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Riassunto di diritto processuale civile I, Sintesi del corso di Diritto Processuale Civile

Si tratta di un riassunto dettagliato ed esaustivo del Volume 1 e di metà del volume 2 del Balena (fino a pag. 317) nella loro ultima edizione, successiva alla c.d. Riforma Cartabia. Il riassunto corrisponde al materiale d'esame per Diritto processuale civile 1

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

In vendita dal 06/09/2023

emyb2002
emyb2002 🇮🇹

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Scarica Riassunto di diritto processuale civile I e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Processuale Civile solo su Docsity! 1 CAPITOLO 1 IL DIRITTO PROCESSUALE CIVILE E LA FUNZIONE GIURISDIZIONALE Il DIRITTO PROCESSUALE è la branca del diritto che disciplina l'insieme dei procedimenti attraverso i quali si esercita la giurisdizione (che costituisce una delle funzioni essenziali dello Stato, accanto a quella legislativa e a quella amministrativa). Mentre il diritto sostanziale mira a regolare in astratto tutti i possibili conflitti intersoggettivi, attribuendo posizioni di vantaggio (diritti, facoltà, poteri) e corrispondenti posizioni di svantaggio (doveri, obblighi, soggezioni), il diritto processuale disciplina l'intervento del giudice ogni volta in cui esso sia necessario per rendere concreto ed effettivo l'assetto di interessi delineato dal legislatore sostanziale. Se è semplice cogliere la differenza fra l’attività giurisdizionale e quella legislativa, è meno semplice definire il proprium della giurisdizione rispetto alla funzione amministrativa, che costituisce anch’essa attività di applicazione della legge. Per questo motivo, nessuna fra le varie definizioni che la dottrina ha proposto per la giurisdizione appare pienamente soddisfacente; sembra pertanto preferibile privilegiare l’aspetto soggettivo, considerando come giurisdizione l’attività che promana dal giudice (da intendersi come ufficio giudiziario e non come persona fisica) e che si estrinseca in forme tipiche ed è assistita da determinate garanzie procedimentali. Questo criterio soggettivo trova fondamento nell'art. 102 Cost., secondo cui “la funzione giurisdizionale è esercitata dai magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull'ordinamento giudiziario”→alla luce di tale principio deve senz’altro escludersi che possa considerarsi giurisdizionale un'attività che promani da un organo non appartenente alla magistratura. Questo tuttavia non implica che tutti gli atti o provvedimenti ascrivibili ad un ufficio giudiziario abbiano sempre e comunque natura giurisdizionale→infatti, al contrario, è possibile che alcuni organi cumulino in sé funzioni giurisdizionali e funzioni in tutto e per tutto amministrative1. LA GIURISDIZIONE CONTENZIOSA Abbiamo quindi visto che il legislatore riconduce alla giurisdizione fenomeni tra loro piuttosto diversi. Si può dire che obiettivo tipico ed essenziale dell'attività giurisdizionale è quello di assicurare l'attuazione del diritto sostanziale, qualora ciò si renda necessario per il sorgere di un conflitto intersoggettivo. Il diritto sostanziale attribuisce in astratto posizioni di vantaggio e corrispondenti posizioni di svantaggio, in presenza di determinati presupposti di fatto [ad es, chi ha subito un danno ingiusto ha il diritto di vederselo risarcire da colui che lo abbia determinato con un proprio comportamento doloso o colposo (art. 2043 cc)]. Nella maggioranza dei casi questa regolamentazione “statica” è 1 È il caso del Presidente del Tribunale, che è investito di compiti giurisdizionali, ma che nel contempo esercita varie attività di amministrazione pura 2 sufficiente a governare la realtà giuridica e a risolvere ogni possibile conflitto di interessi. In un certo numero di situazioni ciò però non avviene (o perché sorge contrasto fra le parti circa l’applicazione della norma sostanziale, o perché si verifica quella che è definita come crisi di cooperazione da parte del soggetto obbligato). N.B: in tutti questi casi, l’ordinamento resta indifferente all’eventuale sorgere del conflitto, come pure al modo in cui le parti ritengano eventualmente di comporlo (dato che gli interessi coinvolti sono di natura essenzialmente privatistica) La tutela giurisdizionale interviene invece quando, sorto un conflitto, il titolare del diritto ne lamenti la lesione e chieda all'ordinamento di assicurargli la soddisfazione del proprio interesse. In questa situazione si rende allora necessario il ricorso al PROCESSO, nel quale il giudice (ossia un organo pubblico del quale l'ordinamento garantisce una posizione di autonomia, indipendenza ed imparzialità) è chiamato in primo luogo ad accertare l'esistenza del diritto di cui viene lamentata la lesione, e successivamente ad assicurare che il diritto stesso, riconosciuto esistente, possa essere attuato pur contro la volontà del soggetto che l'aveva leso. Tale giurisdizione è detta CONTENZIOSA perché presuppone l'esistenza di un conflitto intersoggettivo ed ha come proprio obbiettivo la risoluzione e la composizione in via autoritativa del conflitto stesso. La funzione della giurisdizione contenziosa è dunque meramente strumentale rispetto al diritto sostanziale (nonostante sia egualmente essenziale)2. L’essenzialità della giurisdizione contenziosa trova oggi un esplicito riconoscimento nell’art. 24, 1° Cost., secondo cui “Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”; nonché, per quanto concerne i rapporti fra il cittadino e la PA, nell’art. 113 Cost. In questo modo la Costituzione intende consacrare l'esistenza di un autonomo diritto di azione, che non potrebbe essere escluso dal legislatore ordinario [ciò significa che al riconoscimento di un certo diritto, ad opera di una norma sostanziale, si accompagna automaticamente il riconoscimento del diritto di adire l'autorità giudiziaria per ottenerne tutela]. LA TUTELA GIURISDIZIONALE DIFFERENZIATA A partire dalla riforma del processo del lavoro (risalente al 1973), la dottrina ha cominciato ad interrogarsi circa la legittimità e l’opportunità della c.d. tutela giurisdizionale differenziata, ossia della previsione di forme e strumenti processuali più o meno diversificati a seconda delle varie situazioni soggettive dedotte in giudizio; e l’idea che si è venuta affermando, dopo qualche iniziale incertezza, è che tale diversificazione sia non solo legittima, ma addirittura doverosa (poiché solo essa, tenendo conto delle peculiarità dei diritti per i quali viene invocata la tutela, può far sì che essa risulti concretamente utile per l’attore, consentendogli di conseguire realmente le utilità assicuratigli in astratto dal diritto sostanziale). Ci sono casi, infatti, in cui il processo ordinario, pur funzionando in modo apprezzabile, non è in grado di rispondere adeguatamente alle specifiche esigenze di tutela poste da determinate situazioni 2 Non a torto si è spesso affermato che la ragion d’essere della giurisdizione è da individuarsi nel divieto di autotutela, affermatosi in epoca remota in tutti gli ordinamenti ed oggi consacrato negli artt. 392 e 393 cp 5 CAPITOLO 2 LA GIURISDIZIONE CONTENZIOSA Sezione I Le forme di tutela Nell’ambito della GIURISDIZIONE CONTENZIOSA occorre distinguere, dal punto di vista funzionale, 3 diverse forme di tutela: la tutela cognitiva la tutela esecutiva la tutela cautelare La TUTELA COGNITIVA mira a conseguire certezza in ordine all'esistenza (o all’inesistenza) di un diritto o di un'altra situazione giuridica attiva che l'attore vanti nei confronti del convenuto, nonchè a determinare, sulla base di tale accertamento, l'obbligo che ne scaturisce in capo allo stesso convenuto, oppure le modificazioni giuridiche chieste dall'attore e destinate a prodursi (anche) nella sfera giuridica del convenuto. La TUTELA ESECUTIVA, invece, mira a conseguire l'attuazione forzata e quindi l'effettiva soddisfazione del diritto (già accertato attraverso il preventivo esercizio della tutela cognitiva, oppure risultante da un titolo esecutivo formatosi al di fuori del processo), nell'ipotesi in cui manchi la collaborazione del soggetto obbligato. La TUTELA CAUTELARE infine è strumentale alle prime due, in quanto serve ad assicurarne l'utile e proficuo esercizio e nel contempo è tendenzialmente provvisoria (dato che è destinata a durare il tempo strettamente necessario a portare a compimento il processo di cognizione ed eventualmente ad avviare il processo esecutivo). LA TUTELA COGNITIVA La TUTELA COGNITIVA o DI COGNIZIONE ha come obiettivo minimo ed essenziale quello di fare certezza relativamente all'esistenza e al modo di essere del diritto o del rapporto giuridico controverso. Certezza che poi, a seconda dei casi, può risultare sufficiente a soddisfare l’interesse dell’attore, oppure può aprire la strada all’utilizzazione degli ulteriori strumenti processuali, che sono preordinati a garantire la concreta realizzazione del diritto riconosciuto esistente. 6 Per comprendere come la tutela cognitiva consegua la certezza in ordine al diritto controverso è necessario soffermarsi sul concetto di cosa giudicata (o giudicato sostanziale)4 →in base all'art. 2909 c.c. “L'accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato ad ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa”. Per SENTENZA PASSATA (formalmente) IN GIUDICATO si intende quella che ha raggiunto un considerevole grado di stabilità, in quanto non è più soggetta alle impugnazioni comuni (dette ordinarie), ma solo ad alcune impugnazioni (c.d. straordinarie), previste per ipotesi particolari. In virtù di tale relativa stabilità, il legislatore ricollega alla sentenza passata in giudicato l’attitudine a fare stato relativamente all’esistenza o all’inesistenza, nonché al modo di essere del rapporto oggetto del giudizio5. A tal proposito si suol dire che il giudicato copre il dedotto ed il deducibile, nel senso che esso esclude la possibilità di far valere, in un altro e successivo processo, non soltanto le ragioni o contestazioni dedotte nel primo giudizio e disattese dal giudice, ma anche quelle che, pur essendo già attuali, non siano fatte valere in quella sede. La tutela cognitiva può esercitarsi in varie forme e modi; la 1a distinzione riguarda l’estensione e la “profondità” dell’accertamento cui essa conduce: • A tal proposito si parla di COGNIZIONE ORDINARIA come sinonimo di cognizione piena ed esauriente, con riferimento a tutti i processi che, per essere caratterizzati da un complesso di esaurienti garanzie, fanno sì che la decisione sia fornita del massimo grado di affidabilità ed attendibilità, affinchè le si possa attribuire l'autorità di cosa giudicata a norma dell'art. 2909 c.c.. Tali garanzie riguardano sia l'attività delle parti (assicurando la piena realizzazione del principio del contraddittorio), sia l'attività del giudice (consentendo l'approfondita conoscenza di tutti i fatti rilevanti per la decisione); esse, inoltre, prevedono un congruo sistema di rimedi (impugnazioni) contro eventuali errori dello stesso giudice. Va sottolineato che il concetto di cognizione ordinaria è più ampio di quello di “processo ordinario”: quando si parla di processo ordinario, infatti, ci si riferisce al modello di processo disciplinato dagli artt. 163 ss (che il legislatore considera come processo-tipo, utilizzabile per la tutela di qualunque diritto per cui non sia previsto un rito diverso); esso, però, rappresenta uno solo dei molteplici processi a cognizione piena ed esauriente previsti dal nostro ordinamento, dato che esistono altri modelli processuali che forniscono ugualmente le suddette garanzie e quindi, pur essendo “speciali” dal punto di vista della disciplina, rientrano nell’ambito della cognizione ordinaria (l’es più rilevante è offerto dal processo del lavoro). • La COGNIZIONE SOMMARIA è quella che invece non fornisce eguali garanzie di attendibilità ed affidabilità del risultato finale, ossia dell’accertamento cui perviene il giudice. La SOMMARIETA’ può derivare: − da modalità semplificate di attuazione del contraddittorio o dalla sua esclusione (ciò si verifica, in particolare, nel procedimento per ingiunzione, la cui peculiarità consiste nel condurre ad un provvedimento di condanna senza che il preteso debitore sia sentito); 4 C.d. per distinguerlo dalla nozione di giudicato formale 5 Nel senso che, da quel momento in poi, è alla sentenza che dovrà aversi riguardo per la concreta regolamentazione del rapporto controverso e tale regolamentazione non potrà rimettersi in discussione in alcun altro giudizio, se non per fatti successivi alla formazione del giudicato 7 − dal tipo di prove che il giudice può utilizzare per formare il proprio convincimento (si pensi all’art. 28 l. 300/’70 in tema di repressione dell’attività antisindacale); − dal fatto che il provvedimento di accoglimento della domanda si fondi esclusivamente su un comportamento processuale (omissivo) del convenuto, che di regola non sarebbe sufficiente per decidere (si pensi all’ordinanza di convalida di sfratto, che può essere pronunciata a norma dell’art. 663 non solo quando il conduttore-convenuto compaia in giudizio e non si opponga allo sfratto, ma anche quando egli ometta di comparire); − dalla circostanza che l'accertamento del giudice riguardi alcuni soltanto dei fatti rilevanti per la decisione (è il caso dell’ordinanza prevista dall’art. 665 nel procedimento per convalida di sfratto, con la quale il giudice ordina il rilascio senza aver ancora esaminato tutte le difese del convenuto). N.B: poiché non sempre la sommarietà di un determinato procedimento emerge in modo chiaro dal suo mero raffronto con le caratteristiche del processo ordinario, un elemento che può essere utile per l’interprete è quello della forma del provvedimento che il legislatore prescrive per la decisione→infatti, il provvedimento tipicamente idoneo al giudicato è la sentenza (quindi la circostanza che per la definizione del processo sia prevista la pronuncia di una sentenza lascia intendere che essa debba fondarsi su una cognizione piena ed esauriente)6. Il contrario, invece, non è altrettanto vero, perché non sono infrequenti i casi in cui la previsione di una diversa forma di provvedimento (in particolare, dell’ordinanza) si spiega non con la sommarietà della cognizione, ma con l’esigenza di semplificare la redazione del provvedimento stesso da parte del giudice. N.B: poiché le forme di tutela sommaria implicano una deviazione più o meno marcata rispetto alle garanzie offerte dalla cognizione piena, esse vanno attentamente valutate in relazione alla loro compatibilità con gli art. 3 e 24 Cost., soprattutto dal punto di vista della tollerabilità della compressione che ne deriva al diritto di difesa del convenuto. La TUTELA SOMMARIA si distingue tra tutela sommaria cautelare e tutela sommaria non cautelare [distinzione che si fonda innanzitutto sulla diversa funzione che ad esse compete). A. TUTELA SOMMARIA CAUTELARE→essa costituisce un genus a se stante rispetto alla tutela cognitiva e a quella esecutiva, che però è caratterizzato da un'accentuata strumentalità rispetto al processo a cognizione piena e al processo di esecuzione forzata. I provvedimenti cautelari, infatti, servono essenzialmente ad impedire che, nel tempo occorrente per portare a compimento il processo di cognizione (ed eventualmente quello esecutivo), il diritto azionato subisca un pregiudizio non più rimediabile o che intervengano modificazioni tali da rendere sostanzialmente inutile per l'attore l'accoglimento della domanda [così, ad es, il sequestro conservativo (art. 671) mira ad evitare che il debitore, nelle more del processo, possa “svuotare” il proprio patrimonio, sottraendo così al creditore la possibilità di ottenere la concreta soddisfazione del proprio diritto]. 6 Un raro esempio di provvedimento sommario per il quale è prescritta la pronuncia con sentenza è la condanna con riserva di eccezioni 10 La NOZIONE DI TITOLO ESECUTIVO però è del tutto formale, nel senso che comprende tutti e soltanto i documenti che il legislatore considera esplicitamente tali. La norma fondamentale a questo riguardo è l'art. 474, che enumera 3 diverse categorie di titoli, giudiziali e stragiudiziali, ma non contiene un'elencazione esaustiva [dato che rinvia semplicemente a “i provvedimenti e gli altri atti ai quali la legge attribuisce espressamente efficacia esecutiva”]→ad es, nell’ambito dei titoli giudiziali (cioè quelli che si formano all'interno del processo di cognizione) le sentenze di condanna passate in giudicato sono quelle che forniscono il massimo grado di certezza circa l’esistenza del diritto8; ma la qualità di titolo esecutivo può competere, in molti casi, anche a sentenze non ancora passate in giudicato o a provvedimenti diversi dalla sentenza, che si basano su una cognizione meramente sommaria circa l'esistenza del diritto. Se si passa poi a considerare i titoli stragiudiziali (che oggi annoverano, accanto ai titoli di credito più significativi e agli atti pubblici, le scritture private autenticate “relativamente alle obbligazioni di somme di denaro in esse contenute”), deve escludersi che si fondino su un vero e proprio accertamento del diritto. In alcuni casi, anzi, il favor per talune categorie di creditori (come le amministrazioni dello Stato ed altri enti pubblici) fa sì che venga attribuita la qualità di titolo esecutivo a documenti formati dallo stesso ente creditore (si pensi al ruolo, che è alla base dell’esecuzione esattoriale, nonché all’avviso di accertamento emesso dall’Agenzia delle entrate). Da quanto detto si può quindi dedurre che, in questo ambito, la discrezionalità del legislatore è notevole, essendo limitata solo dalla necessità di assicurare al debitore adeguati mezzi di tutela preventiva (cioè diretti ad impedire un’esecuzione forzata illegittima). La tutela esecutiva si esercita attraverso una pluralità di procedimenti, ordinari o speciali (collocati questi ultimi al di fuori del codice: si pensi all’esecuzione esattoriale, nonché alla procedura prevista per la vendita coattiva di autoveicoli gravati da privilegio), a seconda del tipo di diritto cui occorre dare attuazione→così, l'espropriazione forzata generica serve a realizzare un diritto avente ad oggetto il pagamento di una somma di denaro; invece, l'esecuzione in forma specifica consente l'attuazione coattiva di un obbligo di rilasciare un immobile, di consegnare un bene mobile o di fare o disfare qualcosa. In ogni sua forma, peraltro, l'esecuzione forzata vera e propria implica un'attività di tipo sostitutivo e surrogatorio rispetto a quella del debitore, sicchè il suo limite è dato dagli obblighi che non ammettano una tale sostituzione da parte di un terzo (ossia dagli obblighi infungibili, per i quali è essenziale ed irrinunciabile la cooperazione dell'obbligato). In queste ipotesi, qualora voglia assicurare la soddisfazione effettiva dell’interesse del creditore, il legislatore ha come unica possibilità quella di utilizzare mezzi di coazione indiretta (le c.d. misure coercitive), che mirano ad incentivare l’adempimento spontaneo dell’obbligo infungibile da parte del debitore. LA TUTELA CAUTELARE La TUTELA CAUTELARE mira ad approntare una tutela essenzialmente provvisoria, finalizzata ad evitare che il diritto medesimo subisca, nel tempo occorrente per portare a compimento un 8 N.B: non si tratta cmq in nessun caso di certezza assoluta, sia perché contro il giudicato esistono dei rimedi (le impugnazioni straordinarie), sia perché nulla esclude che il diritto si sia estinto o modificato dopo la pronuncia della sentenza 11 processo di cognizione e/o di esecuzione, un danno o comunque un pregiudizio in tutto o in parte irreversibile ed irrimediabile, sì da rendere inutile la tutela giurisdizionale. Se la tutela giurisdizionale è di per sé strumentale rispetto al diritto sostanziale, la tutela cautelare è caratterizzata quindi da una strumentalità di secondo grado, perché serve ad assicurare l’utile e proficuo esperimento del processo di cognizione, nonché dell’eventuale successiva esecuzione forzata, ed è utilizzabile ancor prima che il processo di cognizione sia stato instaurato. Per lungo tempo quest’autonomia funzionale non aveva trovato particolari ricadute sul piano pratico, perché la Corte costituzionale aveva sempre negato che essa potesse essere inclusa sotto la garanzia del diritto d’azione; la svolta si ebbe nel 1985 con la sentenza n. 190, nella quale la Consulta sancì l’ESSENZIALITA’ DELLA TUTELA CAUTELARE (principio poi ribadito in successive occasioni). Oggi, pertanto, è lecito affermare che la tutela in questione trova una propria autonoma collocazione nell’ambito del diritto alla tutela giurisdizionale. Anche nella tutela cautelare è possibile distinguere una fase deputata alla cognizione ed una invece di esecuzione del provvedimento; tali fasi, però, sono inscindibilmente collegate tra loro, poichè la prima è priva di autonomia e serve solo a verificare la sussistenza delle condizioni cui è subordinata la concessione della misura cautelare. Tali condizioni sono il fumus boni iuris e il periculum in mora. ✓ Il PERICULUM IN MORA indica che la misura cautelare presuppone una situazione di pericolo per il diritto tutelato; tale pericolo può essere variamente definito in relazione ai singoli provvedimenti cautelari, ma in generale può derivare: a) dalla possibilità che, nel tempo occorrente per portare a compimento il processo di cognizione e/o di esecuzione, la situazione di fatto venga alterata o modificata in modo irreversibile, pregiudicando la successiva attuazione coattiva del diritto9; b) dalla possibilità che, tenuto conto della natura e della funzione del diritto da tutelare, la sua soddisfazione tardiva risulti inutile (o cmq scarsamente utile) per il creditore, o ancora arrechi a questo un danno non compiutamente rimediabile ex post10. − Al 1° tipo di periculum rispondono le misure cautelari conservative, dirette a cristallizzare la situazione, per evitare che la realizzazione del diritto possa divenire di fatto impossibile (così, il sequestro giudiziario del bene oggetto della rivendica può assicurarne la custodia nelle more del processo di cognizione); − quando il pericolo riguarda invece il protrarsi dello stato di insoddisfazione del diritto, si può ricorrere ai provvedimenti cautelari di tipo anticipatorio, che sono in grado di produrre effetti in tutto o in parte analoghi a quelli che deriverebbero da una sentenza di accoglimento della