possibili varianti circa i rapporti tra l’artista e il cliente che di lui si serviva. Da una parte vediamo il pittore nel palazzo del signore e lavorare esclusivamente per lui e per i suoi amici; dall’altra troviamo una situazione che appare simile a quella di oggi: l’artista dipinge un quadro senza sapere chi o per che cosa e lo espone nella speranza di trovare un compratore qualsiasi. Tra questi due estremi c’erano numerose gradazioni che comprendevano intermediari, commercianti, amatori e viaggiatori stranieri. Il più stretto rapporto possibile tra committente e artista era quello definito di frequente dagli scrittori del Seicento come «servitù particolare». L’artista veniva regolarmente assunto da un determinato signore e spesso mantenuto, e oltre al pagamento normale delle opere da lui eseguite percepiva un assegno mensile. L’artista veniva trattato come un membro della “famiglia” del principe. Accadeva anche che alcuni principi nominassero un artista «nostro pittore». Il più delle volte però questa posizione era occupata da architetti più che da pittori. Per lo più, nell’ambito del seguito del principe, l’artista doveva percorrere di promozione in promozione un agevole cursus honorum; un esempio è Andrea Sacchi che dal 1637 al 1640 fu al servizio della famiglia del cardinale Antonio Barberini. Una posizione di questo genere era molto ambita dagli artisti poiché comportava enormi vantaggi. Non mancavano a volte gli aspetti negativi: alcuni artisti incontravano difficoltà a sciogliere il rapporto di dipendenza con il padrone e certe restrizioni della libertà personale. Gli artisti che si trovavano in tale situazione avevano le migliori opportunità di farsi conoscere entro certi ambienti. Il fatto di avere in casa un pittore dotato dava prestigio al signore ed egli di solito non esitava a cantare le lodi del suo protetto, incoraggiandolo anche a lavorare per altri. Mancando i critici di professione, appoggi e incoraggiamenti di tal genere costituivano di gran lunga il sistema migliore per dare notorietà ad un pittore. Soltanto le grandi famiglie erano in grado di procurare ai loro protetti incarichi di lavoro nelle chiese più alla moda, una tappa indispensabile nella carriera di ogni artista. Dato il prevalere a Roma di potenti rivalità nazionali il luogo di nascita di un artista poteva esercitare un peso più nel fargli godere una servitù particolare che nel fargli ottenere incarichi ordinari. Il luogo d’origine garantiva a un artista una posizione. Sebbene questa specie di meccanismo fosse del tutto auspicabile in una società stabile, le condizioni della Roma del Seicento non erano certo le più adatte a promuoverne lo sviluppo. Quando la situazione cambiava, un rapporto troppo stretto con un signore caduto in disgrazia poteva costituire un serio ostacolo al miglioramento della propria posizione. E c’erano sempre artisti che trovavano insostenibili le limitazioni alla loro libertà privata. Inoltre, non erano molte le famiglie che potevano o volevano mantenere i propri pittori a tali condizioni. Così riscontriamo spesso che questa forma estrema di protezione si limitava al periodo iniziale della carriera dell’artista. Una soluzione di compromesso era possibile: l’artista poteva vivere e lavorare per conto proprio pur continuando a ricevere un sussidio, in cambio del quale si impegnava a garantire al signore la precedenza su tutti gli altri clienti. Ma ciò che accadeva più di frequente era che un pittore lavorasse nel suo studio accettando liberamente incarichi da chicchessia. Era abbastanza naturale che dimensioni e collocazione dell’opera proposta dovessero venire specificati all’atto della richiesta di un affresco o di un dipinto religioso. Solo un aspetto creava a volte qualche difficoltà: quando una pala d’altare veniva affidata a un artista che viveva in un centro lontano. Poiché il pittore non aveva sempre modo di vedere il luogo di persona, si rendevano necessari numerosi scambi epistolari per chiarire la questione. Anche le misure dei dipinti destinati alle gallerie private erano oggetto di discussione. Gli schemi di decorazioni che ci sono rimasti mostrano come in molti casi i dipinti dovessero rivestire le pareti di una stanza o di una galleria secondo uno schema simmetrico e come abbastanza spesso venissero incassati nella parete. In tal caso era importante definire le esatte dimensioni di ogni nuova opera commissionata. Di solito all’artista veniva assegnato anche il soggetto di un dipinto, ma è difficile stabilire fino a che punto l’interpretazione che egli ne dava fosse realmente controllata dal committente. Ciò dipendeva dalla destinazione dell’opera. A dire il vero, spesso ai pittori era lasciata una straordinaria libertà anche per commissioni importanti, e ciò dipendeva in buona parte dalla raffinata cultura romana. I contratti stipulati in piccoli centri di provincia contengono istruzioni per i pittori molto più particolareggiate rispetto a quelli stilati nelle grandi città. Di solito il soggetto era descritto a grandi linee, lasciando all’artista la libertà di aggiungere quegli elementi che egli riteneva necessario. Così nel 1665, quando Guercino venne incaricato di dipingere una pala d’altare per un monastero siciliano, gli si diedero le dimensioni con la raccomandazione che tra le figure fossero incluse «la Madonna del Carmine col puttino in braccio, Santa Teresa in atto di ricevere l’habito della Vergine e dal Bambino la regola, S. Giuseppe e S. Giovan Battista, e che dette figure sieno tutte intiere e grandi dal naturale e che venghi la parte di sopra invaghita con varij scherzi d’Angeli». All’artista queste istruzioni non bastarono ed egli scrisse per informarsi «se la Madonna del Carmine vaddi vestita di rosso o pure se coll’habito morello ed il manto bianco». Inoltre egli desiderava sapere come dovesse essere appeso il dipinto e come sarebbe stata la luce. 5 Le enormi somme che gli artisti eminenti riuscivano a guadagnare spiegano la loro ascesa sociale. Bernini una volta ricevette 6000 scudi per un semplice busto: cifra favolosa, molto al di sopra di qualsiasi somma pagata ai suoi rivali. Questi alti prezzi, oltre a rendere più comoda la vita dell’artista, avevano un’importante funzione simbolica, elevando agli occhi del mondo l’intera condizione dell’artista. Secondo i biografi, nel Seicento la conquista di un posto in società era la principale preoccupazione degli artisti. Fu questo motivo a ispirare i ripetuti sforzi di risanare la loro associazione professionale, l’Accademia di San Luca. Ogni volta che un nuovo pontefice ascendeva si cercava di migliorare le condizioni dell’istituzione e di favorire la discriminazione tra veri artisti e comuni artigiani. «La Pittura è professione nobilissima, divisa dalla qualità delle Arti meccaniche». Fu Urbano VIII a stabilire l’autorità assoluta dell’Accademia negli ambienti artistici romani, mettendo a tacere ogni opposizione da parte delle corporazioni. Non meno importante fu l’appoggio morale offerto all’Accademia con la nomina del cardinale Francesco Barberini, nipote del Papa, a protettore dell’istituzione. Nel 1633 fu concesso all’Accademia il diritto di tassare tutti gli artisti presenti a Roma, oltre ai commercianti di quadri e a tutti coloro che vivevano i margini del mondo dell’arte. Tutte le commissioni pubbliche divennero monopolio esclusivo dell’Accademia. Tali provvedimenti servirono a dare nuova dignità agli artisti affermati. È interessante che nella stessa Accademia di San Luca non ci fosse quella rigidezza che ci si aspetterebbe. La partecipazione non era in alcun modo limitata ai pittori di «historie», né avevano difficoltà a essere ammessi anche artisti i cui soggetti venissero considerati del tutto biasimevoli. Pare che all’inizio vi appartenessero anche artigiani, che divennero membri di seconda classe solamente verso il 1645. In realtà solo nella metà del secolo, per influsso francese, l’Accademia divenne un’associazione rigida, strettamente legata a una specifica dottrina. L’Accademia diede rispettabilità agli artisti che vi appartenevano e perciò all’arte stessa, mettendo in risalto gli aspetti intellettuali della creazione a spese di quelli meccanici. Esercitò un ruolo di primo piano nella vita culturale romana e contribuì non poco al reciproco avvicinamento di artisti, amatori e critici. Gli artisti tuttavia non si limitarono a passi “ufficiali”, quale poteva essere la riorganizzazione dell’Accademia di San Luca. Molti seguirono una politica di adattamento alla società osservando le abitudini di chi più di loro aveva saputo occupare posti sicuri. Siccome la prodigalità nello spendere era uno dei segni di condizione sociale superiore, non desta sorpresa che questo aspetto della loro vita sia stato più volte rilevato nelle loro biografie. Giacinto Brandi «viveva […] con decoro, e con isplendore, tenendo servidori, e carrozza»; anche Ciro Ferri possedeva una carrozza e faceva in modo che la sua famiglia avesse sempre vestiti eleganti. Lodovico Gimignani «vestiva nobilmente con bella biancheria, e parrucca, e non men nobilmente s’introduceva, e parlava». Andrea Procaccini viveva in un appartamento magnifico ricco di eleganti dipinti, arazzi e altri ornamenti. Tali peculiarità sono tipiche più della seconda metà del Seicento e si riflettono in modo evidente nella condotta degli artisti nei confronti dei committenti. La società romana appare pronta ad accettare la valutazione che davano gli artisti di sé. Vi sono racconti sulla regina Cristina che accolse Pier Francesco Mola nella sua carrozza, o sull’ambasciatore spagnolo che uscì a passeggio con Giuseppe Ghezzi. Ghezzi era un uomo di buona cultura ed era stato eletto membro della famosa Società d’Arcadia, oltre ad aver avuto un beneficio in San Pietro da Clemente XI, nonché essere stato nominato maestro delle cerimonie da Innocenzo XIII e «gentiluomo d’onore» dal duca di Parma. L’uso di concedere titoli agli artisti sembra risalire agli ultimi anni della Cinquecento e va posto in relazione diretta con la nuova consapevolezza del loro prestigio sociale. Verso la metà del Seicento la maggior parte degli artisti di un certo valore venivano fatti «Cavalieri dell’abito di Cristo». I pittori stessi non si tiravano certo indietro, anzi si compiacevano, di mettere in risalto la loro cultura. Ciò sottolinea un requisito ovviamente indispensabile per chi aspira al successo: una buona cultura generale. Ciò che veramente importava era tenere alta la dignità e la rispettabilità dell’arte. L’abilità di parlar bene e in modo intelligente non serviva soltanto a tenere alta la condizione dell’arte, ma aiutava anche ad attrarre potenti signori. Un’idea di come gli artisti del tempo si vedessero l’abbiamo dai loro autoritratti: sereni, eleganti, sempre più imparruccati a mano a mano che passavano gli anni, sembrano guardarci dall’alto in basso, con atteggiamento altezzoso e raramente mostrano gli strumenti del loro mestiere, più preoccupati di rassomigliare ai loro clienti che non di dare un’immagine veritiera e precisa di sé. Tutta quest’ansia di apparire rispettabili e ricchi era più che naturale, dato lo squallore che incombeva costantemente sui pittori di classe inferiore: moltissimi conducevano un’esistenza misera, lavorando per conto di commercianti di pochi scrupoli e solo occasionalmente esponendo le loro opere in qualche ricorrenza religiosa. A un livello più alto erano gli atteggiamenti stravaganti dei bentvueghels, la colonia di artisti olandesi e fiamminghi residenti a Roma. Lo Schildersbent (Compagni della stessa risma), una specie di società di mutuo soccorso per proteggere gli interessi degli artisti settentrionali a Roma, venne fondato nel 1623, affiancandosi così all’Accademia di San Luca. Ma proprio il nome della società e l’assenza di statuti e di cariche fisse mettono in risalto le differenze tra le due organizzazioni. Ciò non impedì ai bentvueghels (soprattutto grazie ad aiuti influenti) di resistere vittoriosamente al tentativo dell’Accademia di imporre una tassa a tutti gli artisti, stranieri compresi, residenti a Roma. La maggior parte di questi ultimi viveva nella zona di via Margutta (Piazza di Spagna) e la loro presenza in tale quartiere inaugurò una tradizione di bohème tuttora viva. Essi si dilettavano a organizzare ricchi banchetti, burlesque e cerimonie di battesimi pagani, attirando spesso l’attenzione della polizia. Tutto ciò doveva apparire ripugnante ai rispettabili artisti della Roma ufficiale, il che però non impedì al più caratteristico dei bentvueghels, Pieter van Lear, di divenire membro dell’Accademia di San Luca. Il successo degli sforzi compiuti per trasformare la pittura in un’onorata professione si può dedurre dalla mancata opposizione dei genitori di fronte alla vocazione artistica dei figli. Il fatto è che in generale gli artisti provenivano da famiglie umili. In genere, a prescindere dai trionfi ecclesiastici, una fortunata carriera artistica probabilmente era 6 ancora il modo migliore per ascendere la scala sociale. È significativo il fatto che Mario de’ Fiori, pittore di grande successo, avesse destinato uno dei suoi figli alla carriera ecclesiastica, indirizzando però l’altro alla sua stessa professione. E Giovanni Andrea Carlone poté essere accolto dal maestro di casa del marchese Costaguti come degno marito di sua sorella. Accanto a questi esempi di scalata sociale stava avanzando un’altra idea che sembrava talvolta in contrasto con la dura battaglia per la notorietà condotta dagli artisti, cioè che il pittore fosse un essere eccezionale e talvolta molto bizzarro. Una prova di ciò è desumibile dal venir meno dell’opinione che gli artisti trasmettessero automaticamente il loro talento ai figli a Roma ma non in altre città. Sebbene non mancassero notevoli eccezioni a questa regola (Bernini era figlio di uno scultore famoso) il contrasto con le generazioni precedenti è stridente. Ed è particolarmente forte il contrasto con Venezia, dove il ceto sociale dell’artista era sempre considerato abbastanza basso e dove era frequente il caso di intere famiglie di pittori impiegate collegialmente in un unico lavoro, e ciò fino alla fine del Settecento. Tuttavia gli artisti erano ancora considerati artigiani, sia pure di grado superiore. A dispetto di ciò, varie potenti forze combattevano in favore di una nuova concezione. Al «temperamento artistico» aveva fatto cenno spesso ed esplicitamente Vasari. Le parole attribuite a Paolo V (su Guido Reni) precedentemente citate farebbero pensare che questo Papa sia stato tra i primi a riconoscere che un certo grado di eccentricità era naturale nel modo di fare di un artista. Nel 1676, per esempio, il rappresentante del duca di Savoia, scrivendo dell’insoddisfacente comportamento di Giovanni Peruzzini, artista mediocre protetto dalla corte di Torino, diceva che «non saria buon pittore se non avesse qualche ramo di pazzia». È appunto nella prospettiva dell’artista inteso come essere eccezionalmente ispirato che vanno analizzati alcuni aspetti della carriera di SALVATOR ROSA, il pittore che più di ogni altro alimentò questa fama. Fu un artista di eccezionale importanza e tale resterebbe anche se non avesse fatto altro che sorprendere e affascinare i suoi contemporanei con la stravaganza del suo comportamento, creando così l’immagine dell’artista come un essere a sé. Immagine che trova concreta espressione nei molti autoritratti, così lontani dalle levigate fattezze dei suoi colleghi. Ma Salvator Rosa fu l’unico a trovare incresciose e intollerabili le restrizioni inerenti alla natura del mecenatismo del suo tempo, proponendosi perciò di abolirle. Da allora molti artisti hanno appreso quanto importante sia, per conquistare notorietà, sapersi fare pubblicità da soli. Il desiderio insistente di autopromozione di Salvator Rosa spesso non era altro che una manifestazione esteriore e superficiale di una sagace determinazione a spezzare i legami del mecenatismo ufficiale. Lo vediamo più volte servirsi di esposizioni per costruirsi una reputazione e organizzare una claque per decantare i suoi meriti. Lo sfruttamento promozionale della sua personalità serviva esattamente allo stesso scopo. Ma Salvator Rosa era anche impegnato in una battaglia molto più seria: egli sosteneva il diritto del pittore all’autonomia artistica. Apprendiamo per esempio come usasse rifiutare la caparra ed egli stesso ci dice che tale rifiuto non aveva lo scopo di ottenere di più in seguito, bensì quello di non «rendere schiava la sua volontà» dedicandosi a completare un’opera dal momento che ne avrebbe potuto avere in mente un’altra più interessante. «[…] perch’io non dipingo per arricchire, ma solamente per propria soddisfazione, è forza il lasciarmi trasportare da gl’impeti dell’entusiasmo ed esercitare i pennelli solamente in quel tempo che me ne sento violentato»: un’affermazione stupefacente della completa sottomissione del pittore all’ispirazione. Era solito dire che fosse assurdo stabilire il prezzo di un quadro prima di averlo incominciato: il prezzo dipende dalla qualità dell’opera compiuta. Questa stoccata a favore della bizzarria dell’ingegno colpiva alle radici la concezione comune in base alla quale le capacità di un artista potevano essere fissate in anticipo. Salvator Rosa esprimeva una concezione dell’arte molto più nobile di quanto non facessero i suoi rivali che coltivavano con tanta perseveranza le belle maniere: egli cercava sempre di lavorare al limite delle sue possibilità. I tentativi di Rosa di rompere gli schemi del mecenatismo artistico non ebbero seguito, ed egli creò un’immagine dell’artista che sarebbe stata pienamente apprezzata soltanto nell’Ottocento romantico: ai suoi tempi fu solo. II. URBANO VIII E LA SUA CERCHIA 1. Maffeo Barberini nacque a Firenze nel 1568 da un’antica e ricca famiglia di mercanti. All’età di 16 anni fu chiamato a Roma dallo zio monsignor Francesco, che godeva di grande prestigio presso la corte papale. Andato in fumo un progetto matrimoniale, decise di intraprendere la carriera ecclesiastica, avvalendosi largamente dell’influenza e della borsa dello zio. Fin dall’inizio impressionò con la sua tenacia e intelligente ambizione. La Roma di Sisto V in cui si era trasferito doveva inevitabilmente esercitare su di lui un effetto profondo e duraturo. Quell’implacabile papa stava allora compiendo gli sforzi più decisi per ridare a Roma la sua posizione di centro del mondo. Il governo della Chiesa si andava trasformando per opera del Papa da oligarchia in dittatura assoluta. Contemporaneamente egli sottopose la città a un drastico sconvolgimento. Si aprirono strade attraverso i conglomerati di case medievali che rivelarono vaste prospettive e si congiunsero le chiese principali tra colli e avvallamenti. Obelischi egiziani, coronati con gli emblemi della cristianità trionfante, davano lustro alle piazze, testimoni della storia. Grandiose fontane portavano acqua potabile alle nuove aree residenziali. Nel 1590 veniva infine portata a termine un’opera gloriosa: la cupola di San Pietro di Michelangelo. Poco più tardi il Papa moriva, dopo aver regnato solamente cinque anni, durante i quali aveva creato una nuova città: la Roma sistina. 7 A quei tempi però un elemento scarseggiava: il gusto. E Maffeo Barberini ne aveva in abbondanza. Mentre la sua carriera politica compiva soddisfacenti progressi egli cominciava a mostrare un acuto e intraprendente interesse per le arti. Verso il 1595 si fece fare un ritratto da un giovane pittore: Michelangelo da Caravaggio [fig.]. Il dipinto raffigura Maffeo Barberini seduto mentre si volge interessato verso di noi con un’espressione vivace ma interrogativa sul volto, la mano destra tesa e una lettera stretta nella sinistra. Alcuni anni dopo Maffeo commissionò a Caravaggio (ora molto più noto) “Il sacrificio di Isacco”, «il quale tiene il ferro presso la gola del figliuolo che grida, e cade». Nel 1598 Maffeo accompagnò Papa Clemente VIII nel viaggio compiuto a Ferrara per prendere possesso della città. In quest’occasione furono saccheggiati i tesori d’arte accumulati dagli Estensi attraverso i secoli; tra i dipinti portati a Roma dal cardinale Aldobrandini c’erano L’offerta a Venere, Gli Andrii e Bacco e Arianna di Tiziano. Queste opere passarono quasi inosservate a Roma fino a che lo stesso Barberini non divenne Papa; in seguito contribuirono a gettare i fondamenti di uno stile artistico completamente nuovo. Nel 1600 lo zio morì lasciandogli una fortuna. Ora poteva permettersi di far costruire una ricca cappella di famiglia. A tale scopo scelse l’appena iniziata chiesa teatina di Sant’Andrea Della Valle, molto cara alla colonia fiorentina di Roma. Il suo architetto, Matteo Castelli, operava secondo uno stile che stava diventando sempre più comune, consistente nell’impiego di marmi sontuosamente colorati e levigati. Barberini si interessò personalmente e attivamente alla decorazione, la quale, quando fu completata molti anni più tardi, rivelò tutta la raffinatezza del suo gusto: la qualità dei particolari è pregevolissima, mentre i colori forti, stridenti ed eccessivamente brillanti delle altre cappelle patrizie appaiono qui notevolmente attenuati. Per dipingere una pala d’altare si rivolse al suo compatriota Domenico Passignano. L’artista per la cupola ricevette l’incarico di ricoprirla di affreschi raffiguranti le Virtù con angeli, mentre sui pennacchi avrebbe dovuto rappresentare Mosé, David, Salomone e Isaia. Egli dipinse pure le tele e gli affreschi delle lunette con scene della vita della Vergine (che costituiscono certamente il suo capolavoro). Alla fine del 1604 Maffeo Barberini, già vescovo, fu nominato nunzio apostolico a Parigi. Vi era stato alcuni anni prima e il suo ritorno in Francia fu accolto calorosamente. Questi tre anni di nunziatura furono molto importanti, contribuendo in modo determinante a definire la sua visione politica. Grazie al deciso appoggio dei francesi egli fu nominato cardinale nel 1606. Quando rientrò a Roma un anno dopo portò con sé grandi ricchezze, «una credenza di vasellame d'argento vermeil dorato del peso di circa quattrocento marchi, che noi [Enrico IV] gli demmo» e, come emblema, le api dello stemma reale francese. Le conseguenze culturali del suo soggiorno parigino furono di importanza ancora maggiore. Da Parigi aveva diretto il proseguimento dei lavori di decorazione della sua cappella in Sant’Andrea della Valle e aveva inoltre acquistato e arredato, insieme al fratello Carlo, un palazzo nei pressi di via dei Giubbonari. Al rientro a Roma ostacolò l’intenzione di Paolo V di alterare la pianta michelangiolesca di San Pietro con l’aggiunta di una navata. Se ne andò poi di nuovo da Roma (passò per Spoleto, nel 1611 a Bologna, poi nuovamente Spoleto) per ritornarvi nel 1617, rimanendovi per tutto il resto della sua vita. A Roma il cardinale Barberini trovò un’atmosfera molto diversa da quella che aveva lasciato all’inizio del secolo. Papa Paolo V e il nipote, il cardinale Scipione Borghese, stavano spendendo somme enormi nella costruzione di palazzi, chiese, cappelle e nell’allestimento di collezioni di dipinti, e il loro esempio era seguito da una moltitudine di cortigiani. Le cure maggiori erano dedicate a San Pietro, che si era venuta radicalmente trasformando con il completamento della navata e della facciata; a Santa Maria Maggiore, con una cappella di famiglia ricca e sfarzosa; e al Quirinale, dove erano al lavoro intere squadre di artisti occupati a decorare le sale aggiunte da poco. Quasi pari attenzione era attribuita alle ville della famiglia borghese, quella sul Pincio e quella di Frascati. Il mutamento sostanziale avvenuto nelle arti durante il pontificato di Paolo V consistette nell’abbandono di quell’austero funzionalismo che aveva caratterizzato le arti durante il pontificato i precedenti. Con l’inizio del nuovo secolo si rinnova: - l’interesse per la struttura delle superfici, - per le possibilità di ravvivare le facciate attraverso giochi di luce e ombra, - per la creazione di effetti ottenuti mediante l’uso di colori brillanti; - un gusto per la solidità realistica del corpo nella rappresentazione della figura umana, - per la ricerca di nuovi temi, quale per esempio il paesaggio, - per il ritorno della pittura da cavalletto - e ai soggetti laici più mondani. A tutto ciò si aggiungevano una notevole libertà da ogni teoria dogmatica e un’altrettanta sorprendente indulgenza verso ogni genere di esperimento. Il cardinale Scipione Borghese, più di ogni altro signore, incoraggiò tali mutamenti. Pur essendo di ottima famiglia, questi non era uomo di grande cultura e si distingueva per la «mediocrità del sapere et la vita molto dedita a’ piaceri et passatempi». Quando si trattava di soddisfare il suo appassionato amore per l’arte riusciva a essere spietato. Si impossessò di 105 dipinti, tra i quali alcuni di Caravaggio. Fece inoltre rubare la “Deposizione” di Raffaello dalla cappella della famiglia Baglioni a Perugia, unendola alla propria collezione. Vittima del cardinale fu anche Domenichino, imprigionato per aver avuto l’ardire di tener fede a un contratto stipulato con il cardinale Aldobrandini, che gli aveva commissionato una “Caccia di Diana” ardentemente desiderata da Scipione. Con tali sistemi, e altri più corretti, il cardinale Borghese riuscì a mettere insieme una magnifica collezione di quadri. Antichi maestri, bolognesi di ogni tendenza, Caravaggio, Rubens, i manieristi, tutti erano ampiamente rappresentati nelle sue raccolte. La sua villa al Pincio, «la delizia di Roma», costruita in mezzo ad un vasto parco ed abbellita di nicchie e statue, fu il punto di ritrovo della società più edonistica che Roma avesse mai visto dal Rinascimento in poi. 10 preferita una Croce, intendendosi dedicare il monumento alla passione di Cristo piuttosto che al suo trionfo. I riferimenti a San Pietro stesso e all’istituzione del papato furono limitati ai piccoli angeli posti sopra il cornicione recanti la tiara e le chiavi. Ma la caratteristica più sensazionale del baldacchino era costituita dalle enormi colonne a spirale. Si credeva che il modello della colonna a spirale derivasse dal tempio di Salomone a Gerusalemme, e che a una di esse, conservata in San Pietro, si fosse appoggiato Cristo. Inoltre la colonna a spirale, avvolta di foglie di vite, costituiva una caratteristica fondamentale dell’iconostasi di molte basiliche. È probabile che Urbano VIII abbia preso direttamente parte all’elaborazione dello schema iconografico, facendo in modo che fosse strettamente collegato alla sua persona; il sole dei Barberini risplende al di sopra dei capitelli; le foglie sulle colonne sono quelle dell’alloro, un altro emblema del casato, e non della vite, come avrebbe voluto la tradizione. Da allora la storia della famiglia sarebbe stata indissolubilmente legata a quella grande chiesa. Il costo dell’opera fu enorme. L’influenza papale sulla decorazione di San Pietro fu ovviamente determinante, ma le modifiche soggiacevano, almeno sotto il profilo formale, al controllo di una commissione permanente presieduta dal cardinale Ginnasi. Vecchio e di mediocre ingegno, questi era Roma uno dei sostenitori più in vista della causa spagnola. Nel giugno del 1627, pochi giorni prima che le colonne del Bernini fossero scoperte, la commissione decise di costruire degli altari nelle nicchie scavate nei pilastri di sostegno della cupola. In realtà poi fu accettato lo schema di Bernini e il progetto originario fu trasformato. Gli altari sarebbero stati posti nella cripta, mentre le nicchie avrebbero accolto le statue dei quattro santi le cui reliquie erano le più venerate nella chiesa. Per eseguire questa commessa Bernini scelse quattro scultori di prim’ordine, riservando per sé l’esecuzione di una delle statue, quella di San Longino. Lo scultore fiammingo François Duquesnoy scolpì un Sant’Andrea. Contemporaneamente alla messa in opera di tale progetto, sopra le nicchie furono costruite delle balconate per esporvi le reliquie dei santi in determinati giorni festivi. Occorre citare altre due commissioni di Urbano VIII per San Pietro. Alla fine del 1633 Bernini, assistito da due numerosi aiuti, incominciò a lavorare a un rilievo in marmo, che originariamente si intendeva collocare all’interno della chiesa ma che ora è nel portico, raffigurante Cristo che affida a Pietro il suo gregge. Contemporaneamente disegnò una tomba nella navata destra per la contessa Matilde di Canossa. Quando il progetto fu finalmente portato a termine fu chiaro che il Papa e Bernini avevano dato un nuovo significato a tutta la chiesa. I vari elementi armonizzavano magnificamente tra loro per stile e tema: un grande inno di lode al martirio di Cristo, dei santi e degli apostoli che non ha eguali al mondo per vigore espressivo, e in più un appassionato ricordo delle grandi glorie del papato e del suo stesso casato. Il completamento dell’opera richiese molti anni, ma ci volle molto meno perché il prestigio di Bernini si affermasse a Roma e in tutta Europa. La sua autorità presso il Papa fu da allora assoluta: ricevette onori a non finire da lui e dalla sua famiglia ed egli divenne praticamente il dittatore artistico di Roma. Era comune lamentela che fosse impossibile lavorare per i Barberini senza il suo benestare. Il suo carattere tirannico gli procurò innumerevoli nemici, ma fintanto che Urbano VIII fu in vita la sua posizione rimase inattaccabile. È certo che Bernini teneva a tale suo prestigio almeno nella stessa misura in cui il Papa voleva che egli lavorasse esclusivamente per lui, e tra il 1623 e il 1644 l’artista non assunse incarichi di una certa importanza che non provenissero dei Barberini. Senza dubbio ciò dipendeva in gran parte dalla mancanza di tempo e dalla natura monumentale delle commissioni papali, ma c’era anche un’altra ragione. Al Papa non piaceva che il grande artista immortalasse altri oltre a lui e si rendeva pienamente conto di quanta gloria potesse conferire tanto al committente quanto all’artista un incarico affidato a Bernini. Pochissimi cardinali e principi potevano godere di tale privilegio e solo poco prima di morire Scipione Borghese, il primo importante committente dello scultore, riuscì a farsi ritrarre in due splendidi busti per speciale autorizzazione del pontefice [fig.]. In altri casi l’esecuzione materiale dell’opera veniva spesso lasciata agli aiutanti. Persino governanti stranieri, come Carlo I d’Inghilterra e il cardinale Richelieu, dovettero implorare i Barberini affinché consentissero che Bernini facesse loro il ritratto e il permesso fu concesso solamente a titolo di favore eccezionale, in cambio di utili privilegi. In verità, per mettere in risalto l’importanza diplomatica di tali circostanze, il Papa faceva in modo di impedire a Bernini di lavorare senza il suo consenso. Apprendiamo dallo scultore inglese Nicholas Stone che, allorché l’artista stava scolpendo il busto di Thomas Baker, «accade che il Papa suo signore, venutolo a sapere, mandasse il cardinal Barberini a proibirgli di continuare […] non desiderando che fosse portata in Inghilterra un’opera di quell’artista che non raffigurasse Sua Maestà». Quasi contemporaneamente all’inizio dei lavori per il baldacchino in San Pietro il Papa aveva anche affidato a Bernini la sua prima opera puramente architettonica, la ricostruzione e la decorazione della chiesetta di San Bibiana. Questo era un edificio senza importanza, ma nel corso di uno dei periodici restauri fu scoperto il corpo della santa e il Papa colse l’occasione per far ricostruire completamente la chiesa. Bernini assunse il compito in un paio di anni, eseguendo inoltre una statua della santa da collocare dietro l’altare maggiore - un’opera contenuta e pure ricca di forza emotiva, dove per la prima volta quella combinazione di sensualità e misticismo che aveva caratterizzato tanti dipinti della Controriforma si allargava al campo della scultura. Un altro artista fiorentino, Agostino Ciampelli, otteneva l’incarico di dipingere sulle pareti di Santa Bibiana un ciclo di affreschi illustranti la vita della santa. Ciampelli faceva parte del gruppo dei “manieristi riformati” e aveva avuto notevole successo a Roma specialmente nell’ambito della comunità fiorentina; l’incarico fu perciò il naturale riconoscimento del suo ingegno e delle sue origini. Gli fu affiancato un altro pittore al quale fu affidato il compito di affrescare la parete di sinistra. 11 Il nuovo pittore, PIETRO BERRETTINI DA CORTONA, era anche lui toscano, ed era stato segnalato a Urbano VIII da uno dei suoi più cari amici, Marcello Sacchetti. I due fratelli Sacchetti, Marcello e Giulio, erano figli di uno dei capi della comunità toscana. Il loro palazzo era situato vicino al Tevere. In fatto di pittura Marcello aveva le idee chiare, e il compito da lui assegnato a Pietro, copiare Raffaello e Tiziano, segna una svolta cruciale nell’arte del Seicento: il più libero, più immaginoso disegno di Raffaello unito al caldo colore di Tiziano costituisce il fondamento della pittura barocca. Da allora in poi si chiese a tutti i pittori di sottoporsi a tale tirocinio. Marcello era un erudito imbevuto di cultura classica; era un mecenate di tipo nuovo, che vedeva con particolare favore Pietro da Cortona, giovane ed entusiasta. Questi, infatti, sapeva far rivivere con calore e intensità i suoi sogni del passato, ricreando per lui l’atmosfera degli antichi miti senza incorrere nella freddezza di un artista “classico”, come Domenichino. Annibale Carracci aveva posseduto lo stesso dono, ma dopo la sua morte nessun pittore aveva rievocato con tanta freschezza, e allo stesso tempo con altrettanta serietà e maestosità, le favole dell’antica Roma e dell’antica Grecia come fece Pietro da Cortona per Sacchetti nelle immense tele del “Sacrificio di Polissena”, del “Trionfo di Bacco” e, poco dopo, del “Ratto delle Sabine” [fig.]