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Riassunto di "compendio di pedagogia dello spettacolo" Massimiliano Stramaglia, Appunti di Pedagogia

Il documento è un esaustivo riassunto del volume. Comprende anche l'introduzione e le conclusioni. Per agevolare lo studio ogni capitolo è già stato suddiviso in paragrafi che ne enucleano le informazioni salienti.

Tipologia: Appunti

2022/2023

Caricato il 14/11/2023

Alessiapaideia
Alessiapaideia 🇮🇹

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Scarica Riassunto di "compendio di pedagogia dello spettacolo" Massimiliano Stramaglia e più Appunti in PDF di Pedagogia solo su Docsity! COMPENDIO DI PEDAGOGIA DELLO SPETTACOLO Educare nell’epoca del neo-divismo. Premessa La sfida comunicativa - la nascente arte di auto-rappresentarsi quali nuovi divi della società dell’immagine. NELLE FORME DI COMUNICAZIONE SPETTACOLARE È IMPLICITA UNA TRAMA EDUCATIVA - LA FUNZIONE SOCIALE DELL’INTRATTENIMENTO. Il saggio “Compendio di pedagogia dello spettacolo” nasce con l’intento di fornire una chiave di lettura della società odierna e delle forme attuali di comunicazione e spettacolo. L’obiettivo è leggere la trama educativa implicita nelle diverse forme di comunicazione spettacolare, così da insegnare a diventare critici e riscoprire, assieme ai giovani d’oggi, la funzione sociale dell’intrattenimento troppo spesso dimenticata. LA REGOLA DELLA CONTRADDIZIONE - una superficie perfetta sotto la quale dilaga la più triste delle realtà (p.10). Trattandosi di una società fondata sulle apparenze, è importante saper comunicare e fare di sé oggetto di mercato, siamo nello spettacolo e siamo noi stessi “spettacolari” - il culto dell’originalità, che oggi è tanto di moda ne è un esempio. I bisogni intimi e meno appariscenti sono relegati in una terra di nessuno: i sintomi dell’era mediatica sono lusso, sfrenatezza, sfrontatezza, questi hanno reso gli adulti contemporanei sempre più evanescenti e desiderosi di un niente che tarda arrivare. Emerge, in questo contesto, il concetto freudiano di disagio della civiltà, proprio perché la società si basa oggigiorno su ideali inarrivabili di bellezza, pulizia e ordine, emerge un diffuso disagio per l’ideale disatteso  Sembra, quindi, che per diventare più belli siamo diventati più brutti (parafrasando Heidegger). Eppure l’arte e lo spettacolo non hanno mai rinnegato il legame diretto che sussiste fra le belle parvenze e l’abisso che si nasconde dietro quelle. L’ARTE SE È DAVVERO ARTE STUPISCE Non tutto lo spettacolo è arte, perché sia degno di essere guardato esso deve avere contenuti, messaggi. La riflessione pedagogica propone questo volume proprio per tornare a investire sui contenuti (già Giovanni Maria Bertin si interrogava sull’estetica televisiva alla fine degli anni 60 del 900). La critica pedagogica non è mai stata esente dall’incontro con la dimensione mediatica e comunicativa, lo stesso concetto di paideia sarebbe impensabile oggi se non alla luce dell’impatto che la comunicazione mediatica ha avuto sull’arte, sull’educazione, sullo spettacolo, sulla cultura. In fondo, l’educazione è comunicazione (Corsi), e la comunicazione educativa si gioca sulla falsa riga della comunicazione spettacolare (o media-mediatica) fra autenticità e inganno, fra essere e sembrare, o tra convinzione e persuasione. L’obiettivo è tornare a educare, a ispirarsi a quanto trasmesso, non solo saperlo vedere e sentire, guardare e ascoltare, e a non subirlo. Cap. 1 SENZA DIO, SENZA DIVI. IL NEO-DIVISMO. DIVISMO vs NEO-DIVISMO e LA REGOLA DELLA CONTRADDIZIONE (ricetta base per il successo mediatico). Il divismo è un fenomeno sociale che consiste nel culto collettivo di celebrità cinematografiche che si fa risalire agli anni 10 del ‘900. I divi in questione hanno caratteristiche di ultra mondanità: celebri, famosi e soprattutto inarrivabili. Ad esempio, Marilyn Monroe il cui dualismo (good girl-bad girl) diverrà la base della creazione artificiosa di molte delle successive star. Il pubblico, infatti, ha sempre amato i personaggi controversi e “fuori dalla norma”, che interpretano il ruolo del ragazzo della porta accanto ma che si rivelano in fondo perversi e disinibiti. Il neo-divismo, invece è un’ondata divistica che si fa risalire agli anni ottanta del novecento e che consiste in un processo di umanizzazione e massificazione delle celebrità (una sorta di caduta degli dei) che li rende sempre più simili all’uomo e alla donna medi, o della strada. LA NARRATIVA SPETTACOLARE E LA DICOTOMIA BUONO-CATTIVO Sapere che l’idolo ha delle parti segrete, reiette, ha lo stesso potere liberatorio della bestemmia, che degrada il sacro al profano, avvicinando l’idolo alla sorte di ciascun comune “mortale”. Individuare dei limiti nel “mito incarnato” inoltre ha una funzione consolatoria nei riguardi delle proprie mancanze. Sulla caducità del personaggio pubblico si poggia la corrente sadica dello spettatore, che così ricava conforto per sé (biasimare i peccati altrui funziona come una sorta di pubblica redenzione dei propri peccati: lo spettatore prende le distanze dal male e si solleva dalla colpa). UNA RELIGIONE, IL FANATICO PER LA CELEBRITÀ PRESCELTA Come con Dio, il Fan ha rapporti conflittuali con l’eroe mitizzato. Il pubblico, infatti, ha da sempre amato lo scandalo. Ad esempio nella serie I SEGRETI DI TWIN PEAKS: ciascuno è il contrario di ciò che appare. O ancora: in che modo la dialettica della good-bad girl ha inondato di dollari e unto di umori sessuali l’attrice Marilyn Monroe? Marilyn è bionda, bella, buona ma è passata di divano in divano per fare carriera. Probabilmente una celebrità odierna non avvertirebbe le stesse difficoltà che ha avuto la giovanissima Marilyn nell'improvvisarsi oggetto sessuale: oggi la costruzione sociale della celebrità segue canoni diversi, basati sull’esibizione di un falso