domanda (in tal modo anticipando, sebbene provvisoriamente, il risultato che il titolare del diritto può sperare di conseguire al termine del processo ordinario di cognizione e di esecuzione). ✓ Il FUMUS BONI IURIS indica la sommarietà che contraddistingue la cognizione cautelare, intrinsecamente superficiale. Stando ad alcune definizioni tradizionali, il giudice del cautelare non dovrebbe accertare l'esistenza del diritto tutelando, ma limitarsi ad un giudizio di probabilità o di verosimiglianza o addirittura di non manifesta infondatezza della stessa; tuttavia parte della dottrina ha obiettato che sarebbe incongruo, per scongiurare il periculum che minacci un diritto 9 Si pensi al caso in cui il bene oggetto dell’azione di rivendica possa andare distrutto 10 Si pensi al caso in cui si controverta di alimenti, sul presupposto che il creditore verta in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio sostentamento 12 meramente probabile, consentire al giudice la pronuncia di un provvedimento che potrebbe determinare a carico della parte che lo subisce un pregiudizio non più eliminabile ex post. Pertanto, appare preferibile l’opinione secondo cui il convincimento che il giudice deve conseguire, prima di accogliere la domanda cautelare, non è qualitativamente diverso da quello che gli sarebbe richiesto nel processo a cognizione piena (pertanto, la sommarietà deriva piuttosto dalla necessità di provvedere in tempi brevi, limitando l'istruttoria a prove di celere acquisizione). Precisiamo che la sommarietà può riguardare esclusivamente l'accertamento dei fatti, poiché, riguardo alla fondatezza della domanda in iure, la posizione del giudice del procedimento cautelare non differisce da quella del giudice del processo a cognizione piena. Sezione II Le azioni di cognizione e le sentenze cui conducono In base al tipo di pronuncia che l'attore chiede al giudice, le azioni di cognizione si distinguono in: AZIONI DI MERO ACCERTAMENTO AZIONI DI CONDANNA AZIONI COSTITUTIVE 1) L’AZIONE E LA SENTENZA DI MERO ACCERTAMENTO L'azione di mero accertamento è quella che mira esclusivamente a fare certezza circa l'esistenza ed il modo di essere di un determinato rapporto giuridico (azione di accertamento positivo), oppure circa l'inesistenza di un diritto da altri vantato, che si assume non essere mai sorto o essersi comunque estinto (azione di accertamento negativo). Nonostante la tutela cognitiva miri a conseguire certezza in ordine al diritto controverso, non c’è alcuna disposizione che preveda in termini generali la possibilità di proporre un’azione di mero accertamento; ci sono invece, soprattutto nel c.c., norme dalle quali è possibile desumere l’ammissibilità di un’azione di questo tipo in ipotesi specifiche, concernenti il mero accertamento (positivo o negativo) di diritti reali11, ed altre che sono riferibili ad azioni di mero accertamento negativo di negozi giuridici (tali sono ritenute le azioni di nullità e di simulazione dei contratti). Ciò spiega come mai il problema dei LIMITI di tale azione sia piuttosto dibattuto in dottrina:  se non sembrano sussistere gravi dubbi in relazione ai diritti reali ed assoluti in genere (cui corrisponde, dal lato passivo, un dovere generico di astensione dell’intera collettività);  più controversa è l’ammissibilità del mero accertamento di diritti relativi12 →particolarmente discussa è poi l’ipotesi del mero accertamento negativo, perché, quando l’attore chiede, ad 11 In particolare gli artt. 1079 e 948, riguardanti rispettivamente l’actio confessoria e l’actio negatoria servitutis 12 Avanti cioè ad oggetto una specifica prestazione da parte di un soggetto determinato 15 La tipologia di tali misure coercitive è assai varia, potendo trattarsi anche di vere e proprie sanzioni penali16, oppure di sanzioni civili, tutte operanti nel senso di rendere più gravose le conseguenze derivanti dall’inadempimento della sentenza di condanna. La riforma del 2009 ha poi introdotto una misura civile di carattere tendenzialmente generale (espressamente esclusa per le condanne al pagamento di somme di denaro nonché nelle controversie di lavoro subordinato, pubblico o privato, ed in quelle di lavoro parasubordinato), stabilendo nell'art. 614-bis che il giudice, con il provvedimento di condanna, fissi su richiesta di parte, salvo che ciò sia manifestamente iniquo, la somma di denaro dovuta dall'obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell'esecuzione del provvedimento. Per le misure di carattere penale, invece, l'unica disposizione idonea ad assicurare l'attuazione di qualunque provvedimento di condanna del giudice civile è rappresentata dall'art. 388, 1° c.p., che sanziona (con la reclusione o con la multa) chi, per sottrarsi all'adempimento degli obblighi civili nascenti da una sentenza di condanna, o dei quali è in corso l'accertamento dinanzi l'autorità giudiziaria, compie, sui propri o sugli altri beni, atti simulati o fraudolenti, o commette allo stesso scopo altri fatti fraudolenti17. Ben più numerose sono le misure coercitive previste a garanzia di determinate condanne, che attribuiscono rilievo alla mera inosservanza volontaria del provvedimento del giudice. In realtà nulla esclude che il legislatore impieghi le misure coercitive anche solo per rafforzare la tutela già offerta dall’esecuzione forzata (quando si tratti di dare protezione a diritti che stanno particolarmente a cuore). Infine, c’è da chiedersi se sia ammissibile un’azione di condanna mirante ad un provvedimento non attuabile attraverso l’esecuzione forzata, quando non sia neppure concretamente utilizzabile alcuno strumento idoneo ad assicurarne l’esecuzione indiretta→tenendo conto che la sentenza di condanna, in tali ipotesi, nulla attribuisce in più all’attore vittorioso di quanto gli verrebbe da una sentenza di mero accertamento [perché se il destinatario della condanna non adempie spontaneamente al provvedimento del giudice, l’unico rimedio sarà una nuova azione, stavolta tendente al risarcimento del danno], è lecito pensare che il problema debba risolversi non escludendo l’ammissibilità della sentenza di condanna, ma tenendo presente che si tratta di un’azione di mero accertamento (che dovrà dunque valutarsi soprattutto dal punto di vista dell’interesse ad agire richiesto dall’art. 100). Ipotesi particolari di condanna: la condanna generica Di regola, nel pronunciare la condanna, il provvedimento del giudice deve determinare compiutamente l’OGGETTO DELLA PRESTAZIONE CUI IL DEBITORE E’ TENUTO. L’art. 278,1°, tuttavia, prevede che quando sia già accertata la sussistenza di un diritto, ma è ancora controversa la quantità della prestazione dovuta, il giudice, su istanza di parte, può limitarsi a pronunciare con sentenza la condanna generica alla prestazione, disponendo con ordinanza che il processo prosegua per la liquidazione. Quindi, la sentenza di condanna generica si limita ad 16 Si pensi che in passato molti ordinamenti consideravano reato l’insolvenza del debitore 17 Ma gli elementi soggettivi ed oggettivi in essa richiesti ne circoscrivono notevolmente il rilievo pratico 16 accertare l'an del diritto alla prestazione (se sia dovuta o no), senza determinarne invece il quantum, che sarà oggetto di una successiva sentenza. Come vediamo, si tratta di una pronuncia che è più vicina, nella sostanza, ad una sentenza di mero accertamento e che cmq non può avere l’effetto più caratteristico della sentenza di condanna→cioè, quello di aprire la strada all’esecuzione forzata. Ciononostante, essa può essere utile all’attore, perché, trattandosi di una sentenza (non definitiva), pone un punto fermo ed incontrovertibile (salvo che non venga impugnata) sull'astratta sussistenza del diritto, che in molti casi costituisce il punto più controverso della causa18. Sul piano positivo, la concreta utilità dell’istituto è assicurata dall'art. 2818 c.c., in base al quale anche la sentenza che porti condanna al risarcimento dei danni da liquidarsi successivamente è titolo per l'iscrizione di ipoteca giudiziale sui beni del debitore→in questo caso, non potendosi dal titolo la somma per cui l'iscrizione va eseguita, è lo stesso creditore a poterne autonomamente determinare l'ammontare nell'apposita nota da presentare al conservatore dei registri immobiliari (art. 2838 c.c.). Va però precisato che la pronuncia della condanna generica (perfino quando già passata in giudicato) non esclude che la successiva sentenza sul quantum accerti come eguale a zero la prestazione realmente dovuta e vanifichi ogni concreto effetto della prima sentenza. Si discute, invece, se alla sentenza in esame competa l’altro effetto secondario tipico della condanna, cioè la conversione della prescrizione breve in prescrizione ordinaria decennale a norma dell’art. 2953 c.c. (poiché una parte della dottrina ritiene che quest’ultima disposizione presupponga una sentenza di condanna idonea a costituire titolo esecutivo); tuttavia, di fronte alla formulazione letterale dell’art. 2953 (che parla semplicemente di “sentenza di condanna passata in giudicato”), non sembra ci siano ragioni sufficienti per negarne l’applicazione alla condanna generica. La condanna provvisionale L’art. 278, 2° prevede che il giudice, su istanza di parte e alle medesime condizioni cui è subordinata la pronuncia della condanna generica, può anche condannare il debitore al pagamento di una provvisionale, “nei limiti della quantità per cui ritiene già raggiunta la prova”. Quindi, la SENTENZA DI CONDANNA PROVVISIONALE, a differenza di quella generica, è una condanna a tutti gli effetti che, per il quantum in essa accertato, non potrebbe essere rimessa in discussione, ad opera della sentenza definitiva del giudizio, e nel contempo costituisce titolo per l'esecuzione forzata. Ci sono peraltro ipotesi in cui il legislatore prevede la pronuncia di condanne provvisionali con ordinanza anziché con sentenza→ad es. l'art. 423, 2° stabilisce che il giudice, nel processo del lavoro, può disporre, su istanza del lavoratore, il pagamento di una somma a titolo provvisorio quando ritenga il diritto già accertato e nei limiti della quantità per cui ritiene già raggiunta la prova”. In 18 Si pensi, ad es, ai giudizi risarcitori, in cui spesso i contendenti si palleggiano la responsabilità nella produzione del danno: superato, attraverso la condanna generica, questo primo stadio, potrebbe essere più facile per le parti trovare un accordo sul quantum del risarcimento 17 questo e simili casi (a differenza dell’ipotesi contemplata dall’art. 278), si tratta di provvedimenti sommari, che possono essere modificati dalla successiva sentenza a cognizione piena19. La condanna con riserva di eccezioni In alcune ipotesi (piuttosto rare), il legislatore prevede che, di fronte a determinate eccezioni del convenuto che non si prestano ad una pronta risoluzione, il giudice possa scindere l'oggetto della sua cognizione e decidere, accogliendo eventualmente la domanda (se fondata per ogni altro profilo) e pronunciando condanna, senza tenere conto di tali eccezioni, che verranno esaminate in una fase successiva del giudizio. Si è dunque in presenza di una vera e propria condanna, che però si basa su di un accertamento incompleto ed è dunque sommaria→pertanto, essa deve considerarsi provvisoria e caducabile, in relazione all'esito della successiva fase del processo deputata a valutare i fatti allegati dal debitore. Alcune delle fattispecie riconducibili a tale istituto (che si definisce condanna con riserva di eccezioni) sono quelle contemplate dagli artt. 57 del r.d. 1736/’33 sull’assegno bancario e dall’art. 65 del r.d. 1669/1933 sulla cambiale, nonché dall’art. 665 cpc, relativo al procedimento per convalida di licenza o di sfratto per finita locazione o per morosità. N.B: si tratta palesemente di un espediente finalizzato ad agevolare l’attore e che, per converso, penalizza pesantemente il convenuto: pertanto, è pacifico che l’istituto non possa trovare applicazione al di fuori delle ipotesi tipiche in cui il legislatore l’ha previsto. La condanna in futuro Di regola, la sentenza di condanna presuppone una lesione attuale del diritto, e dunque che si sia già verificato l'inadempimento. Vi sono però ipotesi in cui l’ordinamento sembra derogare a tale principio, ammettendo espressamente azioni miranti ad ottenere una condanna destinata ad operare in futuro, se e quando l'inadempimento dovesse realmente verificarsi. La fattispecie che più sicuramente può ricondursi al genus della CONDANNA IN FUTURO è quella contemplata dall’art. 657, che consente al locatore di promuovere azione di rilascio, attraverso lo speciale procedimento per convalida di licenza o di sfratto, ancor prima che il contratto di locazione sia scaduto, procurandosi così un provvedimento di condanna ed un titolo esecutivo che potrà utilizzare quando, allo spirare del termine, il conduttore non rilasci spontaneamente l'immobile. Altre fattispecie analoghe ricorrono quando è prevista la pronuncia di provvedimenti di condanna all’adempimento di obbligazioni, solitamente alimentari o di mantenimento, aventi un carattere periodico, perché in tali ipotesi gli effetti della condanna sono per loro natura proiettati nel futuro. Il vantaggio pratico che deriva all'attore dalla condanna in futuro è duplice: − in primo luogo, l'esistenza di un titolo esecutivo ha indubbia efficacia dissuasiva dell'inadempimento del debitore; 19 Anche se l’art. 423 sembra supporre un accertamento qualitativamente simile a quello richiesto per la pronuncia di una sentenza 20 Tuttavia, l’autonomia e la concreta utilità di tale categoria appaiono dubbie, perché la necessaria integrazione della norma sostanziale ad opera del giudice deve considerarsi un fenomeno assolutamente normale nella realtà giuridica, poiché discende dalla inevitabile genericità delle nozioni di cui spesso il legislatore è costretto ad avvalersi nella definizione delle fattispecie sostanziali. Il problema, semmai, è quello di stabilire se il diritto o l’obbligo, così come definito dalla pronuncia del giudice, debba considerarsi nato solo con tale pronuncia, oppure nel momento stesso in cui, sul piano sostanziale, se ne erano verificati tutti i presupposti presi in considerazione nel provvedimento determinativo. Sezione III Il diritto e l'azione Quello di AZIONE è un concetto relativo, che si presta ad essere variamente precisato; lo stesso legislatore, del resto, discorre di azione in modo non univoco e non di rado lo utilizza come sinonimo di “diritto soggettivo”→basti pensare alle numerosissime disposizioni in cui un certo termine di prescrizione viene riferito all’azione, piuttosto che al diritto sottostante. Oggi, invece, riconosciuta la reciproca autonomia del diritto soggettivo e dell’azione, quest’ultima appartiene alla categoria dei diritti soggettivi pubblici e si sostanzia (almeno per quel che concerne l’azione di cognizione) nel diritto ad ottenere dall’autorità giudiziaria un provvedimento su una determinata domanda. In tal modo, però, si è ancora lontani dall’aver definito l’oggetto e i fatti costitutivi del diritto d’azione→per giungere ad una più puntuale definizione di questi elementi, occorre stabilire quale sia il provvedimento giudiziario che soddisfa il diritto d’azione: − secondo la concezione più astratta, l’azione tenderebbe ad ottenere un qualunque provvedimento, in quanto si ricollegherebbe al dovere del giudice di “rispondere” cmq alla domanda, indipendentemente dal contenuto della decisione (che potrebbe essere anche di inammissibilità per ragioni processuali); − all’opposto di questa concezione c’è quella dell’azione in senso concreto, che la identifica col diritto ad ottenere dal giudice un provvedimento di merito favorevole all’attore (cioè una decisione di accoglimento della domanda); − la concezione oggi più diffusa è una via di mezzo fra le opinioni esaminate, perché definisce l’azione come il diritto ad ottenere un provvedimento di merito, cioè una pronuncia che decida sulla fondatezza della domanda, ancorché, se del caso, in modo sfavorevole all'attore, e quindi rigettandola. 21 Con tale definizione l'esistenza del diritto d'azione viene svincolata dalla concreta esistenza del diritto dedotto in giudizio dall'attore e dipende invece da due elementi, detti condizioni dell'azione: la LEGITTIMAZIONE AD AGIRE e l'INTERESSE AD AGIRE LE CONDIZIONI DELL’AZIONE DI COGNIZIONE ED I PRESUPPOSTI PROCESSUALI Come abbiamo visto, le 2 ultime opinioni esaminate concordano nel ravvisare nella LEGITTIMAZIONE AD AGIRE (detta anche legitimatio ad causam) e nell’INTERESSE AD AGIRE gli elementi costitutivi del diritto d’azione. Le condizioni dell’azione sono elementi costitutivi del diritto d’azione in quanto il giudice deve accertare la sussistenza di esse in via preliminare rispetto alla pronuncia sul merito→infatti, solo se il giudice ritiene sussistenti queste 2 condizioni ha il dovere di pronunciare sul merito (invece, se manca la legittimazione ad agire e/o l’interesse ad agire, il giudice si deve fermare, essendoci carenza del diritto d’azione). Le 2 condizioni dell’azione sono dunque condizioni di decidibilità della domanda nel merito. Questa caratteristica consente di distinguere le condizioni dell’azione dai c.d. presupposti processuali, anche i quali condizionano la possibilità che il giudice pervenga ad una pronuncia sul merito della causa. Tale categoria abbraccia, in realtà, una quantità di requisiti eterogenei, che, a seconda dei casi, possono riguardare l'instaurazione stessa del processo (si pensi alla giurisdizione e alla competenza del giudice, alla capacità processuale richiesta alle parti, all’esistenza di un valido atto introduttivo) oppure la possibilità che esso prosegua verso la decisione sul rapporto giuridico controverso (si consideri l’art. 5 d.lgs. 28/2010, che configura l’esperimento della mediazione- nelle ipotesi in cui è obbligatoria- quale condizione di procedibilità della domanda). Sulla base di quanto detto si afferma che le condizioni dell’azione (a differenza dei presupposti processuali) potrebbero utilmente sopravvenire nel corso del giudizio, dovendo sussistere solo al momento della decisione. Ciò è esatto per quel che riguarda le condizioni dell’azione, ma non è sempre vero che per i presupposti processuali valga la regola contraria, cioè che essi debbano necessariamente preesistere all’instaurazione del processo. LA LEGITTIMAZIONE AD AGIRE E LE IPOTESI DI SOSTITUZIONE PROCESSUALE Il primo elemento costitutivo del diritto d’azione è la LEGITTIMAZIONE AD AGIRE (detta anche legitimatio ad causam), da non confondersi con la legittimazione processuale (o legitimatio ad processum), che attiene al tema della capacità processuale. La legittimazione ad agire serve ad individuare la titolarità dell'azione, ossia a chi essa spetti. Essa consiste nella coincidenza affermata fra la titolarità del diritto d’azione e la titolarità del diritto sostanziale che si fa valere. 22 Il criterio ordinario di legittimazione, che si desume a contrario dall'art. 8122, può così definirsi: il diritto d'azione compete a chiunque faccia valere nel processo un diritto assumendo di esserne il titolare. Pertanto, per stabilire se il soggetto che ha proposto la domanda sia legittimato ad agire, si guarda esclusivamente alla DOMANDA ed alla circostanza che in essa si affermi di essere titolare del diritto dedotto in giudizio (può poi avvenire che il processo giunga ad accertare che tale diritto non esiste o appartiene ad altri, ma ciò attiene al merito della causa e non implica una negazione del diritto d’azione). Lo stesso art. 81 lascia intendere che vi sono casi, tassativamente indicati dal legislatore, in cui è consentito “far valere nel processo in nome proprio un diritto altrui”→sono le ipotesi di legittimazione straordinaria, altrimenti dette di sostituzione processuale: il sostituto processuale è abilitato ad agire in nome proprio per ottenere una decisione circa un rapporto giuridico cui egli è dichiaratamente estraneo e di cui è titolare il sostituito. L'esempio più noto è dato dall'azione surrogatoria ex art. 2900 c.c., in cui si consente al creditore di esercitare i diritti e le azioni che spettano verso i terzi al proprio debitore, qualora questi ometta di farlo. N.B: in questo caso l'attore agisce in realtà a tutela di un proprio diritto o interesse, anche di natura non patrimoniale (ad es. nell'azione surrogatoria si tratta del credito vantato dal sostituto nei confronti del debitore), oppure, quando la legittimazione sia attribuita ad un organo pubblico (es: pm), nell'adempimento di un dovere a lui imposto dalla legge. Altre fattispecie di sostituzione processuale possono ravvisarsi, ad es, in tema di impugnazione del matrimonio, quando la relativa legittimazione sia estesa ai parenti, al pm e a tutti coloro che possono vantare un interesse legittimo ed attuale (art. 117 c.c.) o di nullità del contratto (art. 1421 c.c.); nell’azione confessoria o negatoria servitutis esperibile dall’usufruttuario, nonché nelle c.d. azioni dirette, una varietà di ipotesi caratterizzate dal fatto che a determinati creditori si consente di dedurre in giudizio un credito del proprio debitore, per poi trovare diretta soddisfazione del proprio credito nei confronti del debitor debitoris. Se si considera che la sussistenza della legittimazione ad agire viene valutata in base alla mera prospettazione contenuta nella domanda, è facile dedurne che il rilievo pratico di tale condizione dell’azione è piuttosto modesto, perché non avviene spesso che l’attore, senza poter vantare alcun titolo di legittimazione straordinaria, pretenda di esercitare un diritto dichiaratamente altrui. Altrettanto limitata è la concreta utilità della c.d. LEGITTIMAZIONE A CONTRADDIRE, che attiene alla titolarità passiva dell'azione→essa spetta a chi, nella prospettazione della domanda, venga indicato quale titolare dell'obbligo o della diversa situazione soggettiva passiva dedotta in giudizio. È infatti difficile pensare che l’attore possa convenire in giudizio un soggetto diverso da quello che egli stesso abbia individuato (nella domanda) come destinatario passivo della pretesa sostanziale in esso fatta valere. In base a quanto detto si può affermare che il più delle volte si adopera impropriamente l’espressione difetto di legittimazione (attiva o passiva) con riferimento a situazioni nelle quali, in realtà, è in 22 “Fuori dai casi espressamente previsti dalla legge, nessuno può far valere nel processo in nome proprio un diritto altrui” 25 N.B: il ruolo dei vari fatti principali nella cognizione del giudice può essere diversa a seconda che la domanda sia accolta o rigettata:  di regola, per poter accogliere una domanda, il giudice (a meno che non si tratti di una domanda di mero accertamento negativo) dovrà verificare tanto la sussistenza di tutti i fatti costitutivi occorrenti per la nascita del diritto azionato, quanto l'insussistenza di tutti i fatti impeditivi, estintivi o modificativi eventualmente allegati dal convenuto oppure rilevabili dallo stesso giudice d'ufficio;  al contrario, perché si possa giungere al rigetto della domanda, è sufficiente accertare l'inesistenza di alcuno soltanto dei fatti costitutivi richiesti dalla disciplina sostanziale, oppure, viceversa, l'esistenza di alcuno soltanto dei molteplici fatti impeditivi, estintivi o modificativi. Il giudice gode di ampia discrezionalità nella scelta del motivo sul quale fondare il rigetto. Solitamente, i fatti principali sono fatti semplici, nel senso che non hanno una valenza autonoma, ma rilevano solo per l’esistenza o l’inesistenza di un determinato diritto (perché solo i diritti possono essere oggetto di accertamento e non i meri fatti). Non raramente, però, accade che il fatto principale sia a sua volta un fatto-diritto, cioè può investire l’esistenza o l’inesistenza di un distinto diritto o situazione giuridica (riguardante le stesse parti o parti diverse), da cui dipenda la costituzione, modificazione o estinzione del diritto oggetto del processo. Così, ad es, uno dei fatti costitutivi del diritto agli alimenti potrebbe consistere nell’esistenza di un rapporto di filiazione fra il creditore e il debitore. Come vediamo, si tratta di ipotesi in cui il fatto potrebbe costituire esso stesso l'oggetto di un autonomo giudizio. I FATTI SECONDARI Secondo l’opinione prevalente, i FATTI SECONDARI sono quelli che rilevano solo in via indiretta per l'esistenza o l'inesistenza del diritto dedotto in giudizio, giacché sono estranei alla fattispecie legale invocata dall'attore ed operano su un terreno meramente probatorio, consentendo al giudice di affermare, attraverso un procedimento logico-deduttivo, l'esistenza, l’inesistenza o cmq un modo di essere di un fatto principale [così, ad es, nel giudizio in cui fosse stato chiesto l’annullamento di un contratto, perché stipulato da persona incapace, i fatti secondari potrebbero riguardare, ad es, episodi idonei a dimostrare il vizio di mente del contraente]. In concreto, però, la distinzione fra fatti principali e fatti secondari non sempre risulta chiara e netta, perché in concreto il fatto principale ha inevitabilmente una propria dimensione “storica”, risultando da un insieme di circostanze ed elementi concreti, in mancanza dei quali il fatto stesso non potrebbe dirsi compiutamente individuato. L’INTRODUZIONE DEI FATTI NEL PROCESSO Purtroppo l’interprete non può contare su alcuna indicazione positiva circa l’introduzione dei fatti nel processo25. 