. Queste opere illustrano il passaggio a un mondo fastoso, caldo, luminoso e popolato di figure maestose e solenni che saranno presto degli altri artisti operanti nell’orbita dei Sacchetti. Poco dopo Marcello affidò a Pietro un nuovo compito più impegnativo, la decorazione della sua villa di Castelfusano, nei pressi di Ostia. Tra gli artisti operanti agli ordini di Pietro ce ne era un altro destinato a raggiungere presto la celebrità: Andrea Sacchi. Nel frattempo Urbano VIII era divenuto Papa, e la posizione dei fratelli Sacchetti mutò notevolmente. Giulio fu nominato cardinale; Marcello fu chiamato a reggere la tesoreria papale. Inoltre divenne il più intimo amico del papa e il suo più stretto confidente. L’influsso dei Sacchetti fu determinante in materia di gusto. Fu così dunque che il giovane Pietro da Cortona affiancò Agostino Ciampelli nella chiesa di Santa Bibiana. D’ora in avanti il suo successo sarà assicurato ed egli potrà condividere con Bernini la qualifica di artista particolare del Papa. Era l’inizio di una carriera trionfale. 3. Urbano VIII era un uomo colto, di bella presenza e di carattere affabile. Nutrì per tutta la sua vita una vera e propria passione per la poesia e per i poeti, di cui amava circondarsi; scriveva versi in italiano, in latino e persino in greco, ma era particolarmente attento a sottolineare il contenuto religioso delle proprie opere e incoraggiava sempre i suoi amici a rinunciare ai temi della mitologia pagana. Si dimostrava competente, attivo e ben informato di tutto. Le sue caratteristiche principali erano l’estrema vanità e l’irresistibile ambizione, non accompagnate, però, da una forza di volontà adeguata. Il suo pontificato appare deturpato da una serie di atti estremamente meschini e dall’assoluta incapacità di conseguire lo scopo che si era inizialmente fissato: accrescere il potere del papato. Alla società in cui viveva dobbiamo alcuni dei più splendidi monumenti del tempo: l’arte dell’adulazione fu un ingrediente essenziale dello stile barocco e Urbano VIII non le fece certamente mancare la possibilità di esprimersi. A pochi mesi dalla sua ascesa le stamperie romane incominciarono a inondare la città con le prime edizioni di lusso delle sue poesie e l’impresa culminò nello splendido volume uscito nel 1631, pubblicato dai Gesuiti e illustrato da Bernini [fig.]. Bernini eseguì anche numerosi busti in marmo e in bronzo rappresentanti il Papa. In queste opere non vi è nulla dell’eleganza spavalda e quasi esagerata della quale Bernini dotava i suoi regali committenti; una simile arroganza non si addiceva al Vicario di Cristo. Dopo pochi anni di regno il Papa perde l’espressione vivace che aveva agli inizi, ed è raffigurato in atteggiamento grave, autoritario e al tempo stesso riservato. In tutti i ritratti il Papa appare sempre eccessivamente bello e aristocratico, con i lunghi baffi e la barba perfettamente curati, le guance sode sugli zigomi marcati, gli occhi chiari e tristi seppur vivi e attenti. Nel frattempo il Papa permetteva, seppur non incoraggiava, che venissero eretti grandiosi monumenti in suo onore. Già nel 1627 Bernini era stato incaricato di eseguire una sua statua in bronzo, che venne innalzata a Velletri sei anni dopo. Nel 1635 il Senato romano affidò a Bernini l’incarico di scolpire nel marmo una grande statua di Urbano VIII, che fu poi collocata nel Palazzo dei Conservatori. Contemporaneamente il Papa commissionava a Bernini i busti dei suoi parenti defunti. Nel 1630, alla morte del fratello Carlo, il Papa commissionò a Bernini una placca commemorativa e il Senato lo assecondò ordinando che gli fosse eretta una statua in Campidoglio. Lo scultore bolognese Alessandro Algardi riadattò un antico torso di Giulio Cesare e lo stesso Bernini ne modellò la testa. Sul piano artistico e psicologico il risultato di tale operazione appare abbastanza incongruente. Carlo aveva ben poco in comune con Giulio Cesare. Il pur geniale Bernini e un antico torso non potevano fare miracoli e il monumento è piuttosto la testimonianza delle ambizioni che non del valore militare dei Barberini. L’opera più importante con la quale Urbano VIII scelse di celebrare la propria gloria fu la propria tomba [fig.], commissionata dopo tre soli anni di regno. Doveva essere completata prima della sua morte e posta in una parte ben visibile della basilica di San Pietro. Il compito fu affidato naturalmente a Bernini, sotto la supervisione di Angelo Giori. Egli era un appassionato amante dell’arte, grande ammiratore di Bernini e di Sacchi, ma era soprattutto protettore di Claude Lorrain. Fu dato corso all’opera; si costruì una nicchia sulla destra dell’abside e la tomba di Paolo III fu rimossa da uno dei pilastri centrali per essere posta in una nicchia sulla sinistra dell’abside. Poco dopo fu gettata nel bronzo l’enorme figura benedicente del Papa. Più maestoso e solenne che in ogni altra raffigurazione, egli sovrasta dall’alto il pellegrino e le figure allegoriche delle Virtù poste in basso, con la mano destra levata in un gesto autoritario quasi a significare la volontà di comandare e, allo stesso tempo, l’atto di benedire. A questo punto i lavori si interruppero per otto anni; l’opera fu ripresa nel 1639. Fu scolpita nel marmo la 12 Carità, accompagnata da due putti, seguita dalla Morte che emerge dal sarcofago reggendo tra le mani una pergamena sulla quale sta scritto: «Urbanus VIII Barberinus Pontifex Maximus». I lavori furono di nuovo interrotti finché, nel maggio del 1644, il Papa, sentendo approssimarsi la morte, fece il tentativo definitivo di vedere la tomba finita. Ma era ormai troppo tardi e la Giustizia fu completata solo nel 1647, quando, ironia della sorte, i Barberini erano stati cacciati da Roma con l’accusa di aver sfruttato le risorse della città per il loro tornaconto personale. Gli strani equivoci insiti nel patrocinio di Urbano VIII nei confronti delle fondazioni religiose appaiono anche più evidenti dal suo comportamento a proposito della chiesa di Santa Maria della Concezione. Il fratello più giovane del Papa, Antonio, frate cappuccino, era uomo riservato e afflitto da timidezza. Per quanto nominato cardinale di Sant’Onofrio, egli continuò vivere nel più semplice dei modi. Nel 1626 decise di far costruire per il suo ordine una nuova chiesa, con convento annesso. Il compito fu affidato a un architetto cappuccino, il quale disegnò un progetto estremamente semplice, come si conveniva all’ordine. Urbano VIII, però, non era uomo da accontentarsi di una simile austerità e noncurante incominciò a occuparsi personalmente del progetto. A mano a mano che se ne avvicinava il completamento, grandi personaggi di tutta Europa fecero a gara per legare il proprio nome a una chiesa così elegante e così cara al pontefice. L’imperatore Ferdinando II chiese il permesso di costruire una cappella; a Roma il cardinale Magalotti fece radunare pietre e marmi preziosi per un’altra cappella da dedicare a San Lorenzo. Allora intervennero gli stessi Cappuccini. Quando seppero che «gli altari della Chiesa conforme alla mente del Papa dovevano fabricarsi et adornarsi tutti di pietre pretiose conforme all’altri che modernamente si fabricano nelle Chiese di Santità Sua a volersi contentare di condescendere alla simplicità del nostro stato». Il Papa si lasciò convincere e annullò le concessioni fatte ai principi stranieri. Ma il rispetto per l’austerità dell’ordine non fu il solo motivo di questo comportamento: «non giudico bene […] ché altri havesse parte in detta Chiesa». E così si giunse alla conclusione che soltanto i Barberini dovevano provvedere alla decorazione. Presto sorsero nuove difficoltà. Il cardinale di Sant’Onofrio commissionò una dozzina di candelieri e due crocifissi, tutti in legno e li mandò alla chiesa. Si era tenuto all’accordo, ma i Cappuccini li trovarono «assai curiosi, è fuor dell’usato della Religione». Così li rimandarono indietro. Questa volta la loro protesta non fu accolta; i candelieri vennero alla fine accettati. La stessa cosa avvenne per l’altare maggiore. Urbano VIII stesso aveva fatto disegnare un tabernacolo di bronzo e dei candelabri di metallo. Affinché tali oggetti potessero essere accettati, ordinò una speciale dispensa dalle regole di semplicità che governavano la decorazione delle chiese cappuccine: proprio quello che i Cappuccini avevano temuto. Il tabernacolo dovette essere accettato, anche se Urbano acconsentì che fosse fatto di «pietre fine» e non di bronzo e che si tralasciassero i candelabri. Il Papa e suo fratello commissionarono le pale per gli altari alla più vecchia generazione di artisti con i quali erano stati in rapporto; scrissero a Bologna a Guido Reni, e questi inviò “L’arcangelo Michele che calpesta il diavolo”. Fornirono altri dipinti anche Domenichino e Lanfranco, Pietro da Cortona e l’ancor più giovane Andrea Sacchi; infatti anche la nuova generazione dei Barberini, quella dei nipoti, partecipò a questa fase della decorazione. 4. Tutti e tre i nipoti di Urbano VIII, Francesco, Taddeo e Antonio, ebbero ruoli di grande importanza nella vita artistica della città. Francesco Barberini aveva solo ventisei anni quando fu nominato cardinale. Godeva fama di essere mite e gentile, profondamente devoto alle lettere e alle arti anche se non eccessivamente intelligente e decisamente privo di interesse per gli affari. La sua prima importante prova politica avvenne nel 1625, quando fu inviato a Parigi. La missione si concluse con il più completo fallimento, ma non fu priva di conseguenze per il cardinale che si recò in Francia con un brillante seguito di amici e consiglieri. Approfittando della sua posizione, la delegazione visitò in privato i tesori d’arte conservati al Louvre e a Fontainebleau. Gli inviati pontifici furono accolti ovunque con estrema cortesia e poco prima di ripartire trovarono nei loro appartamenti uno splendido dono inviato da Luigi XIII. Appesi alle pareti delle loro stanze c’erano sette grandi arazzi eseguiti su cartoni di Rubens e raffiguranti scene della “Vita di Costantino”. Francesco aveva avuto dallo zio l’ordine categorico di non accettare i doni e fu perciò costretto a restituirli. Poco tempo dopo cambiò idea e accettò gli ambiti arazzi. La sua attività di collezionista non poteva incominciare meglio. Il cardinale Barberini fu colpito dalla vitalità della cultura francese. Le incomprensioni politiche non intaccarono per nulla i suoi sentimenti e da quel momento in poi si mantenne in contatto epistolare con molti scrittori, scienziati, artisti e pensatori francesi di ogni genere, accogliendoli anche presso di sé. Era appena rientrato a Roma, nel 1625, quando manifestò il primo segno di queste sue nuove simpatie, acquistando un dipinto raffigurante “La presa di Gerusalemme” del giovane Nicolas Poussin. Quasi subito si rese necessaria una nuova missione diplomatica, questa volta a Madrid. Anche qui le trattative fallirono e, tornato a Roma nell’ottobre del 1626, il cardinale vi rimase in pianta stabile, diventando rapidamente ricco e influente ma con scarso potere effettivo. Egli si servì perciò di ricchezza e fama per promuovere quanto più era possibile lo sviluppo delle arti, delle scienze e della cultura. La sua corte divenne il centro della vita artistica intellettuale della città. La sua prima vera occasione si presentò con l’incarico per la realizzazione di un’intera serie di pale d’altare destinate a San Pietro. In tutta Italia, ma specialmente a Roma e a Firenze, gli artisti e i relativi protettori rivaleggiavano per le grandi possibilità che si offrivano loro. La commissione giudicante era tempestata di lettere. Fino a quel momento il membro più influente della commissione era stato il cardinale Del Monte. Ma ora che il cardinale Francesco Barberini era entrato a far parte della commissione l’autorità di Del Monte cominciò a declinare. Il cardinale Barberini incominciò a seguire una linea di condotta più decisa e intraprendente, cosa non del tutto facile. La commissione aveva una spiccata preferenza per la più vecchia generazione di artisti, particolarmente per i bolognesi. Infatti il cardinale Ginnasi, il presidente, aveva la ferma intenzione di assegnare a Guido Reni l’opera più importante di tutte. Francesco Barberini dovette accontentarsi di offrire a Pietro da Cortona la realizzazione di un dipinto più piccolo. Guido Reni arrivò a Roma, 15 si sente una nullità: masse contorte di rozzi giganti rossi che si agitano gli fanno temere che sopra il suo capo sia in corso un tremendo conflitto, coinvolgendolo inesorabilmente nella strenua lotta del Papa contro le forze del male. L’idea stessa di un simile tema era nuova anche per il mecenatismo papale del Seicento. Da almeno cinquant’anni nessun artista si era cimentato con un programma tanto complesso. In effetti i soffitti di Sacchi e Pietro da Cortona riflettono l’intensità degli interessi letterari della nuova corte. Ma Pietro, in particolare, seppe combinare tali interessi con un nuovo sfoggio virtuosistico che fino a quel momento si era visto soltanto in letteratura. La sintesi artistica che ne risultò venne entusiasticamente adottata dai pittori di corte per oltre un secolo. Per di più lo schema da lui composto con la collaborazione di Bracciolini spingeva l’adulazione del principe ad un limite mai raggiunto in precedenza di qua delle Alpi; a ciò essi furono probabilmente incoraggiati dal cardinale Francesco, che certamente doveva aver visto a Parigi, riportandone grande impressione, le prime scene del ciclo allegorico di Rubens in onore di Maria de’Medici e di Enrico IV. Se ne riconobbe immediatamente la novità: Domenichino scrisse che il soffitto gli pareva più adatto a tessere le lodi di un principe che non di un Papa. Mentre Pietro lavorava alla grande volta del palazzo, Francesco Barberini cominciava ad avvalersi dell’opera del suo principale allievo, Giovan Francesco Romanelli. Questo artista era chiamato ogni volta che occorrevano dipinti per qualcuna delle chiese patrocinate dal cardinale. Ebbe anche l’incarico di occuparsi degli arazzi di Palazzo Barberini. La sua pittura diventava sempre più stanca e fiacca anziché classica ed egli non ebbe mai molti ammiratori oltre al Papa e al nipote. Per tale ragione essi poterono sempre contare su di lui e lo ricompensarono con pensioni e onori. Nel 1638 fu nominato “principe” dell’Accademia di San Luca «per volontà del cardinal [Francesco] Barberini», che aveva il pieno controllo di quell’istituzione e che aveva stanziato grandi somme per il completo rifacimento della chiesa dell’Accademia a opera di Pietro da Cortona. 6. I rapporti tra carattere e gusto estetico sono complessi e misteriosi. Il colto cardinale Francesco scelse come suoi pittori favoriti il colorito ed estroverso Pietro da Cortona e il suo seguace Romanelli. Invece il riservato e malinconico Andrea Sacchi, con l’andare degli anni sempre più restio anche solo a tentare di competere con l’adorato Raffaello, ebbe aiuto e appoggio quasi soltanto dall’impetuoso Antonio Barberini. Antonio era il minore dei nipoti del Papa e con grande costernazione dei membri più anziani del conclave fu nominato cardinale nel 1627. Sue uniche doti qualificanti per aspirare a tale altissimo onore erano l’avidità di ricchezza e l’ambizione sconfinate. Francesco e il Papa appena possibile lo allontanavano da Roma. Antonio era un uomo elegantissimo e aveva anche lui la passione di famiglia per la cultura e per l’arte. La prima vera occasione di manifestare tali interessi venne nel 1631, allorché Urbino entrò a far parte dello Stato pontificio. Fin dal momento della sua ascesa al soglio Urbano VIII aveva sostenuto con vigore i suoi diritti sulla città, che avrebbe dovuto entrare a far parte dei territori della Chiesa alla morte del vecchio duca Francesco Maria Della Rovere, rimasto senza eredi dopo la morte dell’unico figlio Federico. Antonio ovviamente sperava di arricchire la propria collezione di dipinti saccheggiando i meravigliosi tesori di Urbino, analogamente a quanto avevano fatto a Ferrara, una generazione prima, gli Aldobrandini e i Borghese; ma non fu così Urbino naturalmente venne spogliata, ma le cose migliori erano già state portate altrove. Il vecchio duca aveva lasciato la sua collezione privata alla figlia Vittoria Della Rovere e casse intere di opere di Tiziano e Raffaello avevano già preso la via di Firenze. Erano rimaste ben poche cose e tra queste, ancora appesi alle pareti dello studiolo, erano quei ritratti di poeti e filosofi antichi e moderni che Giusto di Grand e Pedro Berruguete avevano dipinto, dei quali Antonio entrò in possesso. Il più importante contributo alle arti del cardinale Antonio fu il regolare mantenimento di Sacchi, il quale altrimenti «sarebbe sempre vissuto tra la mendicità». Antonio ebbe un ruolo determinante nell'ottenere per l'artista importanti incarichi nella chiesa dei Cappuccini e soprattutto nel palazzo di famiglia, e fu praticamente l'unico tra i Barberini a farlo lavorare con continuità. Negli anni successivi al 1630 si erano manifestate delle divergenze tra Sacchi e Pietro da Cortona, formatisi entrambi nella tradizione tizianesca. Da allora in poi Sacchi mostrò sempre più apertamente di disapprovare l'esuberante complessità di Pietro, non stancandosi mai di vantare i meriti della semplicità e prendendo a modello l'arte di Raffaello. Il cardinale Antonio, che poco prima del 1637 lo assunse ufficialmente al suo servizio con un salario mensile, conosceva certamente le sue idee e le approvava. Sacchi lavorava con grande lentezza e gran parte della sua regolare produzione era destinata al suo unico altolocato signore; si trattava soprattutto di tele di soggetto sacro destinate alla chiesa, specialmente al Battistero Laterano. Sacchi accompagnava il cardinale Antonio nei suoi viaggi fuori Roma e svolse il compito di consulente artistico generale per la decorazione del palazzo di cui il cardinale si era assunto la responsabilità e nel quale viveva. Quando questi, nel 1639, organizzò una grande cerimonia nella chiesa del Gesù per celebrare il centenario dell'approvazione degli statuti dei Gesuiti, Sacchi ideò la decorazione temporanea del tempio mediante arazzi, tramandando inoltre l'evento in un dipinto espressamente eseguito [fig.]. In realtà tra le commissioni che Antonio affidava a Sacchi vene sono di molto sorprendenti: i dipinti in cui l'artista fissa diverse scene di vita romana alle quali parteciparono il cardinale o qualcuno della sua famiglia. Particolarmente notevole fu la grande «giostra medievale» in Piazza Navona nel 1634 la giostra era stata originariamente ideata in onore di un principe polacco che aveva annunciato la sua venuta a Roma; la visita era stata annullata, ma il cardinale aveva mantenuto immutato il programma. Quel perfetto pastiche di usanze medievali ebbe molto successo. Sacchi ne dipinse la scena culminante in Piazza Navona. 16 La giostra di Antonio faceva parte di una serie di iniziative dei Barberini per mettere in risalto il passato cavalleresco di Roma. Mentre il loro sperpero di ricchezze rovinava economicamente le più antiche famiglie, i Barberini tentavano disperatamente di far rivivere le antiche forme a proprio esclusivo vantaggio. Nel frattempo il palazzo si stava riempiendo di opere d'arte e di tesori di ogni genere e nel 1642 usciva un volume sontuosamente illustrato contenente un'ampia descrizione delle raccolte. L'autore descrive stupefatto le stanze piene di opere di Raffaello e di Correggio, di Tiziano e Perugino, del Cavalier d'Arpino, di Guido Reni, Lanfranco, Guercino, Pietro da Cortona, Sacchi, Camassei ed altri; i grandi soffitti con affreschi allegorici e le vaste collezioni di antichità; ma indugiava soprattutto sulla splendida biblioteca oggetto delle cure particolari del cardinale Francesco: un vero tempio delle Muse nel quale il cardinale amava ritirarsi. Ma ciò che più destava meraviglia del Palazzo Barberini era il teatro. Fin dal febbraio del 1632, in un salone del palazzo, erano state allestite rappresentazioni operistica, ma il teatro appositamente costruito da Pietro da Cortona e capace di tremila posti fu inaugurato soltanto sei anni dopo. L'opera rappresentata era il Sant'Alessio, la storia di un ricco giovane che vuole fuggire dal mondo. Il libretto di questa storia curiosa e patetica era stato scritto da Giulio Rospigliosi, il più amabile tra i tanti poeti e amatori d'arte che brulicavano nella corte di Urbano VIII. Come molti altri di quella cerchia era toscano. Rospigliosi accompagnò in Spagna il cardinale Francesco e, una volta rientrato a Roma, divenne presto l'intelligente protettore di numerosi pittori, tra i quali, in particolare, va citato Poussin. Molti altri artisti godettero del mecenatismo di Rospigliosi in diverse fasi della sua vita: Camassei, Gimignani, Grimaldi e anche Bernini. E quando nel 1667 egli divenne Papa con il nome di Clemente IX, in soli due anni di pontificato riuscì a dimostrare splendidamente il suo grande amore per l'arte. Ai tempi di Urbano VIII Rospigliosi, pur ricoprendo numerose importanti cariche amministrative, era noto soprattutto per le sue poesie e i drammi in versi che scriveva per il teatro di Palazzo Barberini, dapprima d'argomento esclusivamente religioso e in seguito anche profano. Naturalmente l'incarico di realizzare le numerose scenografie del Sant'Alessio era stato affidato a Bernini e i suoi progetti impressionarono visivamente gli spettatori romani, anche se privi di esperienza teatrale. La rappresentazione suscitò un'autentica passione per gli effetti sensazionali, che erano creati da Bernini con realismo ancor più straordinario del teatro provvisorio che aveva fatto costruire davanti alla sua stessa casa. Qui egli dirigeva drammi scritti (e spesso recitati) da lui. 7. Nel 1641 scoppiò la guerra di Castro, contesa tra Roma e il duca di Parma, Odoardo Farnese. Tutta l’ostilità latente che si era accumulata nel corso dei vent’anni del potere dei Barberini si manifestò apertamente, minacciando di sopraffarli. Un esercito marciò verso Roma, in città si diffuse il panico finanziario, il mecenatismo subì enormi danni. Nel 1644 fu imposta una pace umiliante; pochi mesi dopo il Papa moriva. Giambattista Pamphili, che divenne Papa con il nome di Innocenzo X nel settembre del 1644, dovette in parte la sua elezione all’appoggio dei due cardinali Barberini. Essi pensavano che bastasse schierarsi dalla parte del vincitore per salvarsi. Sì sbagliarono. Si profilò la minaccia di un’inchiesta sulla loro gestione della guerra di Castro. Per evitarla nel 1645 il cardinale Antonio si imbarcò per la Francia. Mesi dopo fu raggiunto dai fratelli maggiori Francesco e Taddeo. I loro palazzi romani furono occupati da altri, le loro proprietà confiscate. Per gli artisti l’esilio dei Barberini fu un colpo terribile. Per esempio Romanelli scrisse al cardinale Francesco: «è impossibile che chi è vissuto sin hora sotto il patrocinio di Sua Em.zia et a ricevuto tanti favori come io, possa viver, lontano dalla Em.a Vostra» e lo raggiunse a Parigi. Lo stesso Bernini soffrì per un certo tempo le conseguenze dei suoi stretti legami con quella famiglia; alcuni suoi rivali o nemici, come Borromini e Algardi, videro nella sua disgrazia la loro grande occasione e si affrettarono ad approfittarne. Ma anche da lontano i Barberini riuscivano ancora a far sentire la loro presenza. Bernini portava a termine la tomba che Urbano VIII avrebbe tanto voluto vedere finita. Allo stesso tempo una squadra di tessitori era al lavoro per finire una serie di arazzi illustranti la vita di Cristo, tratti dai cartoni che i Barberini avevano commissionato a Pietro da Cortona. E infine, tre anni appena dopo la catastrofe, avvenne uno di quegli improvvisi rovesciamenti di fortuna che erano tanto frequenti nella Roma del Seicento. Nel febbraio del 1648, in seguito a brevi trattative, il cardinale Francesco rientrava a Roma accolto calorosamente dal Papa. La gioia degli artisti fu grande, il teatro riaprì i battenti e Giulio Rospigliosi ricominciò a scrivere i suoi libretti. Se i Barberini erano ritornati, il loro mecenatismo non era che l’ombra di quello di prima. Pietro da Cortona non era molto impegnato a lavorare per il nuovo regime e Sacchi, al quale Antonio era rimasto fedele, si mostrava sempre più restio a impugnare il pennello. Lasciò sbalorditi i suoi invidiosi colleghi rifiutandosi di affrescare la volta di San Luigi dei Francesi come gli aveva chiesto di fare Antonio. Nel 1661, quando Andrea Sacchi morì, Antonio si rivolse al suo allievo Carlo Maratta. Questi portò a termine un ciclo di apostoli che Sacchi aveva appena incominciato quando era stato sorpreso dalla morte e inoltre tramandò i lineamenti del suo mecenate in alcuni tra i più bei ritratti della pittura romana del Seicento. Vecchio e fragile, ma straordinariamente imponente nelle insegne cardinalizie, Antonio è diritto davanti a un tavolo e fissa con aria solenne lo spettatore. La mano non si tende verso il piccolo crocifisso scolpito che si vede sulla sua sinistra, ma verso l’Ordre du Saint-Esprit che gli pende sul petto; è il simbolo stesso del declino del potere [fig.]. Antonio si era avvicinato sempre più ai Gesuiti, contribuendo largamente al completamento di Sant’Andrea al Quirinale. Morì nel 1671. Francesco gli sopravvisse di otto anni. Le differenze dei gusti dei due fratelli si prolungarono fino alla tarda età. Francesco aveva conservato lo stesso amore per il colore e la decorazione che era sempre stato estraneo ad Antonio, 17 le cui preferenze andavano a uno stile più classico. Strinse amicizia con il grande pittore spagnolo Velásquez quando questi venne a Roma nel 1650, ma non si sa se si fece ritrarre da lui. Romanelli, la cui lealtà verso i Barberini fu ricompensata con il dono di una villa, continuava a dipingere per Francesco. Francesco diede il via ad un importante progetto che non avrebbe visto compiuto. Commissionò a Lazzaro Baldi e ad altri artisti i disegni e i cartoni per una serie di 10 arazzi illustranti i principali avvenimenti della vita di Urbano VIII. L’esecuzione dell’opera si protrasse per quasi vent’anni, perché Francesco voleva che si usasse soltanto la lana delle sue greggi. Così Urbano VIII era celebrato per l’ultima volta nel grande stile barocco che aveva tanto contribuito a promuovere. L’amore per l’arte e per il sapere di Francesco restava intatto: egli continuò infatti ad arricchire la sua splendida biblioteca e a corrispondere con più di un letterato, ma per forza di cose non aveva più alcun influsso sulla cultura contemporanea. 8. Urbano VIII non trasformò Roma, il suo non fu un contributo vistoso come quello di alcuni altri papi. Nessuna grande piazza ne evoca il ricordo. Tuttavia l’eredità dei Barberini fu più importante di quella di qualsiasi altra dinastia del secolo poiché le loro scelte artistiche definirono lo stile che avrebbe influenzato tutti i futuri edifici e la decorazione delle città. Il contributo al mecenatismo dei Barberini consiste nell’intuizione della grandezza di artisti come Bernini e Pietro da Cortona, e nell’aiuto dato loro per le imprese più ambiziose. Bernini fu il genio dell’epoca: la sua personalità dominò il mondo artistico e spiega la relativa indifferenza di cui fu vittima Borromini fino alla fine del pontificato di Urbano VIII, anche se i Barberini fecero capire, all’occasione, di ammirarne il talento. Non si possono immaginare rapporti più fruttuosi tra un artista i suoi mecenati. La fiducia che regnava tra loro consentì a Bernini di esplicare pienamente il suo talento, ma finché lavorò per Urbano VIII non diede mai libero corso all’introspezione e al misticismo che caratterizzeranno alcune delle sue sculture più tarde. Pur avendo perso prestigio e importanza durante il regno di Urbano VIII, in quegli anni il papato dimostrò (per l’ultima volta) di essere una potenza internazionale. L’arte di corte diveniva più che mai sontuosa e adulatoria. Ci si serviva di simboli religiosi per sostenere rivendicazioni profane e si elaboravano nuove tecniche illusionistiche per impressionare l’osservatore. Da ricordare sono gli affreschi eseguiti sul soffitto del grande salone di Palazzo Barberini da Pietro da Cortona. Certamente nessun Papa in seguito seppe spingersi tanto lontano nella glorificazione di se stesso. Questa tendenza passò al re di Francia e a Le Brun, il suo pittore in carica, che, per esprimere un analogo sentire, utilizzò una versione modificata dello stile barocco di Pietro da Cortona. Anche sotto il profilo strettamente artistico la caratteristica più significativa dei Barberini e della loro cerchia fu l’interesse per l’erudizione. Le loro corti erano aperte a studiosi di ogni genere che entravano in contatto con i pittori, dando così avvio a un’arte di grande finezza intellettuale. Il periodo, tuttavia, è caratterizzato dalla notevole libertà da ogni dogmatismo e dalla grande varietà entro limiti ben precisi. I Barberini erano molto più coerenti nelle loro idee; grazie al nepotismo di Urbano e alla forte personalità di ognuno dei membri della famiglia poterono emergere i gusti contrastanti, come appare evidente, per esempio, nella protezione accordata rispettivamente a Pietro da Cortona e a Sacchi dai cardinali Francesco e Antonio. Alla morte di Urbano VIII tutti si resero conto che la situazione non sarebbe mai più stata la stessa. III. GLI ORDINI RELIGIOSI 1. Nel corso di gran parte del Seicento le numerose ORGANIZZAZIONI RELIGIOSE che si erano costituite nell’ambito della Chiesa al fine di promuovere gli scopi della Controriforma diventarono sempre più ricche e influenti. Gesuiti, Oratoriani e Teatini occupavano posti importanti nella gerarchia ecclesiastica; le loro chiese furono ingrandite, ricostruite, decorate e ultimate, scatenando forti rivalità tra gli artisti. All’inizio del Settecento le chiese madri di questi ordini erano le più sontuose di Roma e apparivano come la personificazione stessa di quello stile barocco che si è concluso e che essi usavano come strumento di propaganda. Fu proprio il successo degli ordini religiosi a ridurre in larga misura l’individualismo dimostrato dalle congregazioni nella partecipazione alla vita spirituale e intellettuale romana. All’inizio gli ordini si erano trovati in un certo qual modo isolati, impegnati non solo a combattere l’eresia, ma anche a vincere le resistenze di alcuni tra i membri della corte papale più assorbiti da interessi mondani. Fino a quel momento gli ordini consistevano, in genere, di gruppi relativamente piccoli di devoti, i quali, raccolti intorno alla figura di un santo o di una guida spirituale, diffondevano idee spesso accolte con sospetto dalla gerarchia ecclesiastica, ma che riuscivano a infondere nell’animo dei seguaci un gran fervore di devozione che talvolta dava frutti anche in altri campi. Per esempio si è potuto avanzare l’ipotesi che gli Oratoriani avessero incoraggiato l’anticonformismo della pittura religiosa di Caravaggio. Con il passare degli anni le cose incominciarono a cambiare. Guido Bentivoglio, ad esempio, era in contatto con gli Oratoriani; Paolo V era amico dei Gesuiti. Anche Urbano VIII mostrò sempre, assieme alla sua famiglia, grande simpatia per gli ordini religiosi, specialmente per quello dei Gesuiti. I Gesuiti (e gli altri ordini religiosi) erano troppo ben integrati nella struttura stessa della società per potervi imporre un’impronta distintiva. In campo artistico le tracce del loro influsso si trovano ovunque, il che significa in nessun luogo in particolare. Fu un gesuita, padre Ottonelli, che sostenne la candidatura di Pietro da Cortona quando i Barberini pensarono alla decorazione del loro palazzo. Tuttavia, per la decorazione delle loro chiese, i Gesuiti dovettero aspettare decenni. Infatti i loro successi in tutti i campi si accompagnò per molto tempo un’estrema scarsità di denaro che li fece dipendere completamente, per l’edificazione delle loro chiese, dall’aiuto delle potenti famiglie che governavano Roma. Le condizioni stesse del mecenatismo erano stabilite da queste famiglie. Verso la metà del Cinquecento, per cercare di incoraggiare la ricostruzione di Roma, era stato concesso alla ricca aristocrazia il diritto di espropriare i vicini che non intendevano costruire e fu loro addirittura concesso di espropriare le istituzioni religiose che non collaboravano. Il 20 cardinale Gesualdo accettò di costruire per loro una nuova, grande chiesa, pretendendo però, come aveva fatto il cardinale Farnese, che venisse concessa ai propri architetti, prima a Giacomo Della Porta e poi a Pietro Paolo Olivieri, la più completa autorità. Nel 1603, alla morte di Gesualdo, vi fu la solita prevedibile interruzione nei lavori. Infine nel 1608 il cardinale Peretti Montalto, noncurante del consiglio di non proseguire i lavori in un edificio iniziato da altri, se ne occupò garantendo la grossa somma di 160.000 scudi d’oro. Egli chiamò l’architetto più famoso di Roma, Carlo Maderno e i lavori poterono così procedere tanto da permettere al giovane e ambizioso Maffeo Barberini di dar corso, l’anno seguente, ai progetti per la sua tomba di famiglia, presto seguito da numerosi altri fiorentini, «et ciascuno si sforza farle [le cappelle] più bella dell’altro, attalché sarà la più bella chiesa di Roma». Montalto, come era consuetudine in simili circostanze, si era riservato le decorazioni più importanti. Verso il 1616 promise a Giovanni Lanfranco di affidargli, quando fosse venuto il momento, l’intera decorazione della tribuna e della cupola: si trattava della più grande commissione che fosse mai stata assegnata a un solo artista. Ma nel 1621 moriva Papa Paolo V e gli succedeva Gregorio XV, il cui nipote, il cardinale Ludovisi, era il mecenate abituale di Domenichino. Questo artista chiese a Ludovisi di subentrare nell’incarico a Lanfranco. Ludovisi non godeva di alcun particolare diritto nella chiesa ma disponeva dell’irresistibile prestigio che gli derivava dalla sua posizione di nipote del Papa e se ne servì nei confronti di Montalto. Le sue pressioni furono determinanti, il lavoro toccò a Domenichino. Tuttavia Montalto, in un ultimo tentativo di riaffermare i propri diritti, si sforzò di far avere a Lanfranco per lo meno la cupola. Il compromesso fu accettato e i due artisti, da questo momento acerrimi nemici, si divisero la commissione. I Teatini, come si può immaginare, non ebbero parte alcuna in queste decisioni. Pur nata con tanto travaglio, la decorazione di Sant’Andrea della Valle fu di gran lunga la più grande opera barocca mai eseguita fino a quel momento. La cupola affrescata da Lanfranco, completato nel 1627, fu la prima del genere dopo quella di Correggio a Parma e servì a modello per gli artisti dei cent’anni successivi. La luce si irradia dal centro, dov’è il Cristo; scaturisce dal lucernario e si diffonde gradualmente su tutta la superficie, intorno alla quale elevano inni di lode i cori di santi, martiri, profeti, apostoli e cherubini. La Vergine fissa questa luce in atteggiamento estatico, con le braccia aperte, indicando allo stesso tempo con gesto espressivo i personaggi che le stanno a lato, Sant’Andrea, San Gaetano, fondatore dell’ordine teatino, e San Pietro con Sant’Andrea Avellino. Nel frattempo Domenichino aveva abbandonato la maniera più classica; dipinse sui pennacchi quattro monumentali figure di evangelisti, chiaramente ispirati a Michelangelo e pieni di potenziale energia, circondandoli di putti, di emblemi tradizionali e delle insegne del suo riluttante signore. Nell’abside raffigurò episodi tratti dalla vita di Sant’Andrea. Nel 1628, Sant’Andrea della Valle era indubbiamente la più bella chiesa moderna di Roma e i Teatini, senza aver compiuto il minimo sforzo, potevano dire di avere nettamente superato Gesuiti e Oratoriani. 