spontaneismo, di una innovazione continua improvvisa e, soprattutto, di caratteristiche di medietà. IL PERSONAGGIO PUBBLICO DEVE SEMBRARE, OGGI, “UNO DI CASA”. I PERSONAGGI INARRIVABILI DEI DECENNI DEL DIVISMO FANNO SPAZIO A DIVI FAI- DA-TE, IL CUI SUCCESSO NON SI BASA TANTO SU UN CALCOLO D’IMPRESA, QUANTO SULLA CAPACITÀ DI “ARRIVARE IN FRETTA” AL GRANDE PUBBLICO ATTRAVERSO I CRITERI DELLA FAMILIARITÀ, DELLA NON-ECCEZIONALITÀ E DELLA SIMILARITÀ (doti non eccezionali, non ingombranti). Figli dell’era divistica, i personaggi sono diventati: muscoloso lui, suadente lei. Siamo tutti divi e dunque non c’è più spazio per la sublime bellezza di Marilyn Monroe. Le attrici devono pagare il dazio dell’aggiornamento di Instagram e mostrarsi senza trucco, in fin di vita, in preda al delirio da chirurgia plastica. Cap. 3 LA PROSPETTIVA DELLA CHIESA ANCHE LA CHIESA RITIENE CHE LO SPETTACOLO INFLUENZI L’EDUCAZIONE Anche la chiesa ritiene necessario indagare l’ambito dello spettacolo secondo la prospettiva pedagogica in quanto lo stesso Comitato per il progetto culturale della Conferenza Episcopale Italiana (CEI) ha rilevato e messo per iscritto in LA SFIDA EDUCATIVA (dedicando un intero capitolo allo spettacolo) il fatto che i media interferiscono nel processo educativo (possono assecondarlo, sostenerlo o renderlo più arduo); non è vero quindi che i messaggi e gli esempi veicolati dai media passano in secondo piano o lasciano indifferenti, è aperto, dunque, il dibattito circa la pervasività del mezzo. Tali messaggi possono infatti ottundere la mente fino ad anestetizzarla, oppure emotivizzare la realtà al punto tale che la percezione soggettiva diviene il reale per antonomasia, e il narcisismo impera tra i telespettatori. LE MODALITÀ ATTRAVERSO LE QUALI I PRODOTTI MEDIATICI VENGONO CONFEZIONATI E COMMERCIALIZZATI INFLUISCONO SULLE SCELTE DEL PUBBLICO DI OGNI ETÀ. IL CONSUMATORE MEDIATICO NON É CONCEPITO PIÙ COME RICETTORE PASSIVO Egli interagisce con il medium, e ha l’illusione di una partecipazione demagogica (mira ad accaparrarsi il suo favore) a un “mondo” o ipo o iper-stimolato. Infatti le tendenze sono due, quella dell’ipo-specializzazione: reality show i cui concorrenti sono persone qualunque spesso senza arte né parte; e dell’iper-specializzazione: i tecnicismi dei talent show, che esibiscono artisti di straordinario talento, nascondendone l’anima dietro un’immagine progettata a tavolino. Così anche i cantanti sofisticati cedono alle lusinghe del mondo delle mere apparenze e si trasformano nelle caricature di loro stessi. Oppure, attori di indubbio talento vengono ingaggiati in progetti dal dubbio valore artistico e comunicativo, pena il rimanere “fuori mercato”. LO SPETTACOLO PROMUOVE OGGI LA MEDIETÀ E LA MEDIOCRITÀ - chi ama stare nel conflitto? Si tratta di un modello educativo (proposto dallo spettacolo) che risponde a un criterio bipolare (o di irrealtà): o scadente, o perfetto, giammai “nella norma”. Per questa ragione la logica dello spettacolo veicola un modello di “medietà alterata” o mediata, in primo luogo perché ciascuno di noi si sente “superiore alla media”, o comunque vuole sentirsi unico e “non come gli altri”. In secondo luogo perché ciascuno è cosciente dei propri limiti e della propria penuria e tanto meno questi aspetti sono socializzati, quanto più il pubblico ama ritrovarli nei personaggi famosi, così da consolarsi. I MODELLI ALTERNATIVI PROPOSTI DAI MEDIA CI FORMANO I modelli diventano quasi una nuova religione, la pubblicità ad esempio è una forma di preghiera (si ripete sempre uguale a se stessa, dura pochi secondi e regala l’illusione di poter avere controllo sulle variabili esistenziali). Anche la maggior parte delle canzoni, ad esempio “essere umani” di Marco Mengoni è un atto di fede, la sua ripetitività consola, crea un’immagine di quiete interiore. Anche ammirare un’opera d’arte ha una funzione consolatoria: un dipinto è un concentrato di vita vissuta che sta tutto lì, sulla tela, sintetizzato in una sola immagine. CONSOLAZIONE: LA PAROLA CHIAVE DELLA PEDAGOGIA DELLO SPETTACOLO E, NON A CASO, DELLA RELIGIONE. Così come il religioso trova conforto nella fede, l’ascoltatore/spettatore solleva il suo spirito attraverso la trance offerta dalla mediazione spettacolare: il film rispecchia, la canzone risuona; l’intrattenimento tiene compagnia. LA MONODIREZIONALITÀ DEL DISCORSO MEDIATICO Esso è correlato al rischio dell’eterodirezione (in sociologia, di individuo o di gruppo privo di autonoma capacità di elaborazione e le cui scelte comportamentali sono a tutti i livelli influenzate o condizionate dall'esterno, spec. attraverso i mass media) già individuato da David Riesman in La folla solitaria (1950): i pochi che condizionano i molti, una sorta di oligarchia comunicativa che assume le vesti di una falsa democrazia. Il condizionamento del gusto della maggioranza (che non dispone di strumenti e finisce per pensare che la scelta sia la propria) avviene attraverso molteplici forme (immagini e linguaggio adoperati, autorevolezza di coloro che veicolano queste informazioni). IL TERRENO FERTILE SU CUI SI RADICA LA STRATEGIA DI MARKETING DEGLI INFLUENCER - masse di adolescenti e adulti eterodirezionati dal meccanismo proiettivo, alimentato dalla diffusione di contenuti mediatici. Si tratta proprio, secondo Riesman, della ricettività dell’utente dinanzi al medium. Proprio questa ricettività ha aperto la strada ad una società fondata sul presente (la diretta sui social), e sull’immedesimazione immaginativa negli altri, oltre che sul confronto continuo con quanto gli altri sono/hanno/fanno - proprio perché come afferma anche la pellicola Il silenzio degli innocenti: noi desideriamo ciò che vediamo ogni giorno. Generazioni intere, quindi, delegano così il proprio desiderio di potere e successo (onnipotenza) a un personaggio altro (influencer/vip, non