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Riassunto di DIRITTO DELL'UNIONE EUROPEA - L. Daniele (8^ edizione, 2022), Sintesi del corso di Diritto dell'Unione Europea

Il testo contiene il riassunto di DIRITTO DELL'UNIONE EUROPEA di Luigi Daniele (sistema istituzionale, ordinamento, tutela giurisdizionale, competenze) - 8^ edizione, 2022. L'indice si trova in fondo al documento.

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

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Scarica Riassunto di DIRITTO DELL'UNIONE EUROPEA - L. Daniele (8^ edizione, 2022) e più Sintesi del corso in PDF di Diritto dell'Unione Europea solo su Docsity! DIRITTO DELL'UNIONE EUROPEA Riassunto del testo di LUIGI DANIELE, 8^ edizione (2022) realizzato da Davide Angelini INTRODUZIONE LE ORIGINI E LO SVILUPPO DEL PROCESSO D'INTEGRAZIONE EUROPEA 1. Le esperienze di integrazione secondo il metodo della cooperazione intergovernativa È opportuno premettere un breve inquadramento storico e prendere coscienza dei passaggi più importanti che hanno segnato i quasi settant'anni di vita delle istituzioni europee: dal Trattato di Parigi del 12 aprile 1951, istitutivo della Comunità europea del carbone e dell'acciaio, al Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, alla recente riforma della governance economica adottata per far fronte alla crisi economico-finanziaria degli ultimi anni, e infine allo shock dell'uscita dall'Unione del Regno Unito (operativa a partire dal febbraio 2020). L'ideale di un continente europeo non più diviso in tanti Stati perennemente in lotta tra loro si afferma sin dal XIX° secolo, ma l'occasione per passare dai progetti alle realizzazioni concrete si presenta soltanto alla fine della seconda guerra mondiale. Inizialmente la cosa prende piede soltanto tra gli Stati dell'Europa occidentale, mentre gli Stati dell'Europa orientale danno vita a forme di aggregazione alternative (il “Patto di Varsavia”, in materia militare, e il “Comecon”, in materia economica) facenti riferimento all'Unione Sovietica. A seguito della caduta del muro di Berlino (1989), e allo scioglimento dell'Unione Sovietica (1991), tali Stati hanno cominciato a partecipare in misura crescente alle forme di integrazione di matrice occidentale. L'integrazione dell'Europa occidentale segue due metodi distinti: un metodo tradizionale, definito di cooperazione intergovernativa, e un metodo innovativo: il metodo comunitario. Le caratteristiche del metodo di cooperazione intergovernativa sono: a) prevalenza di organi di Stati, le cui persone agiscono come rappresentati dello Stato di 1 appartenenza; b) prevalenza del principio dell'unanimità (o per consenso) delle deliberazioni prese dagli organi dell'organizzazione, che consente il potere di veto di uno Stato; c) assenza o rarità del potere di adottare atti vincolanti, dato che normalmente gli atti presi sono semplici raccomandazioni. In ordine cronologico, il primo settore in cui trova applicazione il metodo della cooperazione intergovernativa è quello della cooperazione militare. Abbiamo come esempi l'UEO (Unione dell'Europa Occidentale) fondata col Trattato di Bruxelles del 17 marzo 1949, cui aderiscono 10 Stati europei (Belgio, Francia, Germania, Grecia, Italia, Lussemburgo, Paesi bassi, Portogallo, Spagna, Regno Unito). L'idea avanzata nel Trattato di Amsterdam del 1997 di fare dell'UEO uno strumento attraverso cui attuare nell'ambito dell'Unione Europea la PESC è stata abbandonata a partire dal Trattato di Nizza del 2001; l'UEO è stata definitivamente sciolta nel 2011. La NATO (Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico), fondata col Trattato di Washington del 4 aprile 1949, è composta non solo da Stati europei, facendone parte anche USA e Canada. L'organo principale dell'organizzazione è costituito dal Consiglio del Nord Atlantico composto da rappresentanti permanenti degli Stati membri o, quando si riunisce a livello ministeriale, dai Ministri degli esteri, dai Ministri della difesa o dai capi di Stato e di Governo. Le decisioni sono prese per consenso (unanimità). La cooperazione intergovernativa trova importante applicazione anche nel settore dell'integrazione economica. L'occasione viene data dall'esigenza di gestire il cd Piano Marshall, un piano di aiuti finanziari accordati dagli USA all'Europa, alla condizione che la loro gestione avvenga in maniera coordinata fra tutti gli Stati beneficiari. Un nutrito gruppo di Stati dell'Europa occidentale danno così vita all'OECE (Organizzazione Europea per la Cooperazione Economica) istituita col Trattato di Parigi del 16 aprile 1948. L'OECE avrebbe dovuto trasformarsi in una zona di libero scambio tra gli Stati membri. Tuttavia, gli Stati membri prendono due strade differenti: un primo gruppo (Austria, Danimarca, Norvegia, Portogallo, Regno Unito e Svizzera) restano fedeli all'idea di una semplice zona di libero scambio, e istituiscono con la Convenzione di Stoccolma del 4 gennaio 1960 l'EFTA (Associazione Europea di Libero Scambio). Un secondo gruppo (Belgio, Germania, Francia, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi) opta per forme di integrazione economica ancora più avanzate, dando vita alle tre Comunità europee (CECA, CEE e Euratom). 2 all'Alta Autorità CECA), il Consiglio, l'Assemblea parlamentare e la Corte di Giustizia. Mentre il Trattato CECA è considerato un trattato-legge, in quanto stabilisce nel dettaglio tutte le regole di disciplina del settore carbo-siderurgico, così che l'Alta Autorità eserciti un potere di tipo amministrativo, i Trattati CEE ed Euratom sono considerati trattati-quadro, in quanto prevedono l'attuazione dei principi e degli obiettivi ivi contenuti attraverso l'emanazione di veri e propri atti normativi da parte delle istituzioni create, in particolare da parte del Consiglio. 3. Lo sviluppo dell'integrazione comunitaria europea: l'unificazione del quadro istituzionale e l'allargamento a nuovi Stati membri La complessità nell'avere tre Comunità dotata ciascuna di propri organi porta all'adozione, contestualmente alla firma dei Trattati di Roma del 1957, di una Convenzione per effetto della quale le tre Comunità hanno da subito in comune Assemblea parlamentare e Corte di Giustizia. Nel 1965 viene firmato il Trattato di Bruxelles che istituisce un Consiglio e una Commissione unici per tutte e tre le Comunità. Da questo momento le tre Comunità hanno tutte e quattro le istituzioni in comune. Dal 2002, scaduto il Trattato CECA, il settore carbo-siderurgico è stato assorbito nella CEE (già divenuta CE a partire dal Trattato di Maastricht del 1992). La CE cessa di esistere come ente autonomo, in quanto incorporata nell'Unione europea, con l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona nel 2009. L'Euratom, invece, sopravvive ancora oggi come ente autonomo. Nel frattempo hanno aderito alle Comunità europee numerosi nuovi Stati membri (e uno di loro ne è poi uscito: il Regno Unito). Attualmente fanno parte dell'Unione europea 27 Stati. Questa la cronologia della loro adesione o uscita:  nel 1973 hanno aderito Danimarca, Irlanda, Regno Unito;  nel 1981 ha aderito la Grecia;  nel 1986 hanno aderito Portogallo e Spagna;  nel 1995 hanno aderito Austria, Finlandia e Svezia;  nel 2004 hanno aderito Repubblica Ceca, Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Slovacchia, Slovenia e Ungheria;  nel 2007 hanno aderito Bulgaria e Romania; 5  nel 2013 ha aderito la Croazia;  A seguito del referendum sulla “brexit” del 23 giugno 2016, il Regno Unito ha esercitato il diritto di recesso previsto dall'art. 50 TUE. L'uscita del Regno Unito è divenuta ufficiale il 31 gennaio 2020. 4. La riduzione del deficit democratico Uno dei grandi problemi che la struttura istituzionale dell'Unione europea ancora oggi presenta è costituito dal cosiddetto deficit democratico. Si sottolinea che il principio democratico fa parte dei valori su cui l'Unione è fondata e che sono comuni agli Stati membri (art. 2 TUE). Così come immaginata in origine, tuttavia, la struttura istituzionale non era stata prevista per rispondere ai principi sui quali sono basati gli Stati moderni. Inizialmente l'istituzione dotata di maggiori poteri era il Consiglio (dei ministri), composto dai rappresentanti dei Governi degli Stati membri, e quindi del potere esecutivo, non di quello legislativo. In ciò consisteva il problema del deficit democratico: l'organo rappresentativo del potere legislativo, l'Assemblea parlamentare (divenuta poi con l'Atto Unico Europeo del 1986 “Parlamento europeo”), nasceva infatti con funzioni puramente consultive. Si è assistito così a un lento ma inesorabile ampliamento dei poteri del Parlamento europeo, peraltro sempre in una prospettiva di affiancamento al Consiglio e di condivisione di poteri tra le due istituzioni. Il sistema europeo è di tipo (in senso lato) bicamerale, e ciò per tenere conto della duplice fonte di legittimazione su cui l'azione dell'Unione si fonda: da un lato la volontà dei cittadini, che si esprime attraverso l'elezione a suffragio universale diretto dei membri del Parlamento europeo; dall'altro la volontà degli Stati membri, che si esprime attraverso i rappresentanti dei rispettivi governi nel Consiglio. La logica della doppia legittimazione è stata ribadita nel Trattato di Lisbona (art. 10 TUE). L'ampliamento dei poteri del Parlamento europeo è avvenuto per tappe. Col combinato dei Trattati del Lussemburgo (1970) e di Bruxelles (1975), noti come Trattati di bilancio, vengono attribuiti al Parlamento europeo ampi poteri in merito all'approvazione del bilancio unificato delle tre Comunità Europee: il bilancio viene infatti (ancora oggi) adottato congiuntamente dal Consiglio e dal Parlamento europeo. Poco dopo (1976) si decide di dare attuazione a una norma del vecchio Trattato sulla Comunità 6 europea che consentiva il passaggio al suffragio universale diretto per l'elezione dei membri del Parlamento europeo; in origine i membri erano invece designati da ciascun Parlamento nazionale tra i rispettivi componenti. Con l'Atto Unico Europeo (1986) si introducono due importanti novità con riferimento ai poteri del Parlamento europeo: a) la procedura di parere conforme, che impedisce al Consiglio di approvare determinati atti senza l'approvazione parlamentare; b) la procedura di cooperazione, che offre al Parlamento europeo maggiori opportunità per influire sulle deliberazioni del Consiglio, essendo questo costretto, in taluni casi, a ricorrere al voto unanime per superare l'opposizione parlamentare. Col Trattato di Maastricht sull'Unione europea (TUE) del 1992, viene aggiunta un'ulteriore procedura decisionale nella quale i poteri del Parlamento europeo divengono determinanti: la procedura di codecisione; l'atto viene infatti approvato nello stesso modo o con lo stesso valore da entrambe le istituzioni (Parlamento e Consiglio). Il Trattato di Amsterdam del 1997 estende la procedura di codecisione a numerosi altri settori, e viene resa più rapida ed efficace. Il Trattato di Lisbona del 2007 estende ulteriormente il campo di applicazione della procedura di codecisione, che viene ribattezzata procedura legislativa ordinaria, anche parzialmente al settore della Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale. Prevede altresì che i parlamenti nazionali siano chiamati a svolgere un ruolo di controllo e di opposizione, sopratutto per quanto riguarda l'applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità. Il Parlamento europeo mantiene invece tuttora funzioni puramente consultive in alcune materie, e ha poteri ancor più limitati con riferimento al settore della PESC. Il deficit democratico costituisce pertanto un problema non ancora completamente risolto, come espresso anche dalla Corte costituzionale federale tedesca nel 2009 (pronuncia sulla ratifica del Trattato di Lisbona) secondo la quale l'Unione europea non ha ancora assunto “una struttura conforme al livello di legittimazione di una democrazia costituita in forma statale”, mancando di “un organo di decisione politica formato attraverso elezioni eguali per tutti i cittadini dell'Unione e capace di rappresentare in modo unitario la volontà popolare”. L'attuale ripartizione dei membri del Parlamento europeo in contingenti per ciascuno Stato membro “non garantisce che alla maggioranza dei voti espressi corrisponda una maggioranza dei cittadini dell'Unione” in quanto “il peso dei voti dei cittadini di uno Stato membro a basso grado di popolazione può superare di circa dodici volte il peso dei voti dei cittadini di uno Stato membro ad alto grado di popolazione”. 7 Col Trattato di Lisbona (2007) viene meno la distinzione tra I° e III° pilastro, in quanto quasi tutto ciò che caratterizzava quest'ultimo è stato assorbito nel primo (che utilizza il metodo comunitario). Di quello che era il III° pilastro rimane solo lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia cui è dedicato un apposito titolo del TFUE. La PESC rimane invece tuttora soggetta a un regime speciale per quanto riguarda le procedure decisionali, gli atti da adottare e gli scarni settori assegnati alla Corte di giustizia. 7. L'Europa a più velocità La progressiva (e ancora imperfetta) riconduzione al metodo comunitario delle forme di cooperazione che in passato avevano carattere puramente intergovernativo porta alla creazione di settori “ibridi”, ossia utilizzanti un metodo comunitario “contaminato” da soluzioni di carattere intergovernativo. Ciò in quanto gli Stati membri non accettano subito di utilizzare il metodo comunitario in certi settori ritenuti più “delicati”, preferendo procedere per gradi. Si fa così sempre più ricorso a forme di cooperazione differenziata, definita anche Europa a più velocità (o “a geometria variabile”), mediante l'uso di specifici accordi o protocolli. Un primo esempio di cooperazione differenziata è data dall'Accordo di Schengen del 1985 tra Belgio, Francia, Germania, Lussemburgo e Paesi Bassi (+ altri Stati che hanno aderito più tardi). L'Accordo è finalizzato a ridurre drasticamente i controlli fisici sulle persone alle frontiere. Un secondo esempio di cooperazione differenziata riguarda l'Unione Economica e Monetaria (UEM), cui non partecipano tutti gli Stati membri dell'UE (ne rimangono fuori Regno Unito, Danimarca, Svezia, Repubblica Ceca e altri Stati di recente adesione all'UE). Esempi simili si moltiplicano col Trattato di Amsterdam, che prevede attraverso appositi protocolli allegati al TUE clausole a favore di Regno Unito, Irlanda e Danimarca, che consentono loro di non essere vincolati dalle misure adottate nei settori in precedenza rientranti nel GAI. Il Trattato di Amsterdam crea addirittura un apposito istituto di applicazione generale per permettere l'adozione di iniziative di integrazione, limitate ad alcuni Stati membri (esclusi quelli beneficiari delle già citate clausole di favore): la cooperazione rafforzata nei settori di cui al I° e III° pilastro. Il Trattato di Nizza estende la cooperazione rafforzata anche al II° pilastro (ossia alla PESC). 8. Il Trattato che adotta una Costituzione per l'Europa Le riforme dei Trattati originari si sono succedute negli ultimi decenni con ritmo incalzante. La 10 ragione di questo continuo ricorrere alla procedura di revisione è che nessuna delle riforme di volta in volta approvate sono state giudicate sufficienti La genesi dell'ultimo trattato di riforma dei trattati europei, quello di Lisbona, è particolarmente complessa. Al Trattato di Nizza del 2001 viene allegata una Dichiarazione relativa al futuro dell'Europa, nella quale si stabilisce che un'ulteriore Conferenza intergovernativa di revisione sarebbe stata convocata nel 2004. Il Consiglio Europeo di Laeken del 2001 approva poi la Dichiarazione di Laeken, nella quale viene deciso di convocare nel frattempo una Convenzione composta dai principali partecipanti al dibattito sul futuro dell'Unione (Commissione e Parlamento europeo, rappresentanti dei parlamenti nazionali e portavoce dell'opinione pubblica nei vari settori della politica, dell'economia e della società civile). La Convenzione trasmette nel 2003 al Presidente del Consiglio europeo in carica un progetto di Trattato che istituisce una Costituzione per l'Europa. Nell'ottobre 2003 si aprono i lavori della nuova Conferenza intergovernativa che dura fino a metà 2004. Il 29 ottobre a Roma viene firmato il Trattato che adotta una Costituzione per l'Europa. Solo 18 Stati membri provvedono alla ratifica del nuovo trattato (per l'Italia v. la L. 7 aprile 2005, n. 57), o quantomeno ottengono l'autorizzazione parlamentare a procedere in questo senso. In Francia e nei Paesi Bassi si crea invece una situazione di stallo a causa dell'esito negativo dei referendum popolari indetti in questi due paesi. Anche altri Stati membri scelgono allora di sospendere le procedure di ratifica. 9. Il Trattato di riforma di Lisbona Fallito il tentativo di far approvare una Costituzione per l'Europa, gli Stati membri riavviano le trattative per predisporre un nuovo trattato che rinunci agli aspetti più problematici del trattato costituzionale. Si è così giunti in tempi molto rapidi all'approvazione del nuovo Trattato, che modifica il Trattato sull'Unione europea e il Trattato che istituisce la Comunità europea, firmato a Lisbona il 13 dicembre 2007, noto appunto come Trattato di Lisbona. Rispetto al trattato costituzionale, il Trattato di Lisbona presenta molti elementi di continuità, ma anche numerose e importanti differenze. 