3. Malgrado tutta la benevolenza mostrata dai Barberini nei confronti dei Gesuiti, si deve lasciare al maggior rivale e acerrimo nemico della famiglia il compito di sovvenzionare un’altra grande chiesa per la Compagnia. Il cardinale Ludovico Ludovisi era un giovane di grande intelligenza ed energia, ma godette per soli due anni dei privilegi connessi alla figura di nipote del Papa, servendosene però assai bene. Con le ricchezze riversate su di lui dallo zio Gregorio XV si era reso signore di vaste proprietà a Roma e nei dintorni, aveva creato quella che probabilmente era la più bella collezione di sculture antiche mai vista in città e inoltre aveva esercitato con risultati splendidi il compito di mecenate dei migliori artisti della natia Emilia. Il cardinale Ludovisi fu anche molto potente dal punto di vista politico agendo in difesa degli interessi della Spagna. Nel conclave del 1623, che fece seguito alla morte dello zio, egli tentò in tutti i modi di impedire l’elezione di Maffeo Barberini ma, fallito il tentativo, dovette subirne le inevitabili conseguenze. Dopo una serie di controversie con il nuovo Papa, a un certo punto ricevette l’ordine di ritornare a Bologna. Morì nel 1632, all’età di soli 37 anni. Nel 1626 il cardinale Ludovisi decise di impiegare parte delle sue immense ricchezze nella costruzione di una nuova chiesa per i Gesuiti da dedicare a Sant’Ignazio. La sua devozione alla Compagnia risaliva gli anni di scuola ed egli volle che l’edificio «per ampiezza e bellezza fosse inferiore a pochi». Ma la sua prima mossa non fu fortunata; il progetto riguardava un’area vicina al noviziato di Sant’Andrea e il Papa subito obiettò. Il cardinale dovette in tal modo spostarne il luogo nei pressi del Collegio Romano, l’Istituto dei Gesuiti nel centro di Roma. Da allora furono poi gli stessi Gesuiti a creargli delle difficoltà. Le condizioni della Compagnia erano mutate notevolmente rispetto ai tempi in cui essa aveva dovuto accettare le disposizioni del potente cardinale Farnese. Tutte le fonti concordano nel dire che il cardinale Ludovisi bandì un concorso per la nomina dell’architetto e che tra coloro che presentarono dei disegni c’era anche Domenichino, suo particolare protetto. Infine l’incarico fu dato al padre gesuita Orazio Grassi, privo di esperienza architettonica ma famoso per una controversia con Galileo. Per quanto Ludovisi continuasse a interessarsi della costruzione, insistendo anzi perché venisse nominata una commissione di architetti, tra i quali il pittore Domenichino e Carlo Maderno, con l’incarico di esaminarne da vicino i progetti di Grassi, i fatti fanno supporre che egli non esercitasse nessun reale controllo, limitandosi la sua attività alla funzione di finanziatore. I Gesuiti si erano tanto preoccupati di mantenere il controllo della situazione allo scopo di riprodurre su scala maggiore gli elementi essenziali della chiesa del Gesù. Ma il nuovo edificio doveva servire agli studenti del Collegio Romano, e non al pubblico e quindi la decorazione delle cappelle laterali non aveva potuto essere affidata alle famiglie patrizie romane, così se ne erano assunto l’onere i Gesuiti stessi. Stando così le cose occorreva fare economia e la Compagnia ricorse a un suo stesso membro. Fu scelto un giovane artista francese, Pierre de Lattre. Egli condusse una vita semplice ed eseguì tutti i dipinti che a quell’epoca si potevano vedere nella chiesa e nella sacrestia di Sant’Ignazio. Da quel poco che è rimasto delle sue opere non è difficile capire che egli era un artista del tutto insignificante. 21 Il cardinale Ludovisi era morto nel 1632 e, come era consuetudine in simili casi, gli eredi si mostrarono riluttanti a proseguire i lavori e a provvedere alle spese ancora necessarie. Una volta ancora i Gesuiti si vedevano superati dai loro rivali. Sotto il pontificato di Urbano VIII, infatti, gli Oratoriani fecero eseguire due opere assai importanti per i successivi sviluppi dell’arte barocca: a Pietro da Cortona un affresco su soffitto della sacrestia della loro chiesa e a Borromini un edificio destinato alla funzione di biblioteca e di sala da concerto per le esecuzioni di musica religiosa per cui erano famosi. A Pietro da Cortona gli si consentì, verso la fine del 1633, di interrompere i lavori sul soffitto di Palazzo Barberini per mantenere gli impegni assunti nella Chiesa Nuova: lascia capire quanto fossero influenti gli Oratoriani presso la corte pontificia. Le ragioni per cui lo sconosciuto Borromini fu scelto come architetto dell’Oratorio non sono chiare, ma egli ebbe subito l’appoggio totale di uno dei padri che vi dimoravano, Virgilio Spada. Questi e suo fratello, il cardinale Bernardino, erano entrambi molto vicini a Urbano VIII ed erano appassionati conoscitori d’arte. Virgilio interessava molto di più l’architettura, per la quale mostrava particolare sensibilità e competenza. Ammirava in modo particolare Borromini, che avrebbe impiegato per alcune modifiche al palazzo di famiglia e per la costruzione di un illusionistico colonnato in giardino e difeso con passione ed eloquenza quando quel genio tormentato avrebbe attirato su di sé tanta opposizione da parte dei suoi mecenati. Per molti anni Borromini era stato impiegato in compiti relativamente minori agli ordini di Bernini e di Maderno, ma la sua singolare e originale personalità aveva presto reso inevitabile un conflitto con il grande architetto dei Barberini. Di conseguenza egli fu tenuto lontano dalle commissioni ufficiali fino alla morte di Urbano VIII. Nel 1634 gli era stata affidata la costruzione di un monastero e di una chiesa per gli Scalzi, ramo riformato dei Carmelitani, che provenivano dalla Spagna e si erano stabiliti a Roma all’inizio del secolo. Si riconobbe che il suo stile segnava un netto distacco da tutto ciò che fino ad allora si era visto a Roma; la rottura con il passato (in particolare rispetto allo stile di Bernini) e i suoi prezzi moderati furono infatti causa di particolare soddisfazione per gli Scalzi. Eccellenza e singolarità si sarebbero ritrovate anche nell’Oratorio, soprattutto nella facciata, dove la delicata finezza delle linee curve spezzate ben si armonizzava con i toccanti accenti della musica che vi si eseguiva all’interno. Borromini era riuscito a interpretare quella particolare vena della sensibilità controriformistica, tormentata e sottilmente sensuale, che era speciale attributo degli Oratoriani, e non trovava corrispondenza alcuna nello spirito più sbrigativo dei Gesuiti. 4. Alla morte di Urbano VIII, avvenuta nel 1644, solo la chiesa teatina di Sant’Andrea della Valle conteneva qualche notevole dipinto di mano di quegli artisti barocchi con i quali sono stati spesso posti in stretta relazione gli ordini religiosi. La chiesa del Gesù, Sant’Ignazio e la Chiesa Nuova rimasero in gran parte prive di decorazione e la fastosa ricchezza per cui oggi sono famose risale alla seconda metà del secolo. Soltanto i Cappuccini erano stati fatti oggetto della non richiesta generosità dei Barberini. Furono gli Oratoriani a compiere la mossa successiva. Da quando Pietro da Cortona aveva dipinto il piccolo affresco su soffitto della sacrestia, i padri della Chiesa Nuova avevano tentato di affidargli altri incarichi, ma l’artista era impegnato con potenti signori quali i Sacchetti, i Barberini e il granduca di Toscana, Ferdinando II de’ Medici. Ora però, a distanza di 13 anni, la situazione era completamente diversa; i Barberini erano in esilio e Pietro cercava l’occasione propizia per lasciare Firenze. Cosicché, quando nel 1646 gli Oratoriani rinnovarono la richiesta, le probabilità di riuscita erano stati maggiori. E infatti, nel mese di novembre Pietro poteva incominciare a dipingere i cartoni per la cupola della Chiesa Nuova. Gli affreschi vennero portati a termine solo nel maggio del 1651 e a questa data i quattro pennacchi risultavano ancora incompleti. Tuttavia il lavoro non era stato particolarmente complicato e nella sua bella “Adorazione della Trinità e Glorificazione degli strumenti della Passione” Pietro andò poco oltre un elegante variazione della cupola di Sant’Andrea della Valle. Ma ecco che ancora una volta lo strapotere di un pontefice poneva temporaneamente fine ai tentativi degli Oratoriani di completare l’abbellimento della loro chiesa. Dopo qualche esitazione, Innocenzo X incaricò infatti Pietro di affrescare la volta del suo palazzo di famiglia in piazza Navona e solo dopo aver finito quest’opera, nel 1654, l’artista poté riprendere il lavoro interrotto nella chiesa degli Oratoriani. Egli allora dipinse sui pennacchi della cupola i quattro profeti Isaia, Geremia, Ezechiele e Daniele; e nell’abside l’“Assunzione della Madonna”, acclamata da uno stuolo di santi, tra i quali, in maggior evidenza, Filippo Neri. Egli prese a lavorare con rapidità, ma anche questa volta non mancarono lunghi indugi dovuti all’intervento del pontefice, che ora era Alessandro VII. Se esaminiamo la storia della collaborazione di Pietro ai progetti degli Oratoriani vediamo che questa era completamente subordinata agli impegni che legavano l’artista a mecenati infinitamente più potenti. Soltanto nel 1664 egli poté dare inizio alla sua ultima e più importante opera che gli Oratoriani gli commissionarono per la Chiesa Nuova: gli affreschi della volta della navata. Qui gli venne chiesto di rappresentare un miracoloso intervento della Vergine Maria. Nella raffigurazione dell’evento l’artista abbandonò del tutto i trucchi illusionisti di cui si era servito trent’anni prima a Palazzo Barberini. La scena è completamente staccata dallo spettatore mediante un’elaborata cornice circondata dai cassettoni dorati e la sua natura autonoma e indipendente è messa in evidenza dal fatto che l’affresco rappresenta sia il mondo reale di Filippo Neri e degli altri artigiani sia quello sovrannaturale della Vergine e degli angeli. Di fatto, tutti gli affreschi di Pietro per gli Oratoriani mostrano una certa mancanza di immaginazione. Come appare evidente nei suoi lavori nei palazzi Barberini, Pitti e Pamphili, egli era molto più ispirato nella celebrazione dei trionfi del mondo terreno che non di quello celeste. Il misticismo era estraneo al suo temperamento, non dava ali alla sua fantasia. Nonostante ciò, una volta completati i lavori nella Chiesa Nuova, gli Oratoriani potevano vantarsi di disporre della chiesa più completamente decorata di tutti gli ordini di Roma. Verso il 1700 l’intero progetto venne finalmente portato a termine da un gruppo di artisti che dipinse quindici scene ovali tratte dall’Antico e del Nuovo Testamento da collocare sopra gli archi della navata e dei transetti. 22 Qualche anno dopo i Teatini decisero di proseguire nella decorazione di Sant’Andrea della Valle. Si incaricò Mattia Preti di dipingere l’abside della loro chiesa. L’artista divise la parete in tre grandi scomparti dove raffigurò scene tratte dal martirio del Santo. In quest’epoca gli affreschi di Domenichino e di Lanfranco erano ormai considerati dei classici e ciò fece sì che lo stile di Preti fosse aspramente criticato e l’artista costretto a un’amara partenza da Roma. Nel 1665 la chiesa del Gesù non aveva ancora subito modificazioni di rilievo rispetto a come si presentava nel 1589, alla morte del cardinale Farnese. Addobbi appesi alle pareti in occasione di cerimonie ne nascondevano temporaneamente lo squallore. Ciò non era dovuto a mancanza di volontà; il cardinale aveva riservato a sé e alla sua famiglia la decorazione della tribuna e dell’altare maggiore e per quanto avesse concepito piani grandiosi al momento della sua morte i lavori erano appena incominciati. Gli eredi poi mostrarono di disinteressarsi della cosa. Nel 1661, però, venne eletto un nuovo generale, Gian Paolo Oliva. Oliva era un genovese di nobili origini, in corrispondenza epistolare e in rapporto con i principi di molte parti d’Europa. Era anche il primo gesuita investito d’autorità in Italia che fosse appassionato d’arte. Nel 1657 era entrato nella Compagnia un pittore francese, Jacques Courtois, chiamato il Borgognone. Conosceva la vita militare e si fece presto un nome come pittore di scene di battaglia. Decise di farsi gesuita. Prese i voti e trascorse il resto della sua vita nel noviziato di Sant’Andrea e nella Casa Professa. Il Borgognone era entrato nella Compagnia senza i suoi pennelli, intendendo rinunciare per sempre all’arte: nel giro di un anno stava già dipingendo nella Casa Professa un ciclo di lunette e di affreschi, nonché alcune scene raffiguranti famose battaglie cristiane. Lo si incoraggiò anche a lavorare per committenti privati, devolvendone i guadagni alla Compagnia. Borgognone, insieme al fratello Guglielmo, eseguì molti dipinti per Oliva, ma il suo capolavoro sarebbe stato la decorazione della tribuna. A questo scopo, tuttavia, erano indispensabili il permesso e l’aiuto finanziario del capo della famiglia Farnese, il duca Ranuccio di Parma, con il quale i Gesuiti intavolarono una trattativa nel 1671. Per convincerlo dell’importanza della decorazione richiesta, i Gesuiti gli mandarono i progetti di ristrutturazione della chiesa. Tuttavia i disegni non ebbero successo: non piacquero alla duchessa, che espresse il desiderio di far dipingere la volta da un suo artista. Il duca non si pronunciava; con grande riluttanza accettò di spendere 30.000 scudi per la tribuna, ma, del tutto sconcertato dai progetti dei Gesuiti non tardòo molto a cercare il modo di ostacolarne l’esecuzione. Intanto Oliva insisteva nel decantare i meriti del Borgognone. Trascorsero mesi e anni senza che nulla accadesse. Per disperazione i Gesuiti pensarono di trasferire le spoglie di Sant’Ignazio dall’altare maggiore alla cappella del transetto. Ormai era troppo tardi: nel 1676, con i disegni preliminari pronti ma senza alcuna possibilità di portare a compimento il suo capolavoro, il Borgognone moriva. A questo punto le trattative si arrestarono. Non solo perché il duca, già poco propenso a sborsare 30.000 scudi, lo sarebbe stato ancor meno se avesse dovuto pagare anche il pittore, ma soprattutto perché i Gesuiti avevano desiderato che fosse proprio il Borgognone a eseguire la decorazione centrale della loro più grande chiesa. Nel corso delle sue vane trattative con il duca di Parma, Oliva si era anche preoccupato di cercare un altro artista al quale far dipingere quelle parti della chiesa su cui Gesuiti avevano potere decisionale. Dapprima aveva preso in considerazione tre pittori, Carlo Maratta, Ciro Ferri e Giacinto Brandi, i cui stili così diversi dimostrano che non aveva alcuna idea precisa in merito. In seguito, dopo aver visto alcuni affreschi del giovane Giovanni Battista Gaulli nella chiesa di Santa Marta, si affrettò a includere anche questo artista nell’elenco dei candidati. Per di più, elemento di decisiva importanza, Gaulli era genovese, come Oliva. Nel 1672 i due stipularono un regolare contratto. Gaulli, detto il Baciccio, era nato nel 1639 e si era già fatto un certo nome come ritrattista, mentre la sua unica importante opera decorativa gli aveva procurato qualche difficoltà. Era stato un esordio alquanto strano per un artista che si vedeva affidare proprio dai Gesuiti la più complessa commissione di quel tempo. Gaulli infatti accettò di dipingere la cupola, la volta centrale comprese le rientranze delle finestre e le volte dei transetti sopra le cappelle di Sant’Ignazio e di San Francesco Saverio. Avrebbe dovuto tralasciare solo la volta della tribuna, destinata al Borgognone. Questa enorme superficie doveva essere dipinta e dorata dall’artista a sue spese. Qualora l’opera non fosse risultata perfetta a parere di una commissione di esperti, Gaulli si impegnava a correggerla senza compenso. A mano a mano che i lavori procedevano, anche l’ambizione di Oliva cresceva. Nell’aprile del 1675 la cupola era compiuta. Ripresi i contatti con il duca di Parma per la decorazione della tribuna, Oliva naturalmente parlò dell’opera di Gaulli con la più fervida ammirazione, traendone una morale pro domo sua. Infine, nel 1685, Gaulli completò il suo lavoro nella chiesa dipingendo il transetto di sinistra sopra l’altare di Sant’Ignazio. Non si sa quale ruolo ebbero rispettivamente Oliva, Bernini e Gaulli negli affreschi della chiesa del Gesù. Nessun programma iconografico è venuto alla luce e c’è da pensare che gli accordi tra i tre uomini venissero comunemente presi a voce anziché per iscritto. Certo la partecipazione di Bernini all’opera venne messa in risalto fin dall’inizio ed è comunemente accettata da tutti gli storici, mentre una certa qual complessità dello schema iconografico denuncia la partecipazione di Oliva. L’affresco della cupola quale lo vediamo ora può essere descritto come una visione del Paradiso di genere abbastanza convenzionale. Nella lanterna c’è la colomba dello Spirito Santo circondata da un cerchio di cherubini. Attorno a questi stanno alcuni santi, tra i quali si riconoscono Ignazio, Francesco Saverio e Francesco Borgia, oltre a figure tratte per lo più dall’Antico Testamento. Tuttavia Gaulli ha anche dato grande risalto al gruppo della Vergine con Gesù che guardano in alto verso Dio Padre e sappiamo che questa caratteristica dell’affresco deriva direttamente da un disegno di Bernini. Il tema della Vergine che addita il proprio petto a indicare la maternità, con il Figlio che attira l’attenzione sulla Croce, in modo da poter intercedere assieme presso il Padre a favore dell’anima dell’uomo, era popolare nel Medioevo. È anche strettamente connesso alla nozione del Sangue di Cristo mediante il quale l’anima può purgarsi dal peccato e ciò suscitava particolare interesse in Bernini che, intorno al 1668, ne aveva fatto un disegno. 25 cospicua fu offerta dal principe Camillo Pamphili, nipote di Papa Innocenzo X, che assunse il patrocinio della nuova chiesa per sé e per la sua famiglia. La costruzione di Sant’Andrea non fu ostacolata dalle difficoltà finanziarie che abbiamo visto a proposito di altre chiese e lo spirito dell’impresa, sia dal lato finanziario sia da quello dell’autonomia concessa all’artista, si può valutare da un episodio accaduto nel 1663, in occasione di una visita del principe al cantiere. Constatando che le spese stavano per superare di molto l’importo della somma anticipata, egli versò in loco 1000 scudi, dicendo: «Si faccia quanto il Cavalier Bernino ordinerà». L’autorità di Bernini si faceva sentire in ogni fase dei lavori. In qualche modo egli era il vero committente dell’impresa , che rifiutava ogni forma di ricompensa. Questa chiesa meravigliosa, con i suoi ricchi marmi policromi e la sua fastosa decorazione interamente subordinata a una pianta ovale semplice, costituì in tal modo l’espressione più pura del genio di Bernini, finalmente libero dalle esigenze di un committente e dalle preoccupazioni finanziarie. Possiamo vedere che qui l’artista, sapendo che era destinata ai Gesuiti, fu spinto da uno slancio particolare. In nessun altro luogo l’iconografia è progettata con tanta coerenza. E il fervore creativo è tale da infrangere le normali barriere architettoniche, confondendo il Cielo e la Terra in un’unica visione. La luce del giorno irrompe a fiotti dall’alto di un lucernario posto sopra l’altare maggiore, identificandosi simbolicamente con la gloria dei raggi dorati che promanano dal tamburo. Non appena la struttura della chiesa poté dirsi completa, i Gesuiti presero a considerare il problema delle pale d’altare. Per quanto i consigli di Bernini fossero tenuti in considerazione, i Gesuiti trattarono direttamente con gli artisti, al cui pagamento provvedevano gli eredi del principe Pamphili. Guglielmo Cortese ebbe l’incarico di dipingere “Il martirio di Sant’Andrea” per l’altare maggiore. Altrettanto prevedibile fu la scelta di Gaulli di dipingere “La morte di San Francesco Saverio” per l’altare dedicato a quel santo nel 1676. Il medesimo artista, al termine di una lunga serie di controversie finanziarie, dipinse per la stessa cappella anche una scena della vita del santo. Giacinto Brandi decorò la cappella della Passione, mentre Carlo Maratta, il più famoso artista di Roma, impiegava otto anni a portare a termine la pala d’altare di “San Stanislao Kostka”. L’ultima a essere decorata fu la cappella dedicata alla Madonna. Nel 1661 prese a occuparsene il cardinale Ottoboni, nipote di Papa Alessandro VIII, incaricando Ludovico David di dipingere pale d’altare raffiguranti La Natività, L’Adorazione dei Magi e La Fuga in Egitto. Gli eredi del principe Pamphili si riservarono però il diritto, che più tardi fecero valere, di cambiare la decorazione qualora decidessero di abbellire la cappella. Con la decorazione del Gesù e di Sant’Andrea al Quirinale ormai completa, la chiesa di Sant’Ignazio, sebbene aperta al pubblico fin dal 1642, aveva ancora l’aspetto di un vasto e spoglio mausoleo, completamente privo di ornamenti, in contrasto con le meraviglie delle altre chiese. Nel 1680 il generale Oliva chiamò a Roma Andrea Pozzo per porre rimedio a questo stato di cose. Per prima cosa gli fu chiesto di dipingere il corridoio che collegava tra loro le stanzette in Sant’Ignazio. Data la sua conformazione, l’ambiente non poteva essere trattato come un tutto unitario, perciò Pozzo divise le pareti e le volte in una serie di scenette, separate da elaborate cornici e da putti. In esse raffigurò vari momenti della vita terrena e celeste di Sant’Ignazio. Proprio quando i Gesuiti stavano incominciando ad apprezzare Pozzo avvenne un incidente. Il duca di Savoia, al cui servizio l’artista aveva lavorato in precedenza, ora lo reclamava al suo servizio per decorare una galleria. Pozzo chiese al nuovo generale l’autorizzazione di replicare con un rifiuto, ma si sentì rispondere che era doveroso con piacere il principe. Egli allora si appellò segretamente al Papa, ottenendone ciò che il generale gli aveva negato. Il duca per ripicca rese dura la vita ai Gesuiti nei suoi territori e i Gesuiti biasimarono Pozzo per queste difficoltà. La chiesa di Sant’Ignazio non era mai stata finita, sia per problemi finanziari sia per le liti con gli eredi Ludovisi. Il rettore del Collegio Romano si convinse infine che se proprio non si poteva disporre di una vera cupola, occorreva almeno trovare il modo di riempire lo spiacevole vuoto che si apriva là dove si sarebbe dovuta trovare. Furono consultati numerosi artisti e architetti, tra i quali Pozzo, che proponeva di dipingere una grande tela piana con effetti prospettici tali da creare l’illusione di un’autentica cupola. Su consiglio di Mattia de’ Rossi, successore di Bernini in Sant’Andrea al Quirinale e ora architetto di San Pietro, l’idea fu accolta. Presentata al pubblico nel giugno del 1685, la sua pittura a trompe-l’œil fu descritta come «assai vaga et artificiosa». In seguito uno scrittore avrebbe fatto notare che, essendo su tela, la cupola avrebbe finito con lo scurirsi, infatti, pochi anni dopo essere stata dipinta, essa risultava quasi indecifrabile. Dopo il 1685 Pozzo fu impegnato per qualche anno ad affrescare la tribuna e l’abside, dove raffigurò alcuni dei principali eventi delle origini della Compagnia di Gesù. Sia nella scelta del tema sia nella sua trattazione questi affreschi sono molto diversi da quelli dipinti da Gaulli nella chiesa del Gesù e non ne hanno né la complessità teologica né la carica emotiva. In un certo senso gli affreschi di Pozzo rappresentano una reazione al barocco. I personaggi appaiono rassicurati con la massima chiarezza e tutta la composizione risente di una certa rigidità. Che un’opera così diversa per ispirazione e stile venisse benevolmente accettata dai Gesuiti dimostra o che i loro gusti negli ultimi anni erano completamente mutati o che erano abbastanza “cattolici” da includere tutto ciò che apparisse grandioso, senza preoccuparsi troppo della coerenza stilistica. Sui pennacchi Pozzo volle evitare di rappresentare i soggetti consueti, cioè gli evangelisti o i dottori della Chiesa, scegliendo invece qualcosa di nuovo. Dipinse così Giuditta con la testa di Oloferne, Davide con la testa di Golia, Gioele che trafigge Sisera e Sansone che uccide mille nemici con una mandibola di Leone. La volta della cupola era stata ornata in precedenza con una decorazione a stucco che Pozzo non esitò a far togliere dicendo che era più adatta a una cucina che a una chiesa. A causa di questo provvedimento, del resto inevitabile se si voleva dipingere la volta, egli fu fatto segno di attacchi così violenti che i padri gesuiti esitavano a uscire per timore di 26 venire ingiuriati in pubblico. Presero perciò in considerazione l’opportunità di abbandonare il progetto e di lasciare la volta così com’era, ma ormai era tardi, e nel 1688 Pozzo dava inizio alla sua colossale impresa. Il suo affresco si basava essenzialmente sulle parole di Cristo «Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso!». Cristo alludeva alla Chiesa e, adattando questo riferimento evangelico a Sant’Ignazio, Pozzo trasformò il soffitto in un immenso affresco in gloria dei missionari gesuiti. L’artista aveva seguito quella che era una delle costanti delle decorazioni eseguite per l’ordine e cioè l’illustrazione dell’influsso esercitato su questo mondo dalle forze ultraterrene. Tanta profusione decorativa rese le tre principali chiese dei Gesuiti le più grandiose di Roma. Numerose nuove opere furono iniziate negli ultimi anni del secolo. Tra queste c’era la più elaborata cappella che fosse mai stata concepita fino ad allora, dedicata al fondatore di quell’ordine che aveva conseguito tanti trionfi. La cappella del transetto di sinistra della chiesa del Gesù apparteneva agli eredi del cardinale Savelli. Dopo la morte del cardinale mostrarono di disinteressarsi della cappella per oltre un secolo, cosicché questa torno sotto la tutela dei Gesuiti. Quando nel 1622 Ignazio fu canonizzato, essi ne trasferirono le spoglie in questa cappella, collocandovi il dipinto eseguito per l’occasione da Van Dyck. Nel 1646 l’ottava Congregazione generale della Compagnia convenne di erigere un monumento più ambizioso. Fu compilato un memorandum in cui si faceva notare che San Domenico a Bologna, San Francesco ad Assisi e San Benedetto a Montecassino erano tutti convenientemente commemorati; certamente anche Sant’Ignazio, il solo tra tutti i fondatori di ordini religiosi che fosse seppellito a Roma, doveva avere un elegante monumento. A causa, comunque, dei «tempi disastrosi e dell’estrema povertà» della Compagnia, il progetto non poté essere avviato. Quattro anni dopo, tuttavia, i Gesuiti ricevettero una cospicua eredità e pensarono di costruire un Collegio nel paese natale di Ignazio, nel nord della Spagna. Il generale della Compagnia, padre Nickel, suggerì invece di impiegare quel denaro nella decorazione di una cappella nella chiesa del Gesù, a Roma. Ma gli spagnoli evidentemente non gradirono l’idea. Ancora una volta le cose rimasero com’erano. Tuttavia, quando Oliva divenne generale, era deciso a collocare il monumento a Ignazio non nel transetto, ma sotto l’altare maggiore, come l’elemento più spettacolare della tribuna. Si è già detto come ciò fu reso impossibile dalla parsimonia e dagli indugi del duca di Parma, e che Olivia morì, nel 1681, amareggiato e deluso. Ma sotto lo spagnolo Tirso González, che assunse la carica nel 1687, l’opera nella cappella del transetto fu ripresa e, a mano a mano che il lavoro procedeva, si resero disponibili grandi donazioni. Ma c’era ancora un altro problema. I Gesuiti desideravano che la costruzione della cappella di Sant’Ignazio rimanesse interamente nelle loro mani. Il sito apparteneva ufficialmente ancora ai Savelli e fu necessaria una mediazione per convincere il principe Giulio, capo della famiglia, a rinunciare ai suoi diritti, in cambio di alcuni speciali riferimenti alla beneficenza compiuta dal suo avo, il cardinale. I Gesuiti così disponevano del denaro e dei diritti di patrocinio necessari per costruire il grande altare che essi avevano progettato. Sembra che, per il progetto, in un primo momento i Gesuiti si rivolsero a Pozzo, ma poi, piegandosi di fronte al trambusto suscitato da questa decisione, bandirono un concorso. Ne seguirono altre seccature. Gli architetti e i loro protettori, consapevoli della superiore importanza dell’incarico, si abbandonarono a ogni sorta di intrighi e di calunnie ai danni dei loro colleghi e rivali. Infine, nel maggio del 1695, dopo molte esitazioni, il generale Gonzales prese una decisione: la costruzione dell’altare fu messa completamente nelle mani di Pozzo. [fig.] Per evitare altri intrighi, tutti i disegni e i modelli furono esposti nella Galleria Farnese, alla presenza degli artisti, ai quali si chiese di votare segretamente per l’opera che ognuno di essi riteneva la migliore. Il pezzo più importante era naturalmente la statua di Sant’Ignazio, e la relativa gara fu vinta dal francese Pierre Legros. I Gesuiti, a dimostrazione del fatto che non intendevano promuovere o creare alcuno stile particolare, per il gruppo raffigurante “La Fede che sconfigge l’Idolatria” da collocare all’altro lato dell’altare scelsero un altro francese, Jean- Baptiste Théodon, il cui goffo e pesante classicismo contrastava totalmente con il vigore drammatico e pienamente barocco di Legros. L’altare in sé è un capolavoro dove la finezza di esecuzione gareggia con la complessità dei particolari; tuttavia motivi di grande raffinatezza, per esempio i bassorilievi illustranti la vita e i miracoli di Sant’Ignazio, sono annegati in una tale massa di colore e in una tale profusione di ornamenti che possono facilmente passare inosservati. Tutta l’arte barocca ha carattere fortemente emotivo e per quasi tutto il Seicento i Gesuiti non fecero altro che tentare di seguire gli stili correnti, spesso con difficoltà varie dovuta a mancanza di denaro o di mecenati. Quando, nella seconda metà del secolo, furono finalmente in grado di ricorrere direttamente all’opera di artisti di fama rivelarono la tendenza a mettere in risalto gli elementi dottrinali dei loro articoli di fede con maggiore abbondanza di particolari di quanto non fosse usuale nelle chiese romane. Infatti l’arte potentemente illusionistica da essi incoraggiata in Sant’Andrea al Quirinale, nella chiesa del Gesù e soprattutto in Sant’Ignazio era dettata proprio da considerazioni di quel genere. I Gesuiti, quando furono costretti a difendersi dall’accusa di aver lasciato corrompere i loro ideali, erano prima di tutto dei missionari. La loro arte è quindi un’arte secolare. Il loro scopo principale fu sempre quello di mostrare come la grazia divina operasse nell’anima dell’uomo e ciò spiega perché essi si interessarono meno alla salvezza individuale di coloro che ne erano già stati toccati. Ciò conferì ai soffitti delle loro chiese quella potente logica che manca a tanti altri. Alzando gli occhi, nella Chiesa Nuova assistiamo a un miracolo che riguarda un singolo individuo, perfettamente conforme al culto dedicato all’ordine della Vergine e a San Filippo Neri; in quella del Gesù e in Sant’Ignazio partecipiamo invece a un dramma universale in cui siamo noi stessi attori. IV. IL MECENATISMO PRIVATO 27 Oltre alla corte pontificia e agli ordini religiosi, esistevano altre forme di mecenatismo. Roma pullulava di amatori d’arte e di “virtuosi” di ogni genere e tutti costoro possedevano gallerie di quadri o di oggetti antichi visitate con entusiasmo dai viaggiatori stranieri che affluivano in città. La grande maggioranza di questi collezionisti privati si accontentava di seguire la moda dettata dalla corte pontificia. Pochi personaggi spiccano per aver effettivamente inciso sulla vita artistica della città, o perché erano indispensabili, dato il loro cospicuo patrimonio, ai pittori che affluivano a Roma da ogni parte d’Europa, oppure perché il loro gusto avviava questi artisti verso esiti inaspettati. 