più i divi del cinema Hollywoodiano; o le pop star adolescenziali, ma personaggi “in cerca di autore” senza doti peculiari) e credibile nel suo ruolo. SONO GLI OUTSIDER A DECIDERE COSA DIVENTERÀ MAINSTREAM GLI ANNI A VENIRE - le mode nascono ai bordi. Per questo il meccanismo della “delega” è fondamentale per riscuotere consensi: chi si occupa, quindi, della promozione degli artisti e di sceneggiature di film capta/intercetta i desideri dei marginali (del popolo) e li traduce in forma spettacolare; il grande pubblico - così - sentendosi in linea con quanto trasmesso, risponde con l’assimilazione totale del messaggio del personaggio (al quale si delega il potere di rappresentanza, non tanto per osannarlo ma per avere un sostituto simbolico di ciò che un tempo erano la madre e il padre - detentori di potere). I PERSONAGGI HANNO UN SUCCESSO LIMITATO PERCHÉ IL PUBBLICO HA PURE BISOGNO DI “DISTRUGGERLI”, RIUSCIRE A FARNE A MENO – Si tratta dunque si di una delega, ma a tempo determinato: dura quanto basta per considerarsi alla pari del proprio idolo o per arrivare a sminuirlo come la volpe con l’uva. Dopo di che o si diventa adoratori di sé o si passa ad un altro feticcio. Il ricorso agli idoli, peraltro, avviene solo per necessità, come accade per la maggior parte dei cattolici, i quali pregano se hanno bisogno di qualcosa… LO SPECCHIO NON FA MAI SPAZIO A UNA PRESENZA ALTRA ACCANTO ALLA PROPRIA. L’immagine riflette, infatti, solamente le proprie sembianze, e semmai la propria ombra, il riflettore è puntato su di sé: è ciò che “si sente” ad avere valore, ciò che “si immagina sia” a diventare vero, non la realtà in sé. Non vi è posto per i misteri in questo nuovo atto di fede. Comunque è vero che lo spettatore attraverso il cinema/tv/musica conosce territori (geografici, culture, identità di genere, teorie scientifiche, opinioni comuni) che forse non avrebbe mai potuto esplorare. Le nuove identità protesiche (piene di protesi, dai piercing ai telefoni mobili) e proteiformi (eclettiche e cangianti) dell’oggi ambiscono ad un tutto composito che non arriverà mai. Così, l’identità medesima dei più giovani diviene di plastica. modellabile, fluida (il genere è fluido, l’età è fluida, la classe sociale di appartenenza è fluida, l’amore è fluido - Bauman 2005). E come aveva anticipato la CEI, siam davanti ad una generazione che se da una parte ha molta meno limitatezza interiore e mente aperta, dall’altra si dimostra incapace di compiere valutazioni profonde, di comprendere davvero cosa è importante nella vita e cosa no, di compiere passi impegnativi, una generazione portata ad assaggiare tutto ma tentata dalla paura di rendere irrevocabili le proprie scelte. REALIZZARSI NEL NUOVO CONTESTO SOCIALE IMPLICA UNA COMPETENZA DISLOCATORIA SENZA PRECEDENTI: quanto più l’identità è plasmabile, tanto più aumentano le probabilità di successo. UNA SORTA DI INEDITA PEDAGOGIA DELLA CULTURA FRA I BISOGNI EMERGENTI DELL’EDUCAZIONE CONTEMPORANEA, la quale nella prospettiva delle Chiesa: - deve tener conto delle intensissime culturalizzazioni cui sono sottoposti i giovani d’oggi - non può confondere l’insegnamento dell’uso delle tecnologie come il rimedio a tutti i mali - confida nella presenza partecipe dei genitori come educatori di primo livello. Emerge però una consolazione, non ci sono solo veline e nullafacenti dei reality show, lo spettacolo è un mondo dove si lavora duramente e dove la competizione è spietata (pp.42- 43). LA COMMISSIONE EPISCOPALE NEL 1964 CI AVEVA VISTO LUNGO QUANDO HA AFFERMATO CHE SAREMMO ANDATI INCONTRO A GENERAZIONI CHE ALLA PRECOCITÀ DELLA MATURITÀ FISICA AVREBBERO MOSTRATO UN RITARDO NELLO SVILUPPO DELLA PERSONALITÀ E CHE GLI AMBIENTI IN CUI I GIOVANI VIVONO SONO SOVRAECCITATI DAL PUNTO DI VISTA SESSUALE. Al mondo d’oggi non c’è più tempo per conoscerci, basti pensare alla trasmissione televisiva Naked Attraction, dove sconosciuti si incontrano e si conoscono per la prima volta da nudi, una volta ci si presentava con il volto e poi semmai si passava all’incontro sessuale. Nell’era di Naked Attracion, divengono sempre più laiche e contemporanee le indicazioni redatte nel 1964 dalla Commissione episcopale per la gioventù. I BAMBINI DI OGGI SONO SOGGETTI A UN PRECOCISMO GENERAZIONALE (MENARCA E POLLUZIONE NOTTURNE SEMPRE PIÙ ANTICIPATE). Molti studiosi si interrogano sulla relativa immaturità di una certa generazione, più prossima al valore dell’apparire e dell’essere, di fronte ad un utilizzo sempre più precoce e dannoso delle tecnologie. Dal primato del cinismo siamo giunti a quello del piacere, un piacere cinico e freddo che riduce l’altro a un puro e fruibile oggetto sessuale, sopprimendo ogni forma di immedesimazione e desiderio. Occorre quindi educare i giovani ad evitare tutto ciò che è dannoso per la loro età, in modo da salvaguardare l’integrità della loro sessualità. L’EDUCAZIONE DELL’ESTREMISMO DELL’APPARIRE. Il capitolo fa riferimento all’album Californication dei Red Hot Chili Pepppers, perché fa riflettere sull’importanza, ancora oggi nell’era digitale, dell’educazione analogica. Oggi l’educazione mira alla spontaneità e all’autenticità: ciascuno ha diritto a essere come vuole, a dire la sua ed a esprimere il proprio essere attraverso manifestazioni emotive ed estemporanee. Al valore dell’intimità è subentrato quello dell’extimità e di un nuovo estremismo dell’apparire. Gli adulti dovrebbero educare i minori a non dire tutto, a non essere sempre “se stessi”, a non anteporsi all’altro: in altre parole ad usare diversi registri comunicativi a seconda dei contesti in cui ci si muove, non è infatti sempre opportuno dire ciò che si pensa, o vestirsi in un certo modo o tentare di primeggiare sempre. Atteggiamenti di questo tipo si rivelano controproducenti perché mettono l’altro in condizione di poterci attaccare. Educare ad essere autentici