25 Ciò spiega la notevole problematicità delle diverse soluzioni prospettate 26 Uno dei pochi punti su cui si concorda riguarda il divieto, per il giudice, di utilizzare la c.d. scienza privata, cioè di far uso di una sua eventuale conoscenza diretta dei fatti rilevanti per la causa (non importa se principali o secondari), sia quando tali fatti sono già stati allegati nel processo e debbono essere oggetto di prova, sia, a fortiori, quando non vi siano ancora stati introdotti. Per il resto, l’opinione prevalente distingue anzitutto fra fatti principali e fatti secondari:  per quanto riguarda i fatti secondari, si riconosce al giudice la possibilità di utilizzare d'ufficio tutto ciò che sia stato comunque acquisito al processo (non soltanto tramite le allegazioni delle parti, ma pure attraverso dichiarazioni provenienti da terzi) e che risulti dunque dagli atti della causa.  per quanto concerne invece i fatti principali, si ritiene che il monopolio della loro introduzione nel processo spetti, in linea di principio, alle parti, le quali vi provvedono rispettivamente tramite la domanda (per i fatti costitutivi) o tramite l'eccezione (quando si tratti di fatti impeditivi, estintivi o modificativi). Questo principio subisce però un importante ridimensionamento in relazione ai fatti impeditivi, estintivi o modificativi rilevabili d'ufficio, per i quali vale, come per i fatti secondari, la possibilità, per il giudice, di tenere conto di tutto ciò che comunque risulti dagli atti della causa. In questo modo, dunque, si profila una netta contrapposizione fra: − I FATTI COSTITUTIVI, la cui allegazione sarebbe riservata all’attore; − Gli ALTRI FATTI PRINCIPALI, che sarebbero normalmente rilevabili d’ufficio. Questa contrapposizione, però, è stata criticata da una parte della dottrina, la quale ha obiettato che non sempre l’allegazione dei fatti costitutivi concorre all’identificazione della domanda, con la conseguenza che, quando ciò non avviene, non vi sarebbe alcun motivo per discriminare i fatti costitutivi dagli altri fatti principali (dovendosi ammettere anche per essi il potere del giudice di rilevarli ex officio). Questa obiezione, però, non sembra convincente, perché se è vero che non sempre la specificazione dei fatti costitutivi è essenziale per individuare l’oggetto del processo, è anche vero però che la variazione di tali fatti implica una modificazione o almeno una precisazione della domanda (attività che il legislatore sembra aver voluto inderogabilmente riservare alla parte autrice della domanda). LA DOMANDA GIUDIZIALE Dagli art. 2907 c.c26. e 99 c.p.c.27 si evince che LA DOMANDA GIUDIZIALE È L'ATTO DI PARTE CON CUI SI FA VALERE UN DIRITTO, cioè con cui si chiede al giudice un provvedimento a tutela di una determinata situazione soggettiva. La prima ed essenziale funzione della domanda è perciò quella di determinare l'oggetto stesso del processo, e, in prospettiva, quello del futuro giudicato. Essa, infatti, in base al principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, consacrato nell'art. 112 c.p.c., individua rigidamente i confini della decisione, poichè il giudice è vincolato a pronunciare su tutta la domanda e non oltre i 26 Il quale dispone che “alla tutela giurisdizionale dei diritti provvede l’autorità giudiziaria” 27 Che prevede il PRINCIPIO DELLA DOMANDA, stabilendo che “Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve proporre domanda al giudice competente” 27 limiti di essa. Ciò significa che costituirebbe un vizio della sentenza sia l'omessa pronuncia, sia l'ultrapetizione, consistente in un provvedimento che va oltre la domanda, sia infine l'extrapetizione, che si ha quando il giudice pronunci in assenza di una domanda o su un oggetto diverso da quello della domanda. Lo stesso principio porta a ritenere che la parte, qualora nel giudizio siano state proposte una pluralità di domande, possa vincolare il giudice (salvi i limiti che potrebbero derivare dall'anteriorità logico-giuridico di una di esse) a seguire un determinato ordine nel loro esame. È facile quindi capire quale grande importanza assuma il problema dell’IDENTIFICAZIONE DELLA DOMANDA (cioè dell’individuazione degli elementi che concorrono a contraddistinguere in maniera univoca una determinata domanda), la quale serve a verificare la giurisdizione e la competenza del giudice adito; può evidenziare nessi più o meno intensi con altre cause, consentendone la trattazione congiunta o, al contrario, imponendo l’eliminazione di taluna di esse; permette di stabilire quali modificazioni della domanda siano ammesse nel corso del processo e, infine, concorre all’individuazione dei limiti del giudicato. GLI ELEMENTI IDENTIFICATIVI DELLA DOMANDA Gli elementi che identificano, sul piano soggettivo ed oggettivo, la domanda giudiziale sono essenzialmente 3: A. i soggetti, B. il petitum (cioè l'oggetto) C. la causa petendi (la ragione della domanda, il titolo). N.B: vedere l’art. 125, nonché gli artt. 163, 3° n. 2 e 414 n. 2, che disciplinano il contenuto dell’atto introduttivo del processo ordinario e di quello del lavoro A. per quel che riguarda i SOGGETTI, occorre stabilire da chi e nei confronti di chi la domanda è proposta (cioè ATTORE e CONVENUTO, ovvero RICORRENTE e RESISTENTE) tenendo presente che a tal fine rileva anche la qualità in cui taluno propone la domanda o ne è destinatario (così, ad es, la domanda formulata nei confronti di Tizio in proprio è diversa da quella che sia proposta contro lo stesso Tizio, ma in qualità di genitore e di legale rappresentante del minore Caio) B. più complesso è il discorso relativo agli elementi oggettivi della domanda. L'OGGETTO DELLA DOMANDA (cioè il petitum) consiste sostanzialmente in ciò che si chiede. Più precisamente, il petitum risulta dalla combinazione di 2 elementi: ✓ il petitum mediato, che è il bene giuridico concretamente perseguito dall’attore (una certa somma di denaro, un determinato bene mobile o immobile, ecc); ✓ il petitum immediato, che è il provvedimento che viene chiesto al giudice per ottenere quel bene giuridico (mero accertamento, condanna a dare o a fare, ecc) C. l’altro elemento oggettivo che individua la domanda è il TITOLO, la c.d. causa petendi (letteralmente, la ragione del domandare), che è meno agevole da definire→secondo l’opinione 30 ✓ dalla EMENDATIO LIBELLI, consistente in una modifica non sostanziale della domanda, che è espressamente consentita, seppure entro la fase di trattazione iniziale della causa. Peraltro, fino a ieri la concreta definizione dei confini tra la mutatio e l’emendatio appariva estremamente incerta e caratterizzata da notevole empirismo. Una recente decisione delle SS.UU. (n. 12310 del 2015) ha invece sconfessato l’orientamento tradizionale, riconoscendo che la “modificazione” (emendatio), fermo restando l’elemento soggettivo (rispetto al quale è difficile ipotizzare delle variazioni, dal lato attivo e passivo, che non incidano sull’identità della domanda) può implicare anche una variazione più o meno radicale di uno degli elementi oggettivi della domanda o addirittura di entrambi, a condizione che la domanda modificata riguardi la stessa vicenda sostanziale dedotta in giudizio con la domanda originaria e si presenti come alternativa rispetto a quest’ultima (nel senso che non si aggiunga ad essa, ma la sostituisca). Si tratta, come si vede, di una novità di grande rilievo, che consente alle parti (e soprattutto all’attore) di correggere il tiro delle proprie domande iniziali nella primissima fase del processo, senza essere costrette ad instaurare un nuovo processo. LA PRECISAZIONE DELLA DOMANDA La PRECISAZIONE DELLA DOMANDA, prevista dall'art. 183, 5°, costituisce un quid minus rispetto alla modificazione della domanda stessa e, per questo motivo, deve ritenersi soggetta ad un diverso e più liberale regime processuale, essendo consentita per tutto il corso del processo e non soltanto nella sua fase iniziale. Anche in questo caso, però, non è affatto chiaro dove si collochi la linea di confine fra le 2 ipotesi. Tenuto conto di quanto detto precedentemente, può ritenersi che costituiscano MERA PRECISAZIONE, ad es: − con riguardo al petitum e alle azioni aventi ad oggetto il pagamento di somme di denaro, l'indicazione del quantum della domanda, inizialmente omessa, o la sua variazione (anche in aumento), quando non mutino i fatti costitutivi; − quanto alla causa petendi, ogni variazione degli elementi di diritto della domanda e la specificazione o modificazione di circostanze marginali relative ai fatti principali, che siano tali da far ritenere sostanzialmente immutati i fatti medesimi. Bisogna precisare che dovrebbe rimanere del tutto estranea alla precisazione della domanda la variazione o l’allegazione di nuovi fatti secondari, laddove tali fatti vengono intesi come “qualitativamente” diversi dai fatti principali ed operanti, a differenza di questi, sul terreno meramente probatorio. LE ECCEZIONI E LE DIFESE DEL CONVENUTO Di fronte alla domanda proposta dall’attore, il convenuto (o, più in generale, il destinatario della domanda stessa) può difendersi in vario modo [ad es, limitandosi a contestare i fatti allegati dall’attore o le argomentazioni giuridiche da lui addotte, oppure allegando a propria volta dei fatti nuovi, o infine proponendo egli stesso delle nuove domande]. Detto questo, analizziamo le possibili “reazioni” del convenuto: 31 A. ECCEZIONI PROCESSUALI. Sono quelle con cui si contesta la possibilità di decidere attualmente il merito della causa (cioè di pronunciare sulla fondatezza o infondatezza della domanda), in conseguenza del difetto di un presupposto processuale (giurisdizione, competenza, capacità processuale dell'attore) o di una condizione dell'azione, oppure dell'invalidità di uno o più atti processuali. A seconda dei casi, l'accoglimento dell'eccezione può condurre: − ad una SENTENZA DI RIGETTO IN RITO, ossia per ragioni meramente processuali (absolutio ab istantia); − oppure, quando il vizio sia rimediabile, ad un PROVVEDIMENTO DIRETTO ALLA REGOLARIZZAZIONE DEL PROCESSO. Per quanto riguarda il regime di rilevabilità delle eccezioni processuali, non ci sono regole generali, ma il legislatore ha fornito indicazioni specifiche: ✓ in alcuni casi il rilievo dell'impedimento o del vizio processuale è riservato a taluna delle parti ed è ammesso entro termini brevi (vedi l’art. 38, 1° limitatamente all’incompetenza per territorio derogabile); ✓ in altre ipotesi, invece, è consentito in ogni stato e grado del giudizio, anche ad opera del giudice (vedi l’art. 11, ult. parte, l. 218/’95); ✓ in altre ancora viene previsto un regime intermedio (vedi l’art. 38, 1° e 3° in relazione all’incompetenza per materia, valore o territorio inderogabile). B. MERE DIFESE. Possono consistere in argomentazioni puramente giuridiche, dirette a confutare le conclusioni dell'avversario, oppure nella contestazione dei fatti che l’attore ha allegato a fondamento della domanda, vuoi attraverso la negazione diretta dei fatti (si parla a tal proposito di eccezioni improprie), vuoi tramite l'allegazione di altri fatti secondari rispetto ad essi incompatibili). Così, ad es, di fronte alla domanda di pagamento del corrispettivo di merci che l’attore afferma di avergli venduto e consegnato, il convenuto potrebbe puramente e semplicemente negare di aver mai ricevuto quelle merci, oppure potrebbe allegare che il luogo in cui esse sono state recapitate gli è del tutto estraneo. In linea di principio, per la formulazione di tali difese, in fatto o in diritto, il nostro ordinamento non prevede alcuna specifica limitazione temporale. C. ECCEZIONI DI MERITO. Consistono nell'allegazione di un fatto impeditivo, estintivo o modificativo, esplicitamente o implicitamente diretta a conseguire il rigetto della domanda, di regola attraverso l'accertamento negativo del diritto posto a fondamento di quest'ultima. Ne consegue che l'eccezione di per sé non estende in nessun caso l'oggetto del processo, così come determinato dalla domanda, poiché tende semplicemente a far accertare l'inesistenza del diritto già dedotto in giudizio. Nell’ambito delle eccezioni di merito (definite proprie in contrapposizione alle mere difese di fatto) si distinguono le ECCEZIONI IN SENSO LATO dalle ECCEZIONI IN SENSO STRETTO: tale distinzione si fonda essenzialmente sul regime di rilevabilità del fatto (impeditivo, estintivo o modificativo) che ne costituisce l'oggetto. 32  le ECCEZIONI IN SENSO STRETTO riguardano fatti (impeditivi, estintivi o modificativi) che sono riservati alle parti non soltanto per quel che concerne l'introduzione nel processo, (ossia l'allegazione), ma anche quanto alla possibilità, per il giudice, di porli a base della decisione [così, ad es, nel caso della prescrizione-il cui rilievo d’ufficio è escluso dall’art. 2938 cc-il giudice, anche quando dovesse appurare che l’inerzia del titolare del diritto si è protratta oltre il termine di prescrizione, non potrebbe rigettare per tale motivo la domanda se la parte interessata non avesse mostrato, seppur implicitamente, di volersi avvalere dell’effetto estintivo di tale fatto];  le ECCEZIONI IN SENSO LATO invece, hanno ad oggetto fatti il cui effetto impeditivo, estintivo o modificativo (una volta che essi siano stati allegati o acquisiti al processo), deve essere senz'altro rilevato dal giudice d'ufficio, al fin di pervenire al rigetto della domanda . Questa distinzione è divenuta molto importante da quando la riforma del 1990 (e ancora più quella del 2005) vi ha ricollegato un diverso regime quanto ai TERMINI: − le eccezioni in senso stretto sono ammesse nella sola fase iniziale del processo di primo grado (devono cioè essere fatte valere dal convenuto nella comparsa di risposta); − invece, le eccezioni in senso lato sono consentite pure in appello. D. ECCEZIONI E DOMANDE RICONVENZIONALI. Le c.d. ECCEZIONI RICONVENZIONALI non rappresentano, in realtà, una categoria a sé stante nell’ambito delle eccezioni proprie, ma si contraddistinguono solamente per avere ad oggetto non un fatto semplice, ma un fatto-diritto→più esattamente, un controdiritto che il destinatario della domanda ben potrebbe far valere in un autonomo giudizio, ma che utilizza, invece, al solo fine di ottenere il rigetto della domanda stessa [così, ad es, il convenuto, nei cui confronti sia stata chiesta la condanna al pagamento di un certo debito, potrebbe opporre in compensazione l’esistenza di un proprio controcredito; oppure, quando oggetto del processo sia una domanda di rilascio di un immobile che l’attore afferma essere detenuto sine titulo, il convenuto potrebbe eccepire di aver usucapito la proprietà del bene]. In entrambi i casi, nulla esclude che il convenuto ometta di dedurre tale proprio diritto in via d’eccezione e proponga, invece, un autonomo giudizio; come pure può avvenire che egli, anziché limitarsi ad un’eccezione, faccia valere il controcredito o l’avvenuta usucapione attraverso una vera e propria DOMANDA, definita anch’essa RICONVENZIONALE, nello stesso processo, chiedendo che il giudice decida con efficacia di giudicato anche su tale suo diritto. Sottolineiamo che, fino a quando si rimane nell'ambito della mera eccezione riconvenzionale, l'oggetto del processo non subisce alcuna estensione ed il giudice è chiamato a conoscere del controdiritto del convenuto al solo fine di decidere sulla fondatezza della domanda dell'attore. 35 compatibile con lo svolgimento di altre attività lavorative o professionali; esso dà diritto ad una indennità, determinata per una parte in misura fissa e per un'altra in misura variabile. Al giudice di pace è attribuita competenza civile di primo grado relativamente alle cause considerate dal legislatore di minore importanza. Nelle cause in cui il valore non eccede 1100 euro, inoltre, è previsto che la decisione sia pronunciata, di regola, secondo equità anziché secondo diritto. IL TRIBUNALE In seguito alla soppressione delle preture, il tribunale è rimasto l'unico giudice togato (di regola composto da magistrati professionali, legati da uno stabile rapporto di servizio con l'amministrazione) normalmente competente in primo grado. Inoltre, conosce, quale giudice di secondo grado, delle impugnazioni portate contro le sentenze del giudice di pace. Tradizionalmente, il tribunale era sempre stato un giudice collegiale, anche se il Codice del ’40 aveva attenuato considerevolmente tale collegialità, attraverso l’introduzione della figura del giudice istruttore. Le riforme del ’90 e del ’98, invece, l’hanno trasformato in un organo normalmente monocratico, che giudica in composizione collegiale (con 3 magistrati) nei soli casi espressamente previsti dalla legge. A norma dell'art. 42 ord. giud., il Tribunale ha sede in ogni capoluogo determinato da un'apposita tabella ed il suo ambito territoriale coincide con il circondario. La riforma attuata con la l. 51/1998 ha previsto inoltre l'istituzione di sezioni distaccate di tribunali in diversi comuni. La revisione delle circoscrizioni giudiziarie (d.lgs. 155/2012) ha però modificato profondamente la situazione, sopprimendo tutte le sezioni distaccate, nonché un discreto numero di tribunali più piccoli. Riguardo all'articolazione interna, il tribunale è diretto dal Presidente e può essere costituito in più sezioni, ciascuna delle quali è designata a trattare gli affari civili, penali, i giudizi in grado d'appello e le controversie in materia di lavoro e di previdenza e assistenza obbligatorie. Ad ogni sezione viene assegnato un certo numero variabile di magistrati, anche onorari, e, quando la pianta organica lo preveda, un preside di sezione. La distribuzione del lavoro tra le varie sezioni spetta al presidente del tribunale, e la distribuzione del lavoro all'interno di queste spetta al presidente della singola sezione. Oggi, però, tali poteri risultano opportunamente limitati dalle c.d. tabelle, che per ciascuno ufficio giudiziario predeterminano la ripartizione del tribunale in sezioni, la destinazione ad esse dei singoli magistrati ed i criteri obiettivi da utilizzare, da parte del dirigente dell'ufficio o del presidente di sezione, nell'assegnazione degli affari alle singole sezioni nonché ai singoli collegi e magistrati. Sull'organizzazione interna del tribunale ha inciso in modo considerevole il d.lgs. 116/2017, che ha previsto che un certo numero di giudici onorari di pace siano addetti all'ufficio per il processo. LA CORTE D'APPELLO La corte d'appello ha sede nei comuni capoluogo dei distretti indicati nella tabella prevista all'art. 52 ord. giud. e costituisce un giudice sempre collegiale, composto da tre magistrati, detti consiglieri. 