1. Tra tutte le collezioni private esistenti a Roma al momento dell’ascesa al soglio di Urbano VIII quella del marchese Giustiniani era di gran lunga la più singolare. Era in grado di apprezzare le qualità degli artisti più disparati. Passando in rassegna i vari temi e stili pittorici, confrontava coloro che dipingevano “di maniera”, «cioè che il pittore con lunga pratica di disegno e di colore, di sua fantasia senza alcun esemplare, forma in pittura quel che ha nella fantasia» come Barocci, Passignano e il Cavalier d’Arpino, con coloro che viceversa dipingevano direttamente dal modello, come Rubens, Honthorst, Ribera e soprattutto i fiamminghi. Concludeva poi affermando che la soluzione migliore consisteva nel combinare questi due stili seguendo l’esempio di Caravaggio, dei Carracci e di Guido Reni. Giustiniani non riusciva però ad apprezzare i maestri barocchi della nuova generazione. Mostrò un certo interesse soltanto per tre pittori venuti alla ribalta sotto l’egida dei Barberini: Poussin, Claude Lorrain e Pietro Testa, tutti fuori dalle cerchie ristrette della corte pontificia. Egli commissionò delle opere a questi giovani maestri. Poussin dipinse per lui una “Strage degli Innocenti” e un’“Assunzione di Maria”, una delle sue prime opere in cui si sente l’influsso esercitato su di lui dal colore veneziano. Da Lorrain egli ebbe un dipinto mitologico. Ma in generale Giustiniani si rivolgeva sempre più spesso al passato, abbandonandosi alla sua passione per tutto ciò che era antico. Tra il 1631 e il 1636 si occupò della preparazione di due splendidi volumi di tavole raffiguranti i principali capolavori di scultura antica contenuti nel suo palazzo. La sua galleria divenne famosa nella Roma di Urbano VIII più per le statue antiche in essa conservate che non per i dipinti del primo Seicento. Mentre il ricchissimo banchiere genovese Giustiniani andava sistematicamente accumulando tesori d’ogni genere, i discendenti delle grandi e antiche famiglie romane continuavano a disgregarsi e a impoverirsi, soffocati dei debiti. Tuttavia anche essi diedero una nota vivace al mecenatismo artistico della città. Paolo Giordano II Orsini, duca di Bracciano, cresciuto perlopiù a Firenze, aveva imparato dal padre ad amare la musica, gli spettacoli teatrali e l ’attività artistica. Dopo aver viaggiato per tutta Europa, si stabilì a Roma. Aiutò musicisti di ogni genere e inventò un nuovo strumento musicale che chiamò rosidra, dalla rosa del suo stemma. Il duca era vanitoso e di affettata eleganza. Era ansioso di farsi ritrarre dei più illustri artisti del momento che lo accontentavano volentieri: Ottavio Leoni eseguì una superba acquaforte e nel giugno del 1623 Bernini stava già modellando in cera la sua testa. Poco più di un anno dopo la gettava in bronzo, abbandonando momentaneamente il baldacchino per dirigere personalmente le operazioni. Nel 1631 vediamo di nuovo Orsini vivacemente raffigurato in una medaglia forse di Giulio della Grecia e un anno o due dopo Bernini e i suoi aiutanti erano al lavoro a scolpire i busti di marmo raffiguranti lui e la moglie Isabella. Nel 1636, però, si ritrova pieno di debiti. Tuttavia questi continuava a essere un mecenate entusiasta, se pur in maniera limitata. Suo particolare protetto fu l’artista fiammingo Jan van den Hecke che gli dedicò un ciclo di 12 acqueforti raffiguranti vari animali. Era appassionato collezionista di medaglie e si interessava attivamente della decorazione delle chiese situate nelle sue proprietà dell’Italia meridionale. Pur senza perdere di vista le altre arti, Orsini si occupava però soprattutto di musica. Grazie a questa sua poliedrica cultura era un corrispondente ideale per la giovane e ardente regina Cristina di Svezia. Nel 1649 incominciarono a scambiarsi lettere e la regina non tardò a parlargli della sua galleria di quadri, frutto del recente saccheggio di Praga. Nel 1655 Orsini morì e meno di cinquant’anni dopo suo nipote avrebbe venduto il castello con le relative proprietà di Bracciano a Don Livio Odescalchi, nipote del Papa del momento. La collezione di Paolo Giordano Orsini probabilmente non fu mai molto vasta; egli fu importante soprattutto come amico di “virtuosi”, poeti e cantanti, tutti abituali frequentatori del suo palazzo. Grazie a uomini come il duca le arti poterono entrare nel tessuto vivo degli ambienti aristocratici. Senza dubbio ne derivò un certo ingentilimento dei costumi; le arti stesse risentirono gli effetti di questo mecenatismo. 2. Un solo collezionista privato, comunque, dominò completamente la scena sotto il pontificato di Urbano VIII ed esercitò un influsso sulle arti del tutto sproporzionato ai suoi redditi e al suo limitato potere politico. Quando Maffeo Barberini divenne Papa nel 1623, Cassiano Dal Pozzo viveva a Roma e stava appena cominciando a far sentire la sua presenza sulla vita intellettuale della città. Nato a Torino, educato a Bologna, aveva trascorso la maggior parte della sua giovinezza a Pisa. Egli era quindi toscano a tutti gli effetti. Una volta a Roma non si diede molto da fare per percorrere una carriera politica, preferendo inoltrarsi nel mondo dell’esplorazione scientifica. Si legò di stretta amicizia con Galileo, e nel 1621 gli organizzatori dell’Accademia dei Lincei, istituzione e società scientifica, lo proposero come membro. Da quel momento in poi egli dedicò all’Accademia gran parte del suo tempo e delle sue energie. Nel 1630 ne morì il fondatore e Cassiano acquistò buona parte dei suoi libri e dei suoi strumenti scientifici. Raccolse una gran quantità di materiali relativi alla storia naturale e favorì la pubblicazione di opere di medicina, botanica e ornitologica. Egli non pubblicò nulla, ma era universalmente considerato un insigne studioso. L’organizzazione sistematica del pensiero scientifico e della scienza sperimentale era un’idea del tutto nuova e veniva promossa con fervore e tensione intellettuale. Naturalmente si ricercava la protezione del clero, ma il predominante proposito dei suoi membri di scoprire e diffondere “la causa delle cose” li portò inevitabilmente al dissidio con la Chiesa. Pericolose accuse di eresia minacciarono i Lincei. 30 Questa interpretazione delle sue idee è forse confermata dalla natura insolita di alcune opere di argomento sacro eseguite per Cassiano. Trattandosi di un uomo di grande cultura i suoi orizzonti religiosi dovevano essere notevolmente più ampi di quanto lasci supporre la sua posizione di preminenza alla corte pontificia. La collezione di Cassiano comprendeva un’incisione di Pietro Testa, dedicata a Cassiano stesso, che rappresentava la “Fuga in Egitto”. La figura di San Giuseppe è relegata sullo sfondo: poco visibile, dorme con il capo appoggiato alla mano mentre gli appare un angelo a indicargli la via da seguire. L’intero primo piano è occupato dalla Vergine, dal Bambino, da Santa Maria Maddalena e da una moltitudine di angeli e putti che adorano la Croce e gli altri strumenti della Passione. In alto sono raffigurati Dio Padre e la Colomba dello Spirito Santo. Nell’iconografia controriformista non è raro vedere associata la fuga in Egitto alla Passione. L’artista ha capovolto l’ordine consueto della rappresentazione, dando alla fuga un ruolo del tutto secondario. Una trattazione simile di tale soggetto è unica e di ciò Testa sembrò rendersi conto, ritenendo opportuno fornire l’opera di una lunga spiegazione nella scritta sottostante. Ma che cosa significa esattamente il tema? Nella folla sciamante di angeli e putti che si muove al di sopra della Croce e nella tenera semplicità della Vergine inginocchiata, richiama un tipo di misticismo più comune in Spagna che in Italia e si pone sentimentalmente agli antipodi del mondo severo dei Sacramenti di Poussin. Eppure l’opera di entrambi gli artisti condivide il proposito di allontanarsi dalle più consuete espressioni del sentimento religioso per darne una più intima e dovuta rappresentazione. E qui ci sembra di scorgere l’influsso di Cassiano. Testa, in effetti, era certamente un artista fuori dal comune. Come Poussin, suo intimo amico, egli era un autodidatta testardo e orgoglioso con opinioni personali autonome. Giunse a Roma dalla natia Lucca a poco più di vent’anni, poco prima del 1630. Cominciò poi a lavorare sotto l’ala di Cassiano. Questo fu l’avvenimento decisivo della sua vita. Incaricato di disegnare antichità per il Museum Chartaceum, poté impadronirsi di una vasta cultura classica. In verità, a differenza di Poussin, Testa non riuscì a fondere il temperamento romantico con un classicismo acquisito a livello intellettuale, in modo tale da aggiungere intensità espressiva alla rievocazione degli antichi miti. In lui solo di rado questo opposte tendenze si riunivano efficacemente. Tutti i biografi lo descrivono strano, solitario e melanconico e le sue opere più belle riflettono questo lato del suo carattere: paesaggi, soprattutto di origine tizianesca, con piccole figure tratte dal Vecchio Testamento o dalla mitologia. Incominciò così a reprimere un aspetto del suo talento, senz’altro il più naturale, per concentrarsi su quelle idee che erroneamente sentiva come più gradita nel colto circolo di Cassiano. Scrisse un confuso Trattato sulla pittura nel quale guizzi di acuta sensibilità e un profondo amore per il colore si alternarono a elementi dottrinali di seconda mano. Intanto nei suoi dipinti le figure di venivano sempre più severe e “classiche” e allo stesso tempo sempre meno popolari. Scoraggiato, si diede all’incisione lavorando ai disegni delle antiche rovine per realizzare dei ritratti. Finalmente ottenne il successo che meritava, ma anche questo fu amaro, poiché metteva in risalto il suo fallimento come pittore di opere di più largo respiro. In un eccesso di disperazione si suicidò buttandosi nel Tevere. La morte di Testa risale al 1650, epoca in cui la posizione di Cassiano era molto mutata. Sotto il regime dei Barberini gli era stato riconosciuto il merito di essere il più grande mecenate privato di Roma e la sua fama varcava di molto i confini d’Italia. Poi, nel 1644, era morto Urbano VIII. Con la fuga del cardinale Barberini, anche la sua carica ufficiale e i relativi redditi svanirono. Papa Innocenzo X era ostile sia agli alleati dei Barberini sia agli scopi perseguiti da Cassiano. Nel 1655 venne eletto Papa, con il nome di Alessandro VII, il suo amico Fabio Chigi, ma ormai la salute di Cassiano era troppo malferma perché egli potesse godere della rinata fortuna. Morì nel 1657. Si poteva benissimo star lontani dalla vita di corte, ma nel Seicento le arti erano tanto intimamente legate ai centri di potere che il mecenatismo di Cassiano ne risentì non meno della sua posizione politica. Ben pochi dipinti della sua collezione risalgono al periodo successivo alla morte di Urbano VIII, e, nel decennio che gli restava da vivere, le sue collezioni cessarono quasi completamente di accrescersi. Solo i disegni dell’antico, eseguiti per lo più da artisti di secondo piano, continuarono ad arricchire il suo museo. Poussin in questo periodo eseguì per Cassiano un solo, stupendo dipinto. Nel 1651 l’artista mise a frutto le ricerche che aveva condotto sul pensiero di Leonardo per ordine di Cassiano molti anni prima. Basandosi chiaramente su un passo del Trattato in cui Leonardo descriveva gli effetti di una tempesta, Poussin scrisse di avere un dipinto: si tratta di “La tempesta con Priamo e Tisbe” (ora a Francoforte). La tragica storia è raffigurata in primo piano per indurre una nota di umano dolore nel desolato scenario naturale. Con la sua selvaggia e quasi romantica impetuosità questo quadro si pone come un unicum in tutta la produzione di Poussin, e segna degnamente il culmine della sua lunga collaborazione con Cassiano. Il più importante contributo alla cultura da parte di Cassiano sono gli studi da lui promossi. Cassiano fu probabilmente il primo privato cittadino a esercitare un effettivo influsso sulle arti del suo tempo. Pur privo di autorità politica e disponendo di limitate possibilità economiche, riuscì a dare consistenza a certe correnti di gusto che indubbiamente erano condivise da molti suoi contemporanei, che però non godevano dell’appoggio della corte o degli ordini religiosi. Il suo gusto può essere definito “classico”, ma in effetti aveva in sé una ricchezza intellettuale e spirituale sufficiente a farlo considerare assai più che non una mera opposizione alla predominante arte barocca. Furono proprio la complessità e forse l’ambiguità delle sue convinzioni religiose, con la tortuosa profondità di pensiero, unitamente all’ampiezza della sua cultura aperta alle idee che gli giungevano da tutta Europa, che offrirono valida ispirazione a uno degli artisti più sottili di tutto il Seicento. Poussin era sempre pronto a riconoscere il suo grandissimo debito verso Cassiano. Ma oltre alle opere effettivamente in suo possesso, le fertili idee di Cassiano ispirarono numerosi altri artisti ai quali non risulta che egli si interessasse direttamente, ad esempio Giovanni Benedetto Castiglione e Pier Francesco Mola. 31 3. Questa più forte tendenza al pittoresco viene in luce mettendo a confronto i quadri del cavalier Dal Pozzo con i due che Poussin dipinse subito dopo il suo ritorno da Parigi (1642) per un altro importante mecenate italiano, Camillo Massimo. “Mosè calpesta la corona del Faraone” e “Mosè tramuta in serpe il bastone di Arrone” sono resi infatti da Poussin nella sua maniera più tenacemente severa ed erudita; in entrambi i casi i colori sono aspri, i due eventi drammatici raggelati in una formula rigida e solenne. Anche i soggetti sono interessantissimi: la scena in cui Mosé calpesta inavvertitamente la corona del Faraone era molto rara. La vicenda non si trova nella Bibbia, ma in Giuseppe Flavio; per quanto Poussin avesse chiaramente grande simpatia per i soggetti ispirati alla vita di Mosé, non ne aveva mai dipinti per Cassiano. La scelta di una scena tanto eccezionale fa dunque pensare a un mecenate altrettanto eccezionale, e Poussin lo aveva incontrato. Camillo (battezzato come Carlo) Massimo nacque nel 1620 da un ramo di una delle più antiche ed eminenti famiglie romane. I due dipinti di Poussin furono certamente tra le primissime commissioni di Camillo Massimo, ponendosi proprio agli esordi della sua attività iniziata nel 1644 con la caduta dei Barberini e l’ascesa al soglio pontificio, con il nome di Innocenzo X, di Giambattista Pamphili. Quasi subito Massimo prese a gravitare intorno alla nuova corte e si fece notare soprattutto grazie alle sue doti di intenditore d’arte. Durante questi anni acquistò tra l’altro un gran numero di disegni di Poussin: si trattava soprattutto di soggetti mitologici. Carlo Massimo era inoltre uno dei pochi conoscitori che apprezzassero i dipinti di Claude Lorrain non meno di quelli di Poussin. Tale inclinazione non era sempre facile da soddisfare, dato che Claude era continuamente impegnato a lavorare per potenti e altolocati signori. Comunque, verso la fine degli anni Quaranta il suo nome apparve accanto a quelli di Camillo Pamphili e ad altri nuovi negli elenchi dei clienti di Claude Lorrain. C’è un’altra magnifica testimonianza del suo successo e della perspicacia di Massimo in quegli anni. Nel 1649 giunse a Roma Velásquez, venne accolto da Francesco Barberini e da Cassiano Dal Pozzo, ma egli riservò i suoi ritratti più importanti soprattutto ai membri del nuovo regime; ritrasse anche Camillo Massimo [fig.]. Egli strinse con Velásquez un’amicizia che in seguito non avrebbe mancato di dare i suoi frutti. Nel 1653 Massimo, a soli 33 anni, possedeva una mezza dozzina di capolavori eseguiti da tre dei più grandi pittori del suo e di tutti i tempi. A questo punto, per la prima volta, la sua brillante carriera subì una battuta d’arresto. In seguito agli intrighi dell’ambasciatore spagnolo a Roma, Filippo IV gli vietò l’accesso a corte, adducendo a giustificazione la sua amicizia con i francesi. Massimo si vide costretto a soggiornare per un anno in una cittadina tra Valencia e Madrid, dove cercava di rilassarsi visitando le antichità locali. Nel 1655, dopo l’elezione del nuovo Papa, Alessandro VII, Velásquez eseguì per Massimo altri quattro dipinti, raffiguranti il re, la regina e le due infanti. L’acquisto di tali opere, unitamente a quello di numerosi gioielli e altri oggetti d’arte, costituì probabilmente l’unico vantaggio che Massimo poté ricavare dalla nuova situazione. La sua attività risultò infatti improduttiva ed egli prese a sostenere di tutto cuore gli spagnoli nelle loro contese contro la Francia e i veneziani. Disgraziatamente per Massimo, il cambiamento di Papa a Roma aveva portato, come spesso accadeva, a un analogo mutamento di politica. Alessandro VII stava compiendo grandi sforzi per riconciliarsi con i veneziani. Nel 1658 Massimo venne richiamato a Roma e non ottenne altri incarichi per una dozzina d’anni. L’essere in disgrazia, come sempre, rendeva difficile procurarsi opere degli artisti moderni più in vista. In questi anni il nome di Camillo Massimo compare ben poche volte tra quelli dei committenti ed è quasi verosimile che egli si dedicasse soprattutto alla sua biblioteca e alla sua magnifica collezione di antichità. Sotto molti aspetti Massimo parve voler assumere il ruolo lasciato vacante dalla morte di Cassiano Dal Pozzo. Anche lui, infatti, fece fare copie di molti dei più antichi edifici e dipinti romani, e soprattutto anche lui godette dell’intima amicizia di Poussin. Fu probabilmente allora che egli acquistò due tra le più belle opere giovanili di quel pittore: “Re Mida si lava il volto nel fiume Pattolo” e la prima versione dei “Pastori d’Arcadia”. Certamente tra i due uomini si creò una stretta amicizia. Nel 1670 le fortune di Massimo subirono un nuovo improvviso rivolgimento. Il neo eletto Papa Clemente X lo nominò cardinale e maestro di camera, ed egli festeggio l’evento facendosi ritirarle da Carlo Maratta, il più insigne esponente delle tendenze classiche nella pittura romana. Commissionò poi molte altre opere a questo artista, che era ora il suo preferito e gli Altieri lo pregarono di sovrintendere alla decorazione del loro nuovo palazzo, quindi egli ottenne per quel pittore l’opportunità più prestigiosa e autorevole a Roma, cioè quella di dipingere l’affresco principale raffigurando l’“Allegoria della Clemenza”. Questa decorazione divenne un modello per la decorazione dei palazzi reali di tutta Europa. Massimo ora era veramente al centro della vita sociale e poté infine procurarsi altre opere di Claude Lorrain. Nel 1677, poco prima della morte, Massimo intraprese l’iniziativa che più colpì l’immaginazione dei suoi contemporanei: fece eseguire a Pietro Santo Bartoli le incisioni tratte dalle miniature di uno dei più antichi e famosi manoscritti della Biblioteca Vaticana, un’edizione tardoantica di Virgilio di cui aveva già fatto fare una copia trent’anni prima. Questo fu di fatto il suo ultimo omaggio alle arti. Il fratello minore ne ereditò le collezioni e i debiti e vendette rapidamente le prime per liquidare i secondi. Tra gli acquirenti di alcune delle cose più belle vi furono il re di Francia, il viceré spagnolo di Napoli e un gentiluomo inglese, il dottor Richard Mead. C’erano naturalmente a Roma, a quel tempo, altri importanti collezionisti, ma ormai stavano diventando sempre più rari e quella particolare combinazione di ricchezza, entusiasmo, eclettismo e ampiezza di vedute che aveva caratterizzato i principali mecenati nel Seicento italiano non sopravvisse a Camillo Massimo. Massimo, parente di Vincenzo Giustiniani e amico di Cassiano Dal Pozzo, aveva trasferito i loro principi in quello che fu l’ultimo grande periodo creativo dell’arte barocca. Con i suoi capolavori di Lorrain, Poussin e Velásquez riuscì a dimostrare che l’amore per l’antichità classica non impediva necessariamente di apprezzare 32 le correnti più vitali della pittura contemporanea e che profonda cultura e ispirazione creativa non si escludevano affatto a vicenda. V. IL GRANDE PUBBLICO 1. Poussin divenne uno dei pittori più eminenti di Roma. Eppure non aveva mai lavorato ad affreschi, non era stato quasi mai impiegato dal Papa e soltanto un paio di volte aveva dipinto pale d’altare. Il potere di un mecenate indipendente era ormai tale da dar fama a un artista e guidarne la formazione. Confidandosi volutamente entro una ristretta cerchia di eruditi e di umanisti, Poussin si accostò a interpretazioni sempre più complesse della religione e della mitologia. A quei tempi Roma non era mai stata tanto aperta alla politica e alla cultura francesi come durante il più che ventennale pontificato di Urbano VIII e da molte generazioni non si vedeva una simile cerchia di conoscitori d’arte raffinati e colti, interessati a tutte le ultime scoperte della scienza e dell’estetica. Il fascino crescente esercitato dalla città sui viaggiatori stranieri e i casi, sempre più frequenti, di rapidi trapassi di fortuna trasformarono gradualmente le condizioni del mecenatismo e si moltiplico il numero di mercanti d’arte di professione che trattavano direttamente con i pittori viventi. Dapprima i mercanti svolsero un ruolo decisivo solo sulla carriera di giovani artisti sconosciuti. Per esempio, fu il caso di Caravaggio, che vendette alcune delle sue prime opere a un mercante francese di nome Valentin, attraverso il quale riuscì a farsi presentare al cardinale Del Monte. È certo però che, non appena un artista riusciva a farsi un certo nome, non lavorava più per un mercante. I mercanti d’arte avevano infatti cattiva reputazione sia presso i pittori sia presso il pubblico. Si pensava che la stessa mercificazione e la mentalità affaristica inserite nel campo delle arti liberali le degradassero, quasi le umiliassero, tanto che i mercanti vengono definiti «animi volgari». L’ Accademia di San Luca ordinò ai suoi membri di stare lontano da simili commerci, pena l’espulsione; e nel 1633 riuscì a ottenere dal Papa il diritto di imporre una tassa speciale di 10 scudi all’anno a tutti i mercanti d’arte. Di solito i mercanti d’arte affiancavano al loro commercio un’attività secondaria connessa all’arte, come per esempio la vendita di colori o del necessario per la doratura. Ma tra loro c’erano anche barbieri, sarti, ciabattini. C’erano poi i venditori di rosari e di altri oggetti sacri che commerciavano soltanto in quadretti di devozione. Tutti costoro accolsero con grande ostilità la tassa proposta. Nel 1674 se ne potevano contare almeno un centinaio, per lo più insediati nei dintorni di piazza Navona. Pare che la maggior parte di loro fossero genovesi e che dunque trattavano spesso opere dei loro concittadini. Ricorre di frequente il nome di un certo Pellegrino Peri che impiegò il giovane Gaulli. Erano importanti anche i mercanti fiamminghi: per esempio l’artista Cornelius de Wael che si dedicò a importanti attività commerciali e aprì a Roma una grande galleria di quadri, evidentemente destinati alla vendita; trattava soprattutto con i suoi compatrioti, in qualità sia di artisti sia di clienti. Lo scompiglio finanziario che seguì al pontificato di Urbano VIII mutò la situazione, offrendo ai mercanti l’occasione di fare i loro primi grandi affari. La politica di restituzioni economica attuata da Innocenzo X lasciò senza sostegno molti artisti che erano affluiti a Roma, attratti dall’aurea munificenza di Urbano VIII e di tanti altri committenti romani. Ora, improvvisamente, il mercato parve crollare. Una delle conseguenze fu che un numero sempre maggiore di pittori si vide costretto a lavorare per i mercanti, molti dei quali approfittarono senza scrupoli della loro miseria. Un ulteriore elemento che favorì lo sviluppo del commercio delle opere d’arte fu il numero crescente di dipinti italiani inviati in Francia, Spagna, Inghilterra e in altri paesi europei nella seconda metà del secolo. È molto probabile che gli stranieri che soggiornavano a Roma per un breve periodo trovassero più semplice recarsi dai mercanti piuttosto che trattare direttamente con i pittori. Ma in genere era abbastanza raro che si commissionassero direttamente i dipinti i pittori. I mercanti di professione ebbero un ruolo importante nello spezzare gli stretti legami esistenti tra artisti e mecenati, ma non sembra che i mercanti, nel corso del Seicento, avvicinassero pittori che non fossero conosciuti. Comunque, accanto a personaggi di questo genere, ce ne erano altri più difficili a definirsi, i «mercanti amatori». È il caso di Ferrante Carlo, nato a Parma, coltissimo avvocato e poeta, che fu al servizio del cardinale Borghese. La sua vera passione era la pittura e fu in contatto con Cassiano Dal Pozzo e con molti eminenti artisti del tempo. I suoi pittori favoriti erano i bolognesi e Lanfranco. Commissionò opera a tutti e se li fece amici, formandosi così una notevole collezione. Ma il suo amore per l’arte non era totalmente disinteressato. Nel 1631 acconsentì di privarsi di qualche suo quadro per darlo ad un avventuriero siciliano solo quando «havessi havuto honesta ricompensa». Un altro tipo di mercante fuori dall’ordinario era il medico del Papa, Giulio Mancini. Si diceva che seppe servirsi delle proprie qualità professionali per favorire i suoi sinceri interessi artistici. Infatti, mentre visitava i suoi illustri ed eleganti pazienti, sapeva cogliere il momento giusto per suggerire che avrebbe volentieri gradito uno dei loro quadri. Un terzo personaggio che non disdegnò di dedicarsi in maniera non ufficiale al commercio delle opere d’arte fu Niccolò Simonelli. Fu al servizio di vari cardinali prima di diventare maggiordomo dei Chigi sotto il pontificato di Alessandro VII. Si era guadagnato una certa fama di conoscitore e dava volentieri consigli in materia d’arte. Oltre a possedere un certo numero di dipinti e di pezzi antichi, aveva una collezione abbastanza notevole di disegni di artisti celebri. Aveva inoltre molte relazioni con gli artisti e le persone influenti del tempo e sapeva trarre il miglior profitto da queste relazioni. Carlo, Mancini e Simonelli, pur senza far parte del clero, fecero carriera nell’ambiente dell’alta burocrazia ecclesiastica della metà del secolo e furono amici e mecenati di molti tra i più eminenti artisti del tempo. Tuttavia, sebbene non esitassero a trarre profitto delle loro prerogative per fare commercio di quadri, qualificarli mercanti professionisti darebbe un’impressione del tutto errata della realtà. 35 La carriera di Cerquozzi appare intimamente legata alla Spagna e ai suoi sostenitori italiani; egli stesso vestiva alla spagnola e i suoi committenti più importanti facevano parte della sfera di influenza spagnola. Però, l’artista, una volta ottenuto il sostegno dell’aristocrazia, non riuscì più quasi a rappresentare con vera compassione o comprensione la vita dei miseri. Si era specializzato soprattutto in rappresentazioni di battaglie, genere più rispettabile delle bambocciate, e nel quale ottenne grande successo, come dimostra l’appellativo di «Michelangelo delle Battaglie». La morte di Urbano VIII ebbe ovviamente delle ripercussioni positive sulla sua carriera: mettendo fine alla supremazia francese, permise ai partigiani della Spagna, i naturali protettori dell’artista, di salire gradualmente alla ribalta della scena polit ica romana. Con “La rivolta di Masaniello” ebbe inizio la fase più importante della collaborazione di Cerquozzi con il vedutista Viviano Codazzi. Questa collaborazione fu molto importante poiché confermò in Cerquozzi l’intenzione di staccarsi dalla presentazione più semplice e diretta della vita contadina per orientarsi verso il grandioso e l’esotico. Essi dipinsero numerose opere per il cardinale Flavio Chigi, il più importante mecenate romano. Cerquozzi eseguì per lui dipinti che spiccano per il carattere insolito del soggetto, tra cui “Il bagno femminile” [fig.]