sì, ma con i pochissimi che lo meritano. Non alimentando una faticosa cultura del sospetto ma del rispetto dell’altro a partire dalla compassione per sé. Cap. 6 CULTURA “ALTA” E CULTURA “BASSA” Cos’è la cultura? O, meglio, cosa significa la parola cultura oggi? Fra le diverse suggestioni fornite da sociologi, psicologi, e pedagogisti, la più stimolante è desumibile dal saggio di FriedrickH. Tenbruck (allievo di Max HORKHEIMER), dal titolo: L'importanza Dei mass media per lo sviluppo sociale e culturale. “La televisione trasmette buoni/cattivi programmi, ma trasmette solamente le informazioni e non la cultura vera e propria.” Nella dialettica tratteggiata da Umberto Eco in Apocalittici e integrati (saggio del 1964), la prospettiva enucleata si pone nel solco degli apocalittici: la comunicazione mediatica appartiene alla “cultura bassa”, o incultura o non-cultura. La “cultura alta” è divulgata da canali e istituzioni non mediatici e rispetta un codice comunicativo più elevato (non mass-ivo o popolare). Non la pensa allo stesso modo, ed è pertanto collocabile fra gli integrati, Daniel j. Levitin il quale, ad esempio in relazione al confronto che ci potrebbe stare tra musica classica e rock n roll, dove la prima è sublime musica dei maestri e la seconda immondizia ripetitiva, sostiene che una buona melodia non conosce confini di classe, cultura, educazione. Al di là della querelle, la definizione emergente di cultura, condivisibile in parte con quella di Tenbruck è che “la cultura, oggi, è un sistema di concetti elaborati presso apposite sedi preposte al compito, e tras-formati dai mezzi di comunicazione massiva”; equivale a dire che di comunicazione e educazione mediatiche debbano occuparsene gli intellettuali, come anche i pedagogisti. Un grande maestro della pedagogia, Giovanni Maria Bertin, ha proposto l’approccio fenomenologico per lo studio delle situazioni che vedono i giovani dipendenti da fenomeni di mitizzazione o infatuazione collettive (i fans dei divi della canzone), anche Michele Corsi ha avvertito la necessità di indagare la pedagogia popolare. La proposta di Levitin appare (come quella di Tenbruck) non soltanto parzialmente accogliibile ma anche funzionale a spiegare → l’attaccamento all’idolo musicale e ritiene che grazie al vincolo mutuamente rinforzato di ritmo, melodia e accenti, combinato con un’esplosione di dopamina, che accompagna l’ascolto della musica, la nostra relazione con una certa canzone si faccia vivida e duratura, attivando molte più regioni del cervello di qualsiasi altra cosa possiamo ricordare. LA MUSICA E I PROCESSI DI COSTRUZIONE DELL’IDENTITÀ La musica ha un ruolo molto importante nei giovani, soprattutto nei processi di costruzione dell’identità. Quest’ultimi attraversano una fase di transizione, passaggio dall’infanzia all’età adulta, che può essere critica, diventano pertanto vittime del fascino dei divi, trasformati in modelli da imitare per costruire e rafforzare la propria identità, ma anche oggetto di amore sul quale fare esperienza del gioco amoroso. Il rapporto fra cultura “alta” e cultura “bassa” apre la questione del significato di postmodernità, il post-moderno altro non è che l’assimilazione di cultura “alta” e “bassa”, di gusto per il passato e appetito per il futuro in un sistema unitario di conoscenza massive e massificate. LA SOCIETÀ DELLO SPETTACOLO È DOMINATA DALL’INFLUENZA DEI MEDIA E DAL LORO POTERE DI DIFFONDERE CONOSCENZA. Il ricercatore Emanuele Isidori rileva come stiamo vivendo una crisi della cultura, la società dello spettacolo è caratterizzata da una specifica tipologia di comunicazione (chiama spettacolarizzata), ed è dominata dall’influenza dei media e dal loro potere di modellare e trasmettere la conoscenza. Di conseguenza, le persone che vivono nella società attuale sperimentano un degrado dei valori, della cultura, dei gusti. In questa comunicazione la linea tra la serietà e il ridicolo, tra il vero e il falso è molto sfocata . Questo accade perché la comunicazione viene veicolata e modellata dall’industria dell’intrattenimento. Si tratta di riflessioni rinvenibili in ambito sociologico con Baumann, in quanto la cultura oggi si conforma alla mercé del miglior offerente, per divenire un prodotto alla moda. Le medesime riflessioni sono evidenti in ambito musicologico con Nico Thom, il quale afferma come la musica popolare possa essere compresa come una parte di cultura popolare: nel discorso accademico c’è una distinzione tra musica come arte e musica popolare - risultato della distinzione tra cultura alta e bassa, si tratta di distinzioni che però nel linguaggio d tutti i giorni hanno un ruolo limitato. Eppure, torna ad essere una distinzione rilevante dal punto di vista identitario, nei contesti sociali, nel momento in cui si è percepiti in modo diverso se si è fan di Madonna, Mozart ecc… Le varie posizione degli intellettuali risultano chiare ed omogenee: nell’era coeva (postmoderna, dopomoderna, tecnologica.. ecc pa 70), l'imbarbarimento della cultura ha prodotto una serie di contaminazioni e meticciamenti che hanno finito per alienare sommessamente il portato teoretico della cultura. Ad ogni modo, se il genere umano fosse stato privo della dimensione spettacolare dell’esistenza, della quarta parete rappresentata dagli schermi dei nostri personal computers, non sarebbe sopravvissuto alla pandemia da SARS-COV-2. LO SPETTACOLO PUÒ EDUCARE Lo spettacolo se fruito con spirito critico o con i filtri adeguati può educare, ad esempio l’hip hop non è una musica educata ma può essere altamente educativa: un genere musicale, una danza, una narrazione che ruota intorno ai bisogni giovanili, è una vera e propria espressione sociale, una filosofia di vita che rileva un approccio culturale trasgressivo e dirompente rispetto ai modelli sociali dominanti. Attraverso la cultura dell’hip hop, una cultura