36 Ad essa compete di regola la giurisdizione nelle cause di appello contro le sentenze del tribunale, salve alcune ipotesi eccezionali in cui è investita di competenza in unico grado (ad es, nella cause concernenti la determinazione dell’indennità di esproprio o nelle controversie relative ai provvedimenti di iscrizione nelle liste elettorali). Anche la Corte d’appello, che è diretta dal Primo Presidente, può essere costituita in più sezioni, ognuna presieduta da un proprio presidente, una delle quali incaricata esclusivamente della trattazione delle controversie in materia di lavoro e previdenziale, ed un'altra, per i minorenni, incaricata di giudicare sulle impugnazioni proposte contro i provvedimenti del tribunale per i minorenni. Attualmente le corti d'appello sono 26, più tre sezioni distaccate. LA CORTE DI CASSAZIONE La Corte suprema di cassazione ha sede in Roma ed ha giurisdizione sull'intero territorio nazionale. Ha il compito tra l’altro di assicurare, quale organo supremo della giustizia, l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione della legge, l'unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni (art. 65 ord. giud.). È costituita in più sezioni (attualmente, per la materia civile, sono 5, una delle quali si occupa esclusivamente delle cause di lavoro e previdenziali ed un’altra del solo contenzioso tributario) e decide sempre collegialmente, col numero invariabile di 5 votanti oppure, quando giudica a sezioni unite, coll'intervento di 9 magistrati, appartenenti alle singole sezioni civili. Ad essa sono addetti un primo presidente, dei presidenti di sezione ed un certo numero di consiglieri. Si suol dire, tradizionalmente, che la funzione essenziale della Cassazione sarebbe quella di nomofilachia, consistente nel garantire l’osservanza e la corretta applicazione del diritto oggettivo da parte dei giudici di merito. Ma, di fatto, la funzione più importante che svolge è assicurare l'uniformità dell'interpretazione del diritto, anche e soprattutto attraverso la risoluzione dei contrasti giurisprudenziali che spesso si manifestano tra i giudici di merito. Va infatti precisato che, anche se nel nostro ordinamento il precedente giurisprudenziale con costituisce fonte del diritto e non vincola il giudice (soggetto solo alla legge), le decisioni della Corte suprema finiscono con l’avere una notevole efficacia conformativa sulla giurisprudenza di merito. Ciò però non esclude che possano aversi contrasti perfino all’interno della stessa Cassazione, quando la medesima quaestio iuris sia risolta in modo difforme da sezioni diverse o addirittura da collegi diversamente composti della stessa sezione→in queste ipotesi è previsto che il Primo Presidente possa investire della questione le sezioni unite (art. 374, 2°) per ottenere una decisione particolarmente autorevole che, nella maggior parte dei casi, riesce a porre fine al contrasto. LE GARANZIE COSTITUZIONALI DELL'ORDINAMENTO GIUDIZIARIO La Costituzione dedica la Sezione I del Titolo IV della Parte II alle garanzie riguardanti l'ordine giudiziario e la magistratura (artt. 101-110). Ricordiamo in particolare: 37 • Art. 101 comma 2 Cost., secondo cui “I giudici sono soggetti soltanto alla legge”; ciò esclude l'esistenza di rapporti gerarchici nella magistratura e istituisce una relazione immediata fra il singolo giudice e la legge che è chiamato ad applicare. • Art. 104 comma 1 Cost. “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere” e l'art. 105 Cost “Spettano al Consiglio superiore della magistratura, secondo le norme sull'ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati”. Tali norme definiscono la magistrature come ordine autonomo ed indipendente ed attribuiscono le funzioni di autogoverno ad un apposito organo costituzionale, il Csm, esso stesso autonomo ed indipendente sia dall'esecutivo sia dal legislativo, cui sono riservati in via esclusiva tutti i provvedimenti che interessano la carriera del magistrato. • Art. 106 Cost., secondo cui “Le nomine dei magistrati hanno luogo per concorso”. La stessa norma prevede tuttavia che legge sull'ordinamento giudiziario possa ammettere la nomina, anche elettiva, di magistrati onorari per tutte le funzioni attribuite a giudici singoli. Questa possibilità è stata spesso utilizzata dal legislatore ordinario, ad es, con l’istituzione del giudice di pace, con la nomina di magistrati onorari di tribunale, ecc. Con la l. 303/’98 è stata data attuazione al comma 3° dell’art. 106, che consente di designare all'ufficio di consiglieri di Cassazione, per meriti insigni, professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati che abbiano quindici anni d'esercizio e siano iscritti negli albi speciali per le giurisdizioni superiori. • Art. 107 comma 1 Cost.: garantisce l’inamovibilità dei magistrati, stabilendo che “I magistrati sono inamovibili. Non possono essere dispensati o sospesi dal servizio né destinati ad altre sedi o funzioni se non in seguito a decisione del Consiglio superiore della magistratura, adottata o per i motivi e con le garanzie di difesa stabilite dall'ordinamento giudiziario o con il loro consenso”. • Art. 108 comma 1 Cost. pone una riserva di legge per le norme sull'ordinamento giudiziario e su ogni magistratura. IL CANCELLIERE Art. 3 ord. giud. stabilisce che “Ogni corte, tribunale ordinario ed ufficio del giudice di pace ha una cancelleria ed ogni ufficio del pubblico ministero ha una segreteria”. Art. 4 comma 3 ord. giud. precisa che “Il personale delle cancellerie e segreterie giudiziarie di ogni gruppo e grado fa parte dell'ordine giudiziario.” Tutto ciò, però, non è sufficiente a far luce sulle numerosissime funzioni attribuite dalla legge al cancelliere, né a risolvere la controversa questione della natura giuridica di quest’ultimo (se si tratti, cioè, di un organo amministrativo o addirittura giurisdizionale). Le molteplici attribuzioni del cancelliere (artt. 57 e 58 cpc) comprendono attività di supporto al giudice o all'ufficio giudiziario, ma anche funzioni autonome. Il cancelliere rappresenta innanzitutto il necessario collegamento tra i litiganti e l'organo giurisdizionale: tutte le istanze che le parti rivolgono al giudice, a cominciare dall'atto introduttivo del processo, vanno normalmente depositate (oggi per via telematica) in cancelleria (salvo quelle formulate direttamente in udienza), e gli stessi provvedimenti resi dal giudice vengono resi noti alle parti tramite la cancelleria, dopo il deposito. In secondo luogo, svolge alcune importanti funzioni di documentazione: art. 57 “Il cancelliere documenta a tutti gli effetti, nei casi e nei modi previsti dalla legge, le attività proprie e quelle degli 40 Sezione II LA GIURISDIZIONE I LIMITI DELLA GIURISDIZIONE DEL GIUDICE ORDINARIO, IN GENERALE Ai sensi dell’art. 1 c.p.c.: “La giurisdizione civile, salvo speciali disposizioni di legge, è esercitata dai giudici ordinari secondo le norme del presente codice”. Si tratta, quindi, di stabilire in quali casi si faccia eccezione a tale regola (cioè, quali siano i limiti alla giurisdizione del giudice ordinario). I limiti alla giurisdizione del giudice ordinario sono desumibili dall'art. 37 c.p.c. (rubricato Difetto di giurisdizione) e dagli art. 3-11 della legge 218/1995 (Riforma del sistema di diritto internazionale privato), sono 3 ed attengono: a) ai rapporti tra giudice ordinario e giudici speciali; b) ai rapporti tra giudice ordinario e pubblica amministrazione; c) all'estensione della giurisdizione italiana nel suo complesso. IL RAPPORTO TRA GIUDICE ORDINARIO E GIUDICE AMMINISTRATIVO, SECONDO L'ORDINAMENTO TRADIZIONALE Nell'ambito dei rapporti tra giudice ordinario e giudici speciali, particolarmente critico e travagliato è quello tra giudice ordinario e giudice amministrativo, che trova la propria base normativa nella l. 2248/1865 allegato E (tuttora formalmente vigente). Tale legge si riprometteva di realizzare l'unità della giurisdizione, abolendo i giudici speciali33: su tale premessa, l’art. 2 di tale legge prevedeva che fossero attribuite alla giurisdizione ordinaria tutte le materie nelle quali si fosse fatta questione d'un diritto civile o politico, comunque vi fosse interessata la pubblica amministrazione, e anche se fossero stati emanati provvedimenti del potere esecutivo o dell'autorità amministrativa. Secondo la stessa legge, quando la contestazione riguardava un diritto che si pretendeva leso da un atto dell'autorità amministrativa, i tribunali si sarebbero limitati a conoscere degli effetti dell'atto in relazione all'oggetto dedotto in giudizio. L'atto amministrativo non poteva essere revocato o modificato se non con ricorso alle competenti autorità amministrative, le quali si conformavano al giudicato dei tribunali per quanto riguardava il caso deciso. Da questa disciplina si poteva desumere che la giurisdizione del giudice ordinario, allorché si fosse dedotto in giudizio un diritto, non avrebbe risentito dell'eventuale intervento di un atto amministrativo che avesse inciso sul diritto stesso; il giudice ordinario, senza poter annullare o revocare o modificare l'atto, avrebbe potuto e dovuto però disapplicarlo, se illegittimo, cioè non tenerne conto in relazione al solo rapporto giuridico controverso. Nella realtà applicativa, però, la cose andarono diversamente, grazie all’interpretazione cui approdò la giurisprudenza (interpretazione favorita dal fatto che l’organo deputato a risolvere gli eventuali 33 Cioè, i Tribunali del contenzioso amministrativo, che erano stati fino ad allora investiti della giurisdizione (anche penale) in materia di rapporti fra cittadino e PA, ma che non davano sufficienti garanzie di autonomia ed indipendenza rispetto alla amministrazione stessa 41 conflitti fra g.o. e PA era il Consiglio di Stato, che era ancora privo di funzioni giurisdizionali e costituiva invece un organo consultivo). La giurisprudenza affermò che, tenuto conto della normale esecutorietà dell'atto amministrativo, non era possibile continuare a reputare sussistente un diritto quando su di esso avesse inciso negativamente un provvedimento amministrativo, ancorché illegittimo: in questi casi, si disse, il diritto e la giurisdizione del giudice ordinario venivano comunque meno e quel che residuava era solo l'interesse legittimo ad ottenere la rimozione dell'atto viziato. Tale interesse, però, una volta esclusa la giurisdizione del giudice ordinario, poteva trovare riconoscimento ed attuazione solo attraverso i rimedi interni alla PA (il che si traduceva in un grave vuoto di tutela giurisdizionale). Il legislatore nel 1889, per tali ragioni, fu costretto a ripristinare una giurisdizione amministrativa, attraverso l'attribuzione al Consiglio di Stato di funzioni giurisdizionali, concernenti il controllo di legittimità degli atti amministrativi. L’apparato della giustizia amministrativa ha poi trovato un importante completamento nell’istituzione dei Tribunali amministrativi regionali, ad opera della l. 1034/’71. A parte alcune ipotesi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, il riparto di giurisdizione tra questo e il giudice ordinario ha continuato ad essere governato dalla disciplina del 1865, fondata sulla distinzione tra diritto soggettivo ed interesse legittimo: stando a tali principi, il criterio fondamentale di riparto sarebbe rappresentato non dal petitum, ossia dal provvedimento che si richiederebbe al giudice, ma dalla causa petendi, cioè dalla situazione soggettiva effettivamente prospettata, al di là della qualificazione offerta dall'attore. Quando era lamentata la lesione di un diritto ad opera di un provvedimento amministrativo, la posizione soggettiva dedotta in giudizio doveva sempre qualificarsi in termini di interesse legittimo, perché si assumeva che il provvedimento, sebbene illegittimo, avesse sortito l’effetto di “degradare” il diritto del cittadino. Le uniche eccezioni ammesse riguardavano le ipotesi in cui erano coinvolti diritti sui quali la PA non aveva alcun potere di incidere negativamente, o perché si trattava di diritti assolutamente intangibili ad opera di un provvedimento amministrativo (si pensi al diritto alla libertà personale), o perché l’amministrazione si trovava ad operare in posizione del tutto paritaria rispetto al privato (cioè, senza essere investita di alcun potere di supremazia)→in queste ipotesi il provvedimento amministrativo, pronunciato in una situazione di carenza di potere, non sarebbe stato idoneo a degradare il diritto soggettivo, né ad escludere il ricorso al g.o. Prescindendo da tali eccezioni, però, tale impostazione implicava che la tutela giurisdizionale dei diritti violati dalla PA passasse necessariamente attraverso la preventiva rimozione dell’atto illegittimo ad opera del giudice amministrativo: solo questa rimozione, infatti, avrebbe ripristinato il diritto leso ed avrebbe aperto la strada ad ulteriori forme di tutela, ivi compresa quella mirante al risarcimento del danno34. LA PIÙ RECENTE EVOLUZIONE Negli ultimi decenni sono tuttavia intervenute diverse novità giurisprudenziali e normative, che hanno ridisegnato i confini fra le due giurisdizioni. 34In altre parole, l’orientamento tradizionale postulava una necessaria pregiudizialità del giudizio amministrativo di annullamento rispetto a quello risarcitorio, che era sempre riservato al g.o. 42 A. Ciò che inizialmente incrinò i tradizionali capisaldi interpretativi fu la storica sentenza 500/1999, con cui le Sezioni unite della Cassazione hanno ammesso la risarcibilità del danno per lesione di interessi legittimi (anche se meramente pretensivi35), in passato completamente esclusa. Tale decisione negò anche, in relazione all’ipotesi di danno provocato da un atto amministrativo illegittimo, che l'azione risarcitoria fosse subordinata al preventivo annullamento dell'atto stesso ad opera del giudice amministrativo e riconobbe al titolare del diritto leso la possibilità di optare liberamente fra la domanda di annullamento (proponibile dinanzi al g.a.) e l’azione diretta al risarcimento del danno (che all’epoca era ancora esperibile dinanzi al solo g.o.). Tale principio è stato però ridimensionato dai successivi interventi del legislatore. Nel nuovo codice del processo amministrativo (approvato con d.lgs. 104/2010), la materia del risarcimento del danno provocato da un’attività amministrativa illegittima è così disciplinata: a) le controversie relative al risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi e agli altri diritti patrimoniali consequenziali, anche se introdotte in via autonoma, sono cmq attribuite in via esclusiva alla giurisdizione del g.a.; b) la domanda di risarcimento per lesione di interessi legittimi deve essere proposta, in linea di principio, a pena di decadenza, entro 120gg “dal giorno in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo”; se però è stata proposta l’azione di annullamento (entro il termine di decadenza di 60gg), la domanda risarcitoria può essere formulata nel corso del giudizio (di 1° grado) o in via autonoma “sino a 120 gg dal passaggio in giudicato della relativa sentenza”. Come si vede, risulta confermata la tendenziale autonomia dell’azione risarcitoria rispetto a quella di annullamento, ma nel contempo essa è sottratta al giudice ordinario ed è circoscritta entro limiti temporali meno angusti rispetto a quelli cui è tradizionalmente soggetta l’impugnazione dell’atto amministrativo. N.B: tale disciplina non può trovare applicazione quando il risarcimento del danno si ricolleghi non ad un’attività amministrativa, ma ad un mero comportamento della PA, che non sia riconducibile all’esercizio di un potere amministrativo→in queste ipotesi la giurisdizione appartiene certamente al g.o. B. Il legislatore ha poi cercato di semplificare il problema del riparto di giurisdizione ricorrendo, in alcuni settori particolarmente importanti, alla tecnica della giurisdizione esclusiva, che si fonda sulla materia della causa e prescinde totalmente, invece, dalla natura della posizione soggettiva prospettata. Le materie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sono ora piuttosto numerose e sono elencate dall’art. 133 cpa. Va sottolineato che tale tecnica, se da un lato può sicuramente semplificare il riparto di giurisdizione, dall’altro non è però priva di inconvenienti, in quanto, attribuendo al g.a. una fetta 35 La distinzione fra interessi oppositivi e interessi pretensivi si fonda sul fatto che i primi hanno un contenuto essenzialmente negativo, in quanto tutelano il titolare da provvedimenti amministrativi che incidono su propri preesistenti diritti soggettivi, mentre i secondi hanno ad oggetto l’emanazione di un provvedimento favorevole, da cui potranno nascere diritti o cmq situazioni soggettive di vantaggio in capo al titolare 45 richiesto concerne un cittadino italiano o una persona residente in Italia, oppure riguarda situazioni o rapporti cui è applicabile la legge italiana. Infine, nella materia cautelare, c'è giurisdizione italiana quando il giudice nazionale ha giurisdizione per il merito, nonché quando il provvedimento dev'essere eseguito in Italia. N.B: il legislatore ha omesso di disciplinare i limiti della giurisdizione in materia esecutiva, ma l’opinione prevalente è che debba applicarsi il principio di territorialità (facendo quindi riferimento al luogo dell’esecuzione). Un’altra importante innovazione della l. 218/1995 ha riguardato la derogabilità della giurisdizione italiana→infatti, l’art. 4 consente che la giurisdizione italiana sia derogata a favore di un giudice straniero o di un arbitrato estero, alla duplice condizione che la deroga sia provata per iscritto e la causa verta su diritti disponibili. Tale deroga è inefficace se il giudice straniero o gli arbitri convenzionalmente designati declinano la giurisdizione o cmq non possono conoscere della causa. IL REGIME DEL DIFETTO DI GIURISDIZIONE Il regime del difetto di giurisdizione si desume: − dall’art. 37 cpc, quando riguardi i rapporti fra giudice ordinario, da un lato, e giudice speciale o PA dall’altro; − oppure dall’art. 11 l. 218/’95, quando siano in gioco i limiti della giurisdizione italiana. In base all’odierna formulazione dell’art. 37 cpc (come modificato nel 2022), il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione è rilevabile anche d'ufficio, senza particolari limiti temporali, in ogni stato e grado del processo (ciò significa che la relativa questione può essere sollevata per la prima volta anche nel giudizio di legittimità, cioè dinanzi alla Corte di cassazione, a meno che non vi sia di ostacolo un anteriore giudicato, derivante dalla mancata impugnazione di una sentenza o di una parte della sentenza, con cui il giudice di 1° o di 2° grado aveva espressamente o implicitamente affermato la sussistenza della propria giurisdizione). Il difetto di giurisdizione nei confronti del giudice amministrativo o di un diverso giudice speciale, invece, può essere rilevato anche d'ufficio solo nel giudizio di primo grado (invece, nei gradi successivi è rilevabile solo attraverso la formulazione di uno specifico motivo di impugnazione da parte del convenuto, dato che all'attore è preclusa la possibilità di far valere il difetto di giurisdizione del giudice che lui stesso ha adito). Nel caso invece in cui la causa esorbiti dai limiti della giurisdizione italiana, dobbiamo distinguere: ✓ secondo l'art. 11 l. 218/1995, il vizio è egualmente rilevabile d'ufficio, in qualunque stato e grado del processo, quando: • il convenuto è rimasto contumace37; • la controversia verte su azioni reali aventi ad oggetto beni immobili situati all'estero; • la giurisdizione italiana è esclusa per effetto di una norma internazionale. 37 Cioè ha omesso di costituirsi in giudizio 46 ✓ se il convenuto si costituisce, invece, è lui l'unico a poter eccepire il difetto di giurisdizione del giudice adito, a condizione che non abbia espressamente o tacitamente accettato la giurisdizione italiana. Si ha accettazione tacita, in particolare, quando il convenuto si costituisca senza eccepire il difetto di giurisdizione nel primo atto difensivo. Nulla esclude, però, che il convenuto, col suo primo atto difensivo, opponga il difetto di giurisdizione e, nel caso in cui la relativa eccezione dovesse essere disattesa, si difenda nel merito. Inoltre, nulla esclude che l’eccezione venga proposta dal convenuto, rimasto inizialmente contumace, nel corso del processo o addirittura in appello, a condizione che vi provveda nel suo primo atto difensivo. La sentenza declinatoria della giurisdizione (cioè, quella che nega la giurisdizione del giudice) implica l’esclusione di un presupposto processuale e quindi pone di regola fine al processo. L'EVENTUALE TRANSLATIO IUDICII TRA GIUDICE ORDINARIO E GIUDICE SPECIALE In base al disegno originario del codice, la giurisdizione ordinaria e le varie giurisdizioni speciali costituivano sistemi autonomi, fra loro non comunicanti. Mancava infatti una disposizione che consentisse, qualora fosse stato erroneamente adito un giudice privo di giurisdizione, di porre rimedio al vizio, facendo trasmigrare la causa dinanzi al giudice cui la giurisdizione spettava (c.d. translatio iudicii, prevista dall’art. 50 per la diversa ipotesi dell’incompetenza). L’opinione dominante ne deduceva che l’accertamento del difetto di giurisdizione implicasse la pura e semplice definizione del processo in rito (salva la possibilità di riproporre ex novo la domanda davanti al diverso giudice fornito di giurisdizione). La lacuna è stata colmata dalla l. 69/2009, il cui art. 59 ha sancito espressamente, anche se con ambiguità ed imprecisioni, il principio della possibile continuazione del processo dopo una sentenza declinatoria della giurisdizione (sempre che la giurisdizione appartenga ad una diversa giurisdizione italiana e quindi vengano in rilievo i rapporti fra g.o. e g. speciale, oppure tra diversi giudici speciali). L’art. 59 innanzitutto obbliga qualunque giudice, che in materia civile, amministrativa, contabile, tributaria o di altri giudici speciali dichiari il proprio difetto di giurisdizione, di indicare contestualmente, se esistente, il giudice nazionale che ritiene munito di giurisdizione. Se la domanda viene riproposta a tale giudice entro il termine perentorio di 3 mesi dal passaggio in giudicato della sentenza declinatoria, nel successivo processo le parti restano vincolate a tale indicazione e sono fatti salvi gli effetti sostanziali e processuali che la domanda avrebbe prodotto se il giudice di cui è stata dichiarata la giurisdizione fosse stato adito fin dall'instaurazione del primo giudizio, ferme restando le preclusioni e le decadenze intervenute. Quindi, la tempestiva riproposizione della domanda fa sì che il processo si consideri iniziato fin dal momento in cui era stato erroneamente adito il giudice privo della giurisdizione (ciò evita il rischio del verificarsi di decadenze medio tempore); pertanto, è lo stesso processo che continua davanti al nuovo giudice. Il nuovo giudice (a differenza delle parti)38 non è vincolato, di regola, dall'indicazione contenuta nella sentenza del giudice originariamente adito, a meno che tale sentenza non provenga dalle Sezioni 38 che in questa nuova fase non potrebbero neppure proporre istanza di regolamento di giurisdizione ai sensi dell'art 41, 1° 47 unite della Corte di cassazione, ma non è neanche libero di declinare puramente e semplicemente la giurisdizione: infatti, se