. Un orientale in turbante contempla pensosamente la scena, mentre alcuni damerini si accingono a trarre gioiosamente profitto dell’occasione offerta loro. Sebbene i costumi siano senza dubbio seicenteschi, la scena raffigurata doveva di certo riferirsi indirettamente alle famose «stufe» della Roma rinascimentale. Il potere esercitato sugli artisti da un mecenatismo prevalentemente aristocratico fu il principale ostacolo alla creazione di una scuola di pittura «realistica» a Roma. Inoltre l’ostilità verso questo genere pittorico trovava sostenitori anche sul piano teorico. Ciò non si dimostrò di per sé un elemento determinante, poiché gli scrittori contemporanei parlano del successo dei bamboccianti raccontando che non pochi mecenati tenevano in scarsissimo conto le considerazioni teoriche; tuttavia servì a mantenere i bamboccianti in una posizione di inferiorità. Le obiezioni teoriche ai bamboccianti erano conseguenza diretta delle circostanze che avevano reso possibile il loro successo: la democratizzazione dell’arte e il suo adattarsi ai gusti di un pubblico sempre più vasto. L’odio per i bamboccianti si manifestò con violenza relativamente tardi, quando i più importanti mecenati incominciarono a prenderli sul serio e le questioni economiche (il prezzo a cui vendevano le opere era sempre maggiore) ebbero una grande incidenza sul loro successo e sulla reazione di rigetto da essi suscitata. Fin dall’inizio la carriera di Salvator Rosa si confuse con i trionfi dei bamboccianti e ne fu tormentata; al suo arrivo a Roma nel 1637, infatti, uno dei suoi primi committenti fu Niccolò Simonelli, che si interessava anche di Pieter van Laer. Allontanato da Roma si stabilì a Firenze, per trovarvi alcuni tra i più entusiasti estimatori di Cerquozzi. Cerquozzi e Rosa erano considerati rivali come paesaggisti, il che costituiva un oltraggioso insulto per Salvator, che si considerava un pittore serio di “storie” morali momentaneamente costretto a trattare paesaggi e battaglie a causa dell’ottusità dei suoi clienti. Il suo rancore era diretto ai committenti. Ma Rosa continuava a essere perseguitato dai bamboccianti. In effetti la carriera di Rosa costituisce un tributo all’intelligenza di un gran numero di conoscitori d’arte romani, che lo costrinsero a dedicarsi ai piccoli, romantici paesaggi che rivelano il suo vero genio. Ma a lui le cose sembravano assai diverse. Era disperatamente ansioso di ottenere una grande commissione pubblica. Voleva soprattutto trovare un Cassiano Dal Pozzo ho un Camillo Massimo che sostenessero quello che egli considerava il proprio talento peculiare, la raffigurazione di tragiche e complesse allegorie e storie. Rosa però non poté mai appagare le proprie ambizioni. In particolare, studiava appassionatamente gli stoici cercando nei loro scritti i temi per i suoi dipinti e le sue stampe. Ma finiva per scoprire che i suoi potenziali clienti volevano soltanto i suoi paesaggi, specialmente quelli di dimensioni più piccole. Egli fu sempre vivamente e giustamente ammirato, ma sempre dalle persone sbagliate, che si erano specializzate in “bambocciate”, o da coloro che erano importanti mecenati dell’arte alta ma parevano includere le sue opere in una categoria più banale. Il suo più grande protettore a Roma fu il banchiere Carlo de’ Rossi. Il Rossi pagava all’artista un regolare stipendio, finché nel 1667 litigarono aspramente. Prima di ciò, tuttavia, Rossi aveva una pinacoteca privata delle opere di Rosa, consistente in una grande galleria e in numerose altre stanze più piccole. Qui aveva collocato dipinti di soggetto allegorico e storico, come “La Fortuna” e soprattutto il capolavoro dell’artista “La morte di Attilio Regolo” e riempiendo la cappella di famiglia di pale d’altare che Rosa dipinse senza compenso, pur di apparire in pubblico almeno una volta. Tuttavia Rossi non era un Dal Pozzo e non ci fa pensare che abbia dato a Salvator Rosa l’incoraggiamento e gli stimoli intellettuali di cui l’artista aveva evidentemente bisogno. Per trovare un mecenate di questo genere Rosa dovette rivolgersi a Firenze, dal poeta Giambattista Ricciardi. Ma anche non fu l’uomo più adatto ad apprezzarne le qualità: era certamente un amico devoto e amatissimo, ma non pare che Rosa tenesse in gran conto le sue opinioni su questioni artistiche. Per di più Ricciardi viveva in un’altra città e non poteva perciò offrirgli quella protezione particolare che egli desiderava. Così Rosa, nonostante il suo successo artistico e mondano, fu una figura piuttosto isolata, pittore intellettuale mancato che nessuno prendeva sul serio e che era troppo spesso confuso con i bamboccianti. Non riuscendo ad attirare l’attenzione di una clientela scelta di gusto raffinato, fu costretto a cercare committenti persino al di fuori delle cerchie più periferiche del mecenatismo contemporaneo, mandando le sue opere in diverse parti del mondo. VI. IL DECLINO DEL MECENATISMO ROMANO 1. Nell’agosto del 1645, poco più di un anno dopo la morte di Papa Urbano VIII, Poussin scriveva al suo mecenate parigino Chantelou: «e cose a Roma son di molto cambiate sotto il presente pontificato, e noi non godiamo più di alcun 36 speciale favore a corte». Ma non furono solamente gli interessi francesi a soffrire dell’elezione di Innocenzo X, l’ispanofilo Giambattista Pamphili; le arti ne ricevettero un colpo destinato ad avere conseguenze durature. Vi erano coinvolti molti altri elementi: l’equilibrio dei poteri in Europa e le ambizioni politiche di una singola famiglia, la crisi economica e le bizzarrie individuali, la peste, la fame, morti improvvise e il variare delle mode. Il declino era già iniziato circa tre anni prima con la guerra di Castro. Furono imposte nuove tasse, si confiscò l’argento di proprietà privata: come pensare alle arti, in tali momenti? Il conclave che ne seguì fu particolarmente burrascosa, vi furono parecchi scontri. Il Papa che emerse da questa confusione, Innocenzo X, non era incline né per nascita (era romano) né per situazione finanziaria e neppure per carattere a continuare quella politica di fastoso mecenatismo che aveva contraddistinto il pontificato precedente. Il Papa si trovò di fronte a un problema difficile, anche perché aveva un solo nipote, Camillo. Dopo aver ottenuto vari incarichi, ed averli cambiati, Camillo fu nominato cardinale nipote ricevendone un cumulo di benefici. Egli cambiò idea, si dimise dalla porpora e si sposò. In tali complicate manovre era stato alternativamente aiutato o osteggiato dalla sua terribile madre, donna Olimpia Maidalchini. Questa figura, la cui posizione dominante alla corte di Innocenzo X fu causa di scandali continui e di liti, era una creatura astuta, avida e ambiziosa. Dimostrò il suo malcontento per il matrimonio del figlio facendo in modo che né a questi né a sua moglie fosse concesso di entrare in città. È quindi evidente il perché, per un certo numero di anni, Camillo Pamphili non fu in grado di sostituire Francesco Barberini nel ruolo del più munifico mecenate di Roma. Fu il Papa stesso a esercitare un mecenatismo molto limitato. Egli aveva due propositi: erigere il consueto grande palazzo di famiglia e i consueti edifici ecclesiastici e servirsi il meno possibile degli artisti che erano stati più vicini al suo predecessore. Pietro da Cortona continuò a lavorare per gli Oratoriani; Bernini assunse il suo primo grande in carico privato, la cappella Cornaro in Santa Maria della Vittoria, con la famosa “Santa Teresa”. Il ruolo di primo architetto fu assunto da Girolamo Rainaldi e l’odiato arrivare Francesco Borromini. Rainaldi ridisegnò il vasto palazzo di piazza Navona nel quale Innocenzo era vissuto da cardinale, mentre Borromini intraprendeva la ristrutturazione totale di San Giovanni in Laterano. Si era chiesto a Borromini di conservare la struttura fondamentale dell’antica basilica e così questi fu costretto a riversare le sue brillanti qualità di inventiva nella decorazione piuttosto che nel progetto di una cattedrale completamente nuova. Per di più le preoccupazioni finanziarie che affliggevano il papato gli impedirono di sostituire il soffitto ligneo cinquecentesco con la volta che aveva progettato. Bernini aveva perso anche la posizione di scultore più in auge del momento, in favore di Alessandro Algardi, il quale non solo eseguì busti del Papa e di donna Olimpia, ma ricevette anche importantissime commissioni per San Pietro e per la costruzione di una villa per la famiglia Pamphili. Lo stile di Algardi si discostava da quello di Bernini: adottò una maniera più classica e fredda che si adattava abbastanza bene all’atmosfera di disillusione degli anni Sessanta del secolo. Comunque, la fama di Bernini era troppo grande perché questi potesse essere trascurato a lungo: infatti iniziò a lavorare alla Fontana dei Quattro Fiumi in Piazza Navona. Soltanto alla fine del 1651 Pietro da Cortona ebbe la sua prima commissione ufficiale: affrescare la volta della galleria nel palazzo pontificio di Piazza Navona. Forse la scelta di Pietro da Cortona rifletteva un rinascere della fortuna del principe Camillo Pamphili. Rientrato in città dal suo “esilio”, si accinse a costruirsi un palazzo di fronte al Collegio Romano. Per la verità, dopo il suo ritorno la vita artistica della città si ridestò notevolmente dal pesante torpore in cui era caduta e a questo periodo risalgono alcuni dei capolavori più belli e noti del barocco romano, quali gli affreschi di Pietro da Cortona raffiguranti “Scene dell’Eneide” nella galleria del palazzo papale e la cupola e la facciata di Borromini nella chiesa attigua di Sant’Agnese. Eppure il principe Pamphili non dimostrò di essere un mecenate coerente. «Benché egli, più di ogni altro del suo tempo, desse occasioni a Pittori, et a Scultori d’operare, del continuo riceveva disgusti dagli uni e dagli altri, per cagione d’agiustameti» (rifacimenti). Per quanto egli disponesse di numerosi, ottimi artisti e li impiegasse in iniziative della massima importanza, il suo mecenatismo non fu mai molto proficuo. Ciò, comunque, non dipese unicamente dalla sua persona, poiché dagli anni Quaranta in poi il clima finanziario divenne ancor più minaccioso. 2. Il pontificato di Urbano VIII si era lasciato andare a sperperi mai visti. Alla sua morte la tesoreria era indebitata in maniera irrimediabile e non si riprese mai completamente. Già sotto Innocenzo X si dovettero prendere dei provvedimenti. A parte le difficoltà locali, lo Stato pontificio risentiva sempre più del generale tracollo dell’economia italiana e fu in gran parte dovuto alla concorrenza di Inghilterra, Francia e Olanda. Nel frattempo venivano imposte senza preavviso nuove tasse e la popolazione incominciò naturalmente a irritarsi per le somme immense che si stavano spendendo nella costruzione e nella decorazione dei palazzi e delle piazze papali. A mano a mano che procedeva lo splendido rifacimento di Piazza Navona era facile trovare attaccati alle pietre dei bigliettini con rime amare e struggenti: «Noi volemo altro che guglie, et fontane, pane volemo; pane, pane, pane». Non era un suggerimento che il pontefice e i suoi cortigiani avessero alcuna intenzione di seguire, poiché l’ambizione di rendere Roma sempre più grandiosa e sempre più bella era la priorità. Furono le iniziative di minore importanza a soffrire della situazione venutasi a creare e non quelle grandiose e spettacolari. Nel 1648 l’Accademia di San Luca, che solo pochi anni prima era stata finanziata con tanta larghezza dai Barberini, dovette affrontare gravi difficoltà. Dapprima incominciarono a risentirne gli artisti minori, poi anche quelli affermati; molti si trovarono disoccupati. Fu allora che i mercanti d’arte incominciarono ad assumere un ruolo importante e che si incominciarono a udire le prime gravi lamentele a proposito della relativa fortuna dei bamboccianti. Come ultimo provvedimento economico, donna Olimpia e il principe Camillo si rifiutarono di provvedere al pagamento di una bara per il Papa alla sua morte, nel 1655. 37 L’ascesa al soglio di Fabio Chigi con il nome di Alessandro VII rimosse per lo meno gli ostacoli personali che si erano posti a un mecenatismo illuminato. Egli era infatti diretto discendente di un ricchissimo banchiere senese. Profondamente colto, il giorno stesso dell’elezione mandò a chiamare Bernini per esporgli i suoi progetti ambiziosi su San Pietro e ordinargli di continuare l’opera già iniziata nella cappella di famiglia in Santa Maria del Popolo. Il rapporto tra i due uomini è da vedere più come un’amicizia e una collaborazione piuttosto che di mecenatismo. Il nuovo pontefice sembrava deciso a riprendere i progetti di Urbano. Bernini coronava la sua carriera artistica erigendo nell’abside di San Pietro la cattedra dell’apostolo con una ricchissima decorazione. Ebbe anche l’incarico di erigere il sepolcro del Papa, ma la costruzione di questo grande, macabro monumento, tanto diverso nello spirito da quello trionfale di Urbano VIII, incominciò soltanto dopo la morte del pontefice. All’esterno la chiesa ritornò al suo stile più estroverso con la costruzione dell’immenso colonnato, mentre in tutta la città lui e i suoi allievi costruivano nuovi palazzi, chiese, fontane, strade e piazze. Pareva ritornata l’età dell’oro. Al Quirinale, nel frattempo, Pietro da Cortona dirigeva i lavori di un grande schema decorativo al quale partecipavano tutti i più importanti artisti romani, con la raffigurazione di scene dell’Antico Testamento. È evidente che, nonostante le tremende emorragie subite dalle finanze papali, le risorse accumulate erano ancora abbondanti e diedero luogo a una stupefacente fioritura del barocco romano. Eppure il declino continuava senza interruzioni e il contrasto tra la spettacolare politica edilizia e lo stato generale della città era crudamente evidente. Nel 1656 l’Europa fu colpita dall’ultima grande pestilenza; gli effetti non immediati sull’economia furono gravissimi. Le ripercussioni della situazione politica sul mecenatismo a Roma furono importanti quanto quelle della crisi economica. Il Papa dovette presto sopportare l’aggressivo nazionalismo di Luigi XIV. Bernini e alcuni altri architetti furono avvicinati e pregati di fornire dei disegni per il rifacimento del Louvre. Bernini ricevette anche l’invito a recarsi a Parigi per sovrintendere all’attuazione dei progetti. Per quanto egli fosse attivamente impegnato a portare a termine il colonnato di San Pietro e il Papa riconoscesse che era desiderabile la sua presenza a Roma, Alessandro VII gli concesse tre mesi di assenza. Dopo circa sei mesi di assenza dell’artista in città incominciarono a diffondersi tensione e nervosismo. A tal punto era caduta l’autorità del Papa. Il prestigio del Papa, umiliato all’estero, ne risentì naturalmente anche a Roma. La generale insoddisfazione fu vigorosamente messa a fuoco in un dipinto di Salvator Rosa. L’opera rappresenta “La Fortuna” che, seduta nella parte alta della tela con una grande cornucopia in mano, rovescia indifferente le sue ricchezze su un gruppo di animali. Nessuno dei due nipoti Chigi era eccessivamente intelligente o colto, ma il cardinale Flavio Chigi si interessava di pittura e inoltre si servì di Bernini per costruire, o meglio ricostruire, il palazzo di piazza dei Santi Apostoli che aveva acquistato. La combinazione della mancanza di uno spiccato gusto personale in Flavio e del genio di Bernini condusse a un risultato raro: una facciata spettacolare introduceva in un edificio le cui decorazioni e i dipinti dovevano apparire straordinariamente deludenti. 3. Il fatto che Flavio avesse interessi illimitati non era la sola causa di questa scarsa raffinatezza. Le dimensioni del mecenatismo dello zio riducevano le sue possibilità di impiegare artisti di primo piano. È anche vero che l’ampia scelta di ingegni disponibile ai tempi di Paolo V o di Urbano VIII era ora solamente un ricordo. Ma ciò, a sua volta, era dovuto almeno in parte a un generale declino dei grandi mecenati. Le motivazioni erano: il tracollo economico e un certo numero di provvedimenti presi dal Papa per impedire ai prelati di abbandonare le loro sedi provinciali per venire a risiedere a Roma. Così le antiche famiglie si impoverivano sempre più e quelle nuove erano sempre più riluttanti a stabilirsi a Roma. Continuavano soltanto i Colonna, quasi senza interruzioni, ad acquistare nuovi importanti dipinti. Il mecenate più interessante e influente di quella famiglia fu Lorenzo Onofrio, che sposò Maria Mancini, nipote del cardinale Mazzarino. Lorenzo Onofrio continuava ad arricchire di pezzi notevolissimi la raccolta di dipinti della sua famiglia e presto o tardi tutti i più importanti artisti romani lavorarono per lui, dai bamboccianti ai pittori di storia. Ma pare che la sua più grande passione fossero le favole mitologiche e i paesaggi. Con questa sua singolare predilezione per il paesaggio, Lorenzo Onofrio contribuì a lanciare una moda che non incontrava la generale approvazione dei critici. Colonna, comunque, era un amatore d’arte troppo vivace e spendaccione per preoccuparsi delle lamentele di eruditi e pedanti, mentre il fatto che egli si sia servito di Claude Lorrain per un periodo di quasi vent’anni rivela la qualità del suo gusto. L’insolita natura di molti soggetti e il fatto che alcuni di questi quasi certamente contengono delle allusioni alla famiglia e alle proprietà dei Colonna, fanno pensare che lo stesso Onofrio partecipasse da vicino alla creazione di queste belle opere. Morì nel 1689, ma 14 anni prima aveva impiegato i due artisti lucchesi Giovanni Coli e Filippo Gherardi in uno dei più importanti progetti decorativi della seconda metà del Seicento: gli affreschi raffiguranti le gesta del suo antenato Marcantonio Colonna nella battaglia di Lepanto sulla volta della grande galleria del suo palazzo. Questa scena di battaglia, resa con colori vigorosamente veneziani, costituisce una categoria a sé nel campo della decorazione. L’opera è significativa anche per un altro verso: i Colonna, per quanto notevolmente impoveriti, erano una delle poche famiglie rimaste alla ribalta nella società romana che potesse vantare un antico ed eroico passato. 4. Mentre la nobiltà riusciva ancora, di tanto in tanto, a promuovere grandiosi progetti decorativi, incominciava a decadere quel genere più raffinato e selettivo di mecenatismo dell’arte contemporanea che era stato una caratteristica tanto importante dei decenni precedenti. Più caratteristici della seconda metà del secolo furono alcuni studiosi e letterati che proiettarono sulle loro collezioni d’arte prevalenti interessi letterari. 40 La preferenza del viceré per gli artisti che aveva conosciuto a Roma non gli impediva, in ogni caso, di interessarsi anche della scultura napoletana. In particolare si servì del compatriota Ribera per numerose pale d’altare per la sua chiesa agostiniana. Certamente Ribera, come altri pittori a Napoli, doveva molto alla protezione del viceré. Durante tutto questo tempo anche il re di Spagna Filippo IV, il cui appetito per la pittura non era affatto saziato da Rubens e da Velásquez, mostrò un profondo interesse per la scena romana. Verso il 1636 un agente del re negoziò la commissione di un complesso di oltre 12 grandi paesaggi, ognuno dei quali doveva comprendere la figura di un eremita o di un anacoreta destinate al palazzo del Buen Retiro, in costruzione. La ragione per la quale Filippo IV ritenne opportuno rivolgersi a Roma per tale incarico è chiara per il tipo di composizione pittorica nella quale paesaggio e figure se equilibravano vicendevolmente nello schema compositivo poi che esprimevano un unico stato d’animo che era stato creato a Venezia nei primi del Cinquecento, per poi riapparire a Roma circa un secolo dopo. Solo un altro paese era in grado di competere con la Spagna nel richiedere l’opera degli artisti italiani: la Francia di Enrico IV. Parigi vantava dei buoni architetti, ma in quanto a pittori non poteva competere con Roma. La moglie di Enrico comunque non dimenticava di essere una Medici e fu certamente per suo impulso che incominciò a farsi sentire a Parigi l’influsso italiano. Nel 1604 Maria de Medici diede il suo primo importante contributo alle arti convincendo lo zio, il granduca Ferdinando I, a commissionare a Giambologna, maestro di Francavilla, una statua equestre di Enrico IV da collocare sul Pont Neuf, appena costruito. Da Firenze Maria volse poi l’attenzione a Mantova e chiamò a Parigi il pittore che più di ogni altro si ricollega al primo periodo del suo regno, il fiammingo Frans Pourbus il Giovane. Questi arrivò nel 1609 e dipinse molti ritratti della regina e di altri membri della corte. Dopo l’assassinio del re nel 1610 l’ambizione di Maria crebbe. Nel 1611 ordinò di costruire un enorme palazzo al posto di quello che aveva acquistato dal duca di Lussemburgo e ancora una volta cercò ispirazione a Firenze. L’incarico fu dato a Rubens nel 1621, scelto probabilmente a causa dei suoi legami con la corte di Mantova, per affrescare le due lunghe gallerie del palazzo con scene allegoriche della vita sua e del marito. Tra gli altri pittori che entrarono al servizio della regina c’è il toscano Orazio Gentileschi che seguì per lei numerosi dipinti. Tra le opere che gli commissionò Maria ne è rimasta soltanto una sicura, che peraltro rispecchia profondamente gli interessi della regina all’epoca: si tratta di un grande dipinto allegorico raffigurante “La Felicità pubblica trionfa sui pericoli”, una splendida figura di donna che regge gli attributi della sovranità francese e guarda i nembi tempestosi che sia adescano su di lei [fig.]. Più o meno contemporaneamente Maria de’ Medici si rivolgeva ai vari parenti italiani chiedendo che le procurassero dei quadri per decorare il Cabinet Doré del Luxembourg. Però non tutti i progetti della regina madre erano destinati a realizzarsi; verso la fine del 1625 era chiaro che non si sarebbe permesso a Rubens di portare a termine la serie di dipinti che dovevano essere dedicati a Enrico IV nella seconda galleria del Luxembourg poiché agli occhi di Richelieu e di altri personaggi della corte egli si identificava troppo con la causa spagnola e così Maria si rivolse di nuovo all’Italia. Era estremamente desiderosa che fosse Guido Reni a terminare l’opera, ma questi respinse l’offerta. Le venne allora raccomandato di assegnare la commissione a Guercino, ma anche egli rifiutò di muoversi e così la galleria rimase priva di decorazione. Nel 1624, mentre Rubens e Gentileschi lavoravano per Maria, problemi non dissimili preoccupavano suo nipote Ferdinando Gonzaga, ora duca di Mantova. Egli commissionò dei dipinti per il nuovo palazzo parigino come dono. Era collezionista e appassionato amatore d’arte; molti tra i principali artisti italiani avevano lavorato per lui. Propose di mandare 10 dipinti raffiguranti Apollo e le Muse. Il fatto attirò l’attenzione del cardinale Richelieu, il quale, seguito presto da molti altri, si rivolse a Mantova per ottenere dei dipinti. Tuttavia Richelieu non ha un ruolo preminente in questa storia. Per lo più i suoi rapporti con artisti viventi si limitarono a pittori francesi e fiamminghi e anche quando si rivolse all’Italia lo fece dapprima per avere opere di un altro francese, Poussin. Poi, durante gli ultimi anni della sua vita, mutò improvvisamente politica e si adoperò per attrarre a Parigi tutti gli artisti più in vista al di là delle Alpi. Non è difficile spiegare la ragione del voltafaccia di Richelieu: gli era probabilmente giunta voce della fortuna eccezionale dei Barberini, che avevano fatto di Roma un monumento eterno della loro gloria e dovette rendersi conto che a Parigi non c’era nessun artista in grado di fare altrettanto. Per di più aveva un prodotto italiano, il cardinale Giulio Mazzarino. Ai primi del 1639 Poussin scriveva di essere preoccupato di questi sviluppi. Egli si rendeva perfettamente conto che i migliori pittori italiani godevano tuttora, a Roma, di un trattamento troppo buono per lasciarsi convincere ad accettare le offerte francesi e pensava che solo personaggi di secondo ordine sarebbero stati disposti a muoversi. Però dovette accettare un incarico a Parigi assieme ai «più eccellenti pittori, scultori, architetti e altri famosi artisti». Uno degli artisti che i francesi desideravano convincere era Pietro da Cortona e un altro era Guercino, ma subito fu chiaro che il cardinale aveva mirato troppo in alto. Riuscì infatti a portare assieme a Poussin solo pochi altri pittori di secondo ordine. Dalla politica italiana di Richelieu emergono due altri risultati positivi: per un verso il brillante incisore e disegnatore Stefano Della Bella, si stabilì a Parigi per una decina d’anni, e per l’altro, dopo molte preghiere, i Barberini si lasciavano infine convincere a permettere a Bernini di eseguire un busto del cardinale. Mazzarino, il successore di Richelieu, puntò verso mete più ambiziose. All’inizio del 1644 il cardinale tentò di convincere lo stesso Bernini a stabilirsi a Parigi offrendogli compensi altissimi; ma non tenne conto del debito contro l’opposizione di Urbano VIII, il quale esercitava ancora sull’artista un’autorità assoluta: «Bernini era stato fatto per Roma, e Roma era fatta per lui». E così i più tenaci tentativi delle più potenti nazioni europee erano quasi completamente falliti di fronte al fascino esercitato dai Barberini. Non molto dissimili furono i risultati ottenuti dagli inglesi, quando provarono anche loro ad 41 avere i maggiori artisti italiani. Famosa è la storia dell’acquisto da parte del re Carlo I della collezione di dipinti del duca di Mantova. Fallirono invece i tentativi del re e dei suoi agenti di convincere gli artisti italiani ad andare in Inghilterra. Carlo I e i suoi ministri stavano compiendo uno sforzo consapevole mirante a rompere la rigida divisione che si era venuta a creare tra l’Inghilterra e Roma sin dai più furibondi anni della Controriforma. In seguito a questa distensione politica si sviluppò una crescente ammirazione degli inglesi per la cultura italiana. Era da poco salito sul trono, nel 1625, quando tentò per la prima volta di attirare in Inghilterra un artista italiano di gran nome. A Guercino il re offrì le condizioni più favorevoli a patto che venissi a stabilirsi presso la sua corte. Ma sappiamo che Guercino non volle accettare l’occasione poiché non voleva conversare con eretici, per non contaminare la bontà dei suoi “angelici costumi”. Il re non ebbe maggior successo con lo scultore Pietro Tacca e con Francesco Albani. Tuttavia, con un po’ di perseveranza, Carlo riuscì infine nel suo intento di portare a corte un pittore e uno scultore, per quanto nessuno dei due fosse della statura che gli aveva originalmente sperato. Orazio Gentileschi stava già lavorando da qualche tempo a Parigi quando si lasciò convincere a trasferissi in Inghilterra, probabilmente nel 1625. Carlo I era altrettanto desideroso di avere il suo servizio uno scultore italiano, e finalmente, verso il 1635, i suoi tentativi furono coronati da successo. Francesco Fanelli iniziò lavorare in Inghilterra, ma il suo lavoro si limitò quasi esclusivamente a bozzetti, quasi sempre cavalli e ritratti. Lo stesso artista eseguire anche un pregevole busto del giovane principe è un altro del re. Il re si avvalse di tutta la propria autorevolezza per far sì che i Barberini consentissero a Bernini di scolpire personalmente il suo ritratto e riuscì nel suo intento. Il busto, basato sul triplice ritratto di Van Dyck, giunse in Inghilterra nel 1637 e sembra che Bernini, nonostante la sua riverenza per lo splendore regale, avessi saputo cogliere quella poetica elegante e malinconica di Van Dyck. Carlo I rimase deliziato dal busto (distrutto mezzo secolo dopo in un incendio) e colmò Bernini di ricchi doni. Comunque, prima del 1642, giunsero in Inghilterra dall’Italia molte opere d’arte contemporanea; sappiamo per esempio che il re commissionò un certo numero di dipinti ad Angelo Caroselli e che il cardinale Barberini ne inviò molti alla regina. 3. Gli anni Quaranta e Cinquanta del Seicento segnarono una svolta decisiva nella diffusione all’estero dell’arte italiana. Nel 1644 morì Urbano VIII, poco dopo i suoi nipoti fuggirono da Roma e venne così a mancare la più importante fonte di mecenatismo in Italia. Nello stesso anno la direzione degli affari francesi passava nelle mani di un amatore d’arte italiano. La pace era ritornata in Germania e nell’Europa centrale e questo provocò una richiesta di prodotti d’arte italiana. Il cardinale Mazzarino, che assunse il governo della Francia poco dopo la morte di Richelieu, era nato in Italia. Entrò al servizio di varie famiglie potenti, quali i Colonna, i Sacchetti e i Bentivoglio. Fu alle dipendenze di Antonio Barberini quando questi cercò di porre fine alla guerra tra Francia e Spagna. Mazzarino era elegante, astuto e ambizioso; si muoveva nelle cerchie sociali più brillanti d’Europa, protetto dalle più grandi famiglie del tempo. Le famiglie alle quali era più vicino praticavano tutte un fervido mecenatismo e fu senza dubbio in tale periodo che il cardinale concepì la sua passione di collezionista. Mazzarino non era ricco, ma la maggior parte delle fonti lo descrivono avaro quand’era in gioco il suo denaro, ma sempre pronto a spendere quello degli altri a proprio profitto. Considerando tutto ciò è significativo che il primo artista al quale pare che commissionasse dei dipinti fosse Poussin; il prezzo era senza dubbio ragionevole, dato che Poussin non era ancora famoso. Poussin dipinse per Mazzarino due delle sue opere più incantevoli, “L’ ispirazione del poeta” e “Diana ed Endimione”. Entrambe le opere si spirano ai poeti lirici dell’antichità e della mitologia. Impegni continui e crescenti lo tennero lontano da Roma in un periodo in cui i suoi legami con la Francia si venivano facendo sempre più stretti, infine, all’inizio del 1640, si stabilì a Parigi per essere poi nominato cardinale nell’anno successivo. Verso la metà del 1643 Richelieu e Luigi XIII erano morti ed egli poté soddisfare le sue inclinazioni artistiche e le sue ambizioni con grandiosità senza pari [fig.]. Si è già detto che i primi tentativi di Mazzarino di attrarre in Francia artisti italiani quando Urbano VIII era ancora in vita non ebbero successo. Era tuttavia determinato circondarsi di artisti italiani di ogni genere. Il mutamento di regime a Roma gli diede la sua grande opportunità. Francesco Barberini si sottrasse alle persecuzioni di Innocenzo X e si rifugiò a Parigi, cercando il sostegno del suo antico protetto, Mazzarino. Intanto a Roma Romanelli, pittore favorito dal cardinale Barberini, cominciava risentire delle noncuranze e delle ostilità e in giugno stava già dipingendo l’appena costruita galleria superiore del Palazzo di Mazzarino. Romanelli suddivise la superficie in una serie di scomparti ovali, tondi, rettangolari e quadrati, separati tra loro da cornici. Le figure dipinte risultano un po’ languide nella loro raffinatezza e forse contribuirono a condizionare il gusto francese contro le più autentiche ed esuberanti creazioni del vero barocco italiano. Questi primi anni di governo di Mazzarino furono particolarmente importanti per la diffusione dell’arte italiana. Oltre a dipinti, sculture e raffinati oggetti d’alto artigianato, arrivavano a Parigi opere, balletti e scuole di ogni genere. Nel 1648 giunse a completare la decorazione della galleria del cardinale il bolognese Grimaldi, che dipinse dei paesaggi nelle nicchie e nelle strombature delle finestre. Intanto da Roma, come da ogni parte d’Italia, molti signori incominciarono a inviare dipinti a Mazzarino per accattivarsene i favori. Nel 1648 egli stesso scrissi ad Algardi, tentando, con le offerte più generose, di farlo ritornare sulla decisione negativa di circa sei anni prima. I termini della proposta erano talmente allettanti che lo scultore sarebbe certamente partito, se 42 non si fosse ancora una volta intromesso il Papa. Alla corte dei Pamphili Algardi occupava la stessa posizione di preminenza che aveva avuto Bernini in quella dei Barberini. La presa di potere di Mazzarino in Francia rafforzò il suo prestigio anche a Roma, nonostante l’ostilità del Papa. Poco dopo il 1644 egli acquistò il grande palazzo dei suoi antichi protettori, i Bentivoglio, e progettò di metterlo a disposizione degli ospiti francesi illustri in visita alla città. Poco dopo e gli diede incarico di ricostruire la chiesa dei Santi Vincenzo e Anastasio in piazza di Trevi. Nel 1649 il mecenatismo di Mazzarino nei confronti degli artisti italiani subì un disastroso, seppur temporaneo, arresto. La prima Fronda, l’alleanza tra fazioni aristocratiche e borghesi, si rivoltava con grande violenza contro il cardinale. Una delle accuse rivolte a Mazzarino dai suoi nemici era appunto quella di essersi circondato di musici e pittori italiani, definiti di un livello volgare. I quattro anni successivi assistiamo a un ritorno al potere seguito dall’esilio, alla vendita della sua biblioteca e alla minaccia di dispersione delle sue collezioni, cose che però non gli impedirono di fare nuovi e importanti acquisti. Infatti in quello stesso momento Carlo I era alle prese con avversari molto più spietati e la sua esecuzione capitale, seguita dalla vendita, per disposizione del Parlamento inglese, della sua quadreria, immise sul mercato internazionale alcuni dei più notevoli tesori della storia europea. Non passo molto tempo che Mazzarino riuscì a mettere le mani su qualcuno dei più grandi dipinti di quello che poco tempo prima era il suo rivale. Nel 1653 fece redigere un inventario dei suoi quadri da cui si può misurare quanto grande fosse stata la sua attività di collezionista e di mecenate. Tra gli artisti spiccavano Guido Reni e Guercino e non mancavano le opere di Pietro da Cortona e di Sacchi. A questi gusti egli rimase fedele per tutta la vita. Erano poi talmente numerosi i quadri regalatigli da amici e clienti che non è sempre agevole rendersi conto dei suoi veri gusti, mentre da quelli che sappiamo con certezza essere stati ordinati direttamente da lui risulta chiara la sua preferenza quasi esclusiva per i temi profani e persino erotici. Negli ultimi anni della sua vita Mazzarino rallentò di molto la propria attività di collezionista e committente. Nel 1644 aveva chiamato a Parigi un ramo dell’ordine teatino, che si era stabilito sulle rive della Senna e adesso per testamento lasciò una grossa somma destinata alla ricostruzione della chiesa di Sainte-Anne-la-Royale. I Teatini si rivolsero a un loro confratello, Guarino Guarini, il quale iniziò i lavori per la chiesa. Con la sua facciata curvilinea, ispirata alla chiesa di Sant’Agnese di Borromini in Piazza Navona e con la sua volta particolarissima, la struttura nulla concedeva alla moda francese del momento e rimase come un esempio del tutto isolato dell’architettura barocca italiana a Parigi. Anche il giovane re, Luigi XIV, nonostante le sue ambizioni patriottica, trovò assolutamente naturale cercare in Italia i pittori, scultori e gli architetti di cui desiderava servirsi. Il culmine e la crisi di questo entusiasmo francese vanno cercati nei progetti di Luigi per il Louvre. Subito dopo essere giunto al potere, Luigi, aiutato da Colbert, prese a esaminare le proposte per la costruzione del prospetto orientale del Palazzo Reale. Colbert, dopo aver invano cercato un architetto francese, chiese agli italiani di preparare dei progetti. Lo spirito nazionalistico in Francia era divenuto accesissimo e arrogante in seguito alla politica patriottica priva di scrupoli di Richelieu e di Mazzarino, ma la crescente ostilità francese nei confronti dell’arte italiana aveva un fondamento più solido. Ai progetti di Bernini, Pietro da Cortona, di Carlo Rainaldi e di Candiani vennero mosse critiche precise e circostanziate: nessuno di questi architetti aveva tenuto nel debito conto le condizioni francesi; tutti i progetti erano troppo elaborati, troppo barocchi, per il gusto indigeno. Soltanto Bernini fu sul punto di imporre il suo gusto a Parigi, grazie all’appoggio diretto del re, ma alla fine anch’egli dovette rinunciare. I suoi primi progetti erano stati respinti, dopodiché fu invitato a esibirne altri e a venire a Parigi di persona per discutere il problema e fu quindi portato al cospetto del re nel giugno del 1665. Colbert desiderava la grandiosità, ma, da buon amministratore, non poteva trascurare il problema della spesa e della precisa disposizione delle sale. Bernini non collaborò, anzi, non si rese mai veramente conto di quella che era una differenza essenziale tra la monarchia francese e il papato, a lui ben noto: nonostante la storia secolare dell’istituzione, ogni nuovo Papa si preoccupava soprattutto di eclissare il suo predecessore e di ricominciare tutto ex novo, mentre un re francese succedeva sempre a un padre da lui riverito, perciò non nutriva l’ambizione di gettarne la memoria nell’oblio. La corte era divisa in fazioni; il re personalmente gli restò favorevole, ma a ottobre Bernini era già sulla via del ritorno. Durante il soggiorno parigino Bernini aveva dato una prova insuperabile del suo genio. Aveva avuto l’incarico di scolpire un busto marmoreo del re e in tale occasione finalmente trovò un soggetto degno delle sue esaltate visioni della regalità [fig.]