marginale, può risultare uno strumento di lavoro educativo efficace nella comunicazione con i minori e nella elaborazione di un progetto basato sui singoli bisogni. Andy Warhol ci ha insegnato che la cultura popolare può essere fonte di ispirazione per l’arte e che attraverso la critica della cultura popolare è possibile veicolare contenuti di livello superiore (p.73 in poi). Cap. 7 LA MUSICA “LEGGERA” Questo capitolo tratta il tema della musica pop, o leggera, con riferimento al filosofo o sociologo tedesco, ed anche musicologo, Theodor W. Adorno. La musica pop - esordisce Adorno nel suo saggio sulla Popular music del 1941, viene abitualmente caratterizzata nei termini della sua differenza dalla musica seria, da una parte la musica colta o classica, dall’altra la musica di intrattenimento o popolare. Uno storico contemporaneo, Alberto Mario Banti, descrive la nascita del genere pop concludendo che si tratta di canzoni (le pop songs) scritte per “divertire” nel senso di allontanare i turbamenti e le preoccupazioni, questo devono fare le canzoni alla moda. Nel tempo qualcosa è cambiato, lo stesso Banti riconosce come la canzonetta - nata per alleggerire le pressioni psicologiche dell’ascoltatore possa adesso fare anche spazio - nel libero mercato dell’arte - a dei pezzi meno “mercificati”, non tanto nel senso del cantautorato, quanto nella direzione (inedita alle origini) di un crescente impegno etico condiviso, con chiare accezioni politiche di frantumazione e ricomposizione. Il compito della musica leggera non è estraneo/avulso alle tematiche di guerra (Imagine di J. Lennon), di povertà (Contessa Miseria di Carmen Consoli), di depressione (Freelove dei Depeche Mode), insomma di eventi e stati d’animo che caratterizzano l’esistenza dell’essere umano. Vittorio Bergonzini (che si trova nella fazione degli “integrati”, coloro che ritengono che la musica popolare sia altrettanto “seria” rispetto a quella classica) nel saggio La musica e la potenza del suo fascino (1971) esprimeva in maniera delicata e ● La musica non ha un mero “valore esistenziale” ma è essa stessa un esistenziale: nasce dal suono e risuona nell’esistenza dell’essere umano (NELL’ESSERE DELL’ESSENTE). La musica è consolatrice, è inclusiva, è una forma culturale ed è un “esistenziale”: le implicazioni sono molteplici. Nel margine della pedagogia clinica, la musica svolge una funzione ri-educativa perché attraverso l’ascolto e la produzione di musica si può imparare ad avere cura di sé, o a curarsi. L’aspetto inclusivo, piuttosto che vertere sul crinale della pedagogia speciale, può declinarsi nei termini della maggiore integrazione possibile di tutti e ciascuno. La musica è, allo stesso modo, un pretesto per arrivare al testo più ampio delle forme culturali prescolastiche, scolastiche, universitarie: con la musica e per il tramite della musica si apprende: si apprende ad essere, ad auto-percepirsi e a conoscersi, dal momento che la musica ci piace perché parla di noi. Così per l’educatore la musica può aprire strade da percorrersi accanto al soggetto educando, sostenendolo nell’individuare non tanto il come (la variabile, la mutevolezza dell’esserci) quanto il cosa (l’indicatore, l’orientamento esistenziale, l'orizzonte di senso, la road map). Cap. 9 SIAMO TUTTI JAMES DEAN La ribellione adolescenziale affonda le radici in un attore statunitense del cinema hollywoodiano James Dean. È l'iniziatore di un vero e proprio movimento giovanile, il mondo adolescenziale diviene un pianeta a sé separato dalle realtà infantili e adulte. L'attore è diventato una figura iconica grazie al film Gioventù bruciata (1955). In America a partire dagli anni 50 i giovani sentono il bisogno di opporsi ai genitori per auto- identificarsi attraverso modelli veicolati dai media. Nella pellicola, la critica si rivolge alla struttura familiare-tipo dell’America moralista e borghese, rispettosa delle convenzioni, che genera figli ribelli. I protagonisti sono tre adolescenti, con tre profili di personalità differenti, cui corrispondono tre modelli familiari disfunzionali. Il ritratto dei giovani che emerge è quello di una generazione che non può affidarsi a una famiglia e che possiedono una televisione per ammazzare il tempo (piuttosto che ammazzarsi). Il protagonista è Jimmy (interpretato da James Dean), il personaggio reagisce in modo violento se lo chiamano “coniglio” perché viene chiamato e considerato così da suo padre, rischia la vita nella “corsa del coniglio”. Jimmy ha un padre maternizzato-passivo e una madre che tiranneggia suo marito, per questo motivo non intende identificarsi in loro. Il film allude con estrema delicatezza (negli anni 50 del 900) a un amore omosessuale, che altro non è che la ricerca di un padre amorevole. LA STORAI DI JEAMS DEAN E IL PERSONAGGIO DI JIMMY James a 9 anni perde sua madre a causa di un cancro, così suo padre decise di mandarlo nell'Indiana affidandolo alle cure di sua sorella e di suo cognato. Cresciuto orfano e lontano dagli affetti famigliari, James cerca suo padre ma con scarsi risultati. Prende a modello Marlon Brando così tanto da ispirarsi a lui nel voler diventare un attore. La scelta si scontra con il volere del padre, da cui egli è ritornato. Non solo il rifiuto/tradimento del padre nell’accogliere i suoi sogni, anche l'incontro infelice con Brando, (che lo snobba, poiché tutti accusavano James di imitare proprio Brando) gli rendono la vita difficile vin quanto rifiutato da entrambi i modelli di riferimento di cui avrebbe avuto bisogno. Tutti gli adolescenti, infatti, consapevoli o meno assumono come modello di riferimento l’adulto e nel caso di James si trattava del padre o di chi in qualche modo avrebbe potuto farne le veci. James trovò il suo mentore e modello (finalmente) una volta incontrato il regista di Gioventù Bruciata, Nicholas Ray. Lo prende come modello, al