11 Per quanto riguarda gli elementi di continuità, il Consiglio europeo è stato trasformato in un'istituzione vera e propria, con un Presidente stabile eletto per due anni e mezzo. É confermata la creazione di una nuova carica: l'Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza. C'è un rafforzamento del ruolo del Presidente della Commissione europea. Viene poi generalizzata la procedura legislativa ordinaria, e la struttura a tre pilastri su cui l'Unione si reggeva è stata semplificata, se non abolita. Tra gli elementi di discontinuità abbiamo la volontà di privare la riforma di quelle caratteristiche di eccezionalità e originalità che aveva il trattato costituzionale. Non si procede più, pertanto, all'abrogazione del TUE e del TCE, ma ci si limita a emendarli. Per la verità, il TUE viene completamente riscritto, mentre il TCE cambia nome e natura: con la soppressione della Comunità europea come entità distinta, il TCE si trasforma nel Trattato per il funzionamento dell'Unione Europea (TFUE), e diventa il contenitore di tutte quelle disposizioni di livello meno importante rispetto a quelle riservate al TUE. Tra gli elementi di discontinuità vi è anche la soppressione dei termini “costituzione” e “costituzionale”, nonché l'abbandono di istituire la categoria delle leggi e delle leggi-quadro. Inoltre, viene eliminata la riproduzione nel Trattato della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione, limitandosi a richiamarla con l'affermazione “l'Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti” nella Carta, e che la Carta “ha lo stesso valore giuridico dei Trattati”. La descritta de-costituzionalizzazione della riforma costituisce la componente centrale della complessa strategia messa in atto dal Consiglio europeo, al fine di evitare il ripetersi delle difficoltà incontrate dal trattato costituzionale in sede di ratifica. Vengono anche inseriti nel Trattato di Lisbona e negli allegati protocolli una serie interminabile di meccanismi di garanzia a favore degli Stati membri, che possiamo raggruppare in due aree: 1) potere di veto di uno o più Stati membri; 2) potere di alcuni Stati membri di sottrarsi al vincolo di atti comunitari. Inoltre, da un lato il processo di integrazione europea viene affermato come reversibile, dall'altro si prevedono strumenti idonei a impedire un'espansione incontrollata delle competenze dell'Unione. A tal proposito si segnala l'art. 48, par. 1 del TUE, ove viene precisato che i progetti intesi a modificare i Trattati “possono, tra l'altro, essere intesi ad accrescere o a diminuire le competenze attribuite all'unione nei Trattati”. L'art. 2, par. 2, del TFUE chiarisce, a proposito delle competenze concorrenti (tra UE e Stati membri), che “gli Stati membri esercitano nuovamente la loro competenza nella misura in cui l'Unione ha deciso di cessare la propria”. 12 3) il Patto per l'euro, che stabilisce un coordinamento più stretto delle politiche economiche e la convergenza, noto come Patto Europlus. Consiste peraltro in un atto di soft law, e dunque non è vincolante. Anche la crisi provocata dalla pandemia del COVID-19 ha portato a una nuova riforma della governance economica. Oltre all’attivazione della General Escape Clause, che ha consentito alla Commissione europea di sospendere il patto di stabilità e crescita. e i relativi vincoli di bilancio, per gli Stati della zona euro, l’istituzione ha proposto la creazione di un Recovery Fund, incluso in un programma più ampio denominato “Next Generation EU”, che aprirà nuove prospettive. Condurrà, da un lato, a una parziale redistribuzione delle risorse dell’unione in favore degli Stati maggiormente colpiti dalla crisi; dall’altro porterà a una vera e propria fiscalità dell’Unione attraverso l’introduzione di nuove risorse proprie sotto forma di imposte. Il Recovery Fund è stato approvato dal Consiglio europeo nel luglio 2020. 12. La natura dell'Unione europea L'Unione europea non è uno Stato e, peraltro, gli Stati membri non hanno perso la loro statualità individuale. Dunque, non si può parlare di un fenomeno affine a quello degli Stati federali sorti per il comune volere di Stati preesistenti. Anche dal punto di vista empirico non si può sostenere che l'Unione europea eserciti effettivamente un potere completo di governo su un proprio territorio e su una propria popolazione. La natura non statuale dell'Unione emerge altresì da alcune caratteristiche riscontrabili dopo il Trattato di Lisbona:  manca nell'Unione il potere di definire autonomamente le proprie competenze (vige il principio di attribuzione ad opera degli Stati membri);  vi è la necessità del consenso unanime degli Stati membri per modificare i Trattati (che continuano ad avere natura di trattati internazionali, e non rappresentano una vera e propria costituzione europea);  è previsto il diritto di recesso unilaterale di uno Stato membro ai sensi dell'art. 50 TUE (cosa verificatasi con l'uscita del Regno Unito, o brexit, ufficializzata il 31 gennaio 2020). Gli Stati rimangono pertanto i padroni dei Trattati e ne decidono il destino, financo col recesso unilaterale. Ci si potrebbe a questo punto chiedere se l'Unione europea, dato che non è uno Stato simil-federale, costituisca nient'altro che una forma molto avanzata di organizzazione internazionale, oppure una 15 figura intermedia che, pur non essendo ancora uno Stato, non è più nemmeno una semplice organizzazione internazionale. Si può propendere maggiormente per la seconda ipotesi, dato che l'Unione presenta una sua sovranità, pur parziale, limitata alle materie previste dai Trattati e derivata (non originaria), in quanto frutto di un conferimento ad opera degli Stati membri. Nella storica sentenza Van Gend & Loos del 1963, la Corte di giustizia ha sostenuto che “la Comunità costituisce un ordinamento giuridico di nuovo genere nel campo del diritto internazionale, a favore del quale gli Stati hanno rinunziato, anche se in settori limitati, ai loro poteri sovrani, ordinamento che riconosce come soggetti non soltanto gli Stati membri ma anche i loro cittadini”. Il carattere sovrano di tali poteri deriverebbe dalla circostanza che l'ordinamento del nuovo ente, come ogni ordinamento di tipo statuale, tocca direttamente anche i cittadini ed esprime pertanto un potere di governo, sia pure parziale e di tipo essenzialmente normativo, su di loro. In altra storica sentenza (Costa c. Enel del 1964), la Corte di giustizia enuncia per la prima volta il principio del primato delle norme dei trattati europei rispetto alle norme nazionali. Afferma la Corte che “a differenza dei comuni trattati internazionali, il Trattato CEE ha istituito un proprio ordinamento giuridico integrato nell'ordinamento giuridico degli Stati membri all'atto dell'entrata in vigore del Trattato e che i giudici nazionali sono tenuti ad osservare” . Sostiene altresì che gli Stati membri “hanno limitato, sia pure in campi circoscritti, i loro poteri sovrani e creato quindi un complesso di diritto vincolante per i loro cittadini e per loro stessi”. Deve ammettersi che l'idea di una “specialità” della CEE prima, e dell'UE ora, e di una loro differenza strutturale rispetto ad altri fenomeni di cooperazione organizzata tra Stati, ha finito per essere accettata. Ne sono testimoni le stesse Costituzioni degli Stati membri, le quali si sono dotate di apposite “clausole europee”, per consentire la partecipazione al processo di integrazione e il trasferimento di competenze statali all'Unione. L'Unione, pertanto, non è una semplice organizzazione internazionale, ma è dotata, nei settori che sono stati attribuiti alla sua competenza, o in alcuni di essi, di poteri assimilabili a quello di un vero e proprio Stato. Peraltro ha delle istituzioni che legiferano, mentre le altre organizzazioni internazionali possono emanare unicamente atti non vincolanti (cd soft law). 16 PARTE I IL QUADRO ISTITUZIONALE 1. Considerazioni generali L'ordinamento dell'Unione europea è composto da organi che, per l'importanza delle funzioni svolte, sono denominati istituzioni:  il Parlamento europeo;  il Consiglio europeo;  il Consiglio (o anche Consiglio dei ministri);  la Commissione europea;  la Corte di giustizia dell'Unione europea;  la Banca centrale europea (BCE);  la Corte dei conti. All'interno di alcune di queste istituzioni operano alcuni ulteriori organi monocratici di notevole importanza quali:  il Presidente del Consiglio europeo;  l'Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza (abbreviato in “Alto rappresentante”);  il Presidente della Commissione europea. Le istituzioni sono le stesse per l'intera Unione (e per l'Euratom). Dopo l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona, le disposizioni relative alla composizione, ai poteri e al funzionamento delle istituzioni, che in passato si rinvenivano per lo più nel TCE, risultano ora distribuite tra il TUE (che contiene le disposizioni più importanti) e il TFUE (che contiene le disposizioni più di dettaglio). Parlamento europeo, Consiglio europeo, Consiglio e Commissione sono definite istituzioni politiche dell'Unione, svolgendo funzioni di politica attiva dell'Unione. Corte di giustizia e Corte dei conti possono definirsi invece istituzioni di controllo (giurisdizionale la prima, contabile la seconda). La BCE è un'istituzione specializzata, dal momento che agisce soltanto nell'ambito dell'Unione economica e monetaria (UEM). 17  esercita autonomamente funzioni di controllo politico e consultivo alle condizioni stabilite dai Trattati;  elegge il presidente della Commissione europea. Per esercitare le funzioni di controllo politico, il Parlamento dispone di numerosi canali attraverso i quali riceve informazioni sull'operato di altre istituzioni e, in misura minore, degli Stati membri e dei privati. L'informazione regolare e periodica è assicurata dalla presentazione al Parlamento di relazioni, tra cui la più importante è la relazione generale annuale presentata dalla Commissione europea. Il Parlamento dispone altresì del potere di procurarsi autonomamente informazioni attraverso lo strumento delle interrogazioni e quello delle audizioni della Commissione, del Consiglio e del Consiglio europeo (art. 230 TFUE). Il Parlamento europeo può trarre altresì informazioni e stimoli attraverso l'iniziativa degli individui. Sotto questo profilo si segnalano:  le petizioni, che possono essere presentate da qualsiasi cittadino dell'Unione, nonché da qualsiasi persona fisica o giuridica che risieda o abbia la sede sociale in uno Stato membro, su una materia che rientra nel campo di attività dell'Unione (art. 227 TFUE);  le denunce di infrazione o cattiva amministrazione nell'applicazione del diritto dell'Unione, anche per comportamenti di Stati membri o di privati, riguardo alle quali il Parlamento europeo può decidere di istituire una commissione temporanea d'inchiesta (art. 226 TFUE);  il ricorso al Mediatore europeo da parte di qualsiasi cittadino dell'Unione, nonché da qualsiasi persona fisica o giuridica che risieda o abbia la sede sociale in uno Stato membro, per lamentare casi di cattiva amministrazione nell'azione delle istituzioni, degli organi e degli organismi dell'Unione, salvo la Corte di giustizia nell'esercizio delle sue funzioni giurisdizionali (art. 228 TFUE). Il Parlamento europeo dispone altresì di poteri sanzionatori, ma soltanto nei confronti della Commissione. Essi si esprimono nel potere di approvare una mozione di censura (art. 234 TFUE). In caso di approvazione, i membri della Commissione si dimettono collettivamente (non è possibile la censura individuale di un commissario) dalle loro funzioni. Il controllo del Parlamento europeo sull'operato del Consiglio non si traduce, invece, in poteri sanzionatori, e riveste perciò carattere meramente morale. Considerata l'assenza di poteri nei confronti del Consiglio, il Parlamento, per tutelare le proprie prerogative, ha dovuto utilizzare il sistema di controllo giurisdizionale previsto dai Trattati, presentando ricorso alla Corte di giustizia contro atti o comportamenti del Consiglio compiuti senza rispettare i poteri parlamentari. 20 3. Il Consiglio Il Consiglio è un organo di Stati, in quanto è composto da soggetti che rappresentano direttamente i singoli Stati membri di appartenenza. Ai sensi dell'art. 16, par.2, TUE, il Consiglio è composto da un rappresentante di ciascuno Stato membro a livello ministeriale, abilitato a esercitare il diritto di voto e a impegnare il governo dello Stato membro che rappresenta. In Italia, ai sensi dell'art. 5 della L. n. 131/2003, nelle materie spettanti alla competenza regionale in virtù dell'art. 117, 4° comma, Cost., può essere designato dal governo anche un Presidente regionale, sulla base di un accordo in seno alla Conferenza Stato-Regioni. Per quanto riguarda il funzionamento, va premesso che il Consiglio, diversamente da Parlamento e Commissione, non è un organo permanente. Esso infatti si riunisce in formazioni tipizzate dalla prassi che agiscono secondo calendari differenziati e nelle quali gli Stati membri si fanno rappresentare di volta in volta dal ministro competente per la materia di cui all'ordine del giorno. L'art. 16 TUE prevede direttamente soltanto le formazioni del Consiglio “Affari generali” e del Consiglio “Affari esteri”. L'elenco della altre formazioni del Consiglio è invece stabilito con decisione del Consiglio europeo a maggioranza qualificata. A) Le funzioni del Consiglio “Affari generali” sono quelle di assicurare la coerenza dei lavori delle varie formazioni del Consiglio, di preparare le riunioni del Consiglio europeo e di assicurarne il seguito in collegamento col Presidente del Consiglio europeo e la Commissione. La Presidenza del Consiglio “Affari generali” è affidata a gruppi di 3 Stati membri per un periodo di 18 mesi, composti secondo un sistema di rotazione paritaria. All'interno di detto periodo, ciascun membro del gruppo esercita a turno la Presidenza di tutte le formazioni del Consiglio (tranne quella “Affari esteri”) per un periodo di 6 mesi. B) Il Consiglio “Affari esteri” ha invece il compito di elaborare l'azione esterna dell'Unione, secondo le lineee strategiche definite dal Consiglio europeo, e di assicurare la coerenza dell'azione dell'Unione. Esso è presieduto in via permanente dall'Alto rappresentante. Il Consiglio è assistito dal segretariato generale sotto la responsabilità di un segretario generale, nominato dal Consiglio (art. 240, par. 2, TFUE). Quanto alle funzioni, il Consiglio esercita, congiuntamente con il Parlamento europeo, la funzione legislativa e di bilancio. Esercita funzioni di definizione delle politiche e di coordinamento alle condizioni stabilite nei trattati (art. 16, par. 1, TUE). 21 I modi di deliberazione del Consiglio sono:  la maggioranza semplice (vi rientra anche quella assoluta);  la maggioranza qualificata;  l'unanimità. Il modo normale di deliberazione è la maggioranza qualificata. Ai sensi dell'art. 16, par. 4, TUE, a decorrere dal 1° novembre 2014 per maggioranza qualificata si intende almeno il 55% dei voti dei membri del Consiglio, con un minimo di 15 Stati membri rappresentati che totalizzino almeno il 65% della popolazione dell'Unione. Dunque, per il raggiungimento della maggioranza qualificata sono necessari: a) un quorum numerico minimo (55% dei voti in cui siano compresi almeno 15 Stati membri); b) un quorum demografico minimo (la popolazione complessiva degli Stati membri che hanno dato il voto non deve essere inferiore al 65% della popolazione totale dell'Unione). Tuttavia, il mancato raggiungimento del quorum demografico minimo non impedirà l'approvazione dell'atto, qualora a votare contro siano non più di 3 Stati membri (con 4 Stati membri, invece, scatta l a “minoranza di blocco” che impedisce il raggiungimento della maggioranza qualificata). L'altro sistema di deliberazione del Consiglio che ancora oggi è previsto con una certa frequenza (la maggioranza semplice è prevista in rari casi) è costituito dall'unanimità. In tal caso impedisce l'approvazione il voto contrario di uno Stato membro (potere di veto), non la sua astensione. I governi degli Stati membri possono assumere decisioni senza utilizzare il Consiglio, ma uti singuli per mezzo di “rappresentanti degli Stati membri”. Non trattandosi in tal caso di atti di un'istituzione dell'Unione, tali atti non sono soggetti al controllo della Corte di giustizia. Anche il Comitato dei rappresentanti permanenti (COREPER), previsto dagli artt. 16, par. 7, TUE, e 240, par. 1, TFUE, rispecchia la composizione del Consiglio. Esso riunisce i rappresentanti diplomatici che ciascuno Stato membro accredita presso l'Unione europea. La composizione è quindi identica a quella del Consiglio per quanto riguarda la nazionalità dei membri, ma non per quanto riguarda la qualifica degli stessi, dato che nel caso del COREPER si tratta di diplomatici e non di persone a livello ministeriale. La Presidenza del COREPER spetta al rappresentante permanente dello Stato membro che esercita la presidenza di turno del Consiglio. 22 composta da un numero di membri, compreso il Presidente e l'Alto rappresentante, pari al numero degli Stati membri. Con l'uscita del Regno Unito dall'UE, a partire dal 1° febbraio 2020 il numero dei membri della Commissione è di 27. L'art. 17, par. 3, TUE, dispone che i membri della Commissione siano scelti in base alla loro competenza generale e al loro impegno europeo, tra personalità che offrono tutte le garanzie di indipendenza e professionalità. Il loro mandato dura 5 anni; può terminare anzitempo per dimissioni individuali o collettive. Dimissioni collettive sono previste anche in caso di approvazione, da parte del Parlamento europeo, di una mozione di censura. Dimissioni individuali possono altresì essere pronunciate d'ufficio da parte della Corte di Giustizia, per violazione degli obblighi derivanti dalla carica. La procedura di nomina dei membri attualmente prevede cinque fasi (art. 17, par. 5, TUE):  la prima fase ha ad oggetto l'individuazione del solo candidato alla carica di Presidente. Tale individuazione viene offerta dal Consiglio europeo che decide a maggioranza qualificata, tenuto conto dei risultati delle elezioni del Parlamento europeo e dopo aver effettuato le consultazioni appropriate;  la seconda fase consiste nell'elezione del candidato Presidente da parte del Parlamento europeo. L'attuale Presidente della Commissione europea, Ursula Von der Leyen, prima donna a rivestire tale ruolo, è in carica dal 1° dicembre 2019;  la terza fase consiste in una deliberazione del Consiglio-Affari generali, di comune accordo col neo-Presidente eletto, con la quale adotta l'elenco delle altre personalità (selezionate in base alle proposte presentate dagli Stati membri) che propone di nominare quali membri della Commissione. La decisione va presa a maggioranza qualificata;  nella quarta fase il Presidente, l'Alto rappresentante (che nel frattempo, come si ricorderà, è stato nominato dal Consiglio europeo con l'accordo del neo-Presidente della Commissione eletto) e gli altri membri della Commissione sono soggetti collettivamente a un voto di approvazione da parte del Parlamento europeo;  la quinta fase è affidata al Consiglio europeo che, sempre a maggioranza qualificata, nomina ufficialmente la Commissione. Il Presidente della Commissione riveste un ruolo centrale. La sua posizione di primazia è 25 specificata all'art. 17, par. 6, TUE, che gli attribuisce il compito di definire, oltre agli orientamenti della Commissione, anche la sua organizzazione interna, per assicurare la coerenza, l'efficacia e la collegialità della sua azione. Inoltre, spetta al Presidente nominare i Vicepresidenti, fatta eccezione per l'Alto rappresentante, che è già Vicepresidente di diritto. Ricordiamo che il Presidente della Commissione è altresì membro del Consiglio europeo. La Commissione è un organo collegiale le cui decisioni vengono prese a maggioranza dei suoi membri. L'attività della Commissione è suddivisa in varie Direzioni generali, e ciascun membro ha la responsabilità di una o più Direzioni generali (con qualche lontana similitudine con la suddivisione dei governi nazionali in “ministeri”). La Commissione è il vero motore dell'Unione, nonché l'interprete del suo interesse generale. L'art. 17, par. 2, TUE ribadisce il potere esclusivo di proposta che spetta alla Commissione: il procedimento legislativo non può nemmeno iniziare senza una sua proposta, salvo i casi in cui i Trattati dispongano diversamente (vi sono casi in cui la Commissione può essere sollecitata da altre istituzioni, come il Consiglio europeo, oppure dai cittadini stessi dell'Unione, ma è comunque la Commissione poi ad avanzare formalmente la proposta legislativa). Tra i vari compiti, la Commissione ha quello di vigilare sull'applicazione dei Trattati e delle misure adottate dalle istituzioni in virtù dei Trattati stessi, nonché, in generale, del diritto dell'Unione, sotto il controllo della Corte di giustizia. La Commissione è infatti considerata custode della legalità nell'ambito dell'UE. Tale compito viene esercitato: 1) nei confronti degli Stati membri, soprattutto attraverso lo strumento del ricorso per infrazione (artt. 258 e ss. TFUE); 2) nei confronti delle altre istituzioni, soprattutto attraverso lo strumento del ricorso d'annullamento o in carenza (artt. 263 e 265 TFUE); 3) nei confronti delle persone fisiche e giuridiche, come ad esempio nel settore delle regole di concorrenza applicabili alle imprese (artt. 101 e 102 TFUE). 26 6. La Corte di giustizia dell'Unione europea La Corte di giustizia dell'Unione europea (nel senso di Corte-istituzione) si articola al suo interno in più rami, dotati di autonomia funzionale (piena) e amministrativa (parziale). Ai sensi dell'art. 19, par. 1, TUE, essa comprende:  la Corte di giustizia (nel senso di Corte-giurisdizione);  il Tribunale;  i tribunali specializzati (con l'abolizione del Tribunale per la funzione pubblica oggi non sono presenti tribunali specializzati). Le varie componenti della Corte-istituzione sono tutte organi di individui, i cui membri, pur dipendendo da una nomina di natura politica, perchè affidata al comune accordo dei governi degli Stati membri, svolgono le loro funzioni in piena imparzialità e secondo coscienza. Le più importanti fonti normative che disciplinano l'attività della Corte di giustizia (Corte- giurisdizione) e, in parte, del Tribunale, sono contenute negli stessi Trattati (artt. 251-281 TFUE); molte altre disposizioni sono contenute nel Protocollo n. 3 sullo Statuto della Corte-istituzione. Va ricordato, infine, il regolamento di procedura della Corte-giurisdizione che, pur se stabilito dalla Corte stessa, necessita dell'approvazione del Consiglio a maggioranza qualificata. La Corte di giustizia (Corte-giurisdizione) è composta da un giudice per Stato membro, ed è assistita da avvocati generali (art. 19, par. 2, TUE). Attualmente il numero di giudici è di 27 , mentre gli avvocati generali sono 11 (il Consiglio, su richiesta della Corte, può aumentarne il numero con delibera unanime). Tra i giudici (che durano in carica 6 anni, rinnovabili) viene eletto per 3 anni (rinnovabili) il suo Presidente. I giudici fanno parte del collegio giudicante che emette le decisioni-sentenze. Gli avvocati generali invece hanno una funzione ausiliaria: l'avvocato generale, su richiesta della Corte, presenta pubblicamente, con assoluta imparzialità e in piena indipendenza, conclusioni motivate (che contengono un parere non vincolante) sulle cause che, conformemente allo statuto della Corte, richiedono il loro intervento. Per quanto riguarda la nazionalità degli avvocati generali, la prassi vuole attualmente che vi siano sempre quattro avvocati generali di ciascuno degli Stati membri maggiori (Francia, Germania, Italia, e Regno Unito, peraltro ciò prima dell'uscita di quest'ultimo dalla UE). La Corte opera nelle seguenti formazioni di giudizio (art. 251 TFUE e art. 16 Statuto della Corte):  sezioni semplici composte da 3 o 5 giudici (formazione ordinaria); 27 esistente, è stato abolito). È tuttavia ancora possibile istituirli, attraverso un regolamento che stabilisca la composizione e la portata delle competenze. La nomina dei membri è compito del Consiglio che delibera all’unanimità. Le sentenze dei tribunali specializzati sono impugnabili davanti al Tribunale per i soli motivi di diritto o, se il regolamento istitutivo lo prevede, anche per i motivi di fatto. Il riesame della decisione del Tribunale davanti alla Corte di giustizia è invece previsto solo eccezionalmente e alle condizioni e entro i limiti previsti dallo Statuto, “ove sussistano gravi rischi che l’unità e la coerenza del diritto dell’Unione siano compromesse”. La proposta di riesame può essere formulata soltanto dal primo avvocato generale. Per queste ipotesi eccezionali si possono pertanto avere tre livelli di giudizio: tribunale specializzato, Tribunale e Corte di giustizia. 8. La Corte dei conti, la Banca centrale europea e gli altri organi La Corte dei conti è un organo di individui. La composizione comprende un cittadino di ciascuno Stato membro. I membri (il cui mandato dura 6 anni) sono nominati dal Consiglio a maggioranza qualificata, previa consultazione del Parlamento europeo, conformemente alle proposte presentate da ciascuno Stato membro. Le funzioni della Corte dei conti sono quelle di assicurare il controllo dei conti dell'Unione, esaminando le entrate e le spese, anche di ogni organo od organismo creato dall'Unione. Essa controlla la legittimità e la regolarità delle entrate e delle spese, ed accerta la sana gestione finanziaria; riferisce su ogni caso di irregolarità. L'atto più rilevante in cui si estrinseca la funzione di controllo della Corte è costituito dalla relazione annuale che viene trasmessa alle altre istituzioni ed è pubblicata sulla GU. Il quadro istituzionale dell'Unione è completato da numerosi altri organi che svolgono per lo più funzioni consultive o preparatorie. Vanno segnalati in particolare:  il Comitato economico e sociale che è composto da rappresentanze delle organizzazioni di datori di lavoro, di lavoratori dipendenti e di altri attori rappresentativi della società civile. I membri, che sono nominati dal Consiglio a maggioranza qualificata, non possono essere in numero superiore a 350;  il Comitato delle regioni che è composto da rappresentanti delle collettività regionali e locali, che siano titolari di un mandato elettorale nell'ambito di una collettività regionale o 30 locale, o che siano politicamente responsabili dinanzi ad un'assemblea eletta. Tanto il Comitato economico e sociale quanto il Comitato delle regioni devono essere consultati (parere obbligatorio ma non vincolante) dal Parlamento europeo, dal Consiglio e dalla Commissione quando ciò sia previsto dai trattati, o possono esserlo (parere facoltativo) quando tali istituzioni lo ritengano opportuno. Vanno poi menzionati gli organi creati nell'ambito dell'Unione Economica Monetaria. Si tratta della Banca centrale europea (BCE) e del Sistema europeo delle banche centrali (SEBC). La BCE è un'istituzione che gode di personalità giuridica, ha diritto esclusivo di autorizzare l'emissione dell'euro ed è indipendente nell'esercizio dei suoi poteri e nella gestione delle sue finanze (art. 282, par.3, TFUE). Essa si articola al suo interno in un Comitato esecutivo, composto da un presidente, un vice- presidente e altri quattro membri nominati dal Consiglio europeo (su raccomandazione del Consiglio e previa consultazione del Parlamento europeo e del Consiglio direttivo), e un Consiglio direttivo, composto dai membri del Comitato esecutivo e dai Governatori delle Banche centrali nazionali degli Stati membri la cui moneta è l'euro (art. 283 TFUE). La BCE è tenuta a presentare una relazione annuale sulla propria attività al Consiglio europeo, al Parlamento europeo, al Consiglio e alla Commissione (art. 284, par. 3, TFUE). Il funzionamento e l'organizzazione della BCE e del SEBC sono oggetto del Protocollo n. 4 sullo Statuto del Sistema europeo delle banche centrali e della BCE. Le funzioni della BCE e del SEBC sono disciplinate dagli artt. 127, 128 e 132 TFUE. Il TFUE indica come obiettivo principale del SEBC il mantenimento della stabilità dei prezzi e prevede che esso agisca in conformità del principio di un'economia di mercato aperta e in libera concorrenza. Ai sensi dell'art. 127 TFUE, i compiti che la BCE deve assolvere tramite il SEBC sono:  definire e attuare la politica monetaria dell'Unione;  svolgere le operazioni sui cambi;  detenere e gestire le riserve ufficiali in valuta estera degli Stati membri;  promuovere il regolare funzionamento dei sistemi di pagamento;  svolgere attività consultiva in merito a qualsiasi proposta di atto dell'Unione che rientri nelle sue competenze. Ai sensi dell'art. 128 TFUE la BCE ha il diritto esclusivo di autorizzare l'emissione di banconote in euro, mentre il conio delle monete può essere effettuato dagli Stati membri, con approvazione della BCE per quanto riguarda il volume del conio. 31 Per l'assolvimento dei propri compiti, l'art. 132 TFUE conferisce alla BCE un potere normativo (quello di adottare regolamenti, decisioni e formulare raccomandazioni o pareri). In relazione a tali atti la BCE gode anche di un potere sanzionatorio, potendo infliggere ammende. La BCE dispone inoltre di un potere di indirizzo, consistente nell'invio alle Banche centrali nazionali di indirizzi e istruzioni. Anche la BCE è sottoposta per la propria attività al controllo giurisdizionale della Corte di giustizia, nelle forme ordinarie previste dal TFUE. É a sua volta legittimata a proporre ricorsi avanti la Corte di giustizia. Gli artt. 308 e 309 TFUE hanno ad oggetto la Banca europea degli investimenti (BEI). Questa è dotata di una propria personalità giuridica distinta da quella dell'Unione, e di essa sono membri gli Stati che ne sottoscrivono il capitale. Le sue funzioni consistono nel facilitare, mediante concessione di prestiti e garanzie, senza perseguire scopi di lucro, il finanziamento di progetti finalizzati a contribuire allo sviluppo equilibrato del mercato interno. Va dato conto infine della tendenza affermatasi negli ultimi anni di creare, attraverso atti del Consiglio, o di Parlamento e Consiglio, appositi organi (es. Europol ed Eurojust), o agenzie indipendenti, queste ultime a loro volta o di semplice regolamentazione (forniscono pareri di carattere tecnico-scientifico, come nel caso dell'Autorità europea per la sicurezza alimentare), oppure dotate di veri e propri poteri decisionali, come nel caso dell'Ufficio dell'Unione europea per la proprietà intellettuale. Nell'ambito della cooperazione rafforzata è stata istituita, con regolamento UE 2017/1939 del Parlamento europeo e del Consiglio, la Procura europea (EPPO). La Procura europea è chiamata a cooperare con Eurojust ed Europol. È indipendente sia dagli Stati membri, sia dalle istituzioni dell'Unione. Ha il compito di individuare, perseguire e portare in giudizio gli autori dei reati indicati nell'art. 86 TFUE, esercitando l'azione penale e svolgendo le funzioni di pubblico ministero davanti agli organi giurisdizionali nazionali competenti. A livello centrale, la Procura europea è composta da un Procuratore capo europeo nominato da Parlamento europeo e Consiglio per un mandato di 7 anni non rinnovabile, e dai procuratori europei, nominati dal Consiglio nel numero di uno per ogni Stato membro, e da due sostituti del Procuratore capo europeo, individuati fra i procuratori europei. Procuratore capo e procuratori europei formano il Collegio con funzioni di supervisione dell'attività dell'EPPO. A livello decentrato sono presenti procuratori europei delegati designati dagli Stati membri e nominati dal Collegio. 32 (ora art. 114 TFUE). d) Questa soluzione eccezionale non è però sempre ammissibile. In particolare non vale se le disposizioni che dovrebbero fungere da base giuridica plurima prevedono procedure decisionali incompatibili. E così nella sentenza Biossido di titanio sopra menzionata, la Corte ha affermato che non è possibile adottare la direttiva in questione in base a entrambe le norme indicate, in quanto l'art. 130S TCE prevedeva all'epoca la mera consultazione del Parlamento europeo, mentre l'art. 100A prevedeva la procedura di cooperazione. In casi del genere la base giuridica non potrà che essere una sola, e andrà preferita quella che non pregiudica i poteri di partecipazione del Parlamento europeo alla procedura decisionale. Così la Corte di giustizia, nella sentenza Biossido di titanio, conclude che la base giuridica appropriata sia l'art. 100A, che prevede(va) un maggior coinvolgimento del Parlamento europeo. Secondo la giurisprudenza, la scelta della corretta base giuridica di ciascun atto adottato dalle istituzioni riveste importanza di natura costituzionale, e pertanto deve essere sempre indicata e rientra nell'obbligo di motivazione (art. 292, secondo comma, TFUE). 3. La procedura legislativa ordinaria Ai sensi dell'art. 289 TFUE, la procedura legislativa ordinaria consiste nell'adozione congiunta di un regolamento, di una direttiva o di una decisione da parte del Parlamento europeo e del Consiglio su proposta della Commissione. In passato (art. 251 TCE) era nota come procedura di codecisione e veniva applicata in pochi casi: oggi è la procedura ordinaria. La procedura si fonda su un sistema di 3 letture della proposta di atto legislativo da parte delle due istituzioni. É possibile che la procedura si arresti non appena le due istituzioni siano pervenute ad un accordo su un medesimo testo. In generale la procedura legislativa ordinaria si apre con la proposta della Commissione. Parlamento europeo e Consiglio godono del potere di sollecitare la Commissione a presentare una proposta, anche se non è prevista alcuna sanzione per il caso in cui la Commissione non si attivi (nemmeno il ricorso in carenza). Proposte possono essere sollecitate anche da altre istituzioni od organi, in particolare dal Consiglio europeo. Anche un milione di cittadini dell'UE (iniziativa legislativa dei cittadini) possono invitare la Commissione a presentare una proposta appropriata su materie in merito alle quali tali cittadini ritengono necessario un atto giuridico dell'Unione, ai fini dell'attuazione dei Trattati (art. 17, par. 4, TUE). Quando la Commissione integra la proposta con una valutazione di impatto (studi diretti a verificare il possibile impatto economico, ambientale o sociale di un atto legislativo), la proposta medesima viene sottoposta al previo parere del Comitato per il controllo normativo, istituito nel 2015. 35 La procedura si apre con la proposta della Commissione, la quale viene indirizzata simultaneamente al Consiglio e al Parlamento europeo (art. 294, par. 2, TFUE). In applicazione del Protocollo n. 2 sull'applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità, è prescritta una fase preliminare anteriore alla prima lettura: se i parlamenti nazionali danno voto negativo alla proposta in quanto non rispettosa dei suddetti principi, la proposta può essere bloccata (v. Parte sesta, cap. 3). La prima lettura consiste nell'adozione da parte del Parlamento europeo della propria posizione che viene trasmessa al Consiglio.  Il Consiglio può approvare la posizione del Parlamento: in questo caso l'atto è così adottato.  In caso contrario, il Consiglio adotta a maggioranza qualificata una posizione in prima lettura. Il Consiglio può anche emendare la proposta, ma solo deliberando all'unanimità. Fintanto che il Consiglio non ha deliberato, la Commissione può modificare la propria proposta e anche ritirarla (art. 293, par. 2, TFUE). Inizia allora la seconda lettura, fase in cui il Parlamento europeo ha 3 mesi di tempo per: a) approvare la posizione del Consiglio; b) omettere di deliberare; c) respingere la posizione del Consiglio (a maggioranza assoluta); d) proporre emendamenti (a maggioranza assoluta). Nei casi sub a) e b) l'atto è adottato. Nel caso c) l'atto non è adottato. Nel caso d) la Commissione deve emettere un parere sugli emendamenti. Ricevuto il parere, il Consiglio può:  approvare tutti gli emendamenti a maggioranza qualificata; l'atto viene adottato;  non approvare tutti gli emendamenti. Viene allora convocato un Comitato di conciliazione (composto da membri del Consiglio e del Parlamento) che ha il compito di approvare entro 6 settimane un progetto comune con la collaborazione della Commissione. Se il Comitato non riesce ad approvare un progetto comune, l'atto si considera non adottato; se, invece, il Comitato approva un progetto comune si passa alla terza lettura. Sulla base del progetto comune elaborato dal Comitato, l'atto deve essere approvato in terza lettura dal Consiglio (a maggioranza qualificata) e dal Parlamento europeo entro ulteriori 6 settimane; in tal modo l'atto è adottato. In mancanza di approvazione dell'una o dell'altra istituzione, l'atto si considera non adottato. 36 4. Le procedure legislative speciali: la procedura di consultazione e la procedura di approvazione Diverse disposizioni del TFUE prevedono procedure legislative speciali. Nella maggior parte dei casi esse consistono nell'adozione dell'atto da parte del Consiglio a maggioranza qualificata o all'unanimità, previa consultazione del Parlamento europeo (procedura di consultazione). In un numero limitato di casi l'atto deliberato dal Consiglio è sottoposto all'approvazione del Parlamento europeo (procedura di approvazione). Quanto al potere di iniziativa, salvo eccezioni l'istituzione competente non può deliberare in mancanza di una proposta della Commissione. Quando il TFUE prevede che il potere di adottare atti legislativi in un certo settore spetti al solo Consiglio, il potere di questa istituzione è controbilanciato dall'obbligo di consultare il Parlamento europeo (es. art. 192, par. 2, in materia di ambiente). È questa la procedura di consultazione, in cui il Parlamento è chiamato a emettere un parere consultivo obbligatorio, ma non vincolante. É stato chiarito che la consultazione debba essere effettiva e regolare: il parere non deve solo essere stato richiesto, ma anche emanato prima dell'adozione dell'atto da parte del Consiglio. Il chiarimento in questione è stato fornito dalla Corte di giustizia nella sentenza del 1980 Roquette Frères (causa 138/79), in cui afferma che la consultazione del Parlamento esige che questo esprima effettivamente la propria opinione. Tale esigenza non si può considerare soddisfatta da una semplice richiesta di parere da parte del Consiglio. Non è previsto alcun termine per l'emanazione del parere da parte del Parlamento. Si deve comunque ritenere che questo sia tenuto, in osservanza al principio di leale collaborazione, ad emanare il parere entro un termine ragionevole. Da ultimo, il parere del Parlamento deve essere dato sull'atto che poi sarà effettivamente adottato dal Consiglio; se il Consiglio apporta delle modifiche all'atto trasmesso al Parlamento per il parere, oppure la Commissione ritira la proposta e ne presenta al Consiglio un'altra diversa, è necessaria una seconda consultazione del Parlamento. In alcuni casi di particolare importanza, il TFUE prevede che l'atto legislativo deliberato dal Consiglio debba essere approvato dal Parlamento europeo (procedura di approvazione). Ciò avviene, ad esempio, in tema di discriminazioni. In pratica, la procedura in questione si avvicina a quella legislativa ordinaria, ma mentre in quest'ultimo caso il Parlamento ha ampio spazio di manovra per contribuire a determinare il contenuto dell'atto, nella procedura di approvazione il Parlamento si limita ad approvare o a 37 Commissione. Particolarmente complessa è anche la procedura per i disavanzi pubblici eccessivi, il cui momento centrale è costituito dalla decisione del Consiglio che, su proposta della Commissione, sentite le osservazioni dello Stato membro interessato, stabilisce che esiste un disavanzo eccessivo; adotta allora nei confronti dello Stato interessato le raccomandazioni necessarie al fine di far cessare tale situazione entro un determinato periodo, pena una successiva decisione di intimazione e, in mancanza di ottemperanza, l'applicazione di sanzioni. 7. Le procedure nel settore della PESC L'art. 24, secondo comma, TUE dispone che la PESC è soggetta a procedure decisionali specifiche, che si differenziano da quelle che si applicano normalmente nel campo del TFUE. Assume in questo settore un ruolo molto importante il Consiglio europeo, che esercita un vero e proprio potere decisionale, seguendo un'apposita procedura. In questo settore il Consiglio europeo individua gli interessi strategici dell'Unione, fissa gli obiettivi e definisce gli orientamenti generali della politica estera e di sicurezza comune, ivi comprese le questioni che hanno implicazioni in materia di difesa, e adotta le decisioni necessarie (art. 26, par. 1, TUE). Le decisioni vengono prese all'unanimità su proposta degli Stati membri, dell'Alto rappresentante o del Consiglio. Anche il Consiglio adotta nel settore della PESC decisioni prese all'unanimità su proposta di Stati membri o dell'Alto rappresentante (quest'ultimo da solo o con l'appoggio della Commissione). È prevista la cd astensione costruttiva (art. 31, par. 1, secondo comma, TUE): in caso di astensione dal voto (che non esclude l'unanimità), ciascun membro del Consiglio può motivare la propria astensione con una dichiarazione formale. In tal caso esso non è obbligato ad applicare la decisione, ma accetta che essa impegni l'Unione (e gli altri Stati membri). Lo stesso art. 31, al par. 2, prevede la possibilità che alcune deliberazioni vengano assunte dal Consiglio a maggioranza qualificata, e non all'unanimità. Ciò avviene:  quando adotta una decisione che definisce un'azione o una posizione dell'Unione sulla base di una decisione del Consiglio europeo;  quando adotta una decisione che definisce un'azione o una posizione dell'Unione in base a una proposta dell'Alto rappresentante, presentata a seguito di una richiesta specifica rivoltogli del Consiglio europeo; 40  quando adotta decisioni relative all'attuazione di una decisione che definisce un'azione o una posizione dell'Unione;  quando nomina un rappresentante sociale. La possibilità di assumere deliberazioni a maggioranza qualificata può essere paralizzata con la clausola di salvaguardia: se un membro del Consiglio dichiara che, per specificati e vitali motivi di politica nazionale, intende opporsi all'adozione di una decisione che richiede la maggioranza qualificata, non si procede alla votazione. L'Alto rappresentante cerca con lo Stato membro interessato una soluzione. In mancanza di un risultato il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata, può chiedere che della questione sia investito il Consiglio europeo, al fine di ottenere una decisione all'unanimità (art. 31, par. 2, secondo comma, TUE). La politica estera e di sicurezza comune è attuata dall'Alto rappresentante e dagli Stati membri, ricorrendo ai mezzi nazionali e a quelli dell'Unione. Il Parlamento europeo non svolge alcun ruolo attivo nell'ambito della PESC; è oggetto di semplice consultazione, e può solo rivolgere interrogazioni o formulare raccomandazioni al Consiglio o all'Alto rappresentante. 8. La procedura per la conclusione di accordi internazionali La procedura per negoziare e concludere accordi internazionali dell'Unione con Stati terzi o con altre organizzazioni internazionali, e che vede un ruolo centrale del Consiglio, è disciplinata dall'art. 218 TFUE. Il Consiglio autorizza il negoziato, la firma, la stipula e la sospensione dell'accordo. Nel corso dell'intera procedura il Consiglio delibera normalmente a maggioranza qualificata. Delibera invece all'unanimità:  nel caso di accordi che riguardano un settore per il quale è richiesta l'unanimità per l'adozione di un atto interno dell'Unione;  nel caso di accordi di associazione ex art. 217 TFUE;  nel caso di accordi di cui all'art. 212 TFUE con gli Stati candidati all'adesione;  nel caso di accordo sull'adesione dell'Unione alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU). La conclusione dell'accordo (stipula) avviene generalmente secondo il modello della procedura di consultazione. 41 Si segue invece il modello della procedura di approvazione nel caso di:  accordi di associazione;  adesione dell'Unione alla CEDU;  accordi che creano un quadro istituzionale specifico organizzando procedure di cooperazione;  accordi che hanno ripercussioni finanziarie considerevoli per l'Unione;  accordi che riguardano settori ai quali si applica la procedura legislativa ordinaria, oppure quella speciale con approvazione del Parlamento europeo. In caso di mera consultazione, il Parlamento europeo formula il suo parere nel termine fissato dal Consiglio in ragione dell'urgenza; in mancanza di parere entro detto termine, il Consiglio può deliberare. Se la procedura richiede l'approvazione del Parlamento europeo, l'eventuale termine, in caso di urgenza, deve essere concordato tra Consiglio e Parlamento. È possibile la consultazione anche della Corte di giustizia, a richiesta di uno Stato membro, del Parlamento europeo, del Consiglio o della Commissione, per conoscere anticipatamente se un accordo da stipulare sia compatibile con le disposizioni dei Trattati. 9. Le procedure per l'adozione degli atti di attuazione e di esecuzione Molto spesso gli atti del Consiglio o quelli adottati congiuntamente da Parlamento europeo e Consiglio (cd atti di base, o di primo grado) affidano alla Commissione il compito di adottare atti di attuazione / esecuzione, o di secondo grado. In alcuni casi l'atto di base delega la Commissione a integrare la disciplina dettata nell'atto stesso con regole di dettaglio, o addirittura autorizza la Commissione a modificare la disciplina di base su aspetti secondari (es. relativamente a dati tecnico-scientifici): in tutti questi casi si parla di atti di attuazione da parte della Commissione (art. 290 TFUE). La delega avviene per atto legislativo che contiene:  la delimitazione degli obiettivi, del contenuto, della portata e della durata delle delega;  la fissazione delle condizioni cui è soggetta la delega. Si tratta delle cd modalità di controllo che possono essere esercitate dalle istituzioni autrici delle delega, e che consistono nel potere di revocare la delega o nell'impedire l'entrata in vigore dell'atto delegato. Dal momento che non costituiscono atti legislativi, gli atti delegati hanno natura di regolamenti di 42 Le fonti dell'ordinamento dell'Unione hanno una propria gerarchia:  i Trattati (trattati istitutivi, trattati di revisione, trattati di adesione, protocolli e allegati ai trattati), i principi generali del diritto, la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (cd diritto “primario”);  le norme del diritto internazionale generale e gli accordi internazionali conclusi dall'Unione con Stati terzi (cd diritto “intermedio”);  gli atti di base adottati dalle istituzioni (cd diritto “secondario di base”);  gli atti di attuazione o di esecuzione adottati dalla Commissione o dal Consiglio (cd diritto “secondario di attuazione o esecuzione”). Gli atti di attuazione o di esecuzione devono rispettare gli atti di base e restare nei limiti della eventuale delega conferita. Gli atti di attuazione si distinguono dagli atti di base, perchè sono sempre adottati dalla Commissione su delega disposta da un atto legislativo adottato congiuntamente da Parlamento europeo e Consiglio, oppure dall'una o dall'altra di queste istituzioni. Gli atti di esecuzione, invece, sono emessi dalla Commissione oppure, in casi specifici, dal Consiglio, allorchè siano necessarie condizioni uniformi di esecuzione degli atti giuridicamente vincolanti dell'Unione. Gli atti del diritto secondario possono anche essere suddivisi in atti legislativi e in atti non legislativi. La distinzione si basa sulla procedura decisionale applicabile, e così ai sensi dell'art. 289, par. 3, TFUE, soltanto gli atti giuridici adottati mediante procedura legislativa sono atti legislativi. Dal momento che la procedura decisionale applicabile è data dalla base giuridica , è quest'ultima che determina la natura legislativa o meno degli atti adottati. Il fatto che un atto giuridico sia o meno legislativo comporta alcune importanti conseguenze:  i lavori del Consiglio per l'adozione di un atto legislativo devono svolgersi in seduta pubblica;  in merito agli atti legislativi vanno esercitati i poteri di controllo dei parlamenti nazionali circa il rispetto del principio di sussidiarietà;  le condizioni di ricevibilità dei ricorsi di annullamento delle persone fisiche o giuridiche sono più severe se l'atto impugnato ha carattere legislativo. Anche dal punto di vista della struttura, gli atti delle istituzioni presentano grandi differenze. 45 Ai sensi dell'art. 288 TFUE gli atti tipici delle istituzioni sono:  i regolamenti (vincolanti);  le direttive (vincolanti);  le decisioni (vincolanti);  i pareri (non vincolanti);  le raccomandazioni (non vincolanti). Pareri e raccomandazioni non sono atti vincolanti e, come tali, non possono fungere da vere e proprie fonti del diritto, come invece sono regolamenti, direttive e decisioni, che sono atti vincolanti. L'art. 288 non prevede alcuna gerarchia tra gli atti vincolanti di tipo diverso, per cui una direttiva potrebbe abrogare un regolamento, e una decisione potrebbe derogare a una direttiva. Normalmente la base giuridica specifica di volta in volta quale tipo di atto le istituzioni possono adottare. Può capitare che il tipo di atto da adottare non venga affatto precisato, e allora spetta alle istituzioni effettuare la scelta nel rispetto del principio di proporzionalità. I Trattati prevedono anche atti non corrispondenti ai tipi di cui sopra, e vengono definiti atti atipici. Tra questi vi sono atti previsti nel settore della PESC, nonchè il bilancio della Comunità. In via di prassi sono andati ad affiancare gli atti atipici alcuni atti della Commissione nel settore della concorrenza (artt. da 101 a 106 TFUE) e degli aiuti di Stato alle imprese (artt. 107 e 108 TFUE). Tali atti sono costituiti da comunicazioni (che si presentano come circolari interne) e da prese di posizione (che si presentano come lettere a uno Stato membro). Gli artt. 296 e 297 TFUE disciplinano alcuni aspetti comuni a tutti gli atti delle istituzioni: motivazione, firma (del Presidente del Parlamento europeo e/o del Presidente del Consiglio, oppure, per gli atti non legislativi, dal Presidente dell'istituzione che li adotta) ed entrata in vigore (gli atti pubblicati nella Gazzetta Ufficiale dell'Unione europea entrano in vigore 20 giorni dopo la pubblicazione, salvo che sia disposto diversamente). 2. I trattati Le fonti di diritto primario dell'Unione sono in massima parte contenuti nei Trattati (TUE e TFUE), come emendati dai Trattati di revisione e modificati dai Trattati di adesione. Il rapporto tra i due Trattati è paritetico dal punto di vista della natura giuridica, mentre è gerarchico 46 dal punto di vista funzionale, dal momento che il TFUE è strumentale rispetto al TUE. Natura di fonti primarie hanno anche i Protocolli e gli Allegati ai Trattati, di cui ne costituiscono parte integrante. Quanto alla natura dei Trattati, si discute se vadano considerati come semplici trattati internazionali, oppure come una “carta costituzionale”. A sostegno della prima soluzione sta la circostanza che i Trattati, comprese le loro modifiche, sono stati conclusi secondo le procedure proprie dei trattati internazionali. Ponendoci invece in una prospettiva interna al sistema giuridico dell'Unione, sembra possibile ammettere che i Trattati assolvano a una funzione di natura costituzionale, in quanto:  definiscono la struttura istituzionale dell'Unione, le procedure per l'adozione di atti di diritto derivato e le loro caratteristiche;  definiscono i settori di competenza dell'Unione;  istituiscono la Corte di giustizia che assicura il rispetto dei Trattati e del diritto dell'Unione in generale, ed è accessibile a istituzioni, Stati membri e soggetti degli ordinamenti interni. La Corte, dal canto suo, adopera i Trattati come una costituzione piuttosto che come trattati internazionali. L'interpretazione del diritto comunitario avviene sulla base di principi propri dell'ordinamento dell'Unione, e non segue le regole interpretative della Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei trattati internazionali. Ad esempio, un criterio interpretativo tipico dell'ordinamento dell'Unione, applicato alle norme dei Trattati, è quello dell'effetto utile: la Corte preferisce l'interpretazione che consente alla norma la maggiore effettività possibile, di modo che gli scopi cui la norma è rivolta possano essere raggiunti più compiutamente. I Trattati possono essere modificati solo ricorrendo alle procedure di revisione. L'art. 48 TUE prevede due tipi di procedure: la procedura di revisione ordinaria e due procedure di revisione semplificate.  La procedura di revisione ordinaria (art. 48, parr. 2,3 e 4, TUE) si articola come segue: 1) presentazione al Consiglio di un progetto di modifica da parte del governo di qualsiasi Stato membro, del Parlamento europeo o della Commissione; 2) il Consiglio può fare modifiche e poi trasmette il progetto al Consiglio europeo; 3) il Consiglio europeo, previa consultazione del Parlamento europeo e della Commissione, decide sul progetto a maggioranza semplice; 4) eventuale convocazione di una Convenzione per l'esame dei progetti di modifica e per l'adozione per consensus di una raccomandazione per la successiva Conferenza 47 Tenendo conto della funzione costituzionale svolta dai Trattati, non è possibile modificare gli stessi al di fuori delle procedure di revisione previste, nemmeno da una prassi difforme degli Stati membri. Nella sentenza del 1976 sul caso C. 43/75 Defrenne c Sabena, la Corte di giustizia ha confermato che un obbligo imposto dai Trattati continua ad operare pur se in determinati Stati non viene osservato. Dunque , la prassi non può prevalere sulle norme dei Trattati (circostanza ribadita dalla Corte della sentenza del 1994 nella causa C 327/91 Francia c. Commissione). 3. I principi generali del diritto Tra le fonti assimilabili a quelle di diritto primario si segnalano anzitutto i principi generali del diritto, comprensivi dei principi relativi alla tutela dei diritti fondamentali dell'uomo. La tipologia dei principi generali è ampia, e gli stessi possono essere suddivisi in: A) principi generali propri dell'Unione; B) principi generali del diritto comuni agli ordinamenti degli Stati membri; C) principi generali posti a protezione dei diritti fondamentali (i quali non sono più oggi categoria autonoma, in quanto inglobati in diverse fonti richiamate dall'art. 6 TUE, come modificato dal Trattato di Lisbona. Pertanto, detti principi ora fanno parte o dei principi generali propri dell'Unione, o dei principi generali del diritto comuni agli ordinamenti degli Stati membri). Si distinguono dai principi generali i valori dell'Unione i quali, ancorchè proclamati da una norma primaria (art. 2 TUE), non costituiscono fonti di diritto provviste di efficacia precettiva, ma assumono rilevanza solo sul piano politico e morale, ed ispirano il legislatore dell'Unione e delle altre istituzioni politiche dell'Unione. A) I principi generali del diritto dell'Unione trovano espressione in determinate norme dei Trattati e rivestono carattere imperativo e inderogabile. Tra detti principi ricordiamo:  il principio di non discriminazione che trova applicazione in diverse disposizioni del TFUE, come ad esempio nell'art. 18 che vieta discriminazioni legate alla nazionalità, divieto ribadito nelle norme relative alle libertà di circolazione delle persone e dei servizi (artt. 45, 49 e 57). Nella sentenza del 1989, causa 186/87 - Cowan, la Corte di giustizia affronta il caso di un cittadino britannico il quale, durante un soggiorno turistico in Francia, è stato oggetto di aggressione, ed al quale viene negato un indennizzo che è previsto per casi del genere, dalla legislazione francese, solo a favore di cittadini nazionali. Dopo aver qualificato la posizione del signor Cowan come quella 50 di un destinatario di servizi ai sensi dell'art. 56 TFUE, la Corte statuisce che il princìpio di non discriminazione vada applicato ai destinatari di servizi ai sensi del Trattato, quanto alla protezione contro i rischi di aggressione ed al diritto di ottenere una riparazione pecuniaria contemplata dal diritto nazionale, allorchè un'aggressione si sia verificata. Dato che quello di non discriminazione è un principio generale, va applicato anche a ipotesi non espressamente contemplate da una norma (cd autonomia del principio di non discriminazione). La manifestazione positiva del principio di non discriminazione è ravvisabile nel principio di parità di trattamento o di uguaglianza. Nonostante le molte sollecitazioni ricevute, la Corte di giustizia non ritiene invece che rientrino nell'ambito del principio di non discriminazione le cd “discriminazioni alla rovescia”. Si tratta di situazioni che si creano quando norme di uno Stato membro prevedono per i propri cittadini un trattamento deteriore rispetto a quello riservato ai cittadini di altri Stati membri, in situazioni puramente interne e perciò estranee al campo di applicazione della libera circolazione di persone e servizi. Un esempio di discriminazione allo rovescia si produce nel caso esaminato dalla sentenza del 1992, causa 332/90 – Steen. Il Sig. Steen, cittadino tedesco, lamenta di subire una discriminazione rispetto ai cittadini di altri Stati membri i quali, a differenza dei cittadini tedeschi, possono essere assunti con contratti di diritto privato a condizioni più favorevoli. La Corte si limita ad affermare che, non avendo il Sig. Steen mai esercitato la libera circolazione all'interno della Comunità, egli non ha veste per invocare gli artt. 18 e 45 del TFUE, in quanto la sua riguarda una situazione puramente interna. Le discriminazioni alla rovescia vanno risolte nell'ambito del sistema giuridico nazionale, eventualmente ricorrendo al principio di uguaglianza davanti alla legge.  il principio di libera circolazione;  il principio della tutela giurisdizionale effettiva;  il principio di attribuzione (legato al principio di legalità, v. sotto);  il principio di sussidiarietà;  il principio di uguaglianza degli Stati membri davanti ai Trattati e del rispetto della loro identità nazionale;  il principio di leale cooperazione;  il principio di fiducia reciproca tra Stati membri. B) Una seconda categoria è costituita dai principi generali del diritto comuni agli ordinamenti degli Stati membri. Si tratta di principi che vengono desunti non dal diritto dell'Unione, ma dall'esame parallelo dei vari ordinamenti nazionali. Assumono rilievo nell'intero campo di applicazione dei Trattati, e vengono utilizzati per verificare 51 la legittimità del comportamento delle istituzioni e degli Stati membri con riferimento alla posizione dei singoli. Così, ad esempio, vi rientrano:  il principio di legalità;  il principio della certezza del diritto;  il principio del legittimo affidamento;  il principio del contraddittorio;  il principio di proporzionalità. Con riferimento al principio di proporzionalità, va segnalata la sentenza del 1985, causa 181/84 – Man (Sugar), con cui la Corte ha affermato che una disciplina comunitaria che opera una differenziazione fra un obbligo principale, il cui adempimento è necessario per il raggiungimento dello scopo perseguito, ed un obbligo secondario, avente natura essenzialmente amministrativa, non può sanzionare con pari rigore l'inosservanza dell'obbligo secondario e l'inosservanza dell'obbligo principale senza violare il principio di proporzionalità. 4. La protezione dei diritti fondamentali C) I principi generali posti a tutela dei diritti fondamentali non sono più oggi una categoria autonoma: i diritti fondamentali dell'uomo sono infatti contenuti in una pluralità di strumenti normativi richiamati dall'art. 6 TUE, come risultante dopo il Trattato di Lisbona:  la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea;  la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU);  i principi generali di cui fanno parte i diritti fondamentali garantiti dalla CEDU e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri. Ad oggi, la Carta dei diritti fondamentali e i principi generali sono sin d'ora vincolanti per l'Unione europea, mentre la CEDU lo diverrà solo se e quando verrà perfezionata l'adesione a essa. Per ora il suo contenuto contribuisce a formare i principi generali di cui sopra. Ma come mai l'Unione europea non ha ancora aderito alla CEDU, secondo quanto previsto dal par. 2 dell'art. 6 TUE? Il progetto di accordo di adesione, approvato nella riunione del gruppo di lavoro del 3-5 aprile 2013, è stato dichiarato dalla Corte di giustizia incompatibile con l'art. 6, par. 2, TUE e col Protocollo n. 8 UE. La Corte (parere 2/13) ritiene che il progetto non rispetti le caratteristiche specifiche dell'Unione e del suo diritto, con particolare riferimento al controllo esterno che sarebbe affidato alla Corte EDU, il che violerebbe l'autonomia del diritto dell'Unione e il ruolo di custode di tale diritto in capo alla Corte di giustizia. 52 Nel caso di conflitto tra fonti richiamate e la Carta, l'art. 53 della stessa stabilisce la cd clausola di compatibilità: nessuna disposizione della Carta deve essere interpretata come limitativa o lesiva dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali riconosciuti, nel rispettivo ambito di applicazione, dal diritto dell'Unione, dal diritto internazionale, dalle convenzioni internazionali delle quali l'Unione o tutti gli Stati membri sono parte, in particolare la CEDU. Dunque, è ammessa l'applicazione di altre fonti che, rispetto alla Carta, prevedano una tutela più ampia dei diritti umani. Tuttavia, per la Corte di giustizia uno Stato membro può applicare gli standard nazionali di tutela dei diritti fondamentali, a patto che tale applicazione non comprometta il livello di tutela previsto dalla Carta come interpretato dalla Corte, né il primato, l'unità e l'effettività del diritto dell'Unione (quindi per la Corte è ammessa una tutela anche solo paritaria e non per forza più ampia). Tuttavia, se il grado di tutela del diritto fondamentale in esame è stato cristallizzato da una specifica norma o atto di diritto dell'Unione, e vi sia stato nell'emanare tale norma un bilanciamento (approvato dagli Stati membri) da parte del legislatore dell'Unione rispetto a interessi generali concorrenti, la Corte non ammette che uno Stato membro pretenda di applicare il proprio livello di protezione maggiore (v. sentenza del 2013 nel caso Melloni, condannato in contumacia in Italia per bancarotta fraudolenta, e che invocava la maggior protezione accordatagli dall'ordinamento spagnolo. La Corte ha sostenuto che la decisione-quadro sul mandato di arresto europeo avesse già operato un bilanciamento e che, pertanto, fossero sufficienti le garanzie previste dall'ordinamento italiano in quanto in linea con quelle europee). Nel caso Taricco II (causa 42/17, con sentenza della Corte del 2017) la Corte è stata più elastica nell'ammettere il livello di protezione maggiore garantito dalla Costituzione italiana (nel frangente il principio di legalità dei reati e delle pene di cui all'art. 25 Cost. nell'applicare la prescrizione del reato tributario commesso dal Taricco). L'art. 52, par. 3 della Carta si occupa invece soltanto della CEDU, introducendo la cd clausola di equivalenza: la Carta deve essere applicata in maniera che il livello di protezione assicurato dalla stessa ai diritti tutelati anche dalla CEDU sia almeno equivalente a quello garnatito da quest'ultimo strumento. Resta invece salva la possibilità che il diritto dell'Unione preveda un livello di tutela superiore. 55 6. Il ruolo dei principi generali e della Carta dei diritti fondamentali Principi generali e Carta dei diritti fondamentali assolvono ad una funzione strumentale, in quanto influiscono sull'applicazione di norme materiali derivanti da altre fonti. I principi generali del diritto vengono in rilievo in primo luogo come criteri interpretativi delle altre fonti del diritto dell'Unione (Trattati, norme di diritto derivato): in presenza di più interpretazioni possibili, l'interprete dovrà scegliere la soluzione più coerente coi principi generali e col rispetto dei diritti fondamentali. In secondo luogo, i principi generali fungono direttamente da parametro di legittimità per gli atti delle istituzioni (diritto derivato). Questi possono essere annullati o dichiarati invalidi per violazione dell'uno dell'altro dei principi innanzi indicati, o per contrarietà ai diritti sanciti dalla Carta (v. a tal proposito la sentenza della Corte di giustizia del 1985 nella causa 181/84, Man-Sugar, già esaminata con riferimento alla violazione del principio di proporzionalità). In terzo luogo, i principi generali operano indirettamente da parametro di legittimità per alcuni comportamenti degli Stati membri. Gli interventi degli Stati membri (atti di diritto interno) in attuazione del diritto dell'Unione devono conformarsi ai principi generali del diritto e in particolare a quelli attinenti al rispetto dei diritti fondamentali. Qualora ciò non avvenisse, tali interventi sarebbero incompatibili rispetto alla norma dell'Unione che li autorizza o li prescrive, e andrebbero pertanto disapplicati. Nella sentenza della Corte di giustizia del 1975, causa 36/75, Rutili, viene affermato che provvedimenti restrittivi della libertà di circolazione adottati per motivi di ordine pubblico devono essere limitati a ciò che è necessario per esigenze di ordine pubblico, e non possono consistere in generali divieti di soggiornare in determinate zone del territorio nazionale, se detti provvedimenti non sono previsti anche per i cittadini dello Stato membro. Perchè a uno Stato membro possa essere contestata la violazione di un principio generale o la violazione di uno dei diritti fondamentali riconosciuti dalla Carta, è necessario che sussista un collegamento tra il comportamento dello Stato membro e il diritto dell'Unione (ossia, lo Stato membro deve aver agito per attuare una norma dei Trattati o un atto delle istituzioni, oppure deve aver adottato un comportamento in un settore comunque rientrante nel campo di applicazione dei Trattati). In mancanza, l'obbligo per lo Stato membro di rispettare i diritti fondamentali non è ricollegabile al diritto dell'Unione e la Corte di giustizia non può esercitare la propria competenza per assicurare l'osservanza di tali diritti. Nella sentenza del 1991, causa 159/90, Grogan, la Corte di giustizia ha escluso che l'attività svolta dalle associazioni studentesche ricorrenti rientrasse nel campo di applicazione della libera prestazione dei servizi e, dunque, nel campo di applicazione del diritto dell'Unione, rifiutandosi pertanto di passare al merito del ricorso. 56 7. Il diritto internazionale generale e gli accordi internazionali L'Unione costituisce soggetto di diritto internazionale e, come tale, può concludere accordi internazionali con Stati terzi e con organizzazioni internazionali. É altresì tenuta a rispettare le norme di diritto internazionale generale (diritto consuetudinario). Le norme di diritto internazionale generale vincolano l'Unione soltanto nei confronti di soggetti terzi: gli Stati membri non possono invece invocare tali principi nei loro rapporti reciproci, quando agiscono nel campo di applicazione dei Trattati (che, quale lex specialis, prevale sul diritto generale). Le norme di diritto internazionale generale applicabili all'Unione, pur essendo subordinate ai Trattati, fanno parte del suo ordinamento giuridico. Le norme del diritto internazionale svolgono anzitutto una funzione ermeneutica analoga a quella dei principi generali del diritto, anche nei riguardi di norme primarie. Inoltre, il diritto internazionale generale costituisce parametro di legittimità degli atti delle istituzioni (norme secondarie, o diritto derivato). In questa duplice funzione, le norme di diritto internazionale generale possono essere invocate tanto dalle istituzioni e dagli Stati membri, quanto dai soggetti degli ordinamenti interni, i quali possono avvalersene nelle azioni proposte dinanzi ai giudici degli Stati membri. A fini interpretativi, il diritto internazionale generale è stato utilizzato dalla Corte di giustizia nel caso Van Duyn (sent. del 1974, C 41/74), cittadina olandese a cui era stato impedito l'ingresso nel Regno Unito in quanto appartenente al movimento religioso di “scientology”, considerato pericoloso dalle autorità britanniche (trattasi di limitazione alla libertà di circolazione delle persone derivante da motivi di ordine pubblico). Secondo la Corte, un principio di diritto internazionale impedisce ai singoli Stati di negare ai propri cittadini l'ingresso ed il soggiorno nel proprio territorio, ma non ai cittadini di altri Stati. Quanto agli accordi internazionali (diritto internazionale particolare) con Stati terzi o altre organizzazioni internazionali, che rilevano per l'ordinamento dell'Unione, gli stessi sono di tre tipi: a) accordi internazionali conclusi (solo) dagli Stati membri; b) accordi internazionali conclusi (solo) dall'Unione; c) accordi internazionali conclusi dall'Unione e dagli Stati membri (cd accordi misti). a) I primi non fanno parte dell'ordinamento dell'Unione e, se conclusi prima della data in cui i Trattati sono entrati in vigore rispetto allo Stato membro in questione, possono essere invocati da quest'ultimo per giustificare il mancato rispetto di obblighi derivanti dai Trattati. Ciò alla luce di un principio di diritto internazionale generale secondo cui uno Stato parte di due trattati, anche stipulati in tempi diversi, con controparti differenti, è tenuto a rispettare entrambi i trattati. Alla luce di detto principio l'art. 351 TFUE, per dirimere i possibili contrasti derivanti 57 nazionali in merito alla forma e ai mezzi”. Dunque, la direttiva ha portata individuale e non generale, in quanto ha destinatari definiti, ossia uno o più Stati membri. Le direttive rappresentano uno strumento di normazione in due fasi: 1) la prima accentrata a livello dell'Unione, dove vengono fissati gli obiettivi e i principi generali; 2) la seconda decentrata a livello nazionale, dove ciascuno Stato membro attua, attraverso strumenti normativi completi e dettagliati, gli obiettivi e i principi generali fissati dalla direttiva. Lo strumento della direttiva è adottato quando si vuole avvicinare progressivamente le legislazioni degli Stati membri su una data materia (cd “armonizzazione” dei diritti degli Stati membri). Anche la direttiva è obbligatoria in tutti i suoi elementi, in quanto gli Stati membri non possono applicarla selettivamente o parzialmente, ma pone a carico degli Stati membri un risultato da raggiungere (obbligo di risultato). Quanto al primo profilo della diretta applicabilità, ossia la necessità o meno di misure di adattamento interno, la direttiva non gode della stessa, in quanto necessita di misure di adattamento. Gli Stati membri sono infatti tenuti ad adattare l'ordinamento interno in modo da assicurare che il risultato voluto dalla direttiva sia raggiunto. Quanto al secondo profilo della diretta applicabilità, ossia alla capacità di produrre effetti diretti negli ordinamenti anche in mancanza di attuazione da parte degli Stati membri (cd efficacia diretta), normalmente la direttiva non presenta tale capacità. Tuttavia, qualora la direttiva sia incondizionata e sufficientemente precisa è SELF-EXECUTING, ossia produce, alla scadenza del termine previsto per il suo recepimento, effetti diretti, anche se solo in favore degli individui e nei rapporti di questi con lo Stato membro (cd efficacia diretta verticale). Ciò non esclude, tuttavia, l'obbligo dello Stato membro di dare comunque attuazione alla direttiva. L'obbligo di attuazione va adempiuto entro un termine temporale, fissato dalla direttiva stessa, imperativo e perentorio. Essendo un termine a favore dello Stato membro, questo può attuare la direttiva anche prima della scadenza. In pendenza del termine, lo Stato membro non può adottare provvedimenti in contrasto con la direttiva, o comunque tali da compromettere gravemente la realizzazione del risultato che la direttiva prescrive (cd obbligo di stand-still, o di non aggravamento). Il principio di leale collaborazione con l'Unione impone agli Stati membri di comunicare le misure di attuazione adottate. 60 Gli Stati membri sono (relativamente) liberi nella scelta delle forme e dei mezzi di attuazione: è necessario che gli strumenti scelti (legge costituzionale, legge ordinaria, atto amministrativo) siano idonei a produrre la modificazione degli ordinamenti interni voluta dalla direttiva. 10. Le decisioni Ai sensi dell'art. 288 TFUE “la decisione è obbligatoria in tutti i suoi elementi. Se la decisione designa i destinatari è obbligatoria soltanto nei confronti di questi”. Vi sono pertanto:  decisioni individuali, che vincolano solo i soggetti individuati nell'atto. Tali soggetti possono essere gli Stati membri (e allora sono simili alle direttive, qualora impongano obblighi di facere), oppure i singoli individui, e allora hanno natura spiccatamente amministrativa (atti puntuali e concreti). Esempi di decisioni individuali rivolte ai singoli sono rappresentate dalle decisioni della Commissione nell'ambito della disciplina della concorrenza, che possono prevedere anche sanzioni pecuniarie a carico di imprese.  decisioni generali, prive di destinatari individuati, che hanno pertanto portata obbligatoria generale. Gli esempi più importanti sono costituiti da alcune decisioni che il Consiglio europeo adotta nell'ambito delle procedure di revisione dei trattati, in particolare quelle che riguardano le procedure semplificate. Vanno ricordate altresì le decisioni del Consiglio adottate nel quadro della PESC. 11. Gli atti nel settore PESC Il Trattato di Lisbona, mentre elimina le distinzioni tra gli atti di quello che in passato era il III° pilastro e quelli tradizionali del pilastro comunitario (il I°), mantiene un regime speciale per gli atti nel settore della PESC (II° pilastro). Ai sensi dell'art. 25 TUE gli atti giuridici attraverso i quali l'Unione conduce alla PESC sono:  gli orientamenti generali, ossia atti del Consiglio europeo (di altissima politica) che definiscono le linee guida su cui l'Unione deve muoversi nel settore della politica estera e di sicurezza comune;  le decisioni prese dal Consiglio, che possono definire: a) le azioni che l'Unione deve intraprendere; b) le posizioni che l'Unione deve assumere; 61 c) le modalità di attuazione delle decisioni di cui ai punti precedenti. Gli atti che possono essere adottati nell'ambito PESC non hanno mai carattere legislativo, però sono vincolanti per gli Stati membri. 12. L'adattamento dell'ordinamento italiano al diritto dell'Unione europea I Trattati istitutivi delle Comunità europee, e quelli che li hanno modificati nel tempo, si presentano nella forma di normali trattati internazionali. L'Italia ha dato loro ingresso nel nostro ordinamento tramite l'ordine di esecuzione dato con legge ordinaria. Più precisamente, l'ordine di esecuzione di ciascun trattato è stato dato con la medesima legge (ordinaria) con cui il Parlamento italiano ha autorizzato la ratifica del trattato stesso da parte del Capo dello Stato, ai sensi dell'art. 80 Cost. Il ricorso ad una legge “solo” ordinaria per eseguire trattati così importanti come quelli europei ha dato luogo a difficoltà. Molti ritenevano necessaria una norma costituzionale ad hoc, che autorizzasse l'accettazione delle limitazioni di sovranità nazionali legate all'appartenenza alla Comunità, prima, e poi all'Unione. In assenza di una norma costituzionale specifica, si è ritenuto di poter ricondurre l'adesione italiana alla Comunità e poi all'Unione all' art. 11 Cost. La seconda parte di questa norma prevede che l'Italia “consente in condizioni di parità con gli altri Stati alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. La possibilità di far rientrare nell'art. 11 la partecipazione dell'Italia alla Comunità/Unione ha trovato conferma nella giurisprudenza della Corte costituzionale. Secondo quanto affermato nella “storica” sentenza del 1964 Costa c. Enel, l'art. 11 non è solo una norma “permissiva”, che abilita ad accettare le limitazioni di sovranità, ma è anche una norma procedurale: essa consente di accettare limitazioni di sovranità senza necessità di procedere ad una revisione costituzionale. In tale frangente, la Corte ha però anche negato il riconoscimento del primato del diritto comunitario (in particolare delle norme di diritto secondario o derivato) sul diritto interno incompatibile, attribuendo al diritto comunitario lo stesso rango di legge ordinaria dell'ordine di esecuzione utilizzato. Il rapporto tra norme interne e norme comunitarie avveniva pertanto utilizzando i normali criteri di soluzione delle antinomie tra norme statali (gerarchico, cronologico, di specialità). Pertanto, è risultato più difficile assicurare l'attuazione in Italia del diritto secondario o derivato 62 PARTE IV DIRITTO DELL'UNIONE EUROPEA E SOGGETTI DEGLI ORDINAMENTI INTERNI 1. Considerazioni generali La caratteristica dell'ordinamento dell'Unione consiste nel fatto di riconoscere come titolari di soggettività giuridica non soltanto gli Stati membri, ma anche coloro ai quali tale soggettività spetta nell'ambito degli ordinamenti interni degli Stati membri. Le norme dell'Unione presentano pertanto due dimensioni distinte: una dimensione internazionale e una dimensione interna. Appartengono alla dimensione internazionale le norme che fanno sorgere rapporti giuridici (diritti e obblighi) tra gli Stati membri, tra Unione e Stati membri e all'interno dell'Unione stessa tra le sue istituzioni. Lo Stato membro, in tal caso, viene considerato nella sua interezza, comprensivo di tutte le componenti in cui si articola la propria organizzazione. Appartengono invece alla dimensione interna all'ordinamento di ciascuno Stato membro i rapporti giuridici che coinvolgono i soggetti di tali ordinamenti. Talvolta si tratta di rapporti che vedono contrapposti un soggetto privato ad un altro (rapporti orizzontali). Più spesso essi sorgono tra un soggetto privato e un soggetto pubblico riconducibile ad un'autorità statale o comunque pubblica (rapporti verticali). Il diritto dell'Unione può fornire in tutto o in parte la disciplina di tali rapporti, il che avviene soprattutto tramite i regolamenti: questi, essendo direttamente applicabili, costituiscono una fonte che si sostituisce alle eventuali norme interne preesistenti (effetto di sostituzione). Il diritto dell'Unione può interessare la disciplina di un rapporto giuridico dettando principi generali, o anche regole particolari, che si limitano ad impedire l'applicazione di norme interne ad essi contrari (effetto di opposizione). In casi del genere la disciplina del rapporto resta soggetta al diritto interno, dal quale vengono semplicemente espunte solo le norme incompatibili col diritto dell'Unione. Un esempio del genere si ha nel caso già esaminato dalla sentenza del 1989, causa 186/87, Cowan. Il principio della parità di trattamento per i destinatari dei servizi previsto dall'art. 57 TFUE ha l'effetto di rendere non opponibile al sig. Cowan la norma francese che limita ai cittadini nazionali la possibilità di ricevere l'indennità. Per il resto il diritto francese resta applicabile. 65 Tanto nel caso di effetto di sostituzione , quanto nel caso di effetto di opposizione , si suole dire che la norma comunitaria produce effetti diretti nei confronti dei soggetti riconosciuti da tali ordinamenti. L'efficacia diretta di una norma dell'Unione implica che il soggetto nei cui confronti la norma produce effetti favorevoli può pretenderne il rispetto da parte dell'altro soggetto del rapporto (efficacia diretta in senso sostanziale). In caso di mancato rispetto, l'efficacia diretta comporta anche l'invocabilità in giudizio. Sull'invocabilità in giudizio del mancato rispetto di effetti diretti da parte di autorità pubbliche, v. la sentenza del 1989, causa 103/88, F.lli Costanzo, in cui al Corte afferma che qualora sussistano i presupposti necessari affinchè le disposizioni di una direttiva siano invocabili dai singoli dinanzi ai giudici nazionali, tutti gli organi dell'amministrazione, compresi quelli degli enti territoriali, come i comuni, sono tenuti ad applicare le suddette disposizioni e a disapplicare le norme del diritto nazionale non conformi. In passato, la Corte usava indistintamente i termini efficacia diretta e applicabilità diretta. In realtà, come si è già visto, l'applicabilità diretta in senso stretto (nel senso di non necessità di misure di attuazione da parte degli Stati membri) è riservata ai soli regolamenti, mentre l'efficacia diretta può essere contenuta anche in disposizioni dei Trattati, nonchè nelle direttive e nelle decisioni che siano self-executing (incondizionate e sufficientemente precise). L'efficacia diretta non costituisce, tuttavia, l'unica forma attraverso cui le norme dell'Unione assumono rilevanza normativa interna. In presenza di norme prive di efficacia diretta, la giurisprudenza ha individuato almeno due forme di efficacia indiretta:  ai sensi della prima, i giudici nazionali sono soggetti ad un obbligo di interpretazione conforme, capace di ovviare a situazioni di apparente conflitto tra norme interne e norme dell'Unione;  ai sensi della seconda, la mancata attuazione di una norma dell'Unione priva di efficacia diretta fa comunque sorgere in capo ai soggetti danneggiati dalla mancata attuazione il diritto al risarcimento del danno a carico dello Stato membro responsabile. 2. I presupposti dell'efficacia diretta L'efficacia diretta non è prerogativa di ogni norma dell'Unione, pertanto il giudice nazionale ha l'onere di verificare d'ufficio se la norma presenti o meno le caratteristiche necessarie, avvalendosi, se del caso, del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia ai sensi dell'art. 267 TFUE. La Corte, perchè si possa parlare di efficacia diretta di una norma, richiede che la stessa sia sufficientemente precisa e incondizionata. 66 Nella sentenza “storica” del 1964, causa 26/62, Van Gend & Loos, la Corte afferma, a proposito della clausola di standstill in materia di dazi doganali, che il disposto dell'allora art. 12 TCE pone un divieto chiaro e incondizionato che si concreta in un obbligo non già di fare, bensì di non fare. A quest'obbligo non fa riscontro alcuna facoltà degli Stati membri di subordinarne l'efficacia all'emanazione di un provvedimento di diritto interno. Il divieto di cui all'art. 12 è per sua natura perfettamente atto a produrre effetti sui rapporti giuridici intercorrenti fra gli Stati membri e i loro amministrati. Il presupposto della sufficiente precisione ha riguardo alla formulazione della norma, in particolare del suo precetto, perchè i destinatari possano comprenderne la portata. Tale precetto deve specificare: a) il titolare dell'obbligo; b) il titolare del diritto; c) il contenuto del diritto-obbligo creato dalla norma stessa. Il test basato sui tre aspetti del precetto è stato elaborato dalla Corte nella sentenza del 1991, cause riunite C 6/90 e C 9/90, Francovich. Il sig. Francovich chiedeva allo Stato italiano il pagamento dell'indennità istituita da una direttiva a vantaggio dei lavoratori in caso di insolvenza del datore di lavoro. Malgrado la scadenza del termine, l'Italia non aveva adempiuto all'attuazione della direttiva. Secondo la Corte è necessario chiedersi se la direttiva contiene disposizioni sufficientemente precise sotto tre aspetti: la determinazione dei beneficiari della garanzia stabilita dalla disposizione, il contenuto di tale garanzia e, infine, l'identità del soggetto tenuto alla garanzia. La Corte perviene, nel caso di specie, a una soluzione negativa per quanto riguarda il terzo aspetto. La direttiva in questione, infatti, lascia aperta la possibilità di mettere la garanzia a carico del bilancio dello Stato oppure di un fondo costituito dai contributi dei datori di lavoro, a scelta dello Stato. Il presupposto dell'incondizionatezza attiene all'assenza di clausole che subordinino l'applicazione della norma ad ulteriori interventi normativi da parte degli Stati membri o delle istituzioni dell'Unione, oppure consentano agli Stati membri un ampio margine di discrezionalità nell'applicazione. Nel caso Rahman (causa C 83/11), concluso con sentenza del 2012, la direttiva invocata dai fratelli e dal nipote (cittadini del Bangladesh) del sig. Rahman (cittadino irlandese) in materia di diritto dei cittadini dell'Unione e dei loro familiari (diversi dagli stretti congiunti) di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri per il ricongiungimento familiare, lascia lo Stato membro ospitante (nel caso di specie il Regno Unito) un ampio potere discrezionale quanto all'identificazione degli elementi della dipendenza da cui può desumersi un diritto al ricongiungimento familiare. Non vi è pertanto efficacia diretta della direttiva in questione, a meno che venga accertato il superamento da parte dello Stato dei limiti di discrezionalità. In linea di massima, i presupposti dell'efficacia diretta sono gli stessi qualunque sia il tipo di norma dell'Unione, ma le caratteristiche proprie di ciascuna fonte portano ad alcune soluzioni particolari. Per quanto riguarda le disposizioni dei Trattati, alcune di esse si riferiscono espressamente ai singoli (ad es. le norme in materia di concorrenza). 67 direttive inattuate, pur trattandosi di situazioni che sembrano avere ad oggetto rapporti verticali invertiti, o addirittura rapporti orizzontali:  nei rapporti cd triangolari, nei quali un privato invoca l'applicazione di una direttiva inattuata nei confronti di un organo pubblico, a titolo principale, ma anche nei confronti di altri soggetti privati, la cui posizione verrebbe compromessa dall'applicazione della direttiva (controinteressati);  nelle direttive che sottopongono le misure degli Stati membri a una procedura di controllo. In questi casi la direttiva inattuata non influisce sulla disciplina dei rapporti interprivati, se non indirettamente, nel senso di precludere l'applicazione di una normativa o di un provvedimento interno emanato in violazione delle procedure di controllo (cd effetto di opposizione);  nelle direttive utilizzate come parametro di valutazione di condotte individuali, anche a scapito di privati, per effetto di un rinvio da parte di un regolamento dell'Unione. In casi del genere, la direttiva rileva non in quanto tale, ma solo al fine di integrare la disciplina contenuta in strumenti direttamente e generalmente efficaci;  nelle direttive che attuano un principio generale del diritto o un diritto fondamentale. Con riferimento alle decisioni, la Corte ha solo recentemente avuto occasione di precisare che alle stesse si applicano le medesime limitazioni individuate a proposito delle direttive. Essendo l'efficacia diretta delle decisioni una conseguenza del loro carattere obbligatorio nei confronti degli Stati membri cui sono rivolte, dovrebbe desumersi che anche le decisioni sono prive di efficacia orizzontale. In alcune sentenze relative alle decisioni in tema di aiuti statali alle imprese, appare la possibilità di un effetto verticale inverso, visto che gli Stati potrebbero opporre alle imprese l'obbligo di recupero degli aiuti derivante dalla decisione. Per quanto riguarda gli atti delle istituzioni emanati nell'ambito di quello che, prima del Trattato di Lisbona, veniva considerato il III° pilastro (cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale), l'art. 34, par. 2, TUE escludeva espressamente che le decisioni-quadro e le decisioni avessero efficacia diretta. È verosimile pensare che, anche dopo il Trattato di Lisbona, ai sensi dell'art. 9 del Protocollo n. 36 sulle disposizioni transitorie, decisioni-quadro e decisioni continuino a essere prive di efficacia diretta. 70 4. L'obbligo di interpretazione conforme Gli atti dell'Unione privi di efficacia diretta (specie le direttive) possono ciò non di meno produrre effetti indiretti, ed essere presi in considerazione dal giudice nel risolvere una controversia. La prima forma di efficacia indiretta consiste nell'obbligo di interpretazione conforme: quando sono chiamati ad applicare norme interne, gli operatori giuridici sono tenuti a interpretarle, ove possibile, in conformità col diritto dell'Unione. Ciò si collega all'obbligo di leale cooperazione, di cui costituisce un'applicazione specifica. La differenza tra efficacia diretta e interpretazione conforme (efficacia indiretta) risiede nel fatto che, mentre nel primo caso il giudice disapplica la norma interna confliggente con la norma dell'Unione, nel secondo egli applica pur sempre la norma interna, ma interpretandola in modo aderente a quella dell'Unione. Per la Corte (sentenza 1984, causa 14/83, Von Colson) il giudice nazionale deve interpretare il proprio diritto nazionale alla luce della lettera e dello scopo della direttiva, onde conseguire il risultato contemplato dall'art. 189, 3° comma TCE (oggi art. 288, 3° comma, TFUE). Spetta al giudice nazionale dare alla legge adottata per l'attuazione della direttiva, in tutti i casi in cui il diritto nazionale gli attribuisce un margine discrezionale, un'interpretazione e un'applicazione conformi alle esigenze del diritto comunitario. L'obbligo di interpretazione conforme non è incondizionato, ma incontra alcuni limiti.  Come detto dalla Corte, l'obbligo di interpretazione conforme è subordinato all'esistenza di un margine di discrezionalità che consenta all'interprete di scegliere più interpretazioni possibili della norma interna. Se, invece, la norma interna è inequivocabilmente contraria alla norma dell'Unione, e questa è priva di efficacia diretta, l'obbligo in esame viene meno.  Inoltre, l'obbligo di interpretazione conforme non sorge prima della scadenza del termine di attuazione della direttiva.  Infine, nell'interpretare le norme di diritto interno rispetto al contenuto di una direttiva, il giudice deve rispettare i principi generali che fanno parte del diritto comunitario, e, in particolare, quelli della certezza del diritto e dell'irretroattività. Deve ad esempio tenere conto che una direttiva non può avere l'effetto di per sé, e indipendentemente da una legge interna di uno Stato membro adottata per la sua attuazione, di determinare o aggravare la responsabilità penale (creando nuove ipotesi di reato o estendendo il campo di applicazione di quelle previste dall'ordinamento interno) di coloro che agiscano in violazione delle sue disposizioni. La Corte ha affermato che l'obbligo di interpretazione conforme sussiste anche nelle decisioni quadro adottate nell’ambito dell’allora III° pilastro. 71 5. Il risarcimento del danno Un'altra forma di efficacia indiretta consiste nel riconoscere che la norma dell'Unione, anche se non direttamente efficace, può essere fonte di un diritto al risarcimento del danno. Secondo la Corte, il principio della responsabilità dello Stato per danni causati ai singoli in violazione del diritto comunitario ad esso imputabili è inerente al sistema del Trattato (sentenza del 1996, cause riunite C46/93 e C48/93, Brasserie du Pechur). Non vi è dubbio che qualora gli organi di uno Stato membro ledano il diritto attribuito a un singolo da una norma dell'Unione direttamente efficace, provocando un danno, tali organi siano tenuti al risarcimento. In questi casi il diritto al risarcimento costituisce il corollario necessario dell'effetto diretto. Nel caso, invece, di una direttiva priva di efficacia diretta, il comportamento omissivo degli organi statali impedisce il sorgere stesso del diritto che la direttiva intendeva garantire ai singoli, per cui il pregiudizio subito non si rapporta alla lesione di un diritto già sorto, ma ne precede il sorgere. Il diritto al risarcimento costituisce allora non già un'integrazione o un'alternativa rispetto a un diritto principale, ma un diritto a sé stante. Il diritto a ottenere il risarcimento del danno subito in conseguenza della mancata attuazione di una direttiva non direttamente efficace è stato affermato per la prima volta nella sentenza del 1991, cause riunite C6/90 e C9/90, Francovich. Le condizioni definite da detta sentenza perchè il diritto al risarcimento sorga sono 3: 1) la norma dell'Unione violata deve essere diretta a conferire diritti ai singoli danneggiati, il cui contenuto possa essere individuato in base alla norma stessa; 2) la violazione della norma deve essere sufficientemente grave e manifesta; 3) tra la violazione e il danno deve esistere un nesso di causalità. Quanto agli organi che, col loro comportamento commissivo od omissivo, possono causare la responsabilità per danni dello Stato, la Corte ha riconosciuto nelle sue sentenze che può trattarsi degli organi legislativi di uno Stato, di autorità fiscali, di una cassa previdenza, di un ente locale, del potere giudiziario, etc. Le condizioni formali e sostanziali per l'esercizio del diritto al risarcimento, compresa la definizione del giudice competente, dipendono dalle varie legislazioni nazionali. 72 Di recente, tuttavia, la Corte di giustizia sembra indirizzata a dissociare il concetto di primato da quello di efficacia diretta, esigendo dal giudice la disapplicazione di norme interne di carattere processuale, incompatibili con norme dell'Unione, senza prendere esplicita posizione sul se le norme dell'Unione siano davvero direttamente efficaci. A cedere di fronte al diritto dell'Unione sono le norme interne di qualunque rango (costituzionale, ordinario, amministrativo). Il principio del primato si è affermato in via giurisprudenziale a partire dalla “storica” sentenza del 15 luglio 1964, causa 6/64, Costa c. Enel. Secondo la Corte di giustizia, l'integrazione del diritto comunitario nell'ordinamento interno di ciascuno Stato ha per corollario l'impossibilità per gli Stati di far prevalere, contro un ordinamento giuridico da essi accettato a condizione di reciprocità, un provvedimento unilaterale ulteriore, il quale pertanto non potrà essere opponibile all'ordine comune. Se l'efficacia del diritto comunitario variasse da uno Stato all'altro, in funzione di leggi interne posteriori, ciò metterebbe in pericolo l'attuazione degli scopi del Trattato. Un atto statale successivo all'entrata in vigore del Trattati con essi incompatibile sarebbe pertanto del tutto inefficace. Il principio del primato può incontrare un limite nel caso di contrasto tra norme dell'Unione e norme nazionali, sostanziali o processuali, che siano necessarie per assicurare la tutela dei diritti fondamentali, garantiti peraltro anche dall'ordinamento dell'Unione. Secondo la Corte, la tutela dei diritti fondamentali rappresenta un legittimo interesse che giustifica, in linea di principio, una limitazione degli obblighi imposti dal diritto comunitario, ancorchè derivanti da una libertà fondamentale garantita dal Trattato (sentenza del 2004, causa C 36/02, Omega). Nel caso di specie la Corte ha confermato la legittimità della normativa italiana che prevede l'estinzione automatica del procedimento in materia tributaria ove questo abbia avuto una durata ultradecennale e l'amministrazione sia risultata soccombente nei due gradi di giudizio, in quanto l'obbligo di garantire l'efficace riscossione delle risorse dell'Unione non può contrastare col rispetto del principio del termine ragionevole di un giudizio (che fa parte anche della Carta dei diritti fondamentali dell'UE). Di fronte alle incertezze manifestate dalla giurisprudenza di alcuni giudici nazionali, in particolare della Corte costituzionale italiana, la Corte di giustizia è intervenuta per precisare meglio le modalità attraverso cui deve trovare applicazione la prevalenza del diritto comunitario e l'organo competente a farla valere. La Corte, nella sentenza del 1978 (causa 106/77, Simmenthal) riconosce, in particolare, che il giudice nazionale, incaricato di applicare, nell'ambito della propria competenza, le disposizioni del diritto comunitario, ha l'obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando all'occorrenza qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro 75 procedimento costituzionale. L'orientamento attuale della Corte è che il fenomeno della disapplicazione quale conseguenza del primato non postula che la norma interna incompatibile debba essere considerata invalida, come in un rapporto gerarchico, ma per lo più inefficace (come in un rapporto di specialità o di separazione di competenze). Nel caso di dubbio, il giudice nazionale può (deve se è giudice di ultima istanza) ricorrere al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia per l'interpretazione del diritto dell'Unione da applicare in contrasto con norme interne; in tal caso, tale rinvio pregiudiziale comporta non solo la sospensione del processo a quo, ma altresì la sospensione dell'applicazione della norma interna, in attesa che sia definitivamente accertata la sua incompatibilità col diritto dell'Unione. Se la norma interna è incompatibile col diritto dell'Unione, anche se opera l'istituto della disapplicazione ciò non esime lo Stato membro dal provvedere comunque all'abrogazione della norma incompatibile o alla sua modifica. 8. La giurisprudenza della Corte costituzionale italiana La piena accettazione del principio del primato del diritto comunitario da parte della Corte costituzionale italiana è risultata particolarmente difficoltosa. A) Nella sentenza del 1964 Costa c. Enel (vicenda analoga a quella Costa c. Enel che dà vita alla sentenza della Corte di giustizia dello stesso anno) la Corte costituzionale non riconosce il primato del diritto comunitario e, pertanto, ogni norma comunitaria presenta lo stesso valore dell'ordine di esecuzione con cui sono stati recepiti i Trattati comunitari (legge ordinaria): da ciò consegue che una legge interna posteriore possa abrogare una norma comunitaria anteriore, secondo il criterio cronologico della successione delle leggi nel tempo. Per la Corte, l'art. 11 Cost. ha unicamente consentito la ratifica ed esecuzione di Trattati che comportano limitazioni di sovranità, pur anche solo con legge ordinaria, senza dunque dover procedersi a revisione costituzionale (funzione “permissiva” e “processuale” dell'art. 11). B) Un primo avvicinamento da parte della Corte Costituzionale rispetto a quella della Corte di giustizia avviene con la sentenza del 1975, nel caso I.C.I.C. Qui la Corte costituzionale deduce che l'art. 11 Cost. non solo consente all'Italia di accettare limitazioni di sovranità con semplice legge di esecuzione ordinaria, ma esige altresì che il legislatore nazionale rispetti le limitazioni di sovranità così accettate e, in particolare, non ostacoli, attraverso l'emanazione di leggi successive incompatibili, o anche meramente riproduttive, la diretta applicabilità dei regolamenti. In simili evenienze, la norma di legge interna è incostituzionale per violazione dell'art. 11. Tuttavia, secondo la Corte costituzionale, tale vizio, qualora riguardi una legge interna successiva alla norma europea, 76 non può portare alla disapplicazione della norma di legge direttamente da parte del giudice ordinario, rendendosi invece necessaro il ricorso alla Corte costituzionale ai sensi dell'art. 134 Cost. C) La sentenza “Simmenthal” del 1978 sopra vista reca la risposta della Corte di giustizia a tale presa di posizione della nostra Corte, la quale modifica nuovamente il proprio orientamento con la sentenza del 1984, nel caso “Granital”. Qui la nostra Corte riconosce la natura dell'ordinamento comunitario come distinto ed autonomo, ma integrato e coordinato con quello degli Stati membri, il che pone la questione del rapporto tra i due sistemi normativi in quello dalla separazione delle competenze: l'art. 11 Cost. ha consentito il trasferimento agli organi comunitari le competenze che questi esercitano, nelle materie loro riservate. Tale soluzione vale soltanto se e quando il potere trasferito alla Comunità si estrinseca in una normazione compiuta ed avente efficacia diretta, come nel caso dei regolamenti, oppure delle norme dei Trattati, delle direttive e decisioni self-executing. Sempre nella sentenza “Granital”, la Corte costituzionale esclude in due ipotesi il potere del giudice di applicare immediatamente la norma dell'Unione e di disapplicare l'eventuale legge interna incompatibile, esigendo invece che sia sollevata la questione di costituzionalità: 1) nel caso di una norma dell'Unione contraria ai principi fondamentali dell'ordinamento costituzionale e ai diritti dell'uomo (riprendendo la teoria dei controlimiti già esposta per la prima volta nella sentenza del 1973 sul caso “Frontini”); 2) nel caso di norme di legge dirette ad impedire il rispetto dei principi fondamentali dei Trattati. La Corte costituzionale sarebbe quindi chiamata ad accertare se il legislatore ordinario abbia ingiustificatamente rimosso alcuni dei limiti alla sovranità statale, da esso medesimo posti, mediante la legge di esecuzione del Trattato in diretto e puntuale adempimento dell'art. 11 Cost. Inoltre, la competenza della Corte costituzionale a conoscere di conflitti tra norme dell'Unione e norme interne sussiste anche al di fuori dei giudizi incidentali di costituzionalità, vale a dire nei giudizi di costituzionalità in via principale o diretta, nei giudizi sui conflitti di attribuzione e nel giudizio sull'ammissibilità del referendum. La Corte costituzionale è chiamata a risolvere detti i conflitti rispettando, come tutti gli organi dello Stato, il principio del primato del diritto dell'Unione. Con la riforma del Titolo V della Costituzione, il principio del primato del diritto dell'Unione su quello interno ha trovato un'esplicita consacrazione del nuovo testo dell'art. 117, 1° comma, secondo cui la potestà legislativa dello Stato e delle Regioni deve rispettare i vincoli derivanti dall'ordinamento internazionale e da quello comunitario. 77 1) una fase pre-contenziosa preliminare, che favorisce la composizione amichevole della controversia, ed è comunque condizione di ricevibilità dell'eventuale successivo ricorso alla Corte; 2) una fase contenziosa vera e propria, che si svolge dinanzi alla Corte di giustizia, e che si conclude con l'emanazione di una decisione giudiziaria. Vediamo ora le diverse procedure a seconda che l'iniziativa parta dalla Commissione oppure da uno Stato membro. SU INIZIATIVA DELLA COMMISSIONE La fase pre-contenziosa prevede: a) l'invio allo Stato membro di un atto informale (lettera di messa in mora) con cui la Commissione, dopo aver contestato allo Stato membro determinati comportamenti, gli assegna un termine entro il quale presentare le proprie osservazioni; la Commissione ha assoluta discrezionalità nel dare avvio alla procedura, senza che la sua omissione rilevi per un eventuale ricorso in carenza; b) presentazione delle osservazioni da parte dello Stato membro; c) emissione di un parere motivato, mediante il quale la Commissione espone in via definitiva gli addebiti mossi allo Stato, e lo invita a conformarsi entro il termine fissato. Il passaggio alla fase contenziosa è possibile soltanto una volta che il termine fissato nel parere motivato sia decorso invano: la Commissione può allora presentare ricorso alla Corte di giustizia. Con la presentazione del ricorso la situazione di infrazione si cristallizza e si arriva comunque ad una decisione della Corte, anche se nel frattempo lo Stato membro elimina la violazione contestata. Nel giudizio spetta alla Commissione l'onere di dimostrare l'esistenza dell'inadempimento dedotto e di fornirne le prove. La fase contenziosa termina con una sentenza della Corte che è di mero accertamento (art. 260 TFUE). Lo Stato membro è tenuto a prendere i provvedimenti che l'esecuzione della sentenza della Corte comporta. La mancata o ritardata adozione dei provvedimenti di cui sopra può indurre la Commissione ad avviare nei confronti dello Stato membro un secondo procedimento d'infrazione, per violazione dell'art. 260 TFUE. Tale secondo procedimento davanti alla Corte può condurre all'emanazione, a carico dello Stato membro inadempiente, di una vera e propria sentenza di condanna al pagamento di una sanzione pecuniaria (somma forfettaria oppure penalità di mora). 80 Una disciplina speciale è prevista dal par. 3 dell'art. 260 per le infrazioni consistenti nel non aver comunicato le misure di attuazione di una direttiva adottata secondo una procedura legislativa. In casi del genere, tanto l'indicazione da parte della Commissione della sanzione da comminare a carico dello Stato inadempiente, quanto la sentenza della Corte con cui la sanzione è comminata (entro i limiti dell'importo indicato dalla Commissione), possono intervenire già all'esito del primo procedimento d'infrazione. Un ricorso speciale per infrazione è prevista dall'art. 7 del Fiscal Compact in caso di violazione dell'obbligo di recepire nell’ordinamento interno, con disposizioni di carattere costituzionale o simile, il principio del pareggio di bilancio. Il ricorso è però proponibile soltanto da uno o più degli Stati membri contraenti del Patto, dopo che la Commissione abbia constatato, con una propria relazione, la violazione dell’obbligo da parte di un altro Stato membro contraente, oppure anche indipendentemente da una tale constatazione. SU INIZIATIVA DI UNO STATO MEMBRO La fase pre-contenziosa prevede che lo Stato membro si rivolga alla Commissione, chiedendole di agire nei confronti di altro Stato membro. La Commissione deve porre in condizione gli Stati interessati di presentare in contraddittorio le loro osservazioni scritte. Successivamente, la Commissione emette un parere motivato con la fissazione del termine entro cui lo Stato violatore deve provvedere. Trascorso inutilmente tale termine, la Commissione può dare avvio alla fase contenziosa presentando ricorso (se il parere non è stato formulato nel termine di 3 mesi dalla domanda, il primo Stato può presentare direttamente ricorso alla Corte). La fase contenziosa si sviluppa poi secondo quanto sopra già visto. 3. Il ricorso d'annullamento Il ricorso d'annullamento, disciplinato dagli artt. 263 e ss. TFUE, costituisce la forma principale di controllo giurisdizionale di legittimità prevista per gli atti delle istituzioni. Esso mira a ottenere l'annullamento degli atti che risultino viziati. Il sistema di tutela giurisdizionale dell'Unione prevede altre procedure che consentono alla Corte di effettuare un controllo sulla legittimità degli atti delle istituzioni, quali l'eccezione di invalidità (art. 277 TFUE) e le questioni pregiudiziali di validità (art. 267 TFUE). Secondo la Corte di giustizia, essa è l'unico organo competente a controllare la legittimità degli atti dell'Unione e, se del caso, a dichiararne l'illegittimità o l'annullamento. La teorizzazione del monopolio della Corte di giustizia sul controllo di legittimità degli atti 81 dell'Unione è dovuta alla sentenza del 1987, causa 314/85, Foto-Frost. Se un giudice nazionale nutre dubbi sulla validità di un atto delle istituzioni non ha altra scelta che sottoporre la questione pregiudiziale di validità alla Corte. In questi casi il rinvio diviene obbligatorio, anche se il giudice non è di ultima istanza. Gli atti impugnabili vengono definiti facendo ricorso a tre criteri:  l'autore dell'atto (sono impugnabili gli atti di tutte le istituzioni, tranne della Corte di giustizia e della Corte dei conti);  il tipo di atto (sono impugnabili gli atti legislativi);  gli effetti dell'atto (sono impugnabili anche gli atti non legislativi che producono effetti nei confronti dei terzi). Un caso particolare è dato dagli atti preparatori (o endoprocedimentali), che esauriscono le varie fasi di un procedimento complesso, destinato a sfociare in un provvedimento finale. In linea di principio l'atto preparatorio, in quanto non definitivo, non è autonomamente impugnabile, e dunque i suoi vizi sono fatti valere impugnando l'atto finale (cd illegittimità derivata). La soluzione è diversa qualora l'atto preparatorio sia in grado, già di per sé, di modificare la posizione giuridica degli interessati; produce pertanto effetti giuridici che ne giustificano l'immediata ed autonoma impugnabilità (sentenza del 1992, causa C47/91, Italia c. Commissione). I soggetti legittimati attivi a proporre il ricorso d'annullamento sono compresi in tre categorie:  prima categoria – ricorrenti privilegiati (il diritto di ricorso ha portata generale, ossia possono proporre ricorso contro qualunque atto impugnabile, senza dimostrare un particolare interesse a ricorrere): a) gli Stati membri; b) il Parlamento europeo; c) il Consiglio; d) la Commissione.  Seconda categoria – ricorrenti intermedi (il diritto di ricorso è specificamente finalizzato a salvaguardare le proprie prerogative, per cui i ricorrenti devono sostenere che l'atto impugnato invade la sfera riservata alle proprie competenze o ne pregiudica l'esercizio): a) la Corte dei conti; b) la Banca centrale europea; c) il Comitato delle Regioni.  Terza categoria – ricorrenti non privilegiati (contro atti che devono essere stati adottati nei confronti del ricorrente, o devono riguardarlo direttamente ed individualmente, oppure 82 4. Il ricorso in carenza L'oggetto del ricorso in carenza, come disciplinato dall'art. 265 TFUE, è un comportamento omissivo che si assume illegittimo, perchè tenuto in violazione di un obbligo di agire previsto dai Trattati. I presupposti sono:  l'obbligo di agire dell'istituzione (ad es. nel caso in cui l'istituzione debba adottare nuovamente un provvedimento, perchè il precedente è stato annullato dalla Corte di giustizia);  la violazione di tale obbligo, a condizione che l'istituzione, l'organo o l'organismo siano stati previamente richiesti di agire (cd messa in mora) e sia scaduto il termine di 2 mesi dalla richiesta senza che questi abbiano preso posizione. I soggetti contro i quali può essere proposto il ricorso (legittimazione passiva) sono:  Il Parlamento europeo, il Consiglio europeo, il Consiglio, la Commissione, la BCE;  gli organi e gli organismi dell'Unione. Anche per il ricorso in carenza abbiamo diverse categorie di ricorrenti (legittimazione attiva):  prima categoria - ricorrenti privilegiati, che dispongono di un diritto di ricorso non soggetto a limitazioni quanto all'interesse ad impugnare o al tipo di carenza contestata. Essi sono gli Stati membri e le altre istituzioni;  seconda categoria – ricorrenti non privilegiati, che dispongono solo di un diritto di ricorso limitato all'omessa emanazione nei loro confronti (che li riguardino direttamente e individualmente) di un atto che non sia una raccomandazione o un parere. Tali ricorrenti sono le persone fisiche o giuridiche. Nella sentenza del 1998, causa T95/96, Telecinco, il Tribunale dell'UE ha considerato la ricorrente direttamente ed individualmente riguardata dall'insussistenza di una decisione della Commissione dopo l'instaurazione, da parte della stessa, del procedimento preliminare di esame delle dotazioni attribuite dalle varie autorità statali spagnole agli enti televisivi pubblici. Se il ricorso viene accolto, il giudice dell'Unione emana una sentenza di mero accertamento della carenza, ma non spetta allo stesso adottare l'atto omesso, e nemmeno condannare l'istituzione responsabile ad un obbligo di facere specifico. La sentenza fa però sorgere a carico dell'istituzione un obbligo di agire. 85 5. Il ricorso per risarcimento danni Ai sensi dell'art. 268 TFUE, la Corte di giustizia è competente a conoscere delle controversie relative al risarcimento dei danni da responsabilità extracontrattuale causati dalle istituzioni o dai suoi agenti nell'esercizio delle loro funzioni, conformemente ai principi comuni ai diritti degli Stati membri. La Corte non è invece competente in caso di responsabilità contro l'Unione nell'ambito della PESC. Con riferimento, invece, alla responsabilità contrattuale dell'Unione, la stessa è regolata dalla legge applicabile al contratto. La competenza spetta ai giudici nazionali, a meno che sia prevista dal contratto una clausola compromissoria in favore della Corte di giustizia. Il ricorso per risarcimento si configura come rimedio residuale rispetto alla tutela che possono offrire i giudici nazionali, per cui se è possibile proporre azione davanti ai giudici nazionali che sia in grado di soddisfare pienamente la pretesa, la competenza della Corte è esclusa. I presupposti della responsabilità extracontrattuale vanno tratti dai principi generali comuni ai diritti degli Stati membri. Secondo la Corte, presupposti della responsabilità dell'Unione sono:  un danno effettivo;  l'illegittimità del comportamento delle istituzioni;  il nesso causale tra danno e comportamento delle istituzioni. A questi presupposti, necessari, se ne aggiungono altri due, qualora il comportamento delle istituzioni consista nell'esercizio di poteri caratterizzati da un ampio margine di discrezionalità e, in particolare, nell'adozione di atti normativi (es. regolamenti) implicanti scelte di politica economica; in tali casi, per aversi risarcimento danno è necessario anche che:  la norma violata dalle istituzioni sia preordinata a conferire diritti ai singoli;  la violazione di tale norma sia sufficientemente caratterizzata (deve essere grave e manifesta). In epoca più recente la giurisprudenza è stata chiamata a decidere se in taluni casi fosse possibile prescindere dal presupposto dell'illegittimità del comportamento che ha provocato il danno (cd responsabilità da attività lecita). Il presupposto di questo tipo di responsabilità sarebbe l'eccezionalità del danno subito da un determinato soggetto come effetto di un'attività svolta nell'interesse generale. Nella sentenza del 2008, cause riunite C120/06 e C121/06, FIAMM, la Corte nega la stessa possibilità di una responsabilità delle istituzioni per fatto lecito. Il diritto al risarcimento dei danni è comunque soggetto a un termine di prescrizione di 5 anni, a decorrere dal momento in cui avviene il fatto che dà loro origine, ossia dal momento in cui il 86 comportamento controverso produce i suoi effetti dannosi in capo alle persone cui si dirige (così nella sentenza del 2013, causa C460/09, Cremonini). 6. La competenza pregiudiziale: concetti generali A norma dell'art. 267 TFUE, la Corte di giustizia può o, a seconda dei casi, deve essere chiamata a pronunciarsi in via pregiudiziale sulle questioni riguardanti il diritto dell'Unione che si pongono nell'ambito di un giudizio instaurato davanti ad un organo giurisdizionale di uno degli Stati membri. Il giudice nazionale richiede alla Corte di pronunciarsi su determinate questioni perchè reputa necessaria una decisione sul punto onde emanare la sua sentenza. La pronuncia della Corte ha natura pregiudiziale sia in senso temporale, perchè precede la sentenza del giudice nazionale, sia in senso funzionale, perchè è strumentale rispetto all'emanazione di detta sentenza. Trattasi di competenza indiretta della Corte, in quanto l'iniziativa di rivolgersi alla stessa non è assunta direttamente dalle parti interessate, bensì dal giudice nazionale, nonché di competenza limitata , in quanto la Corte può esaminare solo le questioni di diritto dell'Unione sollevate dal giudice nazionale. Le ragioni che hanno condotto a inserire, tra le altre competenze della Corte di giustizia, una competenza di tipo pregiudiziale sono legate ad alcune caratteristiche tipiche dell’ordinamento dell’Unione: da un lato, il sistema decentralizzato di applicazione del diritto dell’Unione, per cui il compito di applicare tale normativa ai soggetti degli ordinamenti interni è, in genere, affidato alle autorità di ciascuno Stato; dall’altro, l’essere la maggior parte delle norme dell’Unione dotate di efficacia diretta. Entrambe queste caratteristiche rendono estremamente frequente l’insorgere di controversie tra privati, o tra privati e autorità pubblica, intorno all’applicazione del diritto dell’Unione. Lo scopo della competenza pregiudiziale della Corte sta nell'evitare che ciascun giudice nazionale interpreti e verifichi la validità delle norme dell'Unione in maniera autonoma, col rischio di infrangere l'unitarietà del diritto dell'Unione. Inoltre, detta competenza mira ad offrire ai giudici nazionali uno strumento di collaborazione per superare le difficoltà interpretative che il diritto dell'Unione può sollevare. Per quanto riguarda il settore della PESC, la Corte non ha competenza pregiudiziale, salvo il caso eccezionale del rinvio pregiudiziale di validità per valutare la legittimità di decisioni che prevedono misure restrittive nei confronti di persone fisiche o giuridiche (v. sentenza del 2017, causa C72/15, PJSC Rosneft Oil Company). É stata invece estesa dal Trattato di Lisbona la competenza pregiudiziale della Corte in relazione ai settori 87  il fatto che l'organo applichi norme giuridiche;  che sia indipendente. Rigoroso è apparso l'atteggiamento della Corte di giustizia soprattutto con riferimento all'origine legale dell'organo, specie nel caso degli arbitri, ai quali ha costantemente negato il potere di sollevare questioni pregiudiziali (a meno che si trattasse di arbitrato obbligatorio per legge). 9. Facoltà e obbligo di rinvio Rispetto al rinvio pregiudiziale, la posizione dei giudici nazionali varia a seconda che essi emettano decisioni contro le quali sia possibile un ricorso giurisdizionale di diritto interno oppure no. Nel primo caso il rinvio è facoltativo , mentre nel secondo caso ( giudice di ultima istanza ) è obbligatorio. L'obbligo di rinvio da parte del giudice di ultima istanza costituisce l'estrema forma di tutela offerta ai soggetti interessati alla corretta applicazione giudiziaria del diritto dell'Unione. La nozione di giudice di ultima istanza dipende dalla possibilità concreta di proporre un'impugnazione contro le decisioni del giudice, e non soltanto dal rango che detto giudice occupa nell'ordinamento giudiziario nazionale. In Italia sono giudici di ultima istanza, oltre alla Corte di cassazione, anche il Consiglio di Stato e la Corte costituzionale nel giudizio di costituzionalità, sia in via principale che in via incidentale. La facoltà di rinvio implica che i giudici nazionali siano liberi di scegliere se sollevare o meno la questione, indipendentemente dalla richiesta delle parti, e il momento in cui effettuare il rinvio; inoltre, tale facoltà non può essere limitata per effetto di norme processuali nazionali. Nel caso di giudizio di ultima istanza, la Corte di giustizia ha individuato alcune ipotesi in cui, pur in presenza di questioni rilevanti, il rinvio può essere omesso:  quando la questione sia materialmente identica ad altra questione, sollevata in relazione ad analoga fattispecie, che sia stata già decisa in via pregiudiziale;  quando la risposta da dare alle questioni risulti da una giurisprudenza costante della Corte che risolva il punto di diritto litigioso, anche in mancanza di una stretta identità fra le materie del contendere;  quando la corretta applicazione del diritto dell'Unione si imponga con tale evidenza da non lasciare adito ad alcun ragionevole dubbio sulla soluzione da dare alla questione sollevata (ipotesi dell'atto chiaro). Qualora il giudice di ultima istanza ritenga di non essere obbligato a sollevare un rinvio pregiudiziale per una delle ragioni descritte, è in ogni caso tenuto a fornire una motivazione del suo 90 rifiuto di rivolgersi alla Corte. In assenza di tale motivazione, il mancato rinvio potrebbe essere considerato arbitrario e condurre a una violazione della CEDU (sull'effettività della tutela giurisdizionale), e potrebbe costituire ipotesi di responsabilità dello Stato nell'esercizio del suo potere giudiziario, con diritto al risarcimento dei danni a favore dei singoli. Sussiste un obbligo di rinvio anche per giudici non di ultima istanza. Essa riguarda le sole questioni pregiudiziali di validità: un giudice nazionale non può autonomamente accertare l'invalidità di un atto delle istituzioni senza prima attivare il meccanismo di rinvio pregiudiziale (v. sentenza del 1987, causa 314/85, Foto-Frost). 10. L'oggetto delle questioni pregiudiziali Risulta dal testo dell'art. 267 TFUE che le questioni pregiudiziali possono presentarsi come questioni interpretative oppure come questioni di validità. Le questioni pregiudiziali interpretative possono avere ad oggetto:  i Trattati (TUE e TFUE nella versione applicabile ratione temporis ai fatti della causa pendente davanti al giudice nazionale, compresi Protocolli e Allegati);  gli atti compiuti dalle istituzioni, dagli organi e dagli organismi dell'Unione (compresi gli atti “atipici”, gli accordi internazionali e gli atti privi di efficacia diretta). La Corte di giustizia non può invece procedere a interpretare norme degli Stati membri, o pronunciarsi sull'incompatibilità di una norma nazionale con norme dell'Unione (se non in modo indiretto). Entrambi questi compiti spettano infatti al giudice nazionale. Le questioni pregiudiziali di validità possono avere ad oggetto soltanto gli atti compiuti dalle istituzioni, dagli organi e dagli organismi dell'Unione. L'analogia con il ricorso d'annullamento comporta che oggetto di una questione pregiudiziale di validità possano essere tutti gli atti contro i quali si può proporre un ricorso d'annullamento. Anche i motivi di invalidità che possono essere fatti valere sono gli stessi. Non trova invece applicazione il termine di 2 mesi previsto per l'esercizio dell'azione di annullamento. Ne consegue che una questione di validità può essere proposta anche a distanza di anni dall'entrata in vigore dell'atto in causa. Tuttavia, quando è pacifico che colui che si rivolge al giudice nazionale avrebbe potuto proporre ricorso d'annullamento e non lo ha fatto, lasciando decorrere il termine di 2 mesi, il giudice nazionale non può più sollevare questione pregiudiziale di validità (v. sentenza del 1994, C188/92, TWD). 91 11. Il valore delle sentenze pregiudiziali Le sentenze rese dalla Corte in un procedimento di rinvio pregiudiziale vincolano anzitutto il giudice che ha effettuato il rinvio. Questi non può discostarsene, ma può soltanto, qualora lo ritenga necessario, adire nuovamente la Corte per chiedere ulteriori chiarimenti. Tuttavia, tenuto conto del carattere obiettivo della competenza esercitata in questi casi, la sentenza della Corte assume un valore generale , che travalica i confini del giudizio nel cui ambito le questioni pregiudiziali sono state sollevate. Il valore generale delle sentenze pregiudiziali di interpretazione fa sì che si renda superflua la riproposizione di un nuovo rinvio sulle stesse questioni, o su questioni simili, da parte di altro giudice nazionale e lo esenta, se di ultima istanza, dall'obbligo del rinvio. Il principio è stato affermato con particolare chiarezza nel caso di sentenze pregiudiziali di validità che dichiarano l'invalidità di un atto delle istituzioni (v. sentenza del 1981, causa 66/80, International Chemical Corporation). In linea di principio tutte le sentenze pregiudiziali hanno valore retroattivo: la norma così come interpretata può e deve essere applicata dal giudice nazionale anche a rapporti giuridici sorti o costituiti prima della sentenza interpretativa. Il valore retroattivo delle sentenze della Corte rese a titolo pregiudiziale va tuttavia conciliato col principio generale della certezza del diritto. Di conseguenza, un soggetto che non abbia agito in giudizio entro il termine previsto dall'ordinamento a tale fine, non può, scaduto tale termine, invocare una sentenza pregiudiziale emessa dalla Corte, a meno che il termine in questione non sia irragionevole. Inoltre, la Corte si riserva il potere di limitare nel tempo la portata delle proprie sentenze pregiudiziali. ____________________________ 92  conservazione delle risorse biologiche del mare nel quadro della politica comune della pesca;  politica commerciale comune. L'art. 2, par. 2, TFUE, si occupa delle competenze concorrenti. L'Unione e gli Stati membri possono in questo caso entrambi legiferare e adottare atti giuridicamente vincolanti; gli Stati membri esercitano la loro competenza nella misura in cui l'Unione non ha esercitato la propria; gli Stati membri esercitano nuovamente la loro competenza nella misura in cui l'Unione ha deciso di cessare di esercitare la propria. Ciò significa che l'Unione, man mano che agisce nei settori di competenza concorrente, toglie spazio agli Stati membri fino ad assumere, in pratica, competenza esclusiva (cd svuotamento o pre- emption). La perdita di competenza subita dagli Stati membri in una competenza concorrente non è però definitiva, in quanto l'Unione potrebbe decidere di non esercitare più la propria. L'elencazione di competenze concorrenti di cui all'art. 4, par. 2, TFUE, non è tassativa, e comprende:  mercato interno;  politica sociale;  agricoltura e pesca, tranne la conservazione delle risorse biologiche del mare (che è competenza esclusiva);  ambiente;protezione dei consumatori;  trasporti;  energia;  spazio di libertà, sicurezza e giustizia. Accanto alle competenze esclusive e a quelle concorrenti, i Trattati prevedono un terzo tipo di competenze: in taluni settori, e alle condizioni previste dai Trattati, l'Unione ha competenza per svolgere azioni intese a sostenere, coordinare o completare l'azione degli Stati membri, senza tuttavia sostituirsi alla loro competenza in tali settori (art. 2, par. 5, TFUE). Qui la competenza è esercitata in parallelo con quella degli Stati membri, attraverso azioni destinate a sostenere, coordinare o integrare quelle degli Stati stessi. L'esercizio di questa competenza da parte dell'Unione non può mai sostituirsi a quella degli Stati membri, o portare a un suo progressivo svuotamento. I settori oggetto delle competenze del terzo tipo sono i seguenti (art. 6 TFUE): 95  tutela e miglioramento della salute umana;  industria;  turismo;  cultura;  istruzione, formazione professionale, gioventù e sport;  protezione civile;  cooperazione amministrativa. Il quadro delle competenze dell’Unione è completato dalle competenze di coordinamento in materia di politiche economiche, in particolare attraverso l’adozione di indirizzi di massima, nonché in materia di politiche occupazionali, in particolare attraverso l’adozione di orientamenti, e in materia di politiche sociali. Da ultimo, va ricordata la competenza nel settore PESC. 3. Il principio di sussidiarietà Il principio di sussidiarietà presuppone l'esistenza di una competenza attribuita all'Unione, però non in via non esclusiva (e dunque vi rientrano le competenze concorrenti, quelle del terzo tipo, quelle di coordinamento e quelle relative alla PESC). In virtù del principio di sussidiarietà, nei settori che non sono di sua competenza esclusiva, l'Unione interviene soltanto se, e in quanto, gli obiettivi dell'azione prevista non possono essere conseguiti in misura sufficiente dagli Stati membri, né a livello centrale, né a livello regionale e locale, ma possono, a motivo della portata o degli effetti dell'azione in questione, essere meglio conseguiti a livello di Unione (art. 5, par. 3, TUE). Restano dunque soggette all'applicazione del principio in esame tutte le competenze concorrenti, quelle del terzo tipo e quelle relative alla PESC. Il principio di sussidiarietà costituisce la garanzia per gli Stati membri che le loro competenze in settori di competenza concorrente dell'Unione non vengano limitate o, addirittura, svuotate quando ciò non si giustifichi in relazione alla maggiore efficienza dell'azione dell'Unione. Le istituzioni si sono preoccupate di stabilire garanzie procedurali che favoriscano il rispetto di tale principio in occasione dell'approvazione dei vari atti. Alla questione è dedicato il Protocollo n. 2 sull'applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità. L'aspetto di maggiore interesse è costituito dalla scelta di affidare ai parlamenti nazionali un 96 inedito e importante ruolo in questo ambito. Essi esercitano in prima battuta, a livello politico, il controllo del rispetto del principio di sussidiarietà secondo le procedure stabilite a tal fine dal Protocollo. A ciascun Parlamento nazionale, o Camera di esso (se il parlamento è bicamerale) è attribuito il potere di formulare, entro 8 settimane dalla trasmissione di un progetto di atto legislativo, un parere motivato di non conformità del progetto al principio di sussidiarietà. Per i parlamenti monocamerali sono assegnati 2 voti; per quelli bicamerali 1 voto per ciascuna Camera. In funzione del numero di pareri negativi espressi e a seconda della procedura di adozione dell'atto, il Trattato prevede due diversi meccanismi di controllo: quello del “cartellino giallo” e quello del “cartellino arancione”. Se i voti negativi rappresentano almeno 1/3 dei voti disponibili dei parlamenti nazionali, si applica la procedura del “cartellino giallo”: il progetto deve essere riesaminato dal suo autore, con possibilità di mantenerlo, modificarlo o ritirarlo, ma con obbligo di specifica motivazione. Il meccanismo del “cartellino arancione” è previsto se per l'adozione dell'atto si deve seguire la procedura legislativa ordinaria. In questo caso, se contro il progetto di atto legislativo sono stati espressi pareri negativi che rappresentino la maggioranza semplice dei voti attribuiti ai parlamenti nazionali, la Commissione, se decide di mantenere il progetto di atto, deve emanare un parere motivato. Nell'ambito della procedura legislativa ordinaria si apre pertanto una fase preliminare alla prima lettura, dedicata alla verifica del rispetto del principio di sussidiarietà: la proposta legislativa decade se votano per la sua incompatibilità col principio di sussidiarietà il 55% dei membri del Consiglio, oppure la maggioranza dei voti espressi del Parlamento europeo. La Corte di giustizia ha accettato di estendere il proprio sindacato al rispetto del principio in esame. Essa ha sottolineato che in seconda battuta, dopo le valutazioni di carattere politico affidate ai parlamenti nazionali, il controllo del rispetto del principio spetta al giudice dell'Unione (sentenza del 2016, causa C358/14, Polonia c. Parlamento europeo e Consiglio). Dapprima la violazione del principio di sussidiarietà veniva invocato come vizio della motivazione, successivamente è stato considerato dalla Corte un vizio autonomo rientrante in quello di violazione dei Trattati. La Corte verifica, nello specifico:  se l'obiettivo dell'azione progettata potesse essere meglio realizzato a livello comunitario;  che l'azione comunitaria non abbia oltrepassato la misura necessaria per realizzare l'obiettivo cui tale azione è diretta. La Corte può altresì sindacare il rispetto delle garanzie procedurali previste dal Protocollo n. 2: uno Stato membro può contestare con un ricorso d'annullamento il mancato invio ai parlamenti 97
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