. Per di più era la prima volta che aveva l’occasione di ritrarre un principe dal vero. Il busto da lui scolpito nel 1665 si pone come la più poderosa testimonianza dell’assolutismo regio che mai sia apparso nelle arti figurative e Luigi, impressionato, commissionò all’artista un monumento equestre. Bernini vi si dedicò nei quattro anni successivi al suo ritorno a Roma. Mai come in quel momento la Francia si era sentita grande; nessun altro paese poteva rivaleggiare con lei in potenza militare, in letteratura e in qualsiasi altro campo. Il monumento di Bernini non incontrava però eccessivo favore: gli era stato detto di basarsi sulla sua statua di Costantino in Vaticano, e ora questi echi di pretese ultramontane dovevano apparire stridenti e inopportuni; sul piano puramente estetico, poi, si era ormai sviluppato un gusto indigeno cui ripugnava l’esuberanza italiana. Luigi addirittura voleva fare a pezzi la statua, ma poi vi rinunciò, limitandosi a esiliarla nell’angolo più remoto dei giardini di Versailles. Presto Girardon vi eseguì i necessari ritocchi, trasformandola in una figura di Marco Curzio. Si è detto spesso che l’insuccesso parigino di Bernini segna il crollo del prestigio artistico italiano in Francia. Luigi XIV, con la piena adesione dello stesso Bernini, nel 1666 fondò a Roma l’Accademia francese, con lo scopo dichiarato di 45 L’attività di collezionista di Lord Exeter fu importantissima per gli inglesi. Sappiamo che presentò Carlo Maratta a numerosi membri della nobiltà e ciò accade non molto tempo prima che le biografie italiane incominciassero narrare vivacemente come i “milordi” inglesi visitassero continuamente le botteghe degli artisti, pagassero prezzi favolosi e invitassero artisti di ogni parte d’Italia ad andarsi a stabilire in Inghilterra. Fu proprio questo indiscriminato entusiasmo a dar vita alle teorizzazioni di Anthony Ashley-Cooper, conte di Shaftesbury, l’esteta di gran lunga più raffinato del tempo in Inghilterra. Nel 1711, Lord Shaftesbury fu costretto a ritirarsi a Napoli per ragioni di salute. Qui frequentò i circoli intellettuali, comperò tele per gli amici inglesi e decise finalmente di mettere in pratica le sue idee in campo estetico. Scelse per il suo esperimento il pittore Paolo De Matteis, al quale diede indicazioni precise per un quadro raffigurante “Ercole al bivio tra il Vizio e la Virtù” [fig.]. Le nobili idee di Lord Shaftesbury e la sua concezione dell’artista come esecutore meccanico non erano nuove, ma raramente erano state applicate con tanto rigore. Per quanto le sue idee fossero destinate a suscitare molto maggior interesse nei teorici che non degli artisti, egli rimase soddisfatto del risultato e ordinò a De Matteis un altro dipinto. Fu uno dei primi a mettere in risalto il contributo che l’arte può dare al progresso della civiltà. Per quanto gli inglesi ben presto dimostrassero una decisa preferenza nazionale per il ritratto, le vedute e i paesaggi a spese delle “istorie” da lui raccomandate, l’intensificarsi nel Settecento della passione per l’arte in Inghilterra è dovuta in qualche misura al suo esempio e alle sue raccomandazioni. 5. Le condizioni del mecenatismo artistico in Italia erano totalmente mutate nella seconda metà del Seicento. I pittori erano costretti a guardare al Nord anziché a Roma, mentre era in atto un’italianizzazione dell’Europa. Per di più la perdita del potere dei papi aveva contribuito non poco al sorgere di numerosi e attivissimi “centri provinciali”. L’arte romana, rappresentata soprattutto da Carlo Maratta, continuava naturalmente a godere di grande fama, ma non era più la sola, dato che ormai gli aspiranti collezionisti inglesi e tedeschi potevano rivolgersi anche a Bologna, Venezia e a Napoli. Gli artisti di queste città inviavano le loro opere a Londra, Parigi, Vienna, Monaco, Stoccolma e a Madrid. Tra la fine del Seicento i primi del Settecento l’isolamento si ruppe ulteriormente, quando alcune complicate vicende belliche portarono l’Italia al centro della politica internazionale spezzando uno status quo che era rimasto in gran parte inalterato per quasi centocinquant’anni. Nel 1684 Venezia entrava nella Lega Santa con il Sacro Romano Impero e con il re della Polonia. Poi venne la guerra di successione spagnola. Vittorio Amedeo di Savoia divenne il più importante sovrano indipendente in Italia. Gli austriaci conquistarono la Lombardia e presero Napoli agli spagnoli. Questi cambiamenti (Trattati di Utrecht e di Rastatt, 1713- 14) si ripercossero sul mecenatismo dell’arte italiana. I comandanti militari di tutte le parti belligeranti commissionavano opere ai maestri locali e furono serviti con lodevole imparzialità dagli artisti di molte città. Questa fu un’occasione molto importante in quanto suscitò l’interesse per la pittura contemporanea italiana in alcuni giovani appassionati che cominciavano a dar segni di stanchezza per lo stile “ufficiale” di Versailles. Numerosi alti ufficiali di origine italiana, che prestavano servizio nell’esercito imperiale, erano desiderosi di cogliere l’occasione per fornire loro palazzi viennesi di dipinti provenienti dalla loro patria. Per esempio, il maresciallo Caprara commissionò molti dipinti a Bologna, e soprattutto il grande Eugenio di Savoia, fedele all’Italia nelle arti pacifiche quanto lo era all’Austria in quelle belliche, si dimostrò grande appassionato dell’arte italiana. Il principe Eugenio fu effettivamente il più grande prestigioso mecenate privato d’Europa. La sua raccolta di dipinti è andata persa, ma è ancora famosa per la qualità eccezionale dei primitivi fiamminghi in essa contenuti. In fin dei conti il principe Eugenio non fu che uno dei tanti nobili che a quel tempo si interessavano dell’arte italiana. La liberazione dalla minaccia dei turchi e la vittoria dell’Austria sulla Francia misero Vienna sullo stesso piano delle grandi capitali europee, una specie di nuova Roma, un centro artistico che rivaleggiava con la vecchia città italiana. A Vienna da ogni parte d’Italia arrivavano dipinti ad arricchire le nuove collezioni che si venivano formando in città. Vienna aveva una cultura e una civiltà che gli italiani potevano facilmente comprendere e quest’appassionato interesse per l’arte italiana in terra d’Austria condusse all’ultima vittoriosa battaglia del barocco in un mondo che stava ormai mutando completamente. Un altro Stato continentale riemerse trasformato dalla guerra di successione spagnola, quello dei Savoia. La struttura a Torino, per la maggior parte del Seicento, aveva avuto un importante ruolo europeo, ma il mecenatismo nel campo della pittura non si era quasi mai elevato al di sopra della mediocrità provinciale. Il re Vittorio Amedeo fu capace, con l’aiuto del suo consulente artistico Filippo Juvarra, di cambiare le cose. VIII. LA SCENA PROVINCIALE 1. Il mondo nuovo aveva contribuito a ristabilire gli equilibri della vecchia Europa, ma nell’Italia stessa si continua a praticare un generoso mecenatismo. In tutte le città più importanti lo si considerava come il necessario complemento della ricchezza e del potere e ovunque fiorivano scuola di pittura, volute e aiutate dalle grandi famiglie nobili e dagli ordini religiosi. In tutti i centri più floridi italiani erano anche importanti i mecenati appartenenti alle classi professionali, come ad esempio a Bologna quella dei medici. Ma furono soprattutto i mercanti, specialmente alla fine del secolo, ad avere un ruolo di grande importanza nella vita artistica della città, come Belloni e Bellucci, ma senza dubbio la figura più colta e interessante in questo piccolo gruppo di mercanti bolognesi illuminati fu Giovanni Ricci. Questo ricco intelligente mecenate dimostrò di avere buon occhio per numerosi artisti contemporanei, soprattutto Burrini e il giovane Crespi. 46 A Napoli furono gli avvocati, tanto importanti nella vita culturale della città, a mettersi particolarmente luce per il sostegno dato alle arti. Spicca su tutti la figura di Giuseppe Valletta, protettore di Luca Giordano. Comunque questi uomini, per quanto il loro sostegno si rivelasse indispensabile alla sopravvivenza della pittura italiana, non potevano certamente ricreare l’atmosfera della Roma dei Barberini e della loro cerchia. Le guerre che coinvolsero l’Italia agli inizi del Settecento, il maggiore afflusso di viaggiatori stranieri, il declino della Spagna e infine le riforme dei despoti illuminati diedero nuova vita cosmopolita ad alcune città-Stato italiane. Il più importante e influente tra tutti i mecenati fu senza alcun dubbio il mercante fiammingo Caspar Roomer. Nel 1634 viveva a Napoli e possedeva una notevole galleria di quadri. La sua fortuna derivava dalle attività di amatore commerciante, ma la maggior parte dei suoi affari si svolgeva nei Paesi Bassi. Morì nel 1674 lasciando una fortuna enorme, destinata in gran parte a scopi benefici, una collezione di 1500 dipinti, che andarono rapidamente dispersi. Come molti fiamminghi amano i piaceri della vita, Roomer aveva un gusto particolare per il grottesco, l’orrido, il crudele che i pittori di Napoli erano abilissimi a soddisfare. In effetti prediligeva e caravaggeschi: oltre a sette Ribera, possedeva tre dipinti di Caracciolo, tre di Massimo Stanzione e tre di Carlo Saraceni. A Roomer però piacevano soprattutto i piccoli paesaggi e le tempeste di mare, gli animali le nature morte con frutti e selvaggina. L’abbondanza fertile e selvaggia del suo lontano paese si mescolava alla crudeltà e la sensualità della patria adottiva. Tra le sue attività commerciali c’era anche il commercio di quadri: mandava dipinti napoletani nei Paesi Bassi, molto probabilmente in cambio di opere di suoi connazionali. Nel 1640 entra nel suo palazzo uno dei dipinti più importanti di tutta la collezione, un grande “Banchetto di Erode” di Rubens [fig.], una tela di grande formato. La causa provocò una grande impressione a Napoli, poiché non si era mai visto nulla di simile nella galleria di Roomer. Lo sfarzo e il colore del grande dipinto di Rubens sottintesero o forse stimolarono una certa tendenza di Roomer verso dipinti meno realistici, sia per soggetto sia per stile, di quelli che fino a quel momento avevano costituito la maggior parte delle opere della sua collezione. Fu senza dubbio molto importante poiché era considerato l’uomo più ricco di Napoli, la sua raccolta di quadri era certamente la più vasta della città e soprattutto era permanente poiché i viceré spagnoli, i suoi rivali in quel campo, cambiavano di continuo. In quel periodo viveva nell’Italia meridionale un altro lungimirante mecenate. Don Antonio Ruffo era nato a Messina da famiglia aristocratica, ma ciò non gli impedì di dedicarsi ai commerci. Egli dedicò la maggior parte della sua vita al mecenatismo delle arti, il suo palazzo Messina divenne il centro della vita culturale locale fino alla sua morte. Vi si trovano più di 350 dipinti eseguiti da pittori di tutta Italia e anche di fuori. Ruffo incominciò a collezionare dipinti verso il 1646, nel suo palazzo sito in strada Emmanuela. Molte testimonianze indicano che si interessava personalmente delle opere che commissionava e stupisce dunque non poco che non si curasse minimamente di dipinti che non fossero i suoi. Pare che non fosse mai andato più in là della Calabria e tutto quello che sapeva di maggiori pittori italiani e stranieri gli proveniva esclusivamente dai suoi agenti (partenti, amici, artisti da lui impiegati e i mercanti di quadri). Egli poi scriveva gli artisti per ordinare le opere desiderate. Lo guidavano due considerazioni, le dimensioni e la spesa. I suoi quadri doveva adattarsi ad uno schema simmetrico e talvolta desiderava averli in coppia. Solo quando Ruffo riceveva Messina per la prima volta l’opera di un artista decideva se ordinarne o meno altre della stessa mano. Si preoccupava di possedere una collezione rappresentativa delle opere di tutti i maggiori artisti contemporanei. I suoi acquisti notevoli e splendidi furono tre Rembrandt, che ammirava moltissimo poiché le dottrine classicistiche tanto forti a Roma avevano scarsa presa su di lui, e Guercino che era senza dubbio uno dei suoi pittori favoriti. Ma, naturalmente, nella sua galleria erano molto più numerosi i quadri di pittori napoletani e meridionali in genere. Prevalevano nettamente sugli altri i temi sacri, ma non mancavano soggetti floreali, paesaggi ed altri temi di tutti i generi. Va detto che la pittura napoletana si diffuse ben oltre le frontiere dell’impero spagnolo. Gli artisti napoletani acquistarono un prestigio internazionale. Neppure a Firenze mancarono gli appassionati dell’arte napoletana. Il centro principale di questo nuovo interesse era una bella casa, sita in via Chiara, vicino alla chiesa di Santa Maria Novella. Qui abitavano tre fratelli, Andrea, Lorenzo e Ottavio Del Rosso, collezionisti tra i più notevoli del tempo che discendevano da una famiglia di ricchi mercanti. Introdussero oltre 100 dipinti napoletani a Firenze, molti provenienti dalla collezione Roomer dopo la sua dispersione nel 1674, più di 60 dei quali erano di Luca Giordano. Egli era il principale agente artistico dei Del Rosso a Napoli e furono proprio loro, probabilmente, che si adoperarono affinché fosse invitato a dipingere la cappella Corsini nella chiesa del Carmine, opera che a sua volta fu il preludio dei grandi affreschi di Palazzo Riccardi; commissioni che stimolarono la rinascita dell’arte a Firenze negli ultimi decenni del secolo. Giordano dipinse per loro opere di vario genere, tra cui un gran numero di soggetti erotici e serie di favole mitologiche. Ma essi possedevano anche sue opere sacre, oltre ai dipinti puramente devozionali. Questo nuovo gusto per la pittura “non finita”, per la pennellata a grandi tratti vigorosi e vivaci avrebbe caratterizzato il Settecento e avrebbe avuto un altro adepto appassionato a Firenze nel gran principe Ferdinando de’ Medici. Fenomeno isolato e particolarmente interessante, la raccolta dei Del Rosso, volta soprattutto verso Napoli, trascurava completamente Roma. L’importanza che la pittura napoletana aveva assunto in tutta Italia verso la fine del Seicento è attestata dalle collezioni di altri mecenati che seppero guardare al di là della città in cui vivevano, come accade a Genova e a Venezia. 47 2. I mecenati fin qui considerati vivevano in centri di grandi e antiche tradizioni artistiche, caratterizzati da fiorenti scuole locali. Ecco perché la tradizione locale costituiva la struttura portante delle loro collezioni, che solo in un secondo tempo venivano arricchite di opere provenienti da altri luoghi, di solito da Napoli. Più complesse erano le difficoltà che doveva affrontare un collezionista residente in una città priva di particolari tradizioni e di scuole locali su cui ripiegare. In tal caso il mecenate era costretto a commissionare le opere d’arte quasi esclusivamente in città lontane e ciò gli permetteva libertà di scelta. La conseguenza fu che, tra la fine del Seicento e gli inizi del Settecento, alcune delle più interessanti collezioni d’arte italiana si trovavano in città con pittori locali di poco conto. A Bergamo, Ferrara, Macerata, Lucca, molto più facilmente che non nella stessa Roma, un viaggiatore intraprendente poteva trovare tutte insieme opere dei più giovani pittori di ogni parte d’Italia. L’aspetto più singolare di queste collezioni stava per l’appunto nella loro mancanza di interesse per la pittura romana. In questi centri provinciali potevano prendere forma orientamenti nuovi basati su canoni di gusto completamente diversi. Si tratta di un tipo di mecenatismo che porterà alla demolizione dei valori della cultura romana. I lavori per la chiesa di Santa Maria Maggiore di Bergamo erano iniziati nel 1137 e continuarono saltuariamente nei secoli successivi. Tutta la decorazione fu cambiata poi a partire dalla seconda metà del Cinquecento. Incominciarono a comparire pale d’altare eseguite da artisti locali e veneti, e presto una ricca e pesante decorazione a stucco si insinuò all’interno della cupola, progettata nel 1612 dall’architetto milanese Francesco Maria Ricchini. Due anni dopo il pittore bergamasco Giampaolo Cavagna, con l’aiuto di altri due artisti locali, completava la decorazione della cupola con affreschi raffiguranti angeli profeti. L’interno aveva un aspetto confuso e disorganico, dato l’evidente contrasto tra le decorazioni di periodi tanto diversi. Nel 1653, infine, il Consiglio del Consorzio decise di avviare un vasto programma di decorazione soprattutto con il proposito di fornire di dipinti la crociera del transetto. Fu nominato un comitato con la facoltà di far dipingere la zona. Il compito era vasto e i problemi difficili. Non esistevano più artisti bergamaschi che fossero all’altezza e occorreva quindi rivolgersi altrove. La scelta fu difficile e tortuosa, ma nel 1657 un pittore cremonese, Ottavio Cocchi, si offrì di propria iniziativa di eseguire uno dei dipinti, la proposta fu accettata. È chiaro che i lavori per la chiesa esercitarono una forza attrattiva su artisti di importanza relativamente secondaria. Nello stesso anno il comitato incominciò a darsi da fare per trovare un pittore al quale affidare una delle tre vastissime tele destinate a essere collocate sopra le porte principali della chiesa. Il lavoro venne poi affidato a un cappuccino, padre Massimo, che aveva già dipinto alcune pale d’altare nel Veneto. L’opera, un vigoroso ed efficace rifacimento di Paolo Veronese, piacque tanto che il comitato tentò di convincere i Cappuccini, con la promessa di generose ricompense, a concedere a padre Massimo il permesso di risiedere temporaneamente a Bergamo onde potervi eseguire altri dipinti. Ma questo non fu accettato. A quel punto il comitato rivolse la sua attenzione alla volta del transetto Nord, per il quale occorrevano 13 dipinti che corrispondessero a quelli del transetto sud. Mentre per la prima fase della decorazione il comitato aveva guardato soprattutto a Milano, ora fu invece l’altra grande fonte, Venezia, a fornire gli artisti. Nel 1660 venne infatti stipulato un contratto con Pietro Liberi, il più famoso pittore del tempo a Venezia, noto in tutta Europa. Finalmente Santa Maria Maggiore riusciva, o almeno così pareva, ad attirare un pittore di grande fama. La prima tela però non piacque al comitato. E, solo dopo che egli l’ebbe rifatta come gli era stato chiesto, il dipinto fu infine collocato sopra la porta sud, dov’è tuttora. Purtroppo non è possibile sapere perché le tele di Liberi incontrassero un’accoglienza tanto ostile. Pare probabile che Liberi, noto per la grande indecenza dei suoi nudi, urtasse la suscettibilità dei bergamaschi, non abituati ai più sofisticati gusti veneziani. Visti fallire gli approcci veneziani, il comitato dovette rivolgersi altrove. Ciro Ferri, l’artista chiamato a sostituire Liberi, era il più fedele seguace di Pietro da Cortona. Fu invitato a recarsi subito a Bergamo. L’artista obiettò di non poter lasciare Firenze in quel momento e propose perciò che gli venissero mandate le necessarie istruzioni onde poter preparare subito dei bozzetti da sottoporre in seguito all’approvazione del comitato. L’idea fu accolta e dopo alcuni mesi finalmente Ciro Ferri arrivò a Bergamo e nel 1665 eseguì i 16 dipinti mancanti. Rimanevano così da eseguire tre dipinti: per le porte nord e ovest e per la parete interna del transetto settentrionale. Il comitato si trovò di nuovo in difficoltà rispetto alla scelta. Vari artisti si offrirono spontaneamente e infine fu accettata la candidatura di un giovane veneziano, Antonio Zanchi. Per quanto riguardava “Il sacrificio di Noè”, l’opera che doveva essere posta sopra la porta della cappella Colleoni, il comitato decise di bandire un concorso (1677). Presentarono dei bozzetti tre artisti, ma vinse Federico Cervelli di Milano. Il grande dipinto a olio “La traversata del Mar Rosso” fu affidato nel 1682 al pittore più famoso tra tutti quelli che lavorarono per l’ambiziosa impresa: Luca Giordano. L’artista era a quel tempo al culmine della sua carriera napoletana. A questo punto occorrevano ancora 14 dipinti per la navata centrale. A Roma il pittore svizzero Ludovico David sentì parlare dei dipinti occorrenti per la chiesa bergamasca. Ansioso di dar prova di sé in una «sede tanto notevole», inviò per lettera informazioni particolareggiate sulla propria carriera e si offrì di eseguire lui tutti dipinti nello spazio di due anni e mezzo dietro un compenso. Il comitato propose invece che artisti di ogni parte d’Italia eseguissero tre dipinti ciascuno. Alla fine del periodo prefissato le tele sarebbero state esposte in pubblico, a Roma, in modo che ognuno dei pittori potesse vedere l’opera dei rivali e la popolazione far le sue critiche ed esprimere i suoi giudizi. Le tele, poi, sarebbero state inviate alle tre Accademie e università di pittura, di Firenze, Bologna e Venezia «le quali tre sono giudicate le più intelligenti d’Italia dopo quella di Roma, che in questo caso deve essere esclusa per lo sospetto di parzialità». L’artista che fosse stato considerato il migliore sarebbe stato infine incaricato di dipingere anche tutto il resto. 50 sua produzione. Inoltre, il principe diede un riconoscimento ufficiale alla posizione a corte dell’artista nominandolo suo «pittore attuale». Entrambi ricavarono grandi benefici dalla stretta amicizia che li univa. Ferdinando fu il collezionista più raffinato e sensibile tra quanti Crespi ebbe mai modo di conoscere e nella sua galleria poté studiare a suo agio quei pittori veneziani che amavano tanto ambedue. Altrettanto importante fu l’aiuto che gli diede Ferdinando nel cercare di staccarsi dai temi historici convenzionali. Ferdinando collocò la collezione che evidentemente aveva maggior importanza per lui in una sala della sua residenza di campagna preferita, la villa di Poggio a Caiano. Può darsi che la considerasse la propria risposta personale alla Tribuna degli Uffizi dove suo padre aveva fatto collocare le più grandi sculture antiche e alcuni dei più celebri dipinti posseduti dalla sua famiglia. Lì conservava il suo «gabinetto di piccole opere di tutti i più famosi pittori». Tra questi ce n’erano alcune che gli erano state donate e altre che aveva comprato egli stesso e dipinti italiani di ogni genere e soggetto; possedeva anche grandi collezioni a Pratolino e nella villa di Castello. Tuttavia le attività di Ferdinando come mecenate non si limitarono all’incremento della sua collezione e all’incoraggiamento di quegli artisti che colpivano particolarmente la sua fantasia; egli si preoccupava anche di guidare l’evoluzione della pittura fiorentina del suo tempo. Trasse profitto dalle esposizioni d’arte, servendosene in un modo del tutto nuovo. Prese a parteciparvi esponendo le opere dei suoi pittori preferiti, come per esempio Gabbiani. Ma Ferdinando probabilmente ritenne che queste mostre fossero troppo occasionali per produrre l’effetto sperato, e nel 1706 organizzò qualcosa di molto più grandioso, di cui fu anche stampato un catalogo. La mostra si tenne nel giorno di San Luca nella cappella dedicata al santo nei chiostri dell’Annunziata. Furono esposti circa 250 dipinti, quasi tutti presi a prestito dalle grandi collezioni fiorentine, ma nessuno da quella del granduca. In generale, nell’ambito dell’esposizione i quadri veneziani costituivano uno spettacolo imponente. Già al momento della sua morte la scuola veneziana era universalmente riconosciuta come la più viva in Italia. Per alcuni anni aveva trasformato Firenze in un centro del «pittorico», in opposizione diretta alle teorie classiche e accademiche che dettavano legge a Roma, e non sorprende che molti artisti temessero giustamente di vedere soffocate a Roma le loro qualità e desiderassero invece lavorare per lui. Parte Terza: VENEZIA IX: STATO, NOBILTÀ E CHIESA 1. Una sorprendente contraddizione percorse tutta la storia di Venezia nel Settecento. La città era uno dei più grandi centri cosmopoliti di tutta Europa, punto di incontro riconosciuto del turismo internazionale. Eppure il governo tentava sistematicamente di tenere Venezia isolata il più possibile dagli influssi stranieri e da tutte quelle forze che stavano trasformando le idee sul mondo e che si riassumono nel termine generale di Illuminismo. Per compensare questa intrinseca debolezza il desiderio ossessionante di immobilità, lo Stato si ripiegò nella contemplazione dei sogni del passato. La finzione che Venezia fosse ancora una grande potenza era tenuta in piedi con ogni artificio di cui disponesse lo Stato e naturalmente ne risentiva la pittura che veniva commissionata. “Nettuno rende omaggio a Venezia” [fig.] di Tiepolo è la perfetta la illustrazione di questa situazione: per quanto dipinta verso il 1745, in un momento in cui i commerci veneziani davano soltanto preoccupazioni, l’opera esprime il più assoluto ottimismo. Le commissioni di Stato agli artisti, che in precedenza erano state di enorme importanza, erano virtualmente finite e ora i più grandi artisti dovevano le loro maggiori opportunità di lavoro alle grandi famiglie patrizie della Repubblica. Il governo e i più alti gradi dell’amministrazione statale erano infatti nelle mani della nobiltà. A causa delle guerre contro i turchi che nel Seicento avevano dissanguato l’erario, il Senato era stato costretto ad ammettere in sempre maggior numero nuove famiglie che pagavano il diritto di entrare a far parte della nobiltà. Questi nobili di data più recente, spesso trattati con disprezzo dalla più antica aristocrazia ed esclusi dalle leve principali dell’amministrazione, avevano un’ambizione precisa: nascondere le loro origini mercantili e integrarsi nello stato di cose esistente. La storia del mecenatismo artistico veneziano nel Settecento si identifica in gran parte con la storia delle forze che modellarono nei vari momenti i gusti dell’aristocrazia. Tali gusti si riflettevano nella scelta degli artisti, dei temi, degli stili. Il declino del mecenatismo di Stato delle arti comportò inevitabilmente l’assunzione di tale compito da parte del numero limitato di famiglie che tenevano in pugno il potere economico. Questa attività era infatti considerata un logico corollario della condizione aristocratica e molto spesso non si collegava necessariamente a un amore e a un gusto precisi. Mentre i dipinti più noti di Veronese e di Tintoretto erano stati dedicati alla glorificazione di Venezia, Tiepolo venne impiegato di preferenza per esaltare singole famiglie. Dato il sistema di governo, il mecenatismo era sempre stato aristocratico, ed era perciò naturale che la stessa aristocrazia improntasse di sé la pittura veneta più di quanto non avvenisse in qualsiasi altra nazione. Nel Seicento era avvenuto un notevole mutamento; si dedicava sempre maggior attenzione all’individuo a scapito dello Stato o di Dio. Per esempio Antonio Barbaro, che aveva combattuto nella guerra di Candia, destinò la facciata di Santa Maria del Giglio a rappresentare un’apoteosi di sé e dei suoi fratelli. La facciata della chiesa compare così completamente priva di ogni simbolo religioso. Negli ultimi anni del Seicento la smania di ostentazione della nobiltà ebbe uno sviluppo spettacolare, il nuovo atteggiamento fu espresso nel modo più efficace da Leonardo Pesaro, nipote del doge Giovanni 51 che nel 1669 fece erigere ai Frari un monumento dello zio che superava in grandiosità tutto ciò che si era visto prima [fig.] e si fece costruire un vasto palazzo di famiglia sul Canal Grande. Le nuove classi mercantili stavano comprando il diritto di entrare a far parte dell’aristocrazia facendo sentire sempre di più la loro presenza attraverso lo splendore del loro mecenatismo. In provincia, talvolta, l’erezione di magnifici palazzi costituiva un pazzo essenziale per la conquista di uno status politico. All’inizio del Settecento quattro o cinque famiglie, la cui nobiltà era abbastanza giovane, erano tra le più attive nel concedere splendida protezione alle arti. Si diceva che gli Zenobio fossero la famiglia più ricca della città. Il loro palazzo ai Carmini era dipinto da un ciclo di grandiosi affreschi mitologici dell’artista francese Dorigny entro una pesante ed elaborata cornice architettonica dipinta di tipo bolognese. Questi affreschi avevano lo scopo di celebrare le virtù della famiglia e la protezione da questa concessa alle arti. I Widmann avevano uno splendido palazzo vicino a San Canciano che decorarono sontuosamente con un ciclo di grandi tele di Lazzarini raffiguranti episodi della vita di Scipione l’Africano, mentre la loro residenza di campagna fu abbellita da Dorigny, Bambini e altri con affreschi raffiguranti il mito di Diana e Atteone. Anche i Labia, ricchi mercanti di origine catalana, stavano costruendo un enorme palazzo e facevano di tutto per ostentare il più possibile le loro grandi ricchezze. Essi possedevano la più grande collezione veneziana di dipinti di Luca Giordano. Su tutti spiccano forse i Manin, di origine friulana, instancabili nel decorare palazzi, ville e chiese a Venezia e nei dintorni. Essi inducevano alla megalomania esibizionistica più di qualsiasi altra famiglia “nuova”. Possedevano un palazzo sul Canal Grande. Superiori a ogni aspettativa erano poi il valore e lo splendore delle decorazioni interne; le pareti erano ricoperte di ricchissime tappezzerie e le stanze di specchi scintillanti. Per l’arte contemporanea i Manin si rivolsero a Bologna: possedevano due dipinti di Cignani, l’artista più costoso d’Italia. I marmi (o gli stucchi) policromi, spesso tagliati in modo da apparire come grandi drappeggi di tessuti, costituivano il marchio dello stile Manin. Il gusto per uno splendore senza pari e l’amore nell’ostentazione erano naturalmente condivisi da famiglie vecchie e nuove. C’era anche una certa riluttanza a rompere con il passato: gli artisti di maggior successo, Zanchi, Lazzarini, Balestra, Dorigny, Bambini e altri erano soprattutto quelli più intimamente legati al gusto seicentesco. Quando negli anni Venti del Settecento Giambattista Tiepolo iniziò la sua carriera e conobbe immediato successo, quello che sedusse fu proprio il suo stile vigoroso e teso, che si adattava alla perfezione ai soggetti che gli veniva chiesto di dipingere: scene di battaglia e di trionfo, tratte per lo più dalla storia romana, poiché molte famiglie veneziane vantavano ascendenze romane. Il più notevole esempio ne sono indubbiamente le 10 vaste vigorose scena che Tiepolo dipinse per i Dolfin, i suoi maggiori mecenati degli anni Venti; si tratta di episodi della storia romana. Dionisio Dolfin si trasferì a Udine, sede del vescovado. Nel 1708 costruì una sontuosa residenza che fece decorare di affreschi da Nicolò Bambini, che adornò anche il salone del palazzo di famiglia a Venezia di grandiosi affreschi celebranti lo splendore della Repubblica e della famiglia Dolfin. Per la stessa sala Tiepolo dipinse le sue epiche tele e intorno al 1727, appena finito il lavoro, Dionisio lo invitò a Udine per affidargli gli affreschi della cattedrale e del nuovo palazzo arcivescovile. Dopo un inizio abbastanza melodrammatico, l’artista mutò gradualmente stile. La tenebrosa gravezza dei suoi primi lavori era ora sostituita da un’aristocratica nitidezza di linea e da una gamma completamente nuova di colori posti su uno sfondo leggero e arioso. Anche per Tiepolo come per tanti altri artisti veneziani la rottura definitiva con il presente stile seicentesco non avvenne nella sua città natale, così intimamente legata al passato. Tra il 1730 e il 35 l’artista fu spesso chiamato lontano da Venezia e, a ogni ritorno, la sua tavolozza appariva sempre più lieve e i soggetti mutati. Tiepolo era richiesto come non mai. Lavorò senza sosta per un’aristocrazia che si stava sempre più differenziando nei suoi singoli componenti. Le ambizioni dei nobili non erano più militari e presto non sarebbero state nemmeno politiche. In mancanza di grandi imprese pubbliche, l’aristocrazia era costretta a ripiegare sulla celebrazione di fatti privati. I nobili si rifugiarono così in un favoloso mondo di sogno, splendido di colori e di luci, in cui i matrimoni e le storie di famiglia assumevano importanza enorme, tanto da godere della benevola attenzione delle divinità pagane e di quelle cristiane. A questo mondo Tiepolo diede vita immortale registrando gli eventi più notevoli del calendario aristocratico in una serie di allegorie encomiastiche. Mai nella storia si era verificato un tale scollamento tra la fantasia artistica e la vita reale di tutti i giorni come nella Venezia della metà del Settecento. Mentre l’antico peso internazionale dell’aristocrazia andava declinando, la glorificazione che ne faceva Tiepolo toccava nuove e vette. La più sorprendente di tutte, degno coronamento della sua attività veneziana, fu la grande opera dipinta da lui prima di lasciare per sempre la città, l’“Apoteosi della famiglia Pisani” nella villa di Stra, nota per essere il più grandioso palazzo costruito nel Settecento nelle vicinanze di Venezia; qui Tiepolo concepì la più straordinaria allegoria di una famiglia che avesse mai dipinto. In essa non vengono celebrati i fondatori della stirpe, ma i membri viventi della famiglia. Una simile forma di adulazione era alla portata di qualsiasi nobile, purché pagasse. Esisteva un repertorio ben noto di episodi greci e romani che era stato codificato nel Cinque e Seicento e si prestava a illustrare le virtù artistiche e allora gli artisti vi si adeguarono. Particolarmente popolare era il tema del sacrificio, poiché soddisfaceva l’amore del secolo per il melodramma, alludendo nello stesso tempo alle responsabilità del potere. Ma l’antichità forniva anche una riserva di soggetti più allegri; Tiepolo e i suoi seguaci dipinsero frequentemente il “Banchetto di Antonio e Cleopatra”, che rendeva gloria alla bella regina orientale capace di tenere testa, con la sua astuzia e la sua ricchezza, al rude eroe accidentale. Era quasi certamente una velata allusione alla politica di Venezia di quegli anni. 52 Sogni tanto sfrenati di grandezza e potenza tennero in vita la pittura storica a Venezia in un periodo