punto tale da decidere che in futuro sarebbe diventato un regista. James muore a soli 24 anni, alla guida della sua Porsche in un terribile scontro causato dall'eccesso di velocità. L'incidente contribuisce a dare forma alla sua immagine, attorno alla quale gira l'immagine dell'adolescente, ribelle nei riguardi del padre o delle regole/in cerca di un padre o di regole. LA STRADA APERTA ALLA RIVOLTA DEGLI ANNI 60 James Dean ha aperto la strada, senza rendersene conto, alla rivolta degli anni 60 in America e altrove. Dal suo disadattamento è partito quel processo di rivendicazione della propria novità sociologica da parte di una gioventù che ha potuto fare del suo idealismo una molla per una liberazione collettiva. L’immagine di Dean ha attraversato, come quella di un inconscio padre senza età, perennemente coetaneo, i sogni di tanti. Secondo la lucida analisi di Edgar Morin la persona e il personaggio di James Dean sono da considerarsi intramontabili per una serie di ragioni, con lui gli adolescenti passano dall'essere classe in sé al sentirsi classe per sé. James fornisce a loro un canone di bellezza, degli atteggiamenti specifici e un apposito guardaroba, oltre che un modello di sorpasso del padre. James Dean diviene un modello, oltre che l’espressione tipica (allo stesso tempo mediocre e pura) dell’adolescenza in generale. James si ribella ai canoni del tempo, portando con sé un atteggiamento ostile nei confronti della società andando alla ricerca di fantasia artistica, di anticonvenzionale e di simboli di virilità (tenuta da operaio). ADOLESCENZA TRA FRAGILITÀ E SPAVALDERIA In James Dean si sono identificati intere generazioni e generi spettacolari (cinematografici, letterari, musicali e televisivi), al di là della sua precoce morte, ha creato una moda, uno stile, una cultura e una tendenza. Senza di lui le scienze umane e sociali non avrebbero saputo chi fossero gli adolescenti, con la sua storia impariamo che siamo tutti padri di noi stessi. D’altra parte già nel 1955 Edgar Morin descriveva l’atteggiamento adolescenziale come denotato da spavalderia e timidezza, e ai tempi recenti Gustavo Charmet ci dice più o meno la stessa cosa, intitolando il suo saggio “Fragile e spavaldo. Ritratto dell’adolescente di oggi (2009). Con la storia di James Dean impariamo che siamo tutti padri di noi stessi, intenti a fare i conti con le minacce che incontra la nostra esistenza. Cap. 10 TELE-VISIONE: FRA REALITY SHOW E IDENTITÀ VIRTUALI Il meccanismo su cui si fondano il successo dei talent e dei reality risiede nello specifico ammiccamento che queste trasmissioni televisive producono nei confronti dello spettatore, che può finalmente sognare i suoi quindici minuti di celebrità comodamente seduto in poltrona, assistendo allo spettacolo della mediocrità (per un verso: reality) e della talentuosità - reale, presunta, mancata - per l’altro (talent). Nel caso dei reality come grande fratello, o dei talent come Amici, si deve spezzare una lancia a favore di Maria de Filippi, la quale sa davvero parlare alle folle, rispettando tutti i criteri della comunicazione mediatica attuale: la semplificazione (uso di parole dalla massima comprensibilità), l’aggiunta (il ricorso alle forse finte diatribe fra le giurie di amici, o le vamp di uomini e donne ad esempio), la frammentazione (ovvero il rispetto maniacale dei tempi televisivi), la serializzazione (sfide tra squadre, i ruoli prevedibili degli insegnanti della scuola di amici),la composizione (rinvenibile nella logica degli assemblaggi fra canzone, balletto, teatro ad esempio). Alla storia del costume e dello spettacolo si devono quindi parti delle nostre identità, che ci piaccia o meno. Risale, infatti, agli anni 20 del 900, Ia fase in cui lo Start-System americano gioca sull’equivoco fra persona reale (attore) e personaggio, nel liquido amniotico di questa strategia comunicativa sono nati James Dean, Marilyn Monroe, Madonna, Micheal Jackson e Andy Warhol. Divi troppo persone per non esserlo anche nei panni dei personaggi interpretati. CIÒ CHE È PUBBLICIZZATO CI ATTRAVERSA, DIVENTA PARTE DI NOI, CI PIACCIA O MENO. Icone di questo calibro divengono simboli presenti, onnipresenti o compresenti nelle esistenze di ciascuno. E con loro, da Andy Warhol in avanti, anche gli oggetti diventarono prodotti di mercato. Tutto ciò che lo spettacolo produce è fatto della stessa sostanza delle identità degli spettatori. Secondo questa logica la televisione intera è uno strumento creato per diffondere la pubblicità e non uno che ospita pubblicità per poter vivere. In altri termini, il suo intento è quello di creare profitto diffondendo pubblicità (variabile indipendente) attraverso l'intrattenimento (variabile dipendente). In quest’ottica, i cartoni animati sono da intendersi quali spot di giocattoli, il GF o Amici diffondono sponsor, i talk-show promuovono persone di vero-scarso-presunto successo che parlano con penne di marca fra le dita e sono vestiti dallo stilista di gran moda. Con lo smart working siamo diventati tutti tele-visivi (non fosse altro che per non apparire maleducati o fuori luogo agli occhi dei vicini), sono i casi del nuovo look da pandemia: giacca e cravatta sopra, pantalone del pigiama sotto… oppure anche i baffi ottocenteschi, che nessun uomo porterebbe oggi se non per mera provocazione. I PROGRAMMI TV COME I REALITY E I TALK SHOW CI ATTRAGGONO PER LA DINAMICA DEL RISPECCHIAMENTO. A proposito del successo di programmi come Amici o Grande fratello, Baumann sosteneva che il messaggio di questi reality show è che in fondo la realtà si riduce alle inevitabilità dell’esclusione e alla lotta per opporvisivi, la maggior parte degli spettatori conosce già questa verità ed è proprio questa familiarità profondamente radicata ad attirarli in massa di fronte alla tv, “ciò che vediamo sono persone che cercano escludere altre persone