non condivide tale indicazione, può solo sollevare d'ufficio con ordinanza la questione davanti alle Sezioni unite, fino alla prima udienza fissata per la trattazione del merito, perché queste si pronuncino in modo definitivo sulla giurisdizione. Se invece il termine perentorio per la riproposizione della domanda non viene rispettato, il processo si estingue e gli effetti della domanda restano definitivamente travolti, ferma restando la possibilità di riproporre la stessa azione in un giudizio nuovo ed autonomo. Quella vista è l’interpretazione più ragionevole dell’art. 59, la cui formulazione lascia molto a desiderare. In particolare, la circostanza che nel 2° e 5° comma si parli di “riproposizione della domanda” al giudice indicato nella sentenza declinatoria farebbe pensare ad un giudizio instaurato ex novo dinanzi a tale giudice, mentre è evidente che il legislatore intende alludere alla ripresa del medesimo processo iniziato davanti al giudice privo di giurisdizione (tant’è vero che i commi 3° e 4° parlano più correttamente di “riassunzione” e “prosecuzione del giudizio”). Un altro punto incomprensibile è quello che riguarda la sorte degli atti compiuti nella prima fase del giudizio, davanti al giudice originariamente adito→infatti, il 2° comma, nell’enunciare il principio di conservazione degli effetti della domanda, aggiunge che restano ferme le “preclusioni e le decadenze intervenute”; ciò sembrerebbe sottintendere anche la salvezza e la conservazione, nella fase successiva alla riassunzione, di tutte le attività poste in essere nel processo svoltosi dinanzi al giudice privo di giurisdizione. Tale soluzione è però contraddetta dal successivo 5° comma, in base al quale “in ogni caso di riproposizione della domanda…le prove raccolte nel processo davanti al giudice privo di giurisdizione possono essere valutate come argomenti di prova” (e non come vere e proprie prove). Questa precisazione per un verso esclude che le prove assunte nel primo processo sopravvivano e siano utilizzabili nella nuova fase come se fossero atti istruttori compiuti nel medesimo processo, e per altro verso implicitamente autorizza in tale nuova fase del giudizio la richiesta di ulteriori mezzi di prova, indipendentemente della preclusioni eventualmente intervenute dinanzi al giudice originariamente adito. Per risolvere questo contrasto occorre forzare in qualche parte la lettera della norma in esame e la forzatura meno grave parrebbe quella che comporta la salvezza delle preclusioni e delle decadenze intervenute (risultante dal 2° comma). Si deve infatti ritenere che con tale locuzione il legislatore intendesse riferirsi alle sole decadenze già eventualmente verificatesi prima dell’instaurazione del processo dinanzi al giudice privo di giurisdizione, nonché a quelle che riguardano la proposizione stessa della domanda, per precisare che l’errore sulla giurisdizione non può giustificare il superamento del termine cui l’azione era eventualmente soggetta. Questa interpretazione restrittiva trova conferma nell’art. 11 del cpa, con cui il legislatore del 2010 ha inteso “ritoccare” la disciplina dell’art. 59 limitatamente ai rapporti tra il giudice amministrativo ed un altro giudice italiano; le novità più significative previste dall’art. 11 sono rappresentate: a) dalla eliminazione di qualunque riferimento alla prosecuzione o riassunzione del primo giudizio, discorrendosi in ogni caso di “riproposizione” della domanda (entro il termine perentorio di 3 mesi dal passaggio in giudicato della pronuncia declinatoria della giurisdizione) dinanzi al giudice indicato da quello originariamente adito; b) dall’avere espressamente previsto che il giudice cui la domanda è riproposta, con riguardo alle preclusioni e decadenze intervenute, può concedere la rimessione in termini per errore scusabile, laddove ne ricorrano i presupposti. 50 In concreto, poi, le Sezioni unite vengono investite della questione di giurisdizione solo a condizione che una delle parti proponga ricorso nel termine perentorio di 30 giorni dalla notificazione del decreto di sospensione; termine la cui scadenza dovrebbe determinare (nel silenzio della legge) l'estinzione o l'improcedibilità del giudizio di merito. Sezione III LA COMPETENZA GENERALITÀ Si è soliti definire la COMPETENZA come la parte di giurisdizione concretamente attribuita a ciascun giudice. Le norme sulla competenza, più precisamente, servono a ripartire il complesso degli affari civili fra i vari uffici giudiziari. I criteri adoperati sono 3: materia, valore e territorio. 1. il 1° criterio fa riferimento al tipo di rapporto controverso (per es, diritti reali immobiliari, locazioni successioni, ecc); 2. il 2° criterio allude invece al rilievo economico della causa. Entrambi questi criteri, alle volte combinandosi fra loro, servono a stabilire, in senso verticale ed in modo univoco, quale, fra i giudici ordinari40, possa conoscere di una determinata causa41. 3. il criterio del territorio opera invece in senso orizzontale, poiché mira a ripartire il contenzioso tra i vari uffici giudiziari (dello stesso tipo) diffusi sul territorio nazionale, e spesso può condurre all'individuazione di una pluralità di fori concorrenti42. Di regola i criteri di competenza operano a prescindere dalla volontà delle parti, le quali non possono apportarvi delle deroghe, se non nei casi stabiliti dalla legge (art. 6). Fa eccezione, però, la competenza per territorio, che può essere, di solito, convenzionalmente derogata (artt. 28 e 29), purchè l'accordo risulti da atto scritto e si riferisca ad uno o più affari determinati. La deroga però attribuisce al giudice designato una competenza meramente concorrente, a meno che l'accordo non stabilisca espressamente la sua competenza esclusiva. L'art. 28, inoltre, prevede che la competenza per territorio sia inderogabile in una serie di ipotesi: nelle cause in cui, a norma dell'art. 70, è obbligatorio l'intervento del pubblico ministero; nei processi di esecuzione forzata e di opposizione alla stessa; nei procedimenti cautelari e possessori; nei procedimenti in camera di consiglio; in tutti gli altri casi in cui l'inderogabilità sia disposta espressamente dalla legge. 40 Giudice di pace, tribunale, tribunale per i minorenni e corte d’appello 41 Si tratta di una questione che si è notevolmente semplificata dopo che, con la soppressione delle preture, il giudice di pace ed il tribunale sono rimasti i soli giudici provvisti di una competenza di ordine generale in 1° grado 42 In questi casi, è l’attore a poter scegliere poi fra le diverse opzioni 51 In relazione a tali ipotesi si parla anche di competenza funzionale, che però è un concetto più ampio, dato che abbraccia anche i non pochi casi in cui la competenza viene stabilita con riguardo ad elementi che nulla hanno a che fare con la materia, il valore ed il territorio, ma riguardano un determinato rapporto tra il giudice e la causa→si consideri, ad es, la competenza del giudice dell’impugnazione, che si ricollega alla provenienza del provvedimento impugnato; oppure quella del giudice dell’opposizione a decreto ingiuntivo, che, a norma dell’art. 645, si propone davanti all’ufficio giudiziario al quale appartiene il giudice che ha emesso il decreto. A questo proposito va precisato che, quando si parla di competenza, si fa riferimento, di regola, ai rapporti tra diversi uffici giudiziari, dovendosi intendere a questo riguardo il termine “giudice”. I rapporti fra le varie sezioni ed i vari magistrati, all’interno di ciascun ufficio giudiziario, sono invece estranei al regime della competenza e sono governati da altre disposizioni43. LA COMPETENZA PER MATERIA E PER VALORE Prescindendo dalla specifica competenza (per materia) riconosciuta al Tribunale per i minorenni (art. 38 disp. att), nonché da alcune eccezionali ipotesi in cui la competenza è attribuita in unico grado alla corte d’appello, la competenza civile viene ripartita, in senso verticale, utilizzando, spesso in combinazione tra loro, i criteri della materia e del valore. A) La competenza del GIUDICE DI PACE si desume dall'art. 7, che gli attribuisce: − tutte le cause relative a beni mobili di valore non superiore a 10.000 euro44, sempre che la legge non preveda la competenza di un altro giudice; − le cause di risarcimento del danno prodotto dalla circolazione di veicoli e natanti, purché il valore della controversia non superi i 25.000 euro45. Inoltre, sempre l’art. 7 prevede una competenza senza limiti di valore (quindi per materia) per: • le cause relative ad apposizione di termini ed osservanza delle distanze stabilite dalla legge, dai regolamenti o dagli usi riguardo al piantamento di alberi e delle siepi; • le cause relative alla misura e alle modalità d'uso dei servizi di condominio di case; • le cause relative a rapporti tra proprietari o detentori di immobili adibiti a civile abitazione in materia di immissioni di fumo o di calore, esalazioni, rumori, scuotimenti e simili propagazioni che superino la normale tollerabilità; • le cause relative agli interessi o accessori da ritardato pagamento di prestazioni previdenziali o assistenziali. Altre specifiche competenze per materia del giudice di pace sono poi previste dall’art. 6 del d.lgs. 150/2011, concernente l’opposizione all’ordinanza-ingiunzione di pagamento di sanzioni amministrative, fatta eccezione per le ipotesi riservate alla cognizione del tribunale. 43 Alle volte rigidamente, più spesso in modo da lasciare una considerevole discrezionalità al capo dell’ufficio o al presidente della sezione 44 Limite elevato dalla riforma del 2022 45 Limite elevato dalla riforma del 2022 52 N.B: la riforma della magistratura onoraria contenuta nel d.lgs 116/2017 aveva previsto un enorme ampliamento della competenza del giudice di pace; successivamente, però, l'entrata in vigore di queste disposizioni è stata differita al 31 ottobre 2025 ed appare molto probabile, prima di tale data, un nuovo intervento del legislatore. B) La competenza del TRIBUNALE è individuata dall'art. 9 innanzitutto in via negativa, cioè con riferimento a tutte le cause per le quali non sia prevista la competenza di altro giudice. In positivo, poi, il tribunale è esclusivamente competente: ✓ per tutte le cause di valore indeterminabile; ✓ per le cause in materia di imposte e tasse (tale competenza, però, è stata ormai praticamente azzerata da quella attribuita alle commissioni tributarie); ✓ per le cause relative allo stato e alla capacità delle persone (ad es, la separazione personale dei coniugi, il divorzio, l’interdizione, ecc) e ai diritti onorifici; ✓ per la querela di falso; ✓ per l'esecuzione forzata. LE REGOLE PER LA DETERMINAZIONE DEL VALORE DELLA CAUSA Il principio fondamentale, nella determinazione del valore della causa ai fini della competenza, è che deve guardarsi essenzialmente alla domanda, indipendentemente dall'esito cui essa conduce (art. 10) [quindi, se l’attore ha chiesto la condanna del convenuto a 10000€, il valore resta così fissato anche se il giudice poi accoglie la domanda per 500€]. Dall'art.10 si desume, inoltre, che il valore della causa: • in caso di pluralità di domande proposte nello stesso processo contro la stessa parte, è dato dalla somma delle domande medesime46; • comprende, accanto al capitale, gli interessi scaduti, le spese e i danni maturati anteriormente alla proposizione della domanda. Una serie di regole, contenute negli artt. 11 e ss, concorrono poi a determinare il valore di certi tipi di cause: − CAUSE RELATIVE A SOMME DI DENARO O A BENI MOBILI (art. 14). Nel 1° caso, il valore si determina in base alla somma indicata dall'attore e, se tale indicazione manchi, la causa si presume di competenza del giudice adito. Nel 2° caso si fa riferimento al valore dichiarato dall'attore e, quando manchi questa dichiarazione, la causa si presume di competenza del giudice adito. Il 2° comma dell’art. 14 consente al convenuto di contestare, non oltre la sua prima difesa, il valore dichiarato o presunto→in questo caso il giudice deve decidere la questione, ai soli fini della competenza, in base a ciò che risulta dagli atti e senza apposita istruzione47; 46 Tale disposizione si riferisce implicitamente al solo cumulo oggettivo, cioè alle ipotesi in cui le domande provengano dalla stessa parte 47 Se il convenuto omette di contestare il valore dichiarato o presunto, questo rimane fissato, anche agli effetti del merito, nei limiti della competenza del giudice adito 55 IL REGIME DELL'INCOMPETENZA La disciplina relativa all'incompetenza del giudice, profondamente modificata prima nel ’90 e poi nel 2009, è contenuta nell'art. 38, che distingue fra il rilievo dell’incompetenza ad opera del convenuto49 e quello d’ufficio. 1. Per quanto riguarda il convenuto, l’eccezione di incompetenza deve essere sollevata, a pena di decadenza, qualunque sia il criterio che si assume violato, nella comparsa di risposta tempestivamente depositata, cioè nel suo primo atto difensivo e rispettando il termine di costituzione in giudizio. Inoltre, qualora si tratti di incompetenza per territorio, il convenuto non può limitarsi ad eccepire l’incompetenza, ma deve sempre indicare l'ufficio giudiziario che ritiene competente (altrimenti l'eccezione si ha come non formulata). Nel caso di competenza per territorio derogabile, l'individuazione del diverso giudice competente (da parte del convenuto, nel cui interesse esclusivo sono posti tali criteri) mira a consentire che le altre parti costituite vi aderiscano, rendendo superflua una decisione sulla questione: quando ciò avviene, il giudice con ordinanza si limiterà a disporre la cancellazione della causa dal ruolo e, se questa è riassunta entro i successivi tre mesi, la competenza dell'ufficio giudiziario così individuato non potrà più essere messa in discussione. 2. Per quel che riguarda, invece, il rilievo d’ufficio dell’incompetenza50, esso è consentito non oltre l'udienza di cui all’art. 183 (cioè entro la prima udienza di trattazione); dopo questo momento il vizio resta praticamente sanato ed irrilevante. N.B: questo sistema non esclude che il convenuto, pur non avendo tempestivamente eccepito l’incompetenza (per materia, valore o territorio inderogabile) nella propria comparsa di risposta, sollevi materialmente la questione dell’incompetenza alla prima udienza, sollecitando il giudice a rilevarla d’ufficio; tuttavia, in questo caso, se il giudice non raccoglie tale sollecitazione o ritiene di essere competente, il convenuto non avrà alcuna possibilità di far valere l’incompetenza attraverso le impugnazioni. Al di là del caso in cui il convenuto deduca la violazione di un criterio di competenza per territorio derogabile e le altre parti concordino sulla competenza del diverso ufficio giudiziario, la questione di competenza deve essere sempre decisa (normalmente con ordinanza, a meno che non sia decisa con il merito della causa) con lo stesso iter previsto per la risoluzione di tutte le questioni che possono implicare la definizione del processo. Peraltro, poiché la soluzione della questione di competenza può dipendere da elementi che influiscono anche sulla fondatezza della domanda, il legislatore precisa che la competenza va valutata, in linea di principio, in base a quello che risulta dagli atti o tutt'al più, qualora sia necessario, assunte sommarie informazioni (art. 38, 4°), senza un'autonoma istruttoria. PRONUNCIA DECLINATORIA DELLA COMPETENZA E PROSECUZIONE DEL PROCESSO La decisione sulla competenza può essere dichiarativa della stessa, quando affermi la competenza del giudice adito51, oppure declinatoria, laddove dichiari l'incompetenza di tale giudice, definendo il processo davanti a lui. 49 L’unica parte legittimata a sollevare la relativa eccezione 50 Che però non deve derivare dalla violazione di criteri territoriali derogabili, poiché tale violazione è deducibile dal solo convenuto 56 In entrambi i casi il provvedimento sarà impugnabile: attraverso le impugnazioni ordinarie, se abbia contestualmente deciso il merito della causa, o – se ha deciso esclusivamente sulla competenza- solo con il REGOLAMENTO DI COMPETENZA, che investe della questione direttamente la Corte di cassazione. Il codice del ’40 ha però opportunamente escluso che il giudizio abbia necessariamente fine con la pronuncia di incompetenza e che quindi l’attore sia costretto, in tale ipotesi, a riproporre ex novo la domanda dinanzi al giudice reputato competente52. Tale inconveniente viene evitato attraverso un duplice accorgimento: a) consentendo la continuazione del processo davanti al giudice ad quem (quello cioè ritenuto competente dal giudice preventivamente adito); b) impedendo che tale giudice possa a sua volta dichiararsi incompetente e spogliarsi della causa. Per quanto riguarda il 1° punto, l’art. 50 prevede che, se la causa, dopo la pronuncia di incompetenza, viene tempestivamente riassunta davanti al giudice dichiarato competente, entro il termine fissato nell’ordinanza dal giudice a quo53, il processo continua davanti al nuovo giudice. Questo consente di conservare gli effetti prodotti dalla originaria domanda giudiziale e permette il recupero e l'utilizzazione di alcune attività (in particolare, quelle d’istruzione probatoria) già compiute davanti al giudice a quo. Quanto al 2° punto, va considerato che la pronuncia di incompetenza, quando non sia impugnata dall'attore tramite istanza di regolamento di competenza, rende incontestabile tanto l'incompetenza del giudice dal quale proviene, quanto la competenza del giudice in essa indicato, a condizione che la causa sia tempestivamente riassunta nei termini di cui all’art. 50 e che non si tratti di incompetenza per materia o per territorio inderogabile. Come vediamo, il legislatore ha qui derogato ad un antico principio, che riservava a ciascun giudice la verifica della propria competenza, prevedendo invece che il secondo giudice sia vincolato all'indicazione resa dal giudice preventivamente adito, che l'abbia ritenuto competente sulla causa. Il vincolo, però, non è assoluto, poiché impedisce al giudice ad quem di tornare a valutare solo la propria incompetenza per valore o per territorio derogabile. Invece, quando egli ritenga d'essere incompetente per materia o per territorio inderogabile, l'art. 45 ugualmente esclude che possa a sua volta declinare la competenza, spogliandosi del processo, ma gli consente di investire della questione la Corte di cassazione, chiedendole d'ufficio il regolamento di competenza. Questo strumento (che – a differenza del regolamento proponibile dalle parti- non è un’impugnazione, poiché è attribuito allo stesso giudice) assicura che il conflitto (negativo) di competenza che si è venuto a creare fra i due uffici giudiziari trovi soluzione attraverso l’ordinanza di regolamento della corte, che deciderà definitivamente sulla competenza. N.B: i principi fin qui descritti valgono solo se la causa viene tempestivamente riassunta; in caso contrario, il processo si estinguerebbe e la pronuncia di incompetenza perderebbe ogni efficacia, con la conseguenza che, qualora la domanda fosse successivamente riproposta, il giudice nuovamente adito potrebbe valutare la propria competenza nei limiti indicati dall’art. 38. 