in cui questa stava declinando per vigore espressivo e importanza in tutta Europa. Una parte del fervore morale che avrebbe caratterizzato la rinascita della pittura storica in Francia verso la fine del Settecento viene qui espressa da un’aristocrazia orgogliosa ma in pericolo che trovò il suo campione in Tiepolo. Infatti quei francesi che verso la fine del secolo tanto si preoccupavano di far rivivere la pittura storica nel loro paese furono ferventi ammiratori di Tiepolo. Solo raramente Tiepolo abbandonava i suoi sogni grandiosi per cedere alle lusinghe della pura fantasia. L’esempio più singolare di questa diversa maniera è costituito dal bel ciclo di affreschi che illustrano alcuni episodi romanzeschi tratti da Omero, Virgilio, Tasso e Ariosto, che egli dipinse per la famiglia Valmarana a Vicenza. Nella schiera di patrizi che ornavano i loro palazzi e ville con le allegorie delle loro virtù o scene tratte dalla storia di famiglia, uno aveva particolarmente colpito i contemporanei per rettitudine, autorità intellettuale e statura politica. Marco Foscarini discendeva da una delle più antiche famiglie veneziane. Il suo palazzo di famiglia, di fronte alla chiesa dei Carmini, fu più volte decorato con grande fasto. Foscarini si interessava più di libri che non di quadri e si dedicava soprattutto alla sua splendida biblioteca di manoscritti. I dipinti che commissionò erano soprattutto destinati a illustrare i suoi interessi letterari, e non sembra che, tranne una sola eccezione, impiegasse i maggiori artisti del momento. Sappiamo assai poco dei quadri da lui posseduti, oltre al fatto che rappresentavano i grandi scrittori di Venezia. Nella sua collezione sono presenti anche busti in marmo, avorio e metallo delle grandi figure del passato. Da quel che si è detto finora risulta chiaro che almeno certi artisti furono protetti e aiutati in modo considerevole nella prima metà del secolo. L’abate Moschini affermava espressamente che alle arti non era venuto a mancare il sostegno. Alcuni patrizi addirittura ospitavano nelle loro case artisti affermati come membri della famiglia. Eppure ci si accorge che tale mecenatismo era più ristretto, per natura e portata, di quanto non appaia a prima vista. Per esempio, insistendo sulla propria glorificazione, gli aristocratici indussero gli artisti a dedicarsi soprattutto all’affresco dei soffitti, meno ai dipinti. Apprendiamo dai viaggiatori stranieri che i quadri venivano appesi alle pareti a scopo puramente decorativo. Certamente nuove tendenze in fatto di decorazione di interni contribuirono a limitare la possibilità di spazio sulle pareti; inoltre nei palazzi delle famiglie più antiche le gallerie erano ormai piene di opere accumulate nel corso dei secoli; ma non furono questi i fattori decisivi. Ancor più difficile è dare un’esatta valutazione della situazione economica. Si sa con sicurezza che molte famiglie, anche importanti, videro, nel corso del secolo, dileguarsi le loro ricchezze, mentre il denaro si concentrava in un gruppo di famiglie sempre più ristretto. Se si paragonano i compensi richiesti da diversi artisti, si vede che almeno quelli di maggior successo erano ritenuti molto alti dalla concorrenza straniera. La cosa abbastanza curiosa è che grandi dipinti “storici” e persino i cicli decorativi di ampie dimensioni erano relativamente meno cari delle opere di piccolo formato di artisti alla moda con clientela cosmopolita. I nuovi nobili non avevano naturalmente problemi di spazio o di denaro ed è perciò ancor più difficile spiegare la loro riluttanza ad acquistare opere di pittori contemporanei. Il possesso di una vasta galleria di quadri era considerato un indispensabile corollario al titolo nobiliare ed è sorprendente vedere che nel Settecento l’unica famiglia patrizia che si creò una collezione di dipinti furono i Grassi. Ma pare che essi, quasi a sottolineare un loro antico lignaggio, ignorassero gli artisti contemporanei, preferendo invece quegli antichi maestri le cui opere si potevano trovare in così gran numero nelle gallerie delle più antiche famiglie. Così, a parte i soffitti magnificamente affrescati, nella prima metà del secolo la nobiltà non brillò di eccessiva fantasia del suo mecenatismo delle arti, infatti troviamo solo un patrizio con una certa personalità come mecenate collezionista, Zaccaria Sagredo. Egli dedicò le sue notevoli risorse finanziarie alla formazione di una ricchissima raccolta di dipinti, disegni, sculture, libri e armature che gli valse tra i veneziani la fama di essere il più grande mecenate del tempo in città e tra i visitatori stranieri quella di essere l’unico o quasi. Riempì il suo palazzo di Santa Sofia di dipinti antichi e moderni, acquistati da precedenti collezioni, commissionati direttamente agli artisti e scelti nelle varie esposizioni. Prese attente precauzioni affinché la sua collezione rimanesse intatta dopo la sua morte, lasciandola in eredità al nipote Gherardo. Ma alla morte sua e poi del nipote, nel 1738 si cominciò subito a progettare di disperdere la collezione. Fu smembrata pezzo a pezzo per un lungo periodo e gli eredi di Sagredo si misero in contatto con tutti coloro che erano interessati e non ebbero scrupolo alcuno a trattare anche con gli stranieri. Sagredo fu anche uno dei primissimi mecenati di Canaletto: si interessò della sua carriera abbastanza per esprimere giudizi sui quadri dipinti per altri clienti. Ebbe rapporti con artisti importanti agli inizi delle loro carriere, quali Tiepolo, Piazzetta, Canaletto, Crespi e Longhi. Egli era appassionato amatore di stampe e disegni: la sua era considerata la più grande collezione di stampe di tutta Europa. Importante per gli sviluppi futuri dell’arte e dei gusti veneziani del Settecento fu una splendida serie di disegni di proprietà di Sagredo, la più bella raccolta del genere, dell’artista genovese Giovanni Benedetto Castiglione. Questa ammirazione per le stampe e i disegni di Castiglione divenne intensa e si diffuse solo dopo la morte di Zaccaria, che era stato dunque probabilmente il primo ad apprezzare e a raccogliere su vasta scala le opere del maestro, forse comprate dal duca di Mantova e Ferdinando Carlo Gonzaga. La collezione di questi disegni costituisce il maggior merito di Zaccaria Sagredo e lo rende degno del titolo di importante precursore delle tendenze e dei gusti successivi. 2. Nel Sei e nel Settecento Venezia conservò quell’indipendenza da Roma che aveva caratterizzato a lungo la sua politica, anche se nel 1657 le difficoltà finanziarie la costrinsero a riammettere nel proprio territorio i Gesuiti in cambio dell’aiuto del Papa. 55 Tra l’aristocrazia whig e gli alti funzionari di corte non mancarono a Ricci numerosi mecenati entusiasti. Pochi mesi dopo fu sostituito in Inghilterra da un altro con patriota, Antonio Bellucci. Tra i suoi primi mecenati vi fu John Sheffield, duca di Buckingham dal 1703, anno in cui aveva incominciato a far costruire la sua grande casa di Londra. Incaricò Bellucci di dipingere le pareti dello scalone con scene raffiguranti Enea e Didone, mentre la volta fu riempita di figure di divinità maschili e femminili; sul soffitto di un’altra stanza, inoltre, Bellucci dipinse un omaggio allegorico a lui e alla duchessa. Il più importante mecenate inglese di Bellucci fu James Brydges, duca di Chandos. Nel 1713 acquistò il vecchio maniero elisabettiano di Canons e impiegò gli anni immediatamente successivi a trasformarlo in un grande palazzo destinato ad accogliere, per la gioia dei suoi amici, magnifici concerti. Affidò a Bellucci il compito di dipingere soggetti allegorici sui soffitti delle sale di rappresentanza sia a Canons sia nella sua residenza londinese e di decorare la cappella. Così per circa un decennio, fino al 1720, i pittori di storia veneziani trovarono in Inghilterra il più largo appoggio. I ricchi, i potenti e gli arbitri della moda fecero a gara per impiegargli nelle nuove dimore dove ostentavano il loro fasto. Per un breve periodo Düsseldorf fu, con Londra e Parigi, uno dei più grandi centri di attrazione per i più audaci artisti veneziani. La città era capitale del Palatinato ed era governata dall’elettore Giovanni Guglielmo, il più interessante tra tutti i mecenati tedeschi dei primi vent’anni del secolo. Egli fu un entusiasta collezionista e mecenate grazie senza dubbio anche al forte impulso del matrimonio con Anna Maria Ludovica, l’ultima erede dei Medici. Ma nonostante l’entusiasmo generalizzato, è uno solo il tema che si ripropone con particolare insistenza: «Un'austera regolarità dell'Arte respinge gli stessi Amatori dell'Arte. Se il Pittore non mostra all'esterno qualche piacere della comodità, che attrae il piacere dell'imitazione nascondendo il difficile, lo Spettatore se ne scoraggia e va altrove. La scienza di piacere all'occhio materiale consiste soprattutto nel cromatismo, cioè nel colorare. Senza questo simpatico fascino il Quadro perde troppo della sua forza, e non ha più questa magia di incantare. Bisogna rallegrare qua e là la sua Pittura di un modo allegro, che regna da un capo all'altro del Pezzo». Fu in questo spirito, particolarmente congeniale agli artisti veneziani, che Giovanni Guglielmo accumulò una collezione di opere italiane tanto ricca, soprattutto di Luca Giordano, e diede commissioni a pittori come Cignani, Franceschini, Dal Sole, Travisani a Bologna e a Roma. Provava inoltre altrettanto entusiasmo, e forse anche maggiore, per gli olandesi. Ma la reale importanza di questa collezione sta altrove: per essa il principe aveva «quasi svuotato tutte le Fiandre e l’Olanda». Diciassette dipinti di Van Dyck e quaranta di Rubens che suscitarono un’universale ammirazione e che ora costituiscono alcuni tra i più splendidi tesori della Alte Pinakothek di Monaco. La galleria consisteva di cinque grandi sale. La prima era completamente dedicata a Rubens; la seconda conteneva opere di Van Dyck e di altri artisti fiamminghi e olandesi; nella terza erano ospitati i dipinti italiani. Ve n’era poi un’altra dedicata a Van der Werff, e infine l’ultima conteneva opere dei maggiori tra gli antichi maestri fiamminghi, olandesi e italiani: da Raffaello a Veronese, da Tiziano ai Carracci, da Correggio a Reni, da Rubens a Rembrandt. In tutte le sale c’erano anche bronzi e vetrine di miniature, mentre al piano sottostante un’altra galleria conteneva gessi delle principali sculture fiorentine e romane. In tale atmosfera vivificante Pellegrini lavorò per tre anni. L’artista fu chiamato a soddisfare l’insaziabile desiderio di glorificazione del principe, dipingendo una serie di tele in cui diede forma allegorica ai benefici arrecati dal suo regno. I suoi lavori appaiono dipinti con una freschezza e una delicata leggerezza di toni e di colori che a quel tempo non trovavano riscontro a Venezia, sicuramente per merito dell’influsso esercitato su di lui dalle opere di vario genere contenute nella galleria. Dati i legami di Pellegrini con Düsseldorf era abbastanza naturale che egli, dopo la morte dell’elettore, si recasse nei Paesi Bassi. Lavorò ad Anversa e ad Amsterdam, dove fu anche incaricato di decorare il palazzo di città: era la prima volta che un pittore italiano lavorava in Olanda e ciò è un segno chiaro e indicativo dello spirito cosmopolita della cultura dei primi anni del Settecento. Parigi fu la terza città che contribuì a liberare la pittura veneta dai ceppi del passato. Sebastiano Ricci vi si recò nel 1716. Entrò subito in contatto con Pierre Crozat, la cui bella casa in rue de Richelieu conteneva una superba collezione di dipinti e, soprattutto, parecchie migliaia di disegni dei maggiori maestri italiani e fiamminghi. Crozat organizzava settimanalmente delle riunioni alle quali partecipavano un gruppo eccezionalmente vivace di amatori d’arte, pittori e scrittori, ed era assai generoso nell’offrire ospitalità agli artisti e nel mettere a loro disposizione la sua collezione. Giunse a Parigi anche Pellegrini con la cognata Rosalba Carriera. Questo arrivo segnò l’apice dell’influenza di Venezia all’estero e costituì anche l’ultima opportunità dell’arte italiana contemporanea di imporsi in Francia. Pellegrini ebbe immediatamente l’incarico di decorare quello che era il simbolo stesso del nuovo regime, la galleria del Mississippi della Banque Royale, vale a dire il quartier generale dell’audace “sistema” di John Law. Quei dipinti probabilmente esercitarono un notevole influsso sulla pittura francese della prima metà del Settecento. Pellegrini dipinse altre opere a Parigi, tra cui almeno una pala d’altare, ma il vero successo del viaggio fu merito di Rosalba. Essa fu accolta benissimo da Crozat. La sua delicata e sottile adulazione contenuta nei ritratti informali incontrò il massimo favore in una società che si trovava in piena rivolta contro l’artificiosità e l’affettazione introdotte da Luigi XIV. Nobili e ambasciatori facevano a gara per avere l’onore di ottenere da lei il proprio ritratto o piccoli quadri di argomento mitologico. Non erano meno entusiasti gli stessi artisti; quattro mesi dopo essere arrivata, Rosalba apprese di essere stata «all’unanimità ammessa a far parte dell’Accademia. Non c’è stato bisogno di votare». Rosalba Carriera stimolò il gusto per un tipo di ritrattistica elegante e al tempo stesso intimistica che altri artisti avrebbero portato a vertici da lei mai toccati e che resta uno dei trionfi della pittura francese del Settecento. 2. Londra, Dusseldorf e Parigi costituirono i più brillanti centri di diffusione della pittura veneziana fin quasi alla fine degli anni Venti del Settecento. In seguito la situazione incominciò a mutare in tutta Europa. In Inghilterra erano anni che il 56 sentimento nazionale dava segni di non gradire affatto il successo di questi artisti stranieri. A mano a mano che il Grand Tour diventava abituale e il loro gusto si faceva sempre più sicuro, gli inglesi scoprirono di non amare la pittura di historie di grandi dimensioni. La carriera di Jacopo Amigoni, che giunse in Inghilterra nel 1730, è indicativa del mutamento in corso. Dapprima l’artista venne accolto con grande entusiasmo e gli si chiese quasi subito di dipingere “Le Muse presentano Shakespeare ad Apollo” per il nuovo teatro di John Rich a Covent Garden: ricoprì ed affrescò le case di alcuni gentiluomini whig; affrescò un soffitto e le pareti dello scalone di Powis House in Great Ormond Street. L’artista incontrò crescenti difficoltà a trovare lavoro come pittore di storie e fu costretto a dedicarsi sempre più alla ritrattistica. In questo campo la sua fortuna fu veramente grande. Gli inglesi continuarono a servirsi di pittori veneziani ma, a parte qualche rara eccezione, questi si limitavano a dipingere vedute, paesaggi e ritratti. Soltanto un inglese si dimostrò completamente originale nel suo mecenatismo nei confronti di veneziani e di altri artisti, Owen McSwiny. Il suo scopo era quello di procurare al genero del conte, che sarebbe diventato duca di Richmond, una serie di dipinti allegorici, eseguiti dai più eminenti artisti italiani del momento, che raffigurassero tombe immaginarie commemoranti grandi personaggi della recente storia inglese («British Worthies»). C’erano ottime ragioni per credere che un progetto che combinasse un referente omaggio al recente passato inglese con il prestigio della pittura italiana moderna dovesse avere successo. McSwiny stabilì che i monumenti avrebbero reso gloria «ai monarchi inglesi, hai valenti comandanti e agli altri illustri personaggi fioriti in Inghilterra tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento». I quadri dovevano essere tutti delle stesse dimensioni, di formato verticale e con la parte superiore semicircolare come le pale d’altare. McSwiny scrisse che questi soggetti erano stati «elegantemente eseguiti dai pennelli dei più famosi pittori italiani». Tranne una o due eccezioni egli scelse i suoi artisti a Bologna e a Venezia e volle poi che ogni quadro fosse dipinto da tre diverse mani, una pelle figura, una per i paesaggi e una terza per gli edifici e gli altri ornamenti. A Bologna McSwiny si rivolse in particolare a Donato Creti e a Francesco Monti come pittori di figure, e a Venezia a Piazzetta e a Pittoni, mentre Canaletto e Cimaroli dipinsero alcuni paesaggi. Tutti e quattro gli artisti veneziani erano appena agli inizi, e anzi Canaletto era ancora quasi sconosciuto. Ma Sebastiano e Marco Ricci, che collaborarono al monumento del duca di Devonshire, erano già pittori affermati. Come grandi dipinti decorativi appesi alle pareti della sala da pranzo del duca di Richmond erano mirabili; come tributo alle personalità illustri inteso creare una moda erano invece assolutamente inadeguati. Nonostante questi problemi, il duca di Richmond comperò 12 di questi dipinti e non mancarono acquirenti anche per le altre versioni di alcuni di essi. Poi nel 1730 McSwiny fece “un colpo fortunato” quando sir William Morice acquistò tutte le altre opere pronte in quel momento. In ogni caso egli aveva deciso fin dall’inizio di procurarsi ulteriori profitti pubblicando le incisioni della serie, e a questo scopo diede l’incarico all’artista bolognese Domenico Maria Fratta di preparare disegni dei quadri a mano a mano che questi apparivano a Bologna e a Venezia. Venne anche pubblicato nel 1741 un volume, che era in verità splendido, ma deluse certamente McSwiny. Le tavole erano solo 18 e non 50, ivi comparivano le incisioni di soltanto nove tombe allegoriche, tutte tratte dalla collezione del duca di Richmond. Mancavano i profili biografici degli artisti, così come erano stati omessi i resoconti degli atti memorabili compiuti. Nonostante ciò si tratta di un degno tributo all’iniziativa e al gusto di McSwiny. Ogni dipinto è preceduto da una tavola con la scritta del nome dell’eroe circondata da un ricco fregio decorativo. I dipinti erano criticati e McSwiny non riuscì ad attirare un numero di sottoscrittori sufficiente a completare il volume; ecco una volta di più la dimostrazione di quanto fossero riluttanti gli inglesi di fronte alla pittura italiana di storia. Dal Grand Tour i nobili riportavano regolarmente in Inghilterra le loro serie di vedute di Canaletto o dei suoi allievi e il maestro seppe approfittare delle possibilità che gli offriva una clientela tanto assidua alzando i prezzi a un livello tale da diventare praticamente inaccessibile. Svariate generazioni inglesi videro Venezia interamente attraverso i suoi occhi. Quando nel 1740 la guerra in Europa ridusse notevolmente il numero dei viaggiatori inglesi sul continente, Canaletto ritenne necessario recarsi di persona nell’isola. Girò per il paese dipingendo una serie di vedute di Londra e di residenze di campagna per i duchi [fig.]. Rimase in Inghilterra per quasi 10 anni, durante i quali il suo stile si fece sempre più meccanico. La carriera del paesaggista Francesco Zuccarelli fu ancora più fortunata. Questo artista arrivò in Inghilterra nel 1752 e vi rimase per oltre 15 anni. Ebbe tra i suoi clienti Giorgio III e divenne anche membro fondatore della Royal Academy. I trionfi di Canaletto e di Zuccarelli sono la testimonianza della completa frattura verificatasi nel gusto artistico tra l’Inghilterra il resto dell’Europa. Ma anche qui la situazione era notevolmente mutata dopo la fine degli anni Venti del Settecento. L’arte italiana suscitò scarso interesse dei collezionisti francesi, che avevano preso dagli italiani quel tanto che serviva loro per dare impulso incoraggiamento agli artisti locali. C’era tuttavia un personaggio che continuava a mostrare il più grande entusiasmo per l’arte veneziana, lo svedese conte Tessin. Andò a Parigi nel 1728 e, avendo l’incarico di acquistare dipinti e arredi per il re di Svezia, entrò in contatto con numerosi artisti francesi. Nei tre anni in cui visse a Parigi accumulò una superba collezione di disegni e dipinti contemporanei di tutti gli artisti maggiori e specialmente di Boucher. Era andato a Venezia alla ricerca di un pittore adatto a decorare il Palazzo Reale di Stoccolma, e ciò che aveva visto in quella città era stato di suo gradimento, anche se trovò solo in Tiepolo qualcuno che rispondesse ai requisiti. Purtroppo l’artista era anche bravo chiedere i prezzi molto più alti di quanto gli svedesi potessero pagare e l’invito a Stoccolma rimase senza risposta. Ma Tessin riuscì ad acquistare per la propria collezione personale alcune opere di Tiepolo, e inoltre qualche vedute di Canaletto, di Cimaroli e di Richter, ritratti di fantasia, disegni di Piazzetta e altre opere che lo attraevano. 57 3. Per quanto la concorrenza francese si facesse sempre più seria con il procedere del secolo, gli artisti veneziani continuavano a trovare appassionati mecenati in tutta la Germania. Nel 1725 Pellegrini si recò a Dresda per il mecenate Federico Augusto I che aveva dato vita alla corte più brillante d’Europa, mentre la sua munifica politica architettonica stava trasformando Dresda in una città di abbagliante bellezza. Per lui Pellegrini dipinse affreschi sulle volte di due padiglioni dello Zwinger, oltre a una pala d’altare per la chiesa cattolica. Ma l’interesse di Augusto per l’arte veneziana non andò molto oltre. Acquistò anche se i dipinti di tema mitologico e biblico di Francesco Migliori, un artista veneziano interessante ma non molto significativo della prima metà del Settecento, e altri di Molinari e di Bellucci. Il mecenatismo del figlio Augusto III, salito al trono nel 1733, si svolse invece su un piano completamente diverso. La sua attività di collezionista fu tra le più notevoli in tutta Europa e sotto la direzione di un artista veneziano, Pietro Guarienti, la galleria di Dresda superò quasi tutte le altre analoghe raccolte esistenti in Germania. I suoi agenti acquistavano opere d’arte in tutta Europa, Venezia compresa, dove i fratelli Ventura e Lorenzo Rossi erano sempre allerta in attesa di trovare i dipinti adatti per il re. A parte numerose opere di antichi maestri, essi acquistarono per lui nel 1738 sei paesaggi di Marco Ricci. Ma l’impatto della pittura veneziana contemporanea si fece veramente sentire soltanto nel 1743, quando Francesco Algarotti ritornò nella sua città natale soprattutto allo scopo di acquistare dipinti per il re; affidò incarichi a Tiepolo, a Piazzetta, a Amigoni, a Pittoni e a Zuccarelli. Egli comperò anche da collezionisti privati molti dipinti di artisti contemporanei. Senza dubbio tutte queste opere piacquero ad Augusto, nonostante la sua iniziale riluttanza a prendere in considerazione i contemporanei, fatta eccezione per un artista a lui particolarmente gradito e del quale collezionava avidamente le opere per proprio conto, ovvero Rosalba Carriera. Augusto di lei comprava tutto, poco importava cosa, purché fossero tutte immagini di donne attraenti; la sua bramosia era insaziabile e verso la fine della sua vita Augusto possedeva oltre 150 opere della Carriera, mentre la sua migliore allieva, Felicita Sartori nel 1741 si stabiliva a Dresda dove avrebbe lavorato molto per lui. Un altro artista veneziano destinò gran parte della sua produzione ad Augusto III: Bernardo Bellotto, nipote di Canaletto, che giunse a Dresda nel 1747 nominato «pittore di corte». In questo periodo l’artista dipinse un gran numero di vedute illustranti la vita brillante e attiva della capitale nel periodo del suo massimo splendore. Queste opere erano spesso eseguite in serie di tre diversi formati: il più grande destinato al re, il secondo al conte e il terzo ad altri clienti. Nessuno tra i sovrani tedeschi poteva rivaleggiare con Augusto per mecenatismo e collezionismo, ma ve ne furono alcuni che mostrarono un entusiasmo pari al suo per la pittura veneta contemporanea. Si recava spesso Venezia Clemente Augusto, arcivescovo di Colonia. Era anche lui un ammiratore di Rosalba e ne possedeva numerosi pastelli. Poco dopo il 1730, inoltre, incominciò a commissionare per le molte chiese poste sotto la sua tutela pale d’altare a Pittoni, Piazzetta e a Tiepolo. Ma la fortuna dell’arte veneziana in Germania e la stessa arte veneziana toccarono il culmine nel 1750, quando fu dato a Tiepolo l’incarico di decorare la residenza di Würzburg. A quei tempi il vescovado era nelle mani di Karl Philipp von Greiffenklau e fu lui a persuadere Tiepolo a recarsi a Würzburg per decorare il Kaisersaal del magnifico palazzo. La bella sala rococò, con le ricche decorazioni di marmi policromi, costituiva qualcosa che Tiepolo non aveva mai visto prima e ugualmente lontano dalla cultura dell’artista era il soggetto da rappresentare, un tema tratto dalla storia medievale tedesca. Appena terminata questa decorazione, Tiepolo accettò di dipingere il soffitto del grande scalone del palazzo (di gran lunga l’opera di maggiori dimensioni che egli avesse mai affrontato) con un affresco raffigurante “I Quattro Continenti rendono omaggio a Carlo Filippo di Greiffenklau”. In questo affresco, che gli offriva possibilità espressive quali mai a Venezia aveva avuto, egli diede vita alla sua suprema e più fantasiosa visione dell’ancien régime. Entro il secondo decennio del secolo la città di Torino era divenuta tanto potente da attirare a sé artisti di ogni regione della penisola. Per la maggior parte degli anni Venti e Trenta del Settecento il direttore artistico della corte sabauda fu Filippo Juvarra, che in questa veste commissionò a Sebastiano Ricci un gran numero di dipinti per il Palazzo Reale e per varie chiese. Nel 1739 Amigoni si recò a Madrid come pittore di corte. Arrivò poi nella capitale spagnola anche il veneziano Tiepolo. In questa sua ultima missione Tiepolo, con l’aiuto dei figli, fece appello ancora una volta a tutte le sue risorse per rendere gloria a una monarchia un tempo potente, ma ormai avviata verso un irrimediabile declino. Inoltre dipinse un ciclo di pale d’altare per la cappella reale di Aranjuez. A San Pietroburgo tra il 1761 e 62, con la fine dei lavori di costruzione del Palazzo d’Inverno, la richiesta di arte decorativa a Venezia tocco il punto più alto. Giunse qui Francesco Fontebasso, un allievo di Sebastiano Ricci e di Tiepolo, per dipingere uno dei soffitti che era stato commissionato inizialmente a Tiepolo e nello stesso periodo giungeva anche Giacomo Guarana che produsse dei dipinti sia per il Palazzo d’Inverno sia per il Palazzo Cinese, fuori dalla città. Nel 1762 ascese al trono Caterina la Grande. La zarina mostrava, in quelli artistici come in tutti gli altri settori, una certa riluttanza a irrigidirsi su una scelta. Così Stefano Torelli, che era nato a Bologna ma il cui stile era maturato a Venezia, giunse a San Pietroburgo nel 1763 e vi produsse un enorme numero di dipinti fino alla sua morte. Il trionfo della pittura veneziana in Russia è attestato non tanto dagli artisti abbastanza minori che Elisabetta e Caterina riuscirono ad attirare nella loro lontana corte, quanto dall’acquisto, in circostanze abbastanza misteriose, del “Banchetto di Antonio e Cleopatra” di Tiepolo da parte di Paolo I. XI: I RESIDENTI STRANIERI 1. Il console Joseph Smith A Venezia il più importante anello di collegamento tra la città e il mondo esterno era costituito dall’inglese Joseph Smith, che si affermò come il più grande mecenate del suo tempo. Si era stabilito a Venezia nei primi anni del Settecento 60 del miglior artista dell’epoca, Tiepolo. Smith mostrava una simpatia tipicamente inglese per i paesaggi e le vedute, Schulenburg per i ritratti, i soggetti storici e per i temi di genere. 3. Sigismund Streit Visse a lungo a Venezia anche un terzo collezionista straniero, che pare occupasse una posizione intermedia tra i due grandi mecenati di cui si è parlato prima. Uomo d’affari come Smith, tedesco come Schulenburg e, come quest’ultimo, in stretti rapporti con Federico il Grande, Sigismund Streit possedeva un numero di dipinti molto inferiore a quello degli altri due, 48 in tutto, ed ebbe poco peso nella società veneziana. Ma alcuni dei suoi quadri erano molto belli e rispecchiano totalmente bene le rassomiglianze e le differenze di gusto tra il loro proprietario da una parte e Smith e Schulenburg dall’altra. Uno dei più forti e profondi sentimenti provati in tutta la vita da Streit fu l’ammirazione per Venezia, le cui bellezze e tradizioni erano inoltre celebrate in un numero singolarmente alto di quadri che possedeva. Le opere d’arte avevano infatti per Streit un significato molto più preciso e personale di quanto non avessero per altri più raffinati collezionisti. Dei suoi quattro Canaletto, per esempio, due rappresentavano scene che riguardavano direttamente la sua vita. Una riproduceva un’ansa del Canal Grande, con in primo piano una gondola sulla quale si vede lo stesso Streit. L’altra veduta rappresentava il campo di Rialto, dove si svolgevano i suoi affari. Ci teneva anche ad avere dipinti raffiguranti le cerimonie e le feste della Serenissima, commissionati a Canaletto. Queste vedute inconsuete (che sono tra le rare scene notturne del pittore) sono le più grandi più ambiziose tra le ultime opere di Canaletto. Si rivolse ad altri artisti poi per una serie di dipinti che mostravano il doge che partecipava a cortei ufficiali. Streit condivideva l’amore di Schulenburg per i ritratti di personaggi regali. Ma soprattutto gli piaceva vedere raffigurati se stesso e la sua famiglia. Amigoni tra il 1739 e il 46 eseguì per lui un ritratto e altri 10 dipinti. I soggetti sono tra i più popolari del repertorio tratto dall’Antico Testamento e dalla mitologia. Queste opere furono realizzate senza dubbio per blandire l’occhio dell’uomo d’affari affaticato. Streit naturalmente possedeva un paio di paesaggi di Zuccarelli e qualche dipinto olandese, ma l’unico altro artista ben rappresentato nella sua collezione era Giuseppe Nogari, famoso per le sue “teste di fantasia”, ritratti immaginari a mezza figura fortemente influenzati dagli artisti nordici e specialmente da Rembrandt, raffiguranti di solito uomini e donne in età avanzata. XII: L’ETÀ DEI LUMI L’Europa era mutata. Gli ultimi decenni del Seicento avevano visto in Inghilterra e in Francia l’inizio di una rivoluzione intellettuale destinata a distruggere le basi su cui aveva appoggiato la civiltà barocca. Si metteva seriamente in dubbio la supremazia assoluta di qualsivoglia autorità. Il commercio incominciò a sostituire la proprietà terriera come indice di prosperità. Questi grandi mutamenti influirono radicalmente sulla natura del mecenatismo e delle arti stesse. Sia in Francia sia in Inghilterra i maggiori pittori non lavorarono più esclusivamente per la corte e la Chiesa e i nuovi committenti respinsero l’onnicomprensiva cosmologia barocca. Gli stili cambiarono: si passò da un gaio e leggero rococò, che ereditava buona parte del linguaggio formale del barocco pur senza possederne la gravità morale, a un rinnovato interesse per il realismo, spesso venato di elementi satirici e didattici, e a un austero ritorno ai modi neoclassici. Eppure l’Italia inizialmente non vide nulla che fosse paragonabile con i grandi mutamenti che avevano scosso Francia e Inghilterra, e quindi quegli artisti, scrittori, intellettuali italiani che desideravano conoscere da vicino i nuovi sviluppi erano costretti sempre più frequentemente a mettersi in viaggio per Parigi o Londra. Tutto ciò preparò il terreno alla diffusione delle idee «illuminate». Scrittori di ogni parte d’Italia si erano resi conto della distanza che li separava dal resto dell’Europa e avevano dato inizio al processo di riavvicinamento. In tutti questi cambiamenti Venezia aveva avuto scarsa parte diretta. Aveva troppo interesse a mantenere lo status quo perché la Repubblica potesse accogliere i germi di qualche nuovo contributo alle dottrine dell’Illuminismo. Tuttavia, specialmente in quegli ambienti che risentivano maggiormente degli influssi stranieri, si può notare una grande diffusione di idee nuove le quali, tra l’altro, avrebbero avuto un gran peso nello sviluppo dell’arte. Antonio Conti fu uno dei pionieri tra i sempre più numerosi intellettuali italiani che si rendevano conto della necessità di soggiornare in Francia e in Inghilterra per sottrarsi al soffocante provincialismo di Venezia. Un incontro importante per lui fu quello con Isaac Newton. Conti fece un interessante difesa della fantasia nella pittura, in un saggio, che ben si accordava con la pratica contemporanea e che ci induce a pensare che egli fosse uno di quei pochi intellettuali del suo tempo che non disapprovavano le licenze dei pittori veneziani (come ad esempio usare la camera ottica, come fece Canaletto per alcune sue vedute). Sappiamo poi che Algarotti, che corrispondeva regolarmente con lui, prese molte idee da questo pioniere tra coloro che in Italia vollero conoscere Newton. In realtà la difesa del diritto dell’artista di far uso della sua libera immaginazione per percorre come un filo sottile le correnti di pensiero del Settecento, per poi sfociare nella piena accettazione del «genio», con tutte le sue stravaganze, è nell’opera di Saverio Bettinelli, Dell’entusiasmo per le Belle Arti, pubblicata nel 1769. Ma nella prima metà del secolo c’era a Venezia un pensatore le cui idee artistiche dovevano mostrarsi molto più stimolanti di quelle di Conti, seppure non più efficaci sul piano pratico. Stiamo parlando di padre Carlo Lodoli. Lodoli aprì una scuola privata per i figli delle più importanti famiglie della città e in questa scuola si ispirava alle idee più avanzate e moderne. Sottolineava la necessità di un’architettura pienamente funzionale in cui ragione e comodità 61 fossero gli arbitri definitivi dello stile. In tal modo egli respingeva non soltanto il tardo barocco della sua giovinezza, ma anche quel classicismo che ora stava cominciando a sostituirlo. Egli mise personalmente in pratica le sue idee soltanto una volta, quando apportò delle modifiche funzionali al monastero dei Minori Osservanti, l’ordine al quale apparteneva, fuori San Francesco della Vigna. Tuttavia le teorie di Lodoli non mancarono di influire su alcuni tra i pensatori più aperti del tempo. E anche le sue idee sulla pittura erano fuori dal comune: egli respingeva l’amore di Conti per la fantasia abbracciando un punto di vista molto più austero e rigoroso. Allestì la propria galleria con intento didattico, in modo da illustrare il progresso dell’arte dai greci fine i moderni. Acquistò da ebrei e rigattieri talmente tanti quadri che non solo ricoprivano tutte le pareti della sua casa, ma erano addirittura accatastati sul pavimento. Da ciò che invece sappiamo sul suo amore per la ragione e l’autenticità non pare probabile che Lodoli ammirasse Tiepolo, Piazzetta e gli altri pittori di historie veneziani. Sembra più probabile che conoscesse più da vicino artisti come Canaletto e Visentini grazie al console Smith. Certamente conobbe Bartolomeo Nazari e Alessandro Longhi, che lo ritrassero entrambi. Il dipinto di Longhi è uno dei pochi studi psicologici penetranti del Settecento veneziano: Longhi non fa nessun tentativo per addolcire la testa abbastanza grossolana con il grosso naso a patata i capelli in disordine [fig.]. Verso la metà del Settecento si incominciò a muovere guerra all’irrazionale in tutte le arti e senza dubbio ebbero notevole peso, almeno indirettamente, idee come quelle di Lodoli. Uno almeno degli ammiratori di Longhi disse chiaramente che questo pittore gli piaceva proprio perché respingeva questo tipo di cose. Si tratta di Gaspare Gozzi, che inoltre raccontò la sua visione dell’arte in una favola di una sua visita con un vecchio filosofo, che in realtà è la personificazione della vera saggezza; entrando nella sua casa isolata dal mondo, Gozzi guarda i quadri alle pareti e «ogni pittura conteneva sotto a sé il midollo di qualche nobile intenzione. Non erano le figure di scorci troppo studiati, e stiracchiati dall’arte, ma naturali movenze, e ogni figura atteggiata, come sono uomini, e donne vive, se non che erano alquanto più belle». In un’altra stanza le pareti sono ricoperte di quadri illustranti varie scene della vita dei campi. In anni successivi Gozzi tornò sull’argomento delle possibilità didattiche della pittura. Un tentativo assai più consapevole di utilizzare gli effetti propagandistici dell’arte sarebbe stato fatto da Giorgio Pisani. Egli si servì dell’arte in varie sue forme per una propaganda anarchica, sovversiva e irriverente. Da allora in poi politica e arte percorsero due strade separate fino alla Rivoluzione francese e al crollo della Repubblica di Venezia. L’unico artista veneziano del Settecento incondizionatamente lodato da tutte le diverse categorie di committenti fu Francesco Zuccarelli. Smith lo impiegò costantemente e non è difficile capire le ragioni del suo successo tra gli inglesi, già noti per il loro amore della vita in campagna e della pittura di paesaggio. Verso la metà del secolo un altro problema più basilare era al centro delle discussioni: fino a qual punto si poteva considerare importante la pittura nell’ambito della vita moderna? Antonio Maria Zanetti il Giovane sviluppò il concetto secondo cui la pittura deve essere considerata una delle arti utili. La pittura non solo insegna; essa procura riposo alla mente. Siamo di fronte ad un adattamento dell’idea di “diletto e utile”. Più avanti Zanetti non può evitare di prendere parte alla più moderna discussione “utilitaristica” e giustificare la pittura, o piuttosto il mecenatismo, su un terreno un po’ diverso, quello dell’importanza economica proveniente dal commercio delle opere d’arte. Le arti liberali, concludendo, per lui costituiscono un’attrattiva, un piacere e quindi conferiscono allo Stato una certa reputazione, poiché invogliano i forestieri a venire a Venezia. Furono idee di questo genere a persuadere lo Stato a compiere il suo unico passo importante nel campo del mecenatismo artistico. Nel 1756 infatti venne istituita l’Accademia di pittura e scultura, in cui il Senato sperò di trarne un vantaggio commerciale. L’organizzazione effettiva dell’istituzione, comunque, non rifletteva nessuna delle nuove teorie sul valore dei dipinti, poiché la rigida stratificazione gerarchica dei soggetti, basata sulla supremazia assoluta della pittura storica e sulla completa subordinazione dei generi considerati inferiori, come le vedute, costituiva un avere propria regressione verso il passato. Si inizierà anche discutere sulla posizione dell’artista nella società. Nei primi anni del secolo a Venezia si tenevano esposizioni d’arte in due luoghi: una in piazza San Marco dove talvolta i pittori esponevano le loro opere in pubblico, ma in modo del tutto casuale, quando non c’erano altre possibilità. Molto più organizzate erano invece le esposizioni che si tenevano nella Scuola di San Rocco ogni anno e vi prendevano parte alcuni artisti. Nel 1751 Algarotti poteva scrivere che l’esposizione era «il tribunale, in certo modo, della pittura tra noi, come e il salone in Parigi». Queste esposizioni contribuirono ad avvicinare l’artista al pubblico e costituirono un “foro” in cui si poteva discutere di valori diversi da quelli sostenuti dallo Stato e dall’aristocrazia. Però le lamentele erano frequenti e dal 1787 i costi si fecero insostenibili (il governo pretendeva che pagassero gli artisti di tasca loro) e le esposizioni divennero saltuarie. Così aveva fine quell’intervento dello Stato in favore delle arti che non si era mai dimostrato troppo felice. XIII: EDITORI E CONOSCITORI D’ARTE Nella Venezia del Settecento esisteva una categoria di persone i cui contatti con il resto dell’Europa erano particolarmente stretti e il cui ampio mecenatismo delle arti era perciò in tono con i gusti internazionali. Fin dal Cinquecento gli editori di libri avevano avuto una parte importante nell’economia cittadina e negli ultimi 100 anni furono fatti grandi sforzi per sostenere in questo campo la supremazia veneziana. Le librerie costituivano veri e propri centri di vita culturale dove, più che altrove, era possibile fare conoscenza con dei veneziani. Così molti editori erano interessati a esportare volumi riccamente illustrati e il governo incoraggiò questa politica con leggi vantaggiose sui diritti d’autore. A lungo andare queste leggi provocarono l’abbassamento della qualità dei libri 62 destinati al mercato veneziano; ma ne guadagnarono moltissimo le edizioni di lusso stampate per allettare gli amatori inglesi, francesi e tedeschi. Per di più il numero crescente di viaggiatori in visita a Venezia, che non avevano tutti i mezzi per acquistare vedute originali della città, provocò una nuova domanda di buone incisioni. Le opere migliori sono libri come Le Fabriche e vedute di Venezia (1703) di Carlevariis o Il Gran Teatro delle pitture e prospettive di Venezia pubblicato da Domenico Lovisa nel 1720, con i disegni realizzati da vari artisti di monumenti e dipinti famosi. Entrambe queste pubblicazioni erano destinate agli stranieri. In effetti per la prima volta molti dei maggiori artisti del tempo dedicavano buona parte della loro attività all’illustrazione di libri. Occorre distinguere quattro diversi tipi di iniziative librarie: 1. Poteva accadere che disegnatori e incisori riproducessero noti capolavori dell’arte veneta (come il libro finanziato da Domenico Lovisa). Quest’uso si protrasse per tutto il Settecento come era avvenuto in passato, ma non interessa direttamente la storia del mecenatismo. 2. Erano talvolta i più eminenti pittori contemporanei a produrre dei dipinti con lo scopo principale di farli riprodurre da un incisore. 3. Il caso assai più frequente vedeva gli artisti eseguire disegni destinati all’incisione per l’illustrazione di libri. 4. Accadeva anche che certi artisti eseguivano personalmente le loro incisioni. È evidente che un incisore non poteva avere né denaro nè l’autorevolezza necessari per persuadere un artista della statura di un Tiepolo o di un Piazzetta a eseguire dipinti o disegni da riprodurre in un libro ed era quasi essenziale l’intervento di un editore affermato. Simili editori spesso possedevano le loro proprie botteghe e le stamperie. Erano in tal modo importanti mecenati per proprio conto, ma spesso, particolarmente quando l’iniziativa era molto costosa, per renderla possibile dipendevano a loro volta da altri sovvenzionatori. A Venezia, nel Settecento, si pubblicavano due categorie principali di libri illustrati. C’erano prima di tutto le innumerevoli raccolte di poesie e panegirici pubblicati per commemorare certe cerimonie peculiari della nobiltà; ma la maggior parte dei progetti più notevoli furono realizzati per la seconda categoria, quella dei libri illustrati, consistente in belle edizioni di autori moderni e, in particolare, antichi. Tre editori spiccano sopra tutti gli altri per l’intraprendenza e la qualità del loro mecenatismo: Albrizzi, Pasquali e Zatta. Giambattista Albrizzi aveva viaggiato molto, specialmente in Germania e in Austria. Si interessò sempre vivamente del mercato straniero e uno dei suoi libri più popolari fu una guida di Venezia, Il Forestiere Illuminato, del 1737 dedicato all’elettore di Sassonia. Nel 1736 incominciò a pubblicare un’edizione completa in francese delle opere di Bossuet, con la dedica di ogni volume a un membro della famiglia reale austriaca. In essa per la prima volta Albrizzi si avvalse di Piazzetta come illustratore. Non fu lui a scoprire il Piazzetta illustratore, ma per molti anni ebbe il monopolio quasi assoluto della sua opera. Vedute, paesaggi, scenette di genere, cineserie e putti, a parte le più consuete immagini sacre e i ritratti ieratici, aiutavano a rendere più digeribili i tornanti tomi di Bossuet negli arcivescovadi e nei ricchi monasteri dell’Europa centrale. La collaborazione tra Albrizzi e Piazzetta culminò nel più famoso di tutti i libri veneziani del secolo, la Gerusalemme liberata del 1745. Anche quest’opera era destinata a un pubblico internazionale; venne infatti dedicata all’imperatrice Maria Teresa. Per questo libro Piazzetta eseguì una settantina di disegni. La bottega di Albrizzi divenne uno dei più floridi centri artistici di Venezia. Oltre a servirsi degli artisti a scopi commerciali, Albrizzi si dedicò anche alla creazione di una propria collezione privata. Possedeva parecchie centinaia di disegni e molti dipinti di Piazzetta. Protesse soprattutto i paesaggisti Zuccarelli e Zais. Anche Giambattista Pasquali, le cui opinioni erano molto diverse da quelle di Albrizzi, pubblicò parecchi bei libri in edizioni sontuose. Pasquali venerava Carlo Lodoli e sopportava poco la censura che gli impediva di pubblicare ciò che voleva. Non gli interessava pubblicare eleganti opuscoli per le cerimonie aristocratiche. Quanto alle sue concezioni generali, si lasciava guidare dal suo protettore Joseph Smith. Naturalmente fu Pasquali l’editore dei bei volumi illustrati riproducenti alcuni dei tesori della collezione di Smith. La sua iniziativa più ardita fu l’edizione in 17 volumi delle opere di Goldoni, che incomincio nel 1761. Tale edizione fu realizzata in strettissima collaborazione con l’autore e grazie ai suoi voleri ora si sarebbe prestata più attenzione alla carta, alla stampa, alle illustrazioni. Certamente così il libro sarebbe stato molto più caro. Per le illustrazioni Pasquali si servì del giovane Novelli. Fu lo stesso Goldoni a spiegare la novità dell’iniziativa. Era stanco dei soliti frontespizi popolati di Muse, Apolli, Maschere, Satiri, Scimmie e così via: questi simboli erano di uso talmente generalizzato da non attirare più l’attenzione del pubblico. E così propose che il frontespizio di ogni volume rappresentasse un episodio della sua vita. Come nella maggior parte dei libri di Pasquali, diretti proprio a quel pubblico che si vede nelle illustrazioni di Novelli, popolare, anche qui è completamente assente lo sforzo che caratterizza invece le pubblicazioni di Albrizzi. Il terzo grande editore veneziano fu Antonio Zatta. A parte gli opuscoli celebrativi, il suo merito principale è costituito da una serie di eleganti edizioni di famosissimi classici italiani: Petrarca, Dante, Ariosto, Tasso e Metastasio. Per le opere medievali lo sforzo di gareggiare con la loro iconografia si rivelò molto difficile; molto più soddisfacenti sono le illustrazioni di Novelli per le opere di Metastasio, che in cominciarono a uscire nel 1781 e che mostrano chiari segni anticipatori del movimento romantico. L’editore Maffeo Pinelli, che per lo più si occupava di pubblicazioni per lo Stato prive di ogni interesse artistico, era un notevole collezionista privato e mecenate. Per quanto sia più noto per la sua biblioteca, una delle più famose in Europa, Pinelli possedeva anche parecchie centinaia di dipinti. Il suo vero entusiasmo andava alla pittura del Cinquecento, infatti nella sua collezione spiccavano dipinti attributi a Giorgione, Bassano, Veronese e Tiziano, oltre ad altri di Palma il Giovane e Padovanino. Erano ben rappresentati anche molti artisti del Settecento, tra i quali Tiepolo. Il pittore con il 65 L’influenza di Algarotti su Tiepolo in questa fase fu dunque notevole e gli storici dell’arte sono unanimi nell’affermare che l’inizio degli anni Quaranta segnò l’apice del periodo classico dell’artista. Questo primo vero contatto di Algarotti con un artista praticante e di genio inevitabilmente modificò alcune delle sue idee più teoriche e preconcette. Per quanto Algarotti si sforzasse di lodare in Tiepolo l’artista «colto» sulla linea di Raffaello e Poussin, era affascinato in modo almeno pari da un altro aspetto della sua arte: il brio e la fantasia. Algarotti tentò costantemente di conciliare questa immagine di Tiepolo con le esigenze di «correttezza» neoclassica. Questo scontro tra due distinti ordini di valori fu il dilemma personale di Algarotti e anche quello del suo secolo. Come veneziano che non poteva rinunciare all’eredità veneziana poiché capiva e amava ciò che aveva reso grande la pittura della sua città, era ora in grado di riconoscerne le qualità nei più dotati tra i suoi contemporanei. Le tracce lasciate dal soggiorno veneziano di Algarotti si possono notare in altre opere dipinte in quella fase o poco dopo. Anche per Piazzetta, come per Tiepolo, quel periodo segnò una tappa importante della sua carriera. Venne incaricato da Algarotti di dipingere per Augusto “Cesare e i pirati di Cilicia” e altri due dipinti dello stesso genere. Questi dipinti costituiscono gli unici esempi di pittura “classica” nella produzione di Piazzetta. Durante questo soggiorno veneziano Algarotti arricchì la collezione di dipinti della sua famiglia. Conservò i bozzetti preliminari o le copie di molte delle tele, antiche e moderne, che aveva spedito a Dresda e spesso tenne per sé i dipinti che per qualche ragione non risultavano adatti alla condizione reale. Nel 1746, dopo essere rimasto a Venezia per due anni e mezzo, Algarotti lasciò l’Italia e non ritorno che nel 1753. Dapprima andò a Dresda, ma subito dopo partìi per Berlino. Fu durante il soggiorno a Berlino che egli commissionò a Georg Friedrich Schmidt un ritratto all’acquaforte, in stile classicheggiante, di un cantante suo protetto; il ritratto abbinato che un anno dopo Algarotti si fece fare dallo stesso Schmidt sarebbe servito da modello per tutte le sue future raffigurazioni. Tuttavia si tenne anche in contatto con il mondo dell’arte italiano, tanto più che ora ricopriva l’incarico di consigliere di Federico il Grande e dei suoi cortigiani, che avevano ambiziosi progetti per trasformare Berlino in un grande centro delle arti. Fece anche tutto ciò che era il suo potere per incoraggiare gli artisti stranieri a studiare in Italia. Algarotti era stato colpito dalla corrente neopalladiana che aveva conosciuto in Inghilterra qualche anno prima e cominciò a cercare di procurarsi delle illustrazioni per convincere Federico sui meriti di questo stile. Continuava comunque a commissionare dipinti, sebbene ora si rivolgesse sempre più di frequente a Roma, che evidentemente riteneva più adatta di Venezia come modello per il suo regalo amico e signore. Alla fine del 1753 Algarotti partì dalla Germania e giunse a Venezia l’anno successivo. In genere in questi ultimi 10 anni della sua vita mostrò una crescente predilezione per la pittura di architettura e di vedute. Fu allora infatti che entrò in rapporti con Canaletto, al quale commissionò una veduta di un tratto del Canal Grande come avrebbe potuto disegnarlo Palladio. Come molte delle sue idee, neanche questa era nuova. Capricci architettonici del genere erano da molto tempo familiari a Roma, dove erano legati soprattutto al nome di Pannini. Comunque sia, Algarotti fu il primo a stendere un piano teorico per una commissioni di questo tipo, e poiché le sue lettere con la descrizione dell’opera furono presto pubblicate, si diffuse rapidamente l’idea che questo tipo di pittura facesse capo a lui. Rientrato in Italia, negli ultimi anni della sua vita si dedicò sempre più a queste fantasie. Il principio ispiratore era quasi sempre lo stesso. L’elemento fondamentale doveva essere un edificio «classico», reale o ricostruito. Questo andava poi collocato su uno sfondo di fantasia, con la studiata funzione di mettere in risalto l’esattezza pedantesca dell’edificio. Algarotti insiste ripetutamente su questo elemento pittoresco, tipicamente fiammingo. Non potendo più contare su Tiepolo, impegnato nelle varie corti europee, ora si concentrò su Mauro Tesi. Negli ultimi anni Algarotti cercò, in alcune opere teoriche, di dare una formulazione delle proprie idee sulle arti. Vi appaiono la stessa confusione e le contraddizioni (presenti nelle sue lettere, commissioni e progetti) che rendono debole la sua posizione di teorico, ma che senza dubbio fecero di lui, agli occhi degli artisti, un critico di gran lunga più congeniale e utile della maggior parte di coloro che hanno scritto di pittura. Ora mostrava di tendere maggiormente verso il neo classicismo, con l’affermazione categorica della priorità del disegno sul colore, l’insistenza sulla necessità di studiare la scultura greca, la teoria idealistica dell’arte, la sua rigida gerarchia dei valori. A ogni opera che commissionava Algarotti chiedeva all’artista di conciliare le due concezioni contrastanti della pittura: quella romana e quella veneziana, la cultura e la fantasia, il classicismo e il pittoresco. Algarotti giocò con tutti i concetti basilari del primo neoclassicismo, ma il suo cuore rimase vicino e a una tradizione più antica. Ciò spiega perché egli vedesse in Tiepolo il pittore ideale, e viceversa incoraggiasse con tanto calore l’amore per la materia pittorica di Mauro Tesi, artista eccezionalmente specializzato in vedute architettoniche. Tutti i contemporanei erano d’accordo sul fatto che la sua più evidente peculiarità era il desiderio di piacere, a costo, all’occorrenza, di essere accusato di opportunismo. XV: NUOVE TENDENZE 1. Filippo Farsetti Nel 1764, anno della morte di Algarotti, la grande fioritura dell’arte veneziana era ormai prossima alla fine. Tra i grandi nomi della prima metà del secolo il solo Pietro Longhi continuò a operare per una ventina d’anni ancora. Gli artisti stavano scomparendo, ma la stessa cosa avveniva dei mecenati e persino delle grandi collezioni da questi accumulate. Era in corso la vendita dei dipinti di Sagredo, nel 1775 fu dispersa la collezione Schulenburg, ma in ogni caso già da molti anni la maggior parte delle opere era stata mandata in Germania; i migliori dipinti di Smith erano stati acquistati per Giorgio III nel 1762. I dipinti di Algarotti incominciarono a essere dispersi. Eppure pochi uomini di grande prestigio seppero dimostrare che quell’Illuminismo che si era diffuso a Venezia per il tramite di editori, viaggiatori e letterati come Lodoli e Algarotti poteva ancora suggerire nuove possibilità per un 66 mecenatismo di genere diverso e non è sorprendente che ora tendessero a dare molta più importanza all’architettura. Il personaggio che esercitò la maggiore influenza in tal senso fu Filippo Farsetti. Divenne allievo di padre Lodoli. Viaggiò parecchio, acquistando in tal modo una cultura molto varia e vasta; in particolare visse qualche anno a Parigi. Evitò le responsabilità politiche inerenti al suo rango sociale facendosi abate e dedicando all’arte la maggiore parte del suo tempo, delle sue energie e del suo denaro. Fu la personalità di gran lunga di maggior spicco tra i sostenitori del movimento neoclassico a Venezia. I suoi contemporanei e i suoi successori lo considerarono il più importante mecenate della città. Farsetti deve questa fama soprattutto all’immensa collezione concentrata nel palazzo di famiglia vicino a Rialto: si trattava di calchi delle statue antiche sparse in ogni angolo d’Europa, ma specialmente a Roma. Affidò allo scultore Alessandro Mazzoni il compito di eseguire i calchi delle principali statue antiche e al pittore Luigi Pozzi quello di copiare le opere più importanti di Raffaello e Annibale Carracci. Nella sua collezione erano rappresentati pochi contemporanei. Aveva anche una particolare passione per gli olandesi e i fiamminghi e possedeva dipinti attribuiti a tutta una serie di maestri italiani del Seicento. Sostanzialmente la sua era una prospettiva più cosmopolita che veneziana, e ciò si rispecchiava nella sua scelta dei dipinti, nella tendenza fortemente classica delle sue sculture e nell’architettura della sua villa. La sua villa venne costruita nei possedimenti di famiglia a Santa Maria di Sala, a pochi chilometri dalla città. La costruzione, destinata a ospitare le sue sempre più vaste raccolte e collezioni, risultò completamente diversa dai prototipi classici veneziani, avvicinandosi molto di più, per certi aspetti, al modello austriaco. Era bella, ornata da 32 colonne doriche provenienti dagli scavi di vari templi a Roma, doveva apparire imponente. Non minore attenzione Farsetti aveva prestato ai giardini, pieni di rarità botaniche, che costituivano uno dei siti naturali più famosi d’Europa, adorni di tempietti, colonne e torri. L’ostentazione di ricchezza di Farsetti e il suo amore per la scultura classica sarebbero bastati di per sé a farne una delle figure di maggior rilievo nella società del tempo. Eppure l’influsso effettivo da lui esercitato derivò dal suo profondo interesse per l’arte contemporanea. Senza dubbio intendeva trasformare la natura stessa della pittura e della scultura veneziane. I giovani che studiavano scultura avevano libero accesso alle sue collezioni e potevano copiarne le opere: il suo palazzo divenne il principale centro di incontro di tutti coloro che stavano assorbendo le teorie di Algarotti e di altri sulla necessità di seguire i modelli classici. Tra coloro che studiarono a Palazzo Farsetti il più famoso è Antonio Canova, che giunse a Venezia nel 1768. In tal modo, molto prima di recarsi a Roma, lo scultore si era già trovato immerso tra le opere antiche. Non fu il solo membro della famiglia Farsetti ad amare l’arte. Suo cugino Daniele ne ereditò la collezione e addirittura la incrementò, proseguendo la sua opera di mecenatismo degli artisti contemporanei. Però, nei primi anni dell’Ottocento i beni della famiglia andarono dispersi e le collezioni vendute. I contemporanei riponevano nel suo mecenatismo tutte le speranze di un grande risveglio culturale. In un periodo in cui la nobiltà aveva ormai abdicato al suo compito tradizionale di protettrice delle arti, Farsetti fu l’unico a darne esempio. Si pone a metà strada tra i mecenati del passato, che finanziavano i propri splendori con le loro stesse risorse, e gli uomini nuovi, del tipo di Andrea Memmo, che concepivano l’incoraggiamento alle arti come un servizio pubblico destinato al beneficio della comunità. 2. Andrea Memmo Andrea Memmo come mecenate è molto più interessante. Nato nel 1729, in gioventù era stato frequentatore abituale della casa del console Smith. Chi più di ogni altro influì sulla sua vita fu Carlo Lodoli e Memmo non trascurò mai occasione per diffondere le sue idee e proclamare il debito che sentiva di avere nei confronti del suo maestro. In seguito divenne il membro più “illuminato” dell’aristocrazia veneziana, ispirandosi sempre più alla cultura e alle idee francesi. Nel 1775 fu nominato provveditore di Padova. Qui incominciò a esercitare quell’attività di mecenate che sarebbe divenuta la principale preoccupazione della sua vita e che costituisce il suo più autentico contributo alla storia. Sia per la loro origine sia per il modo di attuarle, le idee di Memmo rispecchiavano infatti un atteggiamento nuovo, tipico dell’età dei lumi, nei confronti dell’arte. Appena giunse a Padova le autorità municipali gli chiesero di prendere provvedimenti in favore dell’annuale fiera agricola. Era necessario trovare un sito adatto dove i mercanti potessero installare i loro banchi. Di fronte alla chiesa di Santa Giustina si stendeva una vasta area acquitrinosa, il Prato della Valle; Memmo decise di bonificare questo terreno e di costruirvi al centro un isolotto che potesse essere usato dai commercianti. Predispose una pianta di forma ovale, ispirata al Colosseo. Come concezione il progetto di Prato della Valle fu probabilmente il più grande esempio di pianificazione urbana mai ideato in Italia dal tempo delle grandi realizzazioni papali a Roma. Ma i fondi a disposizione erano limitati: bisognava raccogliere il denaro. A questo scopo Memmo ideò lo schema che giustifica la trattazione di Prato della Valle in un libro dedicato all’arte. Invitò alla collaborazione il pubblico di tutta Europa, aprendo delle sottoscrizioni per una serie di statue da collocare all’interno dell’isola, lasciando ai donatori la scelta del soggetto e dell’artista. Inoltre le basi delle statue avrebbero rinforzato gli argini del canale, costituendo allo stesso tempo una galleria pubblica di modelli di civica virtù, in armonia con la concezione illuminista. Per questo progetto occorrevano 88 statue. Potevano essere raffigurati soltanto nobili oppure uomini che avessero contribuito in modo particolare alla gloria della città; inoltre soltanto certe classi potevano offrire statue a loro nome. D’altra parte Memmo ci teneva particolarmente che l’offerta di una statua non fosse riservata esclusivamente ai ricchi. Si insistette sulla necessità di un certo livello qualitativo e fu nominata una commissione con il compito di controllare che le varie opere vi si attenessero: si doveva usare lo stesso tipo di pietra per tutte le statue e le iscrizioni dovevano essere redatte in latino ed essere concise. 67 Fu lo stesso Memmo a dare il via all’opera offrendo una statua di Antenore, il leggendario fondatore di Padova, che sarebbe stata scolpita da Francesco Andreosi. Nel 1781 venne nominato ambasciatore a Roma. Nella città Memmo non perdeva il suo entusiasmo per il progetto. Tormentava continuamente gli amici con richieste di statue, proponendo loro i soggetti e diffondendo con ogni mezzo le sue idee. Fece disegnare i suoi progetti e li tenne esposti in casa in modo che potessero essere ammirati dai nobili e da tutti gli ospiti illustri, molti dei quali seguirono l’esempio del Papa e offrirono una statua. La fama di Memmo come esperto e mecenate era ormai veramente grande e nell’ultimo anno trascorso a Roma pubblicò gli Elementi dell’Architettura lodoliana, la prima e unica trattazione completa delle teorie architettoniche del suo maestro. I risultati di Prato della Valle, alla resa dei conti, sono difficili da valutare. L’intervento insolito di tanti diversi mecenati e il desiderio di completare l’opera rapidamente e senza troppa spesa provocarono inevitabilmente notevoli disparità di qualità e di stile tra le statue. Molti scultori, tra cui Canova, tuttavia, mostrarono grande capacità e talvolta un’eleganza aggraziata che fa di Prato della Valle uno dei migliori luoghi italiani per vedere le ultime vestigia della scultura rococò prima che il neo classicismo la spazzasse via. Questo progetto rappresentò uno dei più nobili tentativi compiuti da un mecenate veneziano di unire il bello all’utile e di risolvere in tal modo il problema che ossessionava tanti pensatori dell’età dei lumi. Memmo aveva fatto decorare il suo palazzo con una galleria dipinta ad affreschi raffiguranti gli oratori, i poeti e filosofi dell’età classica, ognuno con il nome accuratamente scritto sul piedistallo, ma pare che non si interessasse quasi per nulla di dipinti, poiché ne possedeva 48 in tutto e per lo più erano copie. 3. Angelo Querini In Farsetti e in Memmo il mecenatismo fu indissolubilmente legato ai servizi resi alla vita pubblica a Venezia e a Padova. L’ultimo importante patrono delle arti veneziano, Angelo Querini, spinse molto più in là le sue idee illuministiche, ma limitò il suo amore per l’arte alla sfera strettamente privata. Nato nel 1721, era stato anche lui fervente ammiratore di Lodoli. Dopo un brillante inizio nella carriera politica egli si trovò presto in una situazione difficile di fronte alle autorità: era considerato troppo progressista e quindi un sovversivo; per questo venne arrestato. Una volta liberato, abbandonò la politica e si dedicò ad attività intellettuali e culturali. Fu sempre più coinvolto dalla spinta dell’Illuminismo. Dedicò la maggior parte degli anni che gli restavano da vivere alla costruzione e alla decorazione della sua straordinaria villa di Altichiero, a qualche chilometro da Padova. In contrasto con «i grandi palazzi immensi» i filosofi amano nascondersi in eremi modesti. In tal modo ad Altichiero «l'edificio non è sontuoso, l'arredo non è né ricco né elaborato, ma quel che è meglio, la sua distribuzione è la più semplice e comoda». Sui tavoli vi sono busti di filosofi antichi e moderni, quali Voltaire e Rousseau; l’influsso di entrambi si avverte sia nella villa sia nei giardini. Alle pareti delle varie camere sono esposte le piante delle grandi città europee, mentre nella stanza da bagno si allineano stampe di Piranesi. In tal modo l’utile si allea ovunque al decorativo. Su altre pareti si vedono delle incisioni di costumi orientali. La biblioteca contiene tutti i grandi classici oltre a una vasta collezione di libri di agricoltura, filosofia e teologia. Come espressione dei gusti di Querini il giardino è ancora più importante della casa. Mentre nelle grandi linee appare rigorosamente regolare, all’interno della sua struttura si può notare una «piacevole confusione» di arbusti e di piante. La parte principale del parco era concepita come un’allegoria completa del modo di vivere prediletto del perfetto filosofo. Altari e pezzi di scultura antichi e moderni, scelti con grande cura, erano disposti qua e là sul terreno. La natura romantica dell’intera concezione diventa ancor più evidente nella «capanna della follia», una capanna ricoperta di frasche che recava affisso sulla porta il detto di Montaigne «dalla più grande saggezza alla follia c’è solo un mezzo giro di caviglia». All’interno c’era un antico busto che nei tratti del viso rassomigliava ha una vecchia pazza che era solita vagabondare per le calli di Venezia; alle pareti pendevano incisioni che insistevano su questo tema. La villa di Querini attirò grandissima attenzione e una folla di visitatori, tra i quali il granduca di Toscana; per tramandare l’evento, il padrone di casa fece erigere un monumento allegorico. L’amore per i pezzi antichi gli era chiaramente ispirato da Winckelmann e in essi egli vedeva quella misura e quell’assenza di eccessi che ne costituivano la principale caratteristica. Tra le opere moderne aveva un “Ercole” di Algardi e alcune sculture del giovane Canova, ma la sua collezione spaziava in ambiti più estesi; possedeva infatti anche antichi simboli fallici etruschi e numerose figure egiziane. A parte gli scultori, il solo artista con il quale Querini fosse in stretto rapporto era Dominique Denon, che si era stabilito a Venezia agli inizi degli anni Novanta del Settecento. Nell’attività di collezionista e mecenate di Querini è abbastanza evidente l’ispirazione letteraria. Per lui gli altari e i templi pagani avevano un significato reale. Con maggior fervore ancora di Winckelmann, Querini si rivolse al mondo ideale del passato e la sua idea del passato era indissolubilmente legata all’influenza di Rousseau. XVI: MERCANTI E PICCOLI BORGHESI Gli amatori d’arte più significativi apparsi nella seconda metà del secolo furono quelli su cui avevano influito le nuove idee giunte a Venezia attraverso Lodoli e Algarotti. Ma sotto certi aspetti il gusto da essi propagato non aveva rapporto con quella che era stata fino ad allora la più fertile tradizione dell’arte veneziana. Questa tradizione, che ebbe il suo ultimo grande maestro in Francesco Guardi, fu proseguita da uomini di posizione assai meno elevata. Sempre che li si conoscesse, questi uomini erano considerati semplici mercanti o agenti che contribuivano, per conto di ambasciate straniere, a saccheggiare le ricchezze apparentemente inesauribili della città in cui vivevano.
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