per evitare di essere escluse a loro volta”. La vita è basata, d’altra parte su logiche di inclusione e di esclusine, e si fonda quindi su quelle stesse tattiche che vediamo messe in scena nei reality (le medesime strategie, alleanze, che poi vediamo realizzarsi tra i politici italiani. LA TV POPOLARIZZA CIÒ CHE PRIMA ERA ELITARIO, LE MASSE PERÒ NON POSSONO FAR ALTRO CHE PERCEPIRE LA PUNTA DELL’ICEBERG DI QUESTA “IMMAGINE” PERCHÉ L’ESPOSIZIONE A CUI SOTTOPOSTE È TROPPO BREVE. Ma, siamo certi che il pubblico di telespettatori sia ottuso, così come è dipinto dagli intellettuali? Una tesi analoga è quella di Piero Vereni a proposito di Maria De Filippi. L’ipotesi è che alcuni programmi di impianto reality, come anche C’è posta per te , consentano alla piccola borghesia e al proletariato di assimilare - rapidamente e senza la necessità di accumulare lo specifico capitale culturale - il modello di identità borghese, la televisione così rende disponibile alle masse una forma di identità per lungo tempo elitaria e questo non può che provocare risentimento nei titolari originari di (giovanile, adulto anziano) proprio quando si accetta che non tutto è spiegabile e che in specie le ragioni dell’altro possono non essere le nostre. In gioco non c’è l’empatia ma l’entropatia, essa rappresenta il dinamismo che vede la persona essere un personaggio, ritornare su di sé, guardare il personaggio dall’esterno per poi cum-patirlo. Senza tale dinamismo l’alterità sparirebbe. Il valore accrescitivo dell’immersione filmica è quello di dirigersi verso l’altro, sentendo il suo sentire senza presumere di averlo afferrato. Cap. 12 IDENTITÀ A TEATRO. QUANDO MANCANO I CONFINI. L’educazione teatrale (diversa dall’educazione al teatro) consente al soggetto educando di mettere in scena una parte di sé, ovvero quella immaginata o che il soggetto stesso non può permettersi di esibire nel corso della vita quotidiana. A volte può capitare che nel personaggio interpretato prenda corpo la parte più profonda di sé che la società o l’educazione stessa hanno represso. Il teatro può essere realmente educativo perché consente l’accesso a una chiave di lettura altra da quella offerta dal proprio circuito esperienziale, aprendo alla possibilità di sperimentare parti di sé che in caso contrario non avrebbero libertà di espressione. Il teatro è dunque una forma di co-educazione, auto-educazione e comunicazione molto importante e a ogni età: l’uomo e la donna di teatro sanno “stare al mondo”, conoscono le regole dei ruoli, sanno che certe battute possono essere dimenticate e altre meno, hanno contezza che la sporcatura di una scena inciderà sull’economia dell’intero spettacolo e sulle azioni degli altri attori. L’EDUCAZIONE TEATRALE È FUNZIONALE ALLA FORMAZIONE DI CONFINI RELAZIONALI: se si interpreta un ruolo (in maniera fedele, creativa, alternativa) i due valori che debbono orientare l’interpretazione dello stesso sono il rispetto del personaggio e la generosità verso il pubblico che non è un mero ricettore passivo della drammatizzazione, ma una componente saliente della stessa. In fondo l’attore non reciterebbe in assenza di pubblico. IL CONFINE È CIÒ CHE CONSENTE ALL’IDENTITÀ DI ESSERE SE STESSA E NON ALTRO DA SÉ, L’ASSENZA DI CONFINI È PERICOLOSA PER SÉ E PER GLI ALTRI: chi non ha confini non distingue il marito dal figlio, il discente dall’amante, l’amico dallo psicoterapeuta. Chi non ha confini (come ad esempio chi non dice mai di “no”) o chi ha confini troppo spessi, spesso esprimerà la sua rabbia e metterà in atto modi di fare inopportuni, in quanto rischia un disagio psichico importante. La cultura è un sistema di simboli codificati (regole) di cui la nostra specie è dotata. Senza regole non ci sarebbe cultura e di conseguenza umanità. Chi non ha confini (o limiti, o regole, o certezza di sé) non ha etica: non si ama e non ama. Il teatro, invece, restituisce a tutti gli attori un confine: dalla scenografia alle diverse sequenze teatrali, le coordinate spazio-temporali del vissuto rappresentato vincolano ciascuno ad avere la propria parte, persino nell’improvvisazione. Secondo Giovanni Cattanei - pedagogista e sociologo che identifica il teatro non come il teatro vero e proprio, ma come la vita vera, la realtà che viviamo – (visione utopica della società e della persona umana): nell’uomo c’è dunque una dimensione scenica, una “teatralità di comportamento” che non è genuinità/naturale, ma artificio. Affinché si ridiventi se stessi, ci si deve liberare di questa scenità, che è per lo più dovuta a imitazione di modelli, quindi ad un adeguamento a schemi fuori di sé. Il teatro si ha quando noi viviamo essendo noi stessi (visione utopica della società e della persona). Quando ci uniamo ad altri e con loro estrinsechiamo noi stessi, dando luogo ciascuno e tutti insieme a situazioni vere, in certo senso spontanee, senza preordinare nulla, rappresentando noi, in rapporto con gli altri. Cattanei concepisce la vita come un grande teatro, così apre una riflessione circa i diversi ruoli sociali, i quali, interpretati al di là di un ordine costituito, non sarebbero altro che libere emanazioni dell’essere persone → ovvero esseri, per statuto ontologico, in relazione. Non tutta la vita, però, è teatro. Lo diventa quando persone in gruppi agiscono fra loro, senza schemi, essendo liberamente se stessi, senza nemmeno proporsi di essere se stessi, in un certo modo studiato. In questo senso, appare come tutto sia teatro nel senso inverso rispetto a quello additato da Giovanni Cattanei: ogni nostra azione è inter-essata, e in ogni relazione vi è inter-esse, cioè qualcosa che “lega”. NON ESISTONO PERSONE EQUILIBRATE, MA PERSONE CHE CERCANO DI RIMANERE IN EQUILIBRIO. Così, l’attore non è colui che si pone dinanzi a uno spettatore, ma siamo tutti, in differente misura, attori e spettatori, chiamati a suscitarci e a educarci l’un l’altro. Questa lettura è una vera e propria proposta educativa. “Il nuovo attore” assume un ruolo pedagogico, di educatore e l’educatore vero è un attore. Quando invece ci si ritira dalle relazioni o si vive la vita come un teatro sempre aperto, è presente il rischio della patologia o della sola “esagerazione”, fermo restando che ciò può far parte della vita di ciascuno in quanto non esistono persone equilibrate, ma persone che cercano di stare in equilibrio. Michael Jackson ha saputo legare canto, danza e teatro in un tutt’uno, non sarebbe stato il re del pop se non fosse stato sopra le righe, la sua esistenza è stata emblematica in quanto non ha avuto confini definiti. È importante sin dalla tenera età sino all’anzianità educare al senso della teatralità, intendendo la teatralità del singolo come momento socializzante, cioè come momento in cui le singole personalità si fondono e si raccordano continuamente. Concependo gli attori come persone che hanno compiuto un lavoro su di sé e riducendo al minino le situazioni che portano alla finzione, dove potrebbe esserci il rischio della perdita di confini. È importante amare se stessi come gli altri, in egual modo, aprendo i nostri labili confini, ma non tenendoli spalancati alla mercé dei troppi immeritevoli. Cap. 13 MODI DELLA MODA: PER UN’EDUCAZIONE DI CLASSE. La scelta di concludere la rassegna di tematiche con il nesso fra moda (intesa come referente del corpo vestito) ed educazione non è affatto frivola o superficiale. Con “educazione” infatti, non va inteso soltanto l’oggetto d’indagine della pedagogia, ma la componente etica e formale dell’agire. Così, l’abbigliamento che ciascuno di noi predilige per sé è un modus di entrare in confidenza con e per se stessi e di accedere alla relazione con e per l’altro. IL VESTIARIO NON È SOLO UNA FORMA DI COMUNICAZIONE MA ANCHE DI EDUCAZIONE, PER QUELLO OGNI VOLTA CHE SCEGLIAMO COME VESTIRCI LA NOSTRA SCELTA NON HA SOLO IMPLICAZIONI COMUNICATIVE. Quindi: se io accetto il mio corpo sceglierò un modus che valorizzerà la parte migliore di me, la scelta non ha solamente implicazioni comunicative (esibisco socialmente la parte migliore di me), ma anche educative (sguardo altrui) ed auto-educative (mi voglio bene e perciò mi presento nel migliore dei modi). Se ricevo ospiti con cui ho un certo grado di familiarità posso concedermi il lusso della causalità e comfort, se invece ho ospiti di un certo livello mi vesto in modo più formale. Chi tende a curarsi esageratamente e non ha un lavoro che verta sull’immagine, potrebbe dare l’impressione di avere qualcosa da nascondere (insicurezze, paure), chi invece si tras-cura potrebbe tendere a comunicare qualcosa (scarsa autostima di sé, poca cura e igiene personale, disagio). In entrambi i casi oltre all’intento comunicativo ve ne è uno educativo: la definizione di un’identità, la formazione esteriore del proprio essere (importante tanto quanto quella interiore), la creazione di un sentimento di appartenenza a un genere, una generazione, uno stile, un credo politico, un livello socioeconomico. Se scelgo di aderire ad un dress code comunico la mia volontà di far parte ad uno specifico contesto sociale, se non ne aderisco, comunico la non partecipazione ai valori di quel gruppo. Se in veste di stilista presento modelle anoressiche, sto diseducando le masse rispetto all’educazione nutrizionale. La moda può produrre valore comunicativo, educativo o contro-educativo, a seconda dei modi delle persone di generare il valore. L’ESTERIORITÀ È UN MODO DI “DIRE” L’INTERIORITÀ. É difficile pensare come un’acconciatura, un corsetto o un vestito possa cambiare il mondo ma esistono esempi storici che dimostrano come l’abbigliamento abbia favorito l’identificazione di istanze politiche e sociali (sanculotti= sans culottes - senza calzoncini - perché indossavano i calzoni lunghi; stile impero - impero napoleonico -; stile vittoriano - il regno della regina Vittoria). La politica, dunque, ha contribuito a dare il nome a mode che si sono diffuse ben oltre il ristretto gruppo dei politici, come lo stile impero o quello vittoriano. L’utopia che spesso si incontra è che si possa pensare di scegliere di essere non alla moda, così come a-politici: non esiste la neutralità, sia in un campo che nell’altro. Al contrario ciò che oggi è contro culturale è il materiale culturale di domani. È questo l’aspetto più politico delle scelte nel campo della moda: dal capo di alta moda a quello più dozzinale, esiste infatti una filiera implicita che accomuna ogni forma di appartenenza (riferimento al discorso film il diavolo veste Prada, libro pag. 143). In altri termini, le mode esprimono da sempre delle scelte fra antinomie: sono un modo per collocarsi, per ritrovarsi simili nelle differenze o per attestarsi in quanto persone. Ciò che la moda esprime dall’adolescenza in avanti è il conflitto di classe, a questo proposito: perché l’educazione sia “di classe” ma non “per classi” è più che mai necessario introdurre una storia del costume in ambito pedagogico (o pedagogicamente filtrata) perché si possa andare nella direzione di una forma di ricerca interdisciplinare dei modi attraverso i quali possa essere possibile educare, oggi, all’interno della società dell’immagine, in cui l’esteriorità è un modo di “dire” l’interiorità, e non la superficie. EDUCAZIONE E SPETTACOLO - PER CONCLUDERE. La ricerca vissuta come un’inquietudine, che tocca nel profondo le corde tese dell’essere, l’esistenza, porta in dono dei segni: veri e propri segnali, che indicano che si sta percorrendo la strada giusta. In tal senso, le conclusioni di questo volume ci portano a riconoscere che il ruolo dei media nell'educazione è determinante, ma va assolutamente chiarito che la responsabilità educativa del mondo adulto non deve
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