51 In questo caso, laddove non decida anche il merito della causa, sarà una pronuncia non definitiva del giudizio 52 Ciò lo esporrebbe al rischio che la questione relativa alla competenza si trascini all’infinito 53 Qualora tale termine manchi, la riassunzione deve avvenire entro 3 mesi dalla comunicazione dell’ordinanza di regolamento (resa dalla Cassazione) o dall’ordinanza che abbia dichiarato l’incompetenza 57 Sezione IV IL PRINCIPIO DELLA PERPETUATIO IURISDICTIONIS IL MOMENTO DETERMINANTE AI FINI DELLA GIURISDIZIONE E DELLA COMPETENZA L'attribuzione della giurisdizione e della competenza dipende dai criteri fissati dal legislatore, i quali, a loro volta, prendono spesso in considerazione elementi del tutto estrinseci alla domanda, suscettibili di mutare nel tempo54. Si tratta quindi di stabilire quali conseguenze possa avere sul processo la variazione di tali elementi di fatto o la modificazione delle disposizioni di legge che regolano la giurisdizione o la competenza, quando il legislatore non abbia provveduto a dettare un’opportuna disciplina transitoria. Il problema è risolto dall'art. 5 c.p.c., che oggi, dopo una significativa integrazione ad opera della riforma del ’90, stabilisce che la giurisdizione e la competenza si determinano con riguardo alla legge vigente ed allo stato di fatto esistente al momento della proposizione della domanda, rimanendo invece irrilevanti rispetto ad esse i successivi mutamenti della legge o dello stato medesimo (c.d. principio della perpetuatio iurisdictionis). Ciò risponde, per un verso, all’esigenza di evitare che la durata del processo si risolva in danno dell’attore che ha ragione, e per altro verso al principio costituzionale secondo cui “nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge” (art. 25, 1° Cost). Le sole ipotesi di modificazioni normative cui si ritiene inapplicabile l'art. 5 sono quelle che si traducano nell'immediata soppressione dell'ufficio giudiziario presso il quale pende la causa, o che derivino dalla dichiarazione d'incostituzionalità di una delle norme distributive della giurisdizione o della competenza. Esulano, inoltre, dall’ambito applicativo dell’art. 5 le variazioni che riguardino non elementi estrinseci della domanda, ma la domanda stessa: si ritiene infatti che il mutamento della domanda originaria, al pari della proposizione di domande nuove in corso di causa, possa comportare il sopravvenire del difetto di giurisdizione o dell’incompetenza, spogliando della causa il giudice adito. Infine va precisato che, anche se la norma in esame non fa distinzioni, prevale l’opinione che essa operi solo per i mutamenti che implicherebbero l’incompetenza o il difetto di giurisdizione del giudice dinanzi al quale la causa era stata correttamente incardinata e non anche nel caso inverso55 →questa interpretazione restrittiva deriva da ragioni di economia processuale, poiché sarebbe incongruo imporre al giudice di declinare la giurisdizione o la competenza rispetto ad una causa che poi dovrebbe essere riproposta proprio dinanzi a lui. 54 Si pensi, ad es, alla residenza ed al domicilio del convenuto, che rilevano sia per la competenza (art. 18 cpc), sia per la giurisdizione (art. 31 l. 218/’95) 55 Cioè quando il mutamento dello stato di diritto o di fatto comporti l’attribuzione della giurisdizione o della competenza al giudice adito, che ne era privo al momento della proposizione della domanda 60 La decisione è presa con ordinanza non (autonomamente) impugnabile, che potrà dichiarare inammissibile o infondata la ricusazione (nel qual caso dovrà provvedere sulle spese e potrà condannare la parte ricusante ad una pena pecuniaria non superiore a 250 euro), oppure accogliere il ricorso, designando il magistrato che dovrà sostituire quello ricusato. In entrambi i casi l'ordinanza deve essere comunicata dal cancelliere alle parti, affinché queste possano provvedere alla riassunzione della causa entro il termine perentorio di sei mesi. LA RESPONSABILITÀ CIVILE DEI MAGISTRATI Nel testo originario del codice la materia della responsabilità civile del giudice era disciplinata negli artt. 55 e 56, che prendevano in considerazione solo le ipotesi di dolo, frode, concussione e diniego di giustizia (nella quale il giudice avesse omesso di provvedere nel termine fissato dalla legge, nonostante un’espressa diffida della parte). L’art. 56, inoltre, con una disposizione di dubbia costituzionalità, subordinava la possibilità dell’azione risarcitoria ad un’autorizzazione discrezionale del Ministro della giustizia (pertanto, il danneggiato non aveva alcuna garanzia di un effettivo ristoro). Questa normativa fu però travolta da un referendum del 1987, che costrinse il legislatore a correre ai ripari per evitare che questa delicata materia venisse assoggettata alla disciplina ordinaria (risultante dagli artt. 2043 ss). Il risultato è stato la l. 117/1988, la quale, pur estendendo la responsabilità ad ipotesi di colpa grave, per un verso le ha tipizzate in modo molto restrittivo, e per altro verso ha escluso la possibilità che l'azione risarcitoria sia proposta direttamente nei confronti del magistrato, cui fa da scudo lo Stato. Il legislatore è nuovamente intervenuto sulla materia con la l. 18/2015, che però non ha alterato in modo sostanziale l’impatto originario della riforma del 1988. Le fattispecie che possono dare luogo a risarcimento dei danni (patrimoniali e non patrimoniali) sono: − un comportamento, un atto o un provvedimento posto in essere dal magistrato (anche onorario) con dolo; − un comportamento, un atto o un provvedimento posto in essere dal magistrato con colpa grave. La colpa grave, peraltro, può derivare solo da: a) “la violazione manifesta della legge nonché del diritto dell’Unione europea”; b) “il travisamento del fatto o della prove”; c) “l’affermazione di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento”; d) “la negazione di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento”; − il c.d. diniego di giustizia, che ricorre, in linea di principio, quando il magistrato rifiuti, ometta o ritardi il compimento di atti del suo ufficio, a condizione che sia trascorso il termine previsto dalla legge e siano altresì trascorsi inutilmente, senza giustificato motivo, trenta giorni dal momento in cui la parte ha presentato istanza per ottenere il provvedimento. N.B: Non può mai essere fonte di responsabilità l'attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove. Quando sussista un'ipotesi di responsabilità, l'azione risarcitoria va proposta non direttamente nei confronti del magistrato, ma nei confronti dello Stato, che ne risponde civilmente (più precisamente, nei confronti del Presidente del Consiglio dei Ministri); a meno che il danno non derivi da un fatto 61 costituente reato (in questo caso lo Stato sarebbe corresponsabile civile, ma sarebbe anche possibile l’azione diretta nei confronti del magistrato, secondo le norme ordinarie). L'azione verso lo Stato non è consentita prima che siano stati esperiti i mezzi di impugnazione e gli altri rimedi predisposti dall'ordinamento per eliminare l'atto o il provvedimento da cui deriva il danno. Essa è soggetta ad un termine di decadenza di 3 anni, decorrenti dal momento in cui è divenuta esperibile. Il procedimento è disciplinato dalle norme ordinarie ed è attribuito alla competenza del tribunale del capoluogo del distretto della corte d’appello determinato a norma dell’art. 11 c.p.p. e dell’art. 1 delle relative disp. att. Al giudizio promosso nei confronti dello Stato rimane estraneo, di regola, il magistrato della cui responsabilità si discute, che non può mai esservi chiamato, ma può solo spiegarvi intervento volontario. Quando non intervenga, l'eventuale sentenza di condanna dello Stato non fa stato, contro il magistrato, nel successivo giudizio di rivalsa, né (persino in caso di suo intervento) nell’eventuale procedimento disciplinare. Se la responsabilità del magistrato viene accertata e lo Stato, conseguentemente, viene condannato, o se il risarcimento viene effettuato in base ad un accordo stragiudiziale, il Presidente del Consiglio, laddove il fatto sia ascrivibile a dolo o negligenza inescusabile, è tenuto ad esercitare l'azione di rivalsa contro il magistrato entro 2 anni. La rivalsa è però limitata nel massimo, perché, salvo che non si tratti di responsabilità da fatto doloso, non può superare la metà dello stipendio annuale netto percepito dal magistrato al momento della proposizione dell'azione risarcitoria. Ricordiamo infine che, per i fatti che hanno dato luogo alla domanda risarcitoria, il procuratore generale presso la Corte di cassazione esercita nei confronti del magistrato responsabile l’azione disciplinare. Tale azione procede autonomamente, sulla base dei principi propri, essendo tuttavia previsto che i relativi atti possano essere acquisiti, su istanza di parte o d’ufficio, nel giudizio di rivalsa. 62 CAPITOLO 6 IL PUBBLICO MINISTERO I COMPITI DEL PUBBLICO MINISTERO NEL PROCESSO CIVILE A differenza che nel processo penale, in cui è titolare esclusivo del potere d’azione, i compiti del pubblico ministero nel processo civile sono piuttosto circoscritti. Gli artt. 69 e 70 disciplinano rispettivamente le ipotesi in cui il PM esercita l’azione civile, promuovendo egli stesso il giudizio, e quelle in cui deve o può, a seconda dei casi, intervenire in un processo da altri instaurato. Più precisamente, l'art. 69 stabilisce che “Il pubblico ministero esercita l'azione civile nei casi stabiliti dalla legge”. Si tratta di fattispecie tipiche e tassative, poiché derogano al principio desumibile dall'art. 81. Tale deduzione trova conferma nell’art. 2907 c.c., secondo cui l'autorità giudiziaria provvede, di regola, “su domanda di parte e, quando la legge lo dispone, anche su istanza del pubblico ministero o d'ufficio”. A titolo meramente esemplificativo ricordiamo: l’opposizione al matrimonio e la impugnazione dello stesso (nei casi previsti dall’art. 102 ult. co cc e dagli artt. 117 e 119 cc); l’istanza per la dichiarazione di morte presunta ovvero per l’interdizione o l’inabilitazione o l’amministrazione di sostegno; l’azione per la dichiarazione di decadenza o di nullità di un titolo di proprietà industriale (art. 122 d.lgs. 30/2005); la domanda di apertura della liquidazione giudiziale prevista in caso di insolvenza di un imprenditore commerciale (artt. 37 e 38 d.lgs. 14/2019). Il dato comune a queste ipotesi è che si tratta di azioni concernenti diritti o status sottratti alla disponibilità delle parti, la cui tutela risponde ad interessi di natura pubblicistica. Il legislatore quindi, per contemperare tali interessi col principio della domanda, estende il novero dei soggetti legittimati ad agire, includendovi il pm (per il quale l’esercizio dell’azione costituisce non un mero potere, ma un potere-dovere). I casi di intervento, invece, sono correlati all'esigenza di controllare l'operato delle parti, per evitare che queste, sempre in giudizi concernenti diritti indisponibili, possano difendersi male o colludere tra loro, per far apparire una situazione di fatto diversa da quella reale ed ottenere, in tal modo, un provvedimento in frode alla legge. L'intervento del P.M. è OBBLIGATORIO, a norma dell’art. 70, 1°: • nelle cause che egli stesso avrebbe potuto proporre, quando sia stato preceduto nell'azione da un altro legittimato57; • nelle cause matrimoniali in genere, incluse quelle di separazione personale dei coniugi (quindi, anche in quelle di impugnazione del matrimonio, anche al di fuori dai casi in cui lo stesso pm può promuoverle, nonché in quelle di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio); • nelle cause riguardanti lo stato e la capacità delle persone (ad es, nei giudizi per la dichiarazione giudiziale della maternità o paternità naturale, oppure di disconoscimento della paternità); • negli altri casi previsti dalla legge: per es, nel procedimento per querela di falso. 57 Fa eccezione l’art. 122, 1° d.lgs. 30/2005, il quale esclude che l’intervento del pm sia obbligatorio nei giudizi concernenti la decadenza o la nullità di un titolo di proprietà industriale 65 CAPITOLO 7 NESSI TRA AZIONI E PROCESSI Sezione I LA LITISPENDENZA E LA CONTINENZA LA LITISPENDENZA INTERNA La circostanza che due o più cause abbiano tra loro in comune uno o più elementi (soggetti, petitum, causa petendi) può avere varie conseguenze. Prima di affrontare il tema della connessione di cause è opportuno esaminare due diverse situazioni, nelle quali le relazioni tra le cause ed i rispettivi processi sono particolarmente intense e che lo stesso legislatore ha disciplinato separatamente dalla connessione, lasciando dunque intendere che rimangano ad essa estranee: la LITISPENDENZA e la CONTINENZA. Il termine LITISPENDENZA può avere due significati: − innanzitutto, può indicare la pendenza della causa, il cui momento iniziale, in base all'art. 39, ult. co, va individuato, per quel che concerne il processo ordinario e, in generale, tutti i processi che iniziano con atto di citazione, nel giorno in cui quest'ultimo viene notificato (al primo destinatario, qualora i convenuti siano più d'uno). Per i processi che iniziano con ricorso da depositare, invece, si ha riguardo alla data in cui l'atto introduttivo viene depositato nella cancelleria del giudice adito. In ogni caso la litispendenza, intesa in tal senso, cessa col passare in giudicato della sentenza che definisce il processo, qualunque ne sia il contenuto; − in secondo luogo, può indicare l'anomala situazione in cui una stessa causa (o, meglio, due cause identiche, dal punto di vista soggettivo e oggettivo61) pende contemporaneamente davanti a giudici diversi (art. 39, 1°), intesi come diversi uffici giudiziari. Tale situazione è considerata inaccettabile dal legislatore, sia perché implica uno spreco di attività processuale, sia perché può dar luogo a due giudicati tra loro contrastanti: la soluzione consiste nell'imporre al giudice adito successivamente62, in qualunque stato e grado del processo, di troncare il processo dinanzi a sé, dichiarando con ordinanza la litispendenza e disponendo nel contempo la cancellazione della causa dal ruolo. È opinione prevalente che a tale provvedimento il secondo giudice debba pervenire in base al mero rilievo dell'attuale pendenza dell'altro processo, senza poter sindacare se il giudice preventivamente adito sia o meno competente: in ogni caso, infatti, la questione della competenza può essere sollevata e risolta, eventualmente, solo nell'ambito del primo processo, e, qualora il primo giudice dovesse poi declinare la propria competenza in favore di quello che ha già 61 Salva la possibilità che la domanda sia sostanzialmente la stessa, anche se a parti contrapposte 62 Da individuarsi avendo riguardo alle date di notifica dei rispettivi atti di citazione, oppure a quelle del deposito dei ricorsi introduttivi 66 dichiarato la litispendenza, la causa potrebbe essere riassunta davanti a quest’ultimo ai sensi dell’art. 50. Diverso e non chiaro è il regime dell'ipotesi in cui le due cause identiche pendano contemporaneamente davanti allo stesso ufficio giudiziario (anche se assegnate a sezioni o magistrati diversi). In tale ipotesi l'art. 273 prevede che la duplicazione dei procedimenti si risolva con la loro riunione, che si realizza in modo semplice qualora essi pendano dinanzi allo stesso magistrato, o altrimenti facendo interviene il presidente del tribunale, il quale, sentite le parti, provvede con decreto, determinando la sezione e/o il giudice davanti al quale deve proseguire l'ormai unico procedimento. LA CONTINENZA DI CAUSE A differenza della litispendenza, la nozione di CONTINENZA DI CAUSE è solo presupposta, ma non definita nel 2° comma dell’art. 39; pertanto, non è chiaro a quale situazione il legislatore si riferisca ed in cosa essa differisca dalla litispendenza e dalla connessione, contemplata dal successivo art. 40. È cmq certo che in questo caso si tratta di cause in qualche misura diverse, anche se legate da nessi particolarmente intensi. Pertanto, l’obiettivo del legislatore non è quello di eliminare una di esse, ma di assicurarne la trattazione congiunta ed unitaria (il c.d. simultaneus processus), soprattutto al fine di evitare possibili contrasti di giudicato. Anche in questa ipotesi si applica in prima battuta il criterio della prevenzione, dato che è previsto che a spogliarsi della causa debba essere preferibilmente il giudice successivamente adito, che deve dichiarare con ordinanza la continenza e allo stesso tempo fissare alle parti un termine perentorio per la riassunzione della causa davanti all'altro giudice. Se però il giudice adito per primo non è competente anche per la causa promossa davanti al secondo giudice, è lui a dover dichiarare la continenza, spogliandosi della causa e rimettendola all'altro giudice, adito per secondo. Anche la disciplina dell'art. 39, 2° presuppone che le cause in rapporto di continenza pendano davanti ad uffici giudiziari diversi (se così non fosse, la disciplina da applicare sarebbe quella della riunione obbligatoria ex art. 273). Rimane però da stabilire a quali fattispecie sia applicabile il regime previsto dall’art. 39, 2°: il significato comune del termine “continenza” farebbe pensare ad una relazione in cui una causa abbia un oggetto più ampio rispetto ad un’altra, che possa considerarsi “contenuta” nella prima. L'opinione più diffusa in dottrina intende infatti la continenza come una sorta di litispendenza parziale, caratterizzata dal fatto che le cause, identiche per soggetti e per causa petendi, differiscono in termini meramente quantitativi rispetto al petitum, rimanendo peraltro sostanzialmente unico il diritto dedotto in giudizio (come esempi classici possono indicarsi il caso in cui sia stato chiesto in un processo il pagamento di una rata e in un altro il pagamento dell’intero debito; oppure quello in cui una causa verta sul mero accertamento del diritto e nell’altra venga chiesta, a parti invertite, anche la condanna). La giurisprudenza, invece, utilizza un concetto di continenza più esteso, riconducendovi anche le ipotesi in cui domande contrapposte delle parti, dal petitum completamente diverso, traggano origine dal medesimo rapporto fondamentale e siano tra loro incompatibili o cmq tra loro 67 interdipendenti (ad es, domanda di adempimento del contratto e domanda di risoluzione o annullamento dello stesso). Poiché il legislatore non sembra aver avuto presente una nozione puntuale di continenza e poiché l’applicazione del regime della continenza offre più ampie garanzie di realizzazione del simultaneus processus, questa interpretazione estensiva63 non sembra irragionevole. Va però sottolineato che, anche se l’art. 39 non pone una limitazione temporale alla dichiarazione di continenza, questa non avrebbe senso quando l’altro processo fosse ormai giunto in prossimità della fase decisoria (in quel momento la fusione delle due cause potrebbe essere praticamente inattuabile). LA LITISPENDENZA INTERNAZIONALE La contemporanea pendenza di due o più cause identiche davanti ad uffici giudiziari diversi può coinvolgere, oltre al giudice italiano, giudici di un altro Stato (c.d. LITISPENDENZA INTERNAZIONALE). La relativa disciplina in questo caso si desume dall’art. 7 l. 218/1995, secondo la quale “quando, nel corso del giudizio, sia eccepita la previa pendenza tra le stesse parti di domanda avente il medesimo oggetto e il medesimo titolo davanti a un giudice straniero, il giudice italiano, se ritiene che il provvedimento straniero possa produrre effetto per l'ordinamento italiano, sospende il giudizio”. Fermo restando il criterio della prevenzione64, le differenze rispetto al regime della litispendenza interna sono considerevoli. Innanzitutto, il riferimento ad un’eccezione di litispendenza lascia intendere che solo le parti possono sollevare la questione (anche se si ritiene che non vi siano limitazioni temporali, quindi “in ogni stato e grado del processo”), mentre il giudice non può rilevarla d’ufficio. In 2° luogo, prima di poter dichiarare la litispendenza, il giudice deve verificare (nei limiti in cui ciò è possibile ex ante, cioè prima che il processo pendente all’estero giunga al termine) che sussistano le condizioni richieste per il riconoscimento del futuro provvedimento straniero. In questa fase, ciò che è doveroso accertare è soprattutto che il giudice straniero possa conoscere la causa secondo i principi sulla competenza giurisdizionale propri dell'ordinamento italiano (art. 64, lett. a) l. 218/’95) e, quindi, che sussista in suo favore uno dei criteri di collegamento giurisdizionale previsti dalla legge italiana. Infine, la dichiarazione della litispendenza internazionale non chiude definitivamente il processo, ma lo sospende→infatti, il giudizio in Italia può riprendere, tramite riassunzione ad istanza della parte interessata, se il giudice straniero declina la propria giurisdizione o se il provvedimento straniero non sia riconosciuto nell'ordinamento italiano. Quando la giurisdizione straniera appartiene ad uno Stato membro dell'Unione Europea, l’art. 29 del reg. 1215/2012 stabilisce che, qualora davanti alle autorità giurisdizionali di Stati membri differenti e tra le stesse parti siano state proposte domande aventi il medesimo oggetto e il medesimo titolo, il giudice successivamente adito deve sospendere d'ufficio il procedimento finché sia accertata la competenza dell’autorità giurisdizionale adita in precedenza; e poi, una volta che sia intervenuto tale 63 Riguardante fattispecie che altrimenti rientrerebbero nell’ambito della connessione 64 Che in questa ipotesi va applicato tenendo presente che la pendenza della causa davanti al giudice straniero si determina secondo la legge dello Stato in cui il processo si svolge (art. 7, 2°) 70 Il legislatore la prende in considerazione solo in relazione all'ipotesi in cui le più cause riguardano parti diverse; e ne fa derivare la possibilità che le cause in tal modo connesse vengano cumulativamente proposte in un unico processo (si parla in tal caso di cumulo soggettivo, proprio perché le cause coinvolgono parti diverse). In questo caso, però, la realizzazione del simultaneus processus viene favorita anche attraverso una deroga ai criteri ordinari della (sola) competenza territoriale: infatti, l'art. 33 stabilisce che “le cause contro più persone che a norma degli artt. 18 e 19 dovrebbero essere proposte davanti a giudici diversi, se sono connesse per l'oggetto o per il titolo possono essere proposte davanti al giudice del luogo di residenza o domicilio di una di esse”. La norma fa dunque riferimento ai soli fori generali e lascia intendere che la deroga è ammessa esclusivamente in danno del foro generale di un convenuto ed in favore del foro generale di un altro convenuto. Passando ad esaminare nel dettaglio tali fattispecie di connessione, non c’è dubbio che per quanto riguarda l’IDENTITÀ DELL’OGGETTO, deve farsi riferimento al petitum mediato, cioè al bene della vita di cui si chiede l'attribuzione; per questo motivo si deve ritenere che l'identità non vada intesa in senso formale ed assoluto, ma come equivalenza dell'obiettivo cui le diverse domande tendono. Tale equivalenza caratterizza le ipotesi che si suole definire come concorso di azioni, nelle quali più domande, pur basandosi su fatti costitutivi (in parte) diversi, mirano ad un risultato sostanzialmente coincidente, tant’è che il soddisfacimento del diritto dedotto con l’una estinguerebbe inevitabilmente anche il diritto dedotto con l’altra (si pensi, ad es, ad una vendita a catena, in cui l’acquirente finale, che abbia subito un danno a causa di un vizio della cosa, faccia valere nello stesso giudizio la responsabilità contrattuale del suo immediato dante causa e quella extracontrattuale del produttore, sostenendo che si tratti di vizi che rendevano la cosa pericolosa). La proposizione delle più domande in un unico processo (contro la stessa parte o contro parti diverse) dà luogo, di regola, ad un cumulo alternativo, caratterizzato dal fatto che l'accoglimento di una domanda è palesemente incompatibile con l'accoglimento dell'altra, in quanto è da considerarsi identico il rispettivo oggetto. Non è altrettanto chiaro, invece, cosa debba intendersi per IDENTITÀ DEL TITOLO. L'impressione è che in questo caso il legislatore non abbia inteso riferirsi genericamente alle “ragioni della domanda” (che in cause diverse non possono non essere differenti), ma all'identità del rapporto giuridico sostanziale rispettivamente dedotto in giudizio, anche quando per taluna delle cause tale rapporto corrisponda ad una parte soltanto della causa petendi. Così, se il locatore chiede per un verso il pagamento di canoni arretrati e per altro verso il risarcimento dei danni derivanti da deterioramento del bene locato, le domande sono oggettivamente connesse per il titolo (perché entrambe si fondano sullo stesso contratto di locazione). Quando la comunanza riguarda invece singoli fatti, non riconducibili ad un rapporto sostanziale unico, deve ritenersi che si tratti di connessione impropria, priva di ogni riflesso sulla competenza. Resta da considerare, infine, che la connessione potrebbe riguardare nel contempo l'oggetto e il titolo. Ciò si verifica quando viene dedotto in giudizio un rapporto giuridico che il diritto sostanziale mostra di reputare unitario ancorché plurisoggettivo (per es, un diritto reale di cui siano titolari più persone, oppure un’obbligazione solidale). Non di rado viene ricondotta a questo genus anche l'ipotesi contemplata dall'art. 2378 c.c., ossia la proposizione di una pluralità di impugnazioni aventi ad oggetto la medesima deliberazione di società per azioni; ma in questa ipotesi quel che è identico è 71 l'oggetto, mentre non è detto che lo sia anche il titolo, dal momento che le impugnative potrebbero fondarsi su vizi del tutto diversi. LA CONNESSIONE C.D. QUALIFICATA E LA PREGIUDIZIALITÀ-DIPENDENZA La dottrina è solita ricondurre al concetto di CONNESSIONE QUALIFICATA tutte le ipotesi contemplate dagli artt. 31, 32, 34, 35 e 36 c.p.c.; le quali, se per un verso sono anch’esse ipotesi di connessione oggettiva, sono caratterizzate da un peculiare rapporto di subordinazione di una causa ad un'altra, inquadrabile nello schema della pregiudizialità-dipendenza, che il legislatore omette di prendere direttamente ed autonomamente in considerazione e che, di conseguenza, spetta all'interprete ricostruire, muovendo proprio dalle suddette disposizioni. Di pregiudizialità si può discorrere, in senso lato, anche quando una certa “gerarchia” tra più domande sia determinata da ragioni meramente processuali, riconducibili alla volontà della parte che le ha proposte68. Il fenomeno della pregiudizialità in senso stretto, invece (detta anche pregiudizialità tecnica), attiene ad una particolare relazione sostanziale tra rapporti giuridici, consistente nel fatto che l'esistenza o l'inesistenza o l'estinzione di un diritto o di uno status dipende, sul piano sostanziale, dall'esistenza o dall’inesistenza, tra le stesse parti o tra parti diverse, di un altro rapporto giuridico, che appartiene alla fattispecie costituiva oppure a quella impeditiva-modificativa-estintiva del primo. Così, ad es, vi è pregiudizialità-dipendenza tra la domanda di pagamento di un credito del de cuius e la domanda di accertamento della qualità di erede; oppure, fra la domanda di un assegno alimentare, fondata sull’esistenza di un rapporto di filiazione, e quella di disconoscimento della paternità proposta dal destinatario della prima domanda. La dottrina, inoltre, suole discorrere di pregiudizialità meramente logica con riguardo alle ipotesi in cui non vengono propriamente in rilievo dei rapporti giuridici diversi, bensì la relazione tra un singolo diritto ed il rapporto giuridico complesso da cui esso trae origine: ad es, la causa avente ad oggetto l’accertamento dell’esistenza e/o della validità del contratto è pregiudiziale rispetto a quella concernente l’adempimento di una prestazione derivante dal contratto stesso; oppure, la domanda concernente il pagamento di una rata dipende da quella avente ad oggetto l’esistenza del credito nella sua interezza. In ogni caso la pregiudizialità-dipendenza dà luogo ad una connessione particolarmente intensa, cui corrisponde, quando le cause non vengano trattate congiuntamente, un rischio piuttosto alto di giudicati (logicamente) contraddittori, legato all'eventualità che l'esistenza del medesimo rapporto pregiudiziale venga affermata in un processo e negata nell'altro. In considerazione di ciò, le disposizioni in esame tendono a favorire il simultaneus processus attraverso deroghe agli ordinari criteri di competenza; si tratta però di deroghe formulate in modo tutt’altro che limpido e che quindi hanno dato luogo a diversi dubbi interpretativi. In linea di principio, prevale l'opinione che la connessione non possa mai derogare ai criteri tradizionalmente più forti (cioè alla competenza per materia o per territorio funzionale). Oggi, 68 Ad es, l’attore potrebbe aver formulato più domande in modo alternativo, una in via principale e l’altra subordinatamente al mancato accoglimento della prima (in tal caso il giudice non potrebbe esaminare la seconda senza aver deciso sulla prima) 72 tuttavia, dopo l'istituzione del giudice unico in primo grado e la conseguente soppressione delle preture, gli ostacoli alla trattazione congiunta, in presenza di una connessione “qualificata”, sono divenuti assai meno frequenti, soprattutto per quel che riguarda la competenza “verticale”, tenuto conto che, se i criteri (ordinari) della materia e/o del valore dovessero attribuire una causa al giudice di pace e l'altra al tribunale, l'art. 40, 6° farebbe prevalere senz'altro la competenza del giudice togato. Quindi, laddove si prescinda dalle non molte ipotesi in cui è prevista la competenza della corte d'appello in primo (ed unico) grado, l'impedimento alla realizzazione del simultaneus processus potrebbe derivare solamente dalla competenza per territorio inderogabile ex art. 28. a) L'accessorietà L'art. 31 stabilisce che la domanda accessoria può cumularsi a quella principale, davanti al giudice territorialmente competente per quest'ultima, fermo restando che, se le domande sono proposte contro la stessa parte, il loro valore si somma, ai sensi dell'art. 10, 2°. Il legislatore, però, omette di precisare il concetto di accessorietà, che di solito è inteso in maniera piuttosto empirica: è accessoria quindi quella domanda che, dal punto di vista del risultato perseguito dall'attore, ha un rilievo secondario rispetto alla domanda principale ed il cui accoglimento, allo stesso tempo, è subordinato all'accoglimento di quest'ultima, da cui discende in modo pressoché automatico. Si pensi, ad es, alla domanda (principale) di risoluzione del contratto di compravendita o di locazione e alla domanda (accessoria) di restituzione o rilascio del bene. b) La garanzia L'art. 32 fa riferimento alle ipotesi in cui un soggetto (detto garante) è obbligato a tenere indenne un altro soggetto (il garantito) dalle conseguenze economiche negative che possono a quest’ultimo derivare dall'eventuale soccombenza in una causa promossa nei suoi confronti da un terzo (si pensi all’obbligo di garanzia gravante sul venditore per l’evizione che il compratore può subire per effetto dei diritti fatti valere da un terzo sul bene, nonchè alle ipotesi in cui il debitore, dopo aver pagato, ha diritto di regresso verso altri obbligati). In questi casi, nei quali è evidente come il diritto alla garanzia dipenda, sul piano sostanziale, anche dall’esistenza del diritto vantato dal terzo nei confronti del garantito, nulla esclude che la domanda di garanzia venga proposta autonomamente, dopo che il giudizio principale (cioè quello promosso dal terzo) si è già concluso con la soccombenza del garantito, col rischio, però, che il garante (rimasto estraneo al 1° processo) possa rimettere in discussione nel 2° processo anche il diritto del terzo. Tale eventualità è contemplata, con riguardo all’ipotesi dell’evizione, dall’art. 1458 cc, secondo cui il compratore, convenuto in giudizio da un terzo che pretende di avere diritti sulla cosa venduta, ha l’onere di chiamare in causa il venditore, affinchè questo possa contrastare la pretesa del terzo (qualora non assolva a questo onere e venga poi condannato, egli perde il diritto alla garanzia se il venditore, nel nuovo processo contro di lui promosso dal compratore evitto, prova che esistevano ragioni sufficienti per far respingere la domanda). Per favorire la realizzazione del simultaneus processus, l’art. 32 stabilisce che la domanda di garanzia può proporsi al giudice territorialmente competente per la domanda principale; se poi il valore della 75 Rispetto all’art. 34, però, il giudice ha qui un’ulteriore possibilità: se la domanda principale è fondata su un titolo non controverso o facilmente accertabile, può decidere su di essa e rimettere al giudice superiore la sola decisione concernente l'esistenza del controcredito, eventualmente subordinando l'esecuzione della propria sentenza di condanna alla prestazione di una cauzione. e) La domanda riconvenzionale L’ultima ipotesi di connessione qualificata contemplata dal codice è quella della domanda riconvenzionale. L'art. 36, in realtà, non fornisce una definizione della domanda riconvenzionale, limitandosi a disciplinare le sole domande riconvenzionali che dipendono dal titolo dedotto in giudizio dell'attore o da quello che già appartiene alla causa come mezzo di eccezione. Tali domande possono essere cumulate alla domanda principale e decise nello stesso processo, purché non eccedano la competenza per materia o valore del giudice adito. In caso contrario il giudice applica le disposizioni dei due articoli precedenti (questo significa che, se la domanda principale è fondata su titolo non controverso o facilmente accertabile, potrà decidere su di essa e rimettere al giudice superiore la sola causa concernente la riconvenzionale; altrimenti gli rimetterà entrambe le cause). La nozione più classica di riconvenzionale evoca l’idea della controdomanda che il convenuto, non limitandosi a chiedere il rigetto della domanda proposta dall’attore, formula nei confronti di quest’ultimo, facendo valere un diritto diverso da quello oggetto della domanda principale, anche se ad esso collegato (si tratterebbe, quindi, di domande almeno soggettivamente coincidenti, anche se a parti contrapposte). Deve però ritenersi che il concetto di riconvenzionale ricomprenda, oltre alla domanda formulata dal convenuto nei confronti dell’attore, quella che l’attore stesso proponga successivamente contro il convenuto (la c.d. reconventio reconventionis), quella proposta da taluno dei convenuti nei confronti di un altro convenuto, nonché, più in generale, tutte le domande provenienti da chi è già parte nel processo e dirette contro un altro soggetto che ha in precedenza già acquisito la qualità di parte. La relazione tra la domanda principale e quella riconvenzionale può essere di vario tipo: di incompatibilità (si pensi al caso in cui l’attore chieda il rilascio di un immobile perché detenuto sine titulo, e il convenuto chieda l’accertamento dell’avvenuta usucapione), ma anche di piena compatibilità (per es, il locatore agisce per il rilascio per finita locazione ed il conduttore chiede il risarcimento dei danni cagionatigli da vizi dell’immobile locato). Fermo restando che la deroga alla competenza è applicabile nei soli casi di vera e propria connessione oggettiva previsti dall'art. 36, la prevalente giurisprudenza, contrastata da una cospicua parte della dottrina, ritiene che, ai soli fini dell'ammissibilità del cumulo73, sia sufficiente un qualunque collegamento obiettivo tra la domanda principale e quella riconvenzionale. 73 Dunque, sul presupposto che entrambe le domande appartengono alla competenza del giudice adito 76 LE MODALITÀ DI REALIZZAZIONE DEL SIMULTANEUS PROCESSUS: A) CAUSE SEPARATAMENTE PROPOSTE DAVANTI AD UFFICI GIUDIZIARI DIVERSI Quando, grazie anche alle eventuali deroghe ai criteri ordinari di competenza previste dagli artt. 31- 36, sia possibile individuare un unico giudice competente per tutte le cause connesse, il loro cumulo può realizzarsi in momenti e con modalità differenti: − in primo luogo, può attuarsi sin dall'inizio, per scelta dell'attore (che formuli più domande contro lo stesso convenuto74 o contro una pluralità di convenuti75) oppure nel corso del giudizio (vuoi in conseguenza del sorgere di una nuova causa tra le stesse parti, vuoi in seguito all’allargamento soggettivo del giudizio, che derivi dalla chiamata o dall’intervento volontario di un terzo); − in secondo luogo, può avvenire che le cause connesse siano state promosse autonomamente, in separati processi: in questo caso la disciplina è diversa a seconda che esse pendano o no davanti allo stesso ufficio giudiziario. Se le cause connesse vengono instaurate separatamente dinanzi ad uffici giudiziari diversi, l'art. 40 consente, a certe condizioni (tra cui che si tratti di una delle ipotesi di connessione qualificata contemplate dagli artt. 31-36), che la loro trattazione congiunta possa ancora attuarsi attraverso la fusione di più processi davanti ad uno di tali uffici. Più precisamente, è previsto che in tal caso il giudice dichiari la connessione con ordinanza, fissando alle parti un termine perentorio per la riassunzione della causa accessoria davanti al giudice della causa principale, e negli altri casi davanti a quello preventivamente adito76. Davanti a tale giudice, inoltre, la connessione può essere eccepita, da ciascuna delle parti, oppure rilevata d'ufficio solamente entro la prima udienza; e lo stesso giudice deve comunque rifiutare la dichiarazione di connessione quando lo stato della causa principale o preventivamente proposta non consentirebbe l'esauriente trattazione e decisione delle cause connesse (art. 40, 2°). Tale disciplina, in realtà, è parecchio lacunosa, perché non chiarisce se il simultaneus processus possa o meno realizzarsi anche quando l’ufficio giudiziario così individuato77 non risulti competente rispetto a tutte le cause connesse. Anche per questo aspetto, però, il problema è stato notevolmente ridimensionato dalla soppressione delle preture e dalla peculiare disciplina che l’art. 40 detta per la connessione fra cause di competenza del giudice di pace e cause di competenza del tribunale→infatti, il 6° comma dell’art. 40 prevede che, in caso di connessione qualificata tra cause spettanti al giudice di pace e cause di competenza del tribunale78, le relative domande possono essere proposte davanti al tribunale affinché siano decise nello stesso processo. Qualora le cause venissero proposte invece separatamente, il giudice di pace dovrebbe pronunciare anche d'ufficio la connessione a favore del tribunale (comma 7°), implicando che in tal caso il rilievo della connessione non è soggetto alle limitazioni temporali di cui all’art. 40, 2°, ma resta consentito per tutta la durata del processo davanti al giudice onorario. 74 Cumulo oggettivo 75 Cumulo soggettivo 76 Ciò lascia intendere che a spogliarsi della causa debba essere, rispettivamente, il giudice della causa accessoria (nell’ipotesi di cui all’art. 31) e quello adito successivamente in tutti gli alti casi 77 Il giudice della causa principale o quello preventivamente adito 78 Quindi, nelle ipotesi contemplate dagli artt. 31, 32, 34, 35 e 36, con esclusione della connessione oggettiva semplice ex art. 33 77 B) CAUSE SEPARATAMENTE PROPOSTE DAVANTI ALLO STESSO UFFICIO GIUDIZIARIO Nell'ipotesi in cui le cause connesse siano proposte separatamente davanti allo stesso ufficio giudiziario, la fusione delle cause si realizza semplicemente attraverso la loro riunione (che, a differenza di quella applicabile alle cause identiche (art. 273), è qui meramente facoltativa, con la conseguenza che il giudice che rileva la connessione ha la possibilità di valutare se il simultaneus processus sia o meno conveniente). In concreto l'art. 274 prevede che, qualora le cause connesse pendano davanti allo stesso giudice79, questi possa, anche d'ufficio, disporne direttamente la riunione. Se invece le cause connesse pendono davanti ad altro giudice o ad altra sezione dello stesso tribunale, il giudice istruttore o il presidente della sezione che ne abbiano notizia devono riferirne al presidente, il quale, sentite le parti, ordina con decreto che le cause siano chiamate alla medesima udienza davanti allo stesso giudice o alla stessa sezione per i provvedimenti opportuni (cioè l'eventuale riunione). Una disciplina speciale riguarda le materie del lavoro (art. 409) e della previdenza e assistenza obbligatorie (art. 442), nonché in generale le controversie davanti al giudice di pace, per le quali il legislatore mostra di voler dare maggiore rilievo alle esigenze di economia processuale perseguite attraverso la trattazione congiunta delle cause connesse. Per tali ipotesi, l'art. 151 disp. att. prevede una duplice deroga dell'art. 274: in primo luogo, stabilendo che la riunione sia obbligatoria, tranne quando renda troppo gravoso o ritardi eccessivamente il processo, ogni volta che le cause si trovino nella stessa fase processuale; in secondo luogo, estendendo tale riunione anche alle cause connesse soltanto per identità delle questioni dalla cui risoluzione dipende, totalmente o parzialmente, la loro decisione (cioè alla c.d. connessione impropria). LA CONNESSIONE DI CAUSE SOGGETTE A RITI DIVERSI Per evitare che la trattazione unitaria di cause connesse possa incontrare un ostacolo insormontabile nell’eventuale diversità del rito applicabile a ciascuna di esse, l'art. 40 detta una serie di criteri miranti a stabilire, per ogni possibile combinazione di riti differenti, quale sia quello prevalente, da utilizzare per tutte le cause cumulate. Tale disciplina si ritiene applicabile solo ai processi a cognizione piena, e prende in considerazione solo la connessione qualificata (art. 31, 32, 34, 35, 36), con esclusione della connessione oggettiva semplice di cui all’art. 33 (dimostrando che il rito è sempre derogabile in presenza di un legame particolarmente intenso fra più cause). I criteri previsti ai commi 3° e 4° dell’art. 40 sono: a) se una delle cause rientra tra quelle di cui agli art. 409 e 442 (se cioè si tratta di una causa di lavoro o di una controversia in materia previdenziale), è il rito speciale risultante dagli artt. 414 ss. a prevalere su ogni altro, incluso quello ordinario; b) al di fuori della precedente ipotesi, se una delle cause è soggetta al rito ordinario, questo si estende a tutte le cause connesse; c) al di fuori delle due precedenti ipotesi, se una delle cause connesse è soggetta al rito semplificato di cognizione, questo rito è preferito ad ogni altro rito speciale; 79 Inteso come magistrato-persona fisica o collegio giudicante 80 della capacità di agire, con la maggiore età, salvi i casi in cui la legge preveda un'età diversa. Parallelamente, sulla capacità processuale possono incidere gli stessi eventi giuridici suscettibili di escludere, limitare o condizionare la capacità di agire: l'art. 75, 2° infatti stabilisce che le persone che non hanno il libero esercizio dei diritti possono stare in giudizio solo a patto di essere rappresentate, assistite o autorizzate secondo le norme che regolano la loro capacità. Il riferimento è alla minore età, all’interdizione, all’inabilitazione e alle altre situazioni da cui può derivare la perdita o la limitazione della capacità d’agire (per es, l'apertura della liquidazione giudiziale, che determina l'incapacità del debitore, anche se limitatamente ai rapporti di diritto patrimoniale). In queste ipotesi, il soggetto incapace o limitatamente capace potrà stare in giudizio, a seconda dei casi, tramite un soggetto che lo rappresenta legalmente (il genitore, il tutore o il curatore), al quale competerà in via esclusiva la legittimazione processuale, oppure insieme ad un altro soggetto che lo assiste (il curatore, quando si tratta di inabilitato o di minore emancipato). L'art. 75, 2°, richiama, inoltre, le ipotesi in cui la proposizione di un'azione o la mera costituzione in un giudizio da altri instaurato sono subordinate al rilascio di un'autorizzazione da parte di un determinato organo. La norma sembra riferirsi, più esattamente, ai casi in cui l'autorizzazione è richiesta per integrare la capacità processuale del rappresentante di una persona fisica incapace; ma si è soliti estenderne la portata alle ipotesi (che in realtà parrebbero estranee alla capacità di agire e, conseguentemente, a quella processuale) in cui l'autorizzazione sia prescritta, invece, da disposizioni (di legge o statutarie) che disciplinano il procedimento di formazione della volontà di un ente, pubblico o privato. LA RAPPRESENTANZA PROCESSUALE Nell’ambito del processo si trovano le stesse forme di rappresentanza del diritto sostanziale, caratterizzate dalla circostanza che il rappresentante agisce in nome e per conto del soggetto rappresentato83. La RAPPRESENTANZA LEGALE è prevista dall'art. 75, 2°, che richiama le ipotesi in cui determinati soggetti, incapaci o limitatamente capaci, possono stare in giudizio solo nella persona del soggetto (genitore, tutore, ecc) cui la legge stessa attribuisce tale potere di agire nomine alieno. I commi successivi dell’art. 75 invece riguardano quella particolare forma di rappresentanza, in cui c’è una sorta di immedesimazione tra rappresentante e rappresentato, che è la RAPPRESENTANZA ORGANICA, la quale serve a descrivere il modo in cui si manifesta, all'esterno, la volontà delle persone giuridiche e degli altri enti diversi dalla persona fisica→infatti, il 3° co precisa che le persone giuridiche stanno in giudizio per mezzo di chi le rappresenta a norma della legge o dello statuto; invece (co 4°) le associazioni e i comitati, privi di personalità giuridica, stanno in giudizio per mezzo delle persone cui compete, in base agli accordi degli associati, la presidenza o la direzione degli stessi. Esiste poi la RAPPRESENTANZA (processuale) VOLONTARIA, che si fonda su una libera scelta del rappresentato, estrinsecata con il conferimento di un'apposita procura. Il codice non se ne occupa direttamente e in via generale, ma si limita a prendere in considerazione la sola rappresentanza processuale del procuratore generale e di quello preposto a determinati affari, ossia di soggetti cui 83 È evidente la differenza con la sostituzione processuale, in cui il sostituto fa valere in nome proprio un diritto altrui 81 compete anche il potere di rappresentanza sostanziale. Questi, in base all'art. 77, non possono stare in giudizio per il preponente, quando questo potere non è stato loro conferito espressamente per iscritto. Ciò significa quindi che il mero conferimento della rappresentanza sostanziale non implica di per sè il potere di agire o di essere convenuto in nome del rappresentato nei giudizi in cui si controverta dei rapporti cui fa riferimento la procura sostanziale, essendo a tal fine richiesta l'esplicita attribuzione, per iscritto, della rappresentanza processuale. Le sole deroghe riguardano: ▪ il compimento di atti urgenti e la richiesta di misure cautelari, attività che non tollererebbero un differimento (e che di conseguenza rientrano sempre nei poteri del rappresentante sostanziale); ▪ il procuratore generale di chi abbia la residenza ed il domicilio all'estero e l'institore84 (ai quali il potere di rappresentanza processuale si presume senz’altro conferito e quindi non necessita di un’espressa menzione). Poiché la norma in esame non aggiunge altro, si potrebbe tranquillamente pensare che l’attore ed il convenuto siano liberi di designare un soggetto a stare in giudizio in loro vece, conferendogli necessariamente per iscritto tale potere di rappresentanza processuale; l’opinione dominante, invece, ritiene di poter dedurre dall’art. 77 che la rappresentanza processuale volontaria non possa mai andar disgiunta da quella sostanziale, pena l'invalidità della procura (meramente processuale) ed il conseguente difetto di legittimazione processuale del rappresentante. In realtà, si tratta di una deduzione opinabile, ove si guardi al solo art. 77; l'unico elemento che potrebbe addursi in favore della tesi ora riferita, basato sull'argomentazione a contrario, è offerto dall'art. 317, che espressamente prevede, dinanzi al (solo) giudice di pace, la possibilità che le parti si facciano “rappresentare da persona munita di mandato, salvo che il giudice ordini la loro comparizione personale”. Nella pratica, inoltre, la ritenuta inscindibilità della rappresentanza processuale da quella sostanziale finisce col costituire un limite tutt'altro che invalicabile, poiché non è infrequente ch'esso venga aggirato mediante l'espediente di attribuire al delegato anche poteri di rappresentanza sostanziale. In tutti i casi di rappresentanza processuale, cmq, ci si trova in presenza di una parte complessa, che comprende sia il rappresentante che il rappresentato: parte in senso processuale è in realtà il rappresentato, destinatario, in linea di principio, degli effetti del processo e degli atti che in esso vengono compiuti; ma la legittimazione processuale compete al rappresentante (in via esclusiva in caso di rappresentanza legale, o concorrente, nel caso di rappresentanza volontaria) riguardo al quale si è soliti discorrere di parte in senso formale. IL CURATORE SPECIALE L'art. 78 prevede la nomina di un CURATORE SPECIALE in due situazioni: a) quando manca la persona a cui spetta la rappresentanza o l'assistenza dell'incapace, della persona giuridica o dell'associazione non riconosciuta, e vi sono ragioni di urgenza, sì da non poter attendere che si provveda nei modi ordinari; b) quando vi sia un conflitto di interessi (anche meramente potenziale) tra rappresentante e rappresentato85. 84 Il preposto all’esercizio di un’impresa commerciale 82 In queste ipotesi, dunque, al curatore speciale spetta la legittimazione processuale in luogo della parte (quando debba assumerne la rappresentanza) o accanto ad essa (quando debba solamente assisterla)86. I soggetti che possono prendere l'iniziativa per la nomina sono, in base all'art. 79: lo stesso soggetto che dovrà beneficiare della rappresentanza o dell'assistenza del curatore, sebbene sia incapace; i suoi prossimi congiunti; il rappresentante, quando la nomina si renda necessaria per conflitto d'interessi; qualunque altra parte in causa87 che vi abbia interesse; in ogni caso, il pubblico ministero. La competenza appartiene, a seconda dei casi, al giudice di pace o al presidente dell'ufficio giudiziario (tribunale, corte d’appello o corte di cassazione) davanti al quale si intende proporre la causa (art. 80); il quale provvede con decreto, dopo aver assunto le opportune informazioni e sentite possibilmente le persone interessate. Il decreto di nomina deve sempre essere comunicato dall'ufficio al pubblico ministero, perché questi possa attivarsi per chiedere, all'occorrenza, i provvedimenti per la costituzione della normale rappresentanza o assistenza dell'incapace, della persona giuridica o dell'associazione non riconosciuta. IL DIFETTO DI LEGITTIMAZIONE PROCESSUALE Il legislatore non disciplina direttamente le conseguenze dell'eventuale difetto di legittimazione processuale, ma se ne occupa nell'art. 182, 2° (modificato dalla riforma del 2009), stabilendo che il giudice, quando rileva la mancanza della procura al difensore o un difetto di rappresentanza, di assistenza o di autorizzazione, che ne determina la nullità, è tenuto ad assegnare alle parti un termine perentorio per la costituzione della persona alla quale spetta la rappresentanza o l'assistenza, o per il rilascio delle necessarie autorizzazioni, ovvero per il rilascio della procura alle liti o per la rinnovazione della stessa. Questa formulazione, frutto della riforma del 2022, confonde due tipi di vizio molto differenti: - da un lato, il difetto di rappresentanza, assistenza o autorizzazione, che può incidere sulla capacità processuale di cui all’art. 75 (quindi sulla legittimazione processuale); - dall’altro la mancanza o la nullità della procura al difensore, che invece attengono al diverso tema dalla rappresentanza tecnica (omettendo tra l'altro di considerare che il difetto di legitimatio ad processum potrebbe riguardare anche una parte costituita personalmente, nelle ipotesi in cui ciò sia consentito dalla legge. Dalla disposizione in esame si evince (anche se implicitamente) che questo vizio, qualunque sia la causa da cui deriva, è sempre rilevabile d'ufficio (in ogni stato e grado del giudizio): ciò può spiegarsi considerando che il difetto di rappresentanza o assistenza incide sulla regolarità del contraddittorio, mentre le norme che subordinano la possibilità di stare in giudizio al rilascio di determinate 85 Per es, quando il tutore debba promuovere un’azione contro l’incapace 86 La legittimazione del curatore speciale viene meno quando sia designata e si costituisca in sua vece, a seconda dei casi, la persona cui spetta l’ordinaria rappresentanza o assistenza dell’incapace o dell’ente, oppure un nuovo rappresentante che non sia in conflitto d’interessi col rappresentato 87 Da intendersi anche come causa ancora da proporre 85 L'art. 83 fa esplicito riferimento, più esattamente, agli atti lato sensu iniziali di qualunque procedimento, di cognizione o di esecuzione: la citazione, il ricorso, il controricorso, la comparsa di risposta o d'intervento, il precetto, la domanda di intervento nell'esecuzione; la riforma del 2009 ha poi inserito un esplicito riferimento all’eventuale memoria di nomina del nuovo difensore, in aggiunta o in sostituzione del difensore originariamente designato. Tale elencazione però non ha carattere tassativo secondo l'opinione prevalente, poiché si esige solo che si tratti di atti depositati contestualmente alla costituzione in giudizio della parte, in modo da assicurare che in questo momento il mandato sia stato già conferito. La procura speciale si considera apposta in calce, e quindi è valida, anche quando sia rilasciata su un foglio separato che sia però congiunto materialmente all'atto cui si riferisce. Lo stesso 3° co infine prende in considerazione l’eventualità che la procura ad litem debba accedere ad un atto processuale redatto come documento informatico e trasmesso attraverso strumenti telematici. In questa ipotesi sono previste due possibilità: se la procura nasce fin dall’origine come autonomo documento informatico, sottoscritto con firma digitale, quest’ultimo può essere virtualmente congiunto all’atto cui si riferisce mediante strumenti informatici, individuati con apposito decreto del Ministero della giustizia; se invece la procura è stata originariamente conferita con le modalità tradizionali92, il difensore può ricavarne una copia informatica, autenticare quest’ultima con la propria firma digitale e trasmetterla in via telematica come allegato del documento informatico cui accede. Il legislatore, poi, non disciplina direttamente il contenuto della procura, limitandosi a precisare che quella speciale si presume conferita soltanto per un determinato grado del processo, quando nell'atto non è espressa volontà diversa93. Il nuovo testo dell'art. 182, 2° ha eliminato ogni dubbio circa la sanabilità retroattiva (ex tunc), in ogni stato e grado del giudizio, non solo di qualunque sanabilità della procura, ma anche della sua originaria inesistenza, a condizione che la procura sia rilasciata o rinnovata entro il termine perentorio assegnato dal giudice. Assai dubbia resta invece la sanabilità degli ulteriori vizi della rappresentanza tecnica che non attengano alla procura (e riguardino invece il ius postulandi). Per quel che riguarda la permanenza del potere rappresentativo del difensore, l'art. 85, pur consentendo in ogni momento tanto la revoca della procura, ad opera della parte che l'aveva conferita, quanto la rinuncia ad essa, da parte dello stesso difensore, statuisce che né l'una né l'altra hanno effetto nei confronti dell'altra parte94 finché non sia avvenuta l'effettiva sostituzione (ciò per evitare possibili tattiche dilatorie). I poteri del difensore L'art. 84 attribuisce al difensore-procuratore il potere di compiere e ricevere, nell'interesse della parte rappresentata, tutti gli atti del processo che per legge non sono espressamente riservati alla 92 Cioè su supporto cartaceo con sottoscrizione autografa della parte 93 Ciò significa che (tenuto conto che per il ricorso per Cassazione e per la revocazione è richiesta una procura ad hoc), il mandato ad litem conferito per il processo di 1° grado non vale di regola, anche per l’appello, se non contiene uno specifico riferimento a quest’ultimo 94 Nonché nei confronti dell’ufficio giudiziario 86 parte medesima. In generale, lo stesso art. 84 sottrae al difensore il compimento di atti che importano disposizione del diritto in contesa, se non ne ha ricevuto espressamente il potere: pertanto, egli non può, di regola, transigere o conciliare la controversia, quando la parte non gli abbia attribuito esplicitamente tali poteri, con la stessa procura conferitagli per il giudizio o con atto separato. Alcune norme specifiche richiedono poi una procura ad hoc per determinati atti, ritenuti dal legislatore particolarmente delicati95, o idonei ad incidere sulla prosecuzione della causa96, se non addirittura, seppure indirettamente, sullo stesso diritto controverso (è questo il caso del deferimento del giuramento decisorio). Al di fuori di queste limitazioni, peraltro, i poteri del difensore devono ritenersi estesi a tutti gli atti che egli reputi opportuni nell'interesse del proprio assistito, compresi la modificazione o l’abbandono di talune delle domande originariamente formulate, la proposizione di domande nuove e l'eventuale chiamata in causa di terzi; alla sola condizione che, laddove si tratti di domande formulate nel corso del giudizio, esse siano oggettivamente connesse a quelle originarie. Il difensore con procura diviene, dal momento della costituzione in giudizio, il destinatario naturale di tutte le notificazioni e le comunicazioni dirette alla parte da lui rappresentata97. 95 Vedi, ad es, l’art. 221, che riguarda la proposizione della querela di falso 96 Così, ad es, l’art. 306 in tema di rinuncia agli atti del giudizio 97 Fatte salve le eccezioni previste dalla legge 87 Capitolo 9 IL PROCESSO CON PLURALITA' DI PARTI Sezione I IL LITISCONSORZIO ORIGINARIO IL CONCETTO DI LITISCONSORZIO La nozione di LITISCONSORZIO indica la presenza nel processo di una pluralità di parti, alcune delle quali ben potrebbero avere un interesse ed una posizione processuale in tutto o in parte comuni98. Si usa discorrere di litisconsorzio attivo, passivo o misto, a seconda che la pluralità di parti riguardi chi ha proposto la domanda, i destinatari della stessa o entrambi. Il litisconsorzio, inoltre, può essere originario, se si determina fin dal momento in cui si instaura il processo, o successivo, quando si realizza nel corso del giudizio, in conseguenza dell'intervento di nuove parti o di un fenomeno di successione processuale. Il tema del litisconsorzio pone questioni di notevole importanza→innanzitutto, occorre appurare in quali ipotesi il processo può o addirittura deve instaurarsi tra più parti: nel 1° caso si parla di litisconsorzio facoltativo, nel secondo di litisconsorzio necessario. IL LITISCONSORZIO FACOLTATIVO (ORIGINARIO) L'art. 103 consente che più parti agiscano o siano convenute nello stesso processo quando tra le cause che si propongono esiste connessione per l'oggetto o per il titolo dal quale dipendono (litisconsorzio che si è soliti definire proprio, perché presuppone una connessione oggettiva propria99), o quando la decisione dipende, totalmente o parzialmente, dalla risoluzione di identiche questioni (litisconsorzio c.d. improprio, corrispondente ad una connessione impropria). La facoltatività del litisconsorzio è quindi riferita, in questo caso, alla genesi del cumulo soggettivo di cause, rimessa alla volontà dell'attore (o degli attori). N.B: chiaramente, un cumulo di cause tra parti diverse può attuarsi anche nel corso del processo, attraverso la chiamata o l’intervento volontario di terzi, che potrebbero essere destinatari o autori di nuove domande. IL LITISCONSORZIO NECESSARIO Più complesso e delicato è il tema del LITISCONSORZIO NECESSARIO. L'art. 102, 1° enuncia il principio per cui “se la decisione non può pronunciarsi che in confronto di più parti, queste debbono agire o essere convenute nello stesso processo”, aggiungendo al comma 2° 98 Si pensi, ad es, ad un’azione confessoria servitutis, proposta nei confronti dei più comproprietari del preteso fondo servente 99 Si discorre poi di litisconsorzio alternativo (passivo) quando le più domande, proposte nei confronti di diversi convenuti, abbiano lo stesso petitum e siano dunque in rapporto di reciproca esclusione (ad es, l’attore ha proposto una domanda di risarcimento nei confronti di più soggetti, alternativamente indicati come responsabili del danno) 90 LITISCONSORZIO NECESSARIO CONNESSO AD IPOTESI DI LEGITTIMAZIONE STRAORDINARIA Il secondo gruppo di fattispecie nelle quali si è soliti affermare la necessità del litisconsorzio riguarda le ipotesi di legittimazione straordinaria ad agire. Il paradigma, a questo riguardo, può essere rappresentato dall'azione surrogatoria, per la quale l’art. 2900, 2° c.c. espressamente prevede che il creditore, qualora agisca giudizialmente nei confronti del debitor debitoris, debba obbligatoriamente citare anche il debitore al quale intende surrogarsi. Oppure dall’art. 1012, 2° cc, che impone all’usufruttuario, il quale agisca in confessoria o in negatoria servitutis, di chiamare in giudizio anche il proprietario del fondo. Secondo autorevole dottrina tali disposizioni corrispondono ad un principio generale secondo cui, ogniqualvolta agisca un soggetto investito di legittimazione straordinaria, sia da considerare litisconsorte necessario anche il legittimato ordinario (o sostituito), cioè il vero titolare del rapporto dedotto in giudizio dal sostituto processuale. In questi casi è in gioco non tanto la “utilità” della sentenza invocata dall'attore (che ben potrebbe operare, in caso di accoglimento della domanda, perlomeno in favore del titolare del rapporto rimasto estraneo al giudizio) quanto semmai l'interesse del convenuto ad ottenere un giudicato che faccia stato in ogni caso anche nei confronti del legittimato ordinario-sostituito. LITISCONSORZIO NECESSARIO DETERMINATO DA RAGIONI DI MERA OPPORTUNITÀ Il terzo ed ultimo gruppo di fattispecie riguarda i casi in cui è imposta la partecipazione al processo dei soggetti titolari di un rapporto giuridico diverso da quello oggetto del giudizio, ma ad esso strettamente collegato, di solito per pregiudizialità-dipendenza. In tali casi si tratta quindi di rapporti giuridici distinti, facenti capo a parti diverse, così che la necessaria partecipazione di tutti i rispettivi titolari discende da ragioni di mera opportunità (infatti, in tali casi si parla di litisconsorzio necessario propter opportunitatem), connesse all'intento di conseguire un accertamento uniforme ed incontrovertibile del rapporto pregiudiziale. Così, ad es, in relazione all'azione diretta del danneggiato nei confronti dell'assicuratore di responsabilità civile103, si ritiene che l'obbligo di far partecipare al giudizio anche il responsabile del danno (solitamente l'assicurato) sia imposto essenzialmente a tutela dell'impresa assicuratrice, per l'eventualità che questa debba successivamente agire in rivalsa nei confronti del responsabile. Altre fattispecie riconducibili a questo genus possono individuarsi nell’art. 784, per la parte in cui fa riferimento al litisconsorzio necessario degli eventuali creditori che abbiano fatto opposizione alla divisione, nonché nella fattispecie contemplata dall’art. 247 cc, dato che il disconoscimento della paternità ha effetti anche rispetto all’altro genitore. Si tratta di ipotesi tipiche e tassative, poiché non è pensabile che l'applicazione dell'art. 102 sia rimessa ad un apprezzamento discrezionale del giudice o comunque dell'interprete. 103 Accordata dall’art. 144 del d.lgs. 209/2005 91 LA DISCIPLINA PROCESSUALE DEL LITISCONSORZIO NECESSARIO E LA SENTENZA RESA A CONTRADDITTORIO NON INTEGRO Qualora il giudice si accorga che il processo non si è instaurato nei confronti di tutti i litisconsorti necessari, è tenuto ad ordinare alle parti l'integrazione del contraddittorio, ossia la citazione dei litisconsorti c.d. pretermessi, fissando a tal fine un termine perentorio (la cui scadenza determinerebbe l'estinzione immediata del giudizio, a norma dell'art. 307, 3°). L'integrazione del contraddittorio produce una sorta di sanatoria retroattiva del processo, nel senso che gli effetti (sostanziali e processuali) della domanda giudiziale si produrranno fin dal primo momento nei confronti di tutti i litisconsorti; questo implica che, per evitare il maturare di prescrizioni o decadenze del diritto dedotto in giudizio, è sufficiente che questo venga tempestivamente fatto valere nei confronti di alcuno soltanto dei litisconsorzi necessari. Nell’ambito del processo di 1°grado, quindi, le conseguenze dell'eventuale violazione dell’art. 102 sono relativamente modeste. Se invece l'omessa integrazione del contraddittorio viene rilevata in fase d'impugnazione, l'art. 354 prevede che sia dichiarata la nullità della sentenza e che la causa torni davanti al giudice di primo grado. Se il vizio non viene rilevato tramite l'impugnazione e la sentenza, pronunciata a contraddittorio non integro, arriva a passare in giudicato, si è soliti parlare, a riguardo, di sentenza inutiler data, ossia inefficace, perché inidonea a produrre effetti di alcun genere non solo nei confronti dei litisconsorti pretermessi, ma anche per coloro che siano stati parte nel relativo giudizio. Tale soluzione, però, appare condivisibile per le sole ipotesi di litisconsorzio necessario secundum tenorem rationis (cioè determinate da ragioni di ordine sostanziale), nelle quali non è concepibile che il provvedimento produca effetti solo per taluno dei contitolari dell’unico rapporto oggetto della decisione. Negli altri casi, invece, tenuto conto che tutte le nullità si sanano col passaggio in giudicato, non c’è motivo per escludere che la sentenza possa esplicare gli effetti cui risulti idonea rispetto alle parti. Sezione II IL LITISCONSORZIO SUCCESSIVO PER INTERVENTO DI TERZI L'INTERVENTO VOLONTARIO DI TERZI: GENERALITÀ Oltre che dall'origine, il litisconsorzio può instaurarsi nel corso del processo, quando in esso intervenga un terzo, sia di propria iniziativa (intervento volontario), sia perché chiamatovi su istanza di una delle parti o per ordine del giudice (intervento coatto). L'intervento implica un ampliamento soggettivo del giudizio e, solitamente, anche il sorgere di una o più cause nuove, oggettivamente connesse a quella originaria, in conseguenza delle domande proposte dall'interveniente o nei suoi confronti. 92 Prescindendo da ipotesi peculiari, che possono trovare una diversa giustificazione normativa104, l'INTERVENTO VOLONTARIO è disciplinato dall'art. 105, che, secondo la dottrina, ne contempla tre diverse forme: principale, adesivo autonomo (o litisconsortile) e adesivo dipendente. Nelle prime due fattispecie l'interveniente fa valere nel processo un proprio diritto, proponendo una domanda, a seconda dei casi, contro tutte le parti originarie ovvero contro taluna di esse (pertanto, l'intervento determina sempre un ampliamento anche oggettivo del giudizio). Nell'intervento adesivo dipendente, invece, l'oggetto del processo resta immutato, poiché il terzo si limita a sostenere le ragioni di alcuna delle parti. L'INTERVENTO PRINCIPALE Nell'INTERVENTO PRINCIPALE (detto anche ad opponendum o ad excludendum), il terzo propone una propria domanda contro tutte le parti originarie, facendo valere un diritto autonomo rispetto a quello già dedotto in giudizio e con esso incompatibile: autonomo nel senso che prescinde, sul piano sostanziale, dall'esistenza del diritto vantato da ciascuna delle parti; incompatibile perché, sempre sul piano sostanziale, non può coesistere con esso, riguardando lo stesso bene della vita. Si tratterà quindi di connessione per identità dell'oggetto (che dà luogo a relazioni di incompatibilità o alternatività tra le varie domande). Fra gli esempi più frequenti ricordiamo quello del terzo che, intervenendo in un giudizio in cui le parti si contendono la proprietà di un certo bene, esercita a propria volta un’azione di rivendica dello stesso bene, sostenendo di averne acquistato la proprietà in base ad un titolo autonomo (ad es, per averlo usucapito105). In questa ed in alte ipotesi il diritto del terzo ben potrebbe essere tutelato in un altro autonomo processo, senza dover temere alcun pregiudizio giuridico dalla sentenza nel frattempo pronunciata tra le parti; sicché, se il terzo decide di intervenire, è solo per ragioni di economia processuale oppure, in qualche caso, per evitare che l'accoglimento della domanda tra le parti possa rendergli di fatto più difficoltosa la successiva realizzazione del proprio diritto. L' INTERVENTO ADESIVO AUTONOMO Nell'INTERVENTO ADESIVO AUTONOMO il terzo, pur vantando anche in questo caso un diritto che non è subordinato rispetto a quello controverso tra le parti, propone una domanda nei confronti di taluna soltanto di esse, assumendo una posizione del tutto compatibile con quella di altra parte. La connessione in queste ipotesi può riguardare, a seconda dei casi, il solo titolo oppure il titolo e l'oggetto della domanda originaria. Una fattispecie di connessione per identità del titolo ricorre, ad es., quando il terzo subacquirente, intervenendo nel giudizio in cui un creditore ha proposto domanda revocatoria dell'atto di 104 Si pensi all’intervento del litisconsorte necessario pretermesso, espressamente menzionato nell’art. 268 e a quello del successore a titolo particolare nel diritto controverso (art. 111, 3°) 105 Diverso sarebbe se l’interveniente sostenesse si aver acquistato il bene da una delle parti, poiché in tal caso il suo diritto verrebbe a dipendere dall’esistenza del diritto del suo dante causa (e si ricadrebbe nell’ipotesi dell’intervento adesivo dipendente) 95 o nei suoi confronti, escluderebbe la fondatezza della domanda originaria, essendo sostanzialmente identico il rispettivo petitum, ossia il bene giuridico perseguito111; b) quando il terzo (al di fuori dalle ipotesi di litisconsorzio necessario) sia indicato quale contitolare del rapporto plurisoggettivo già oggetto del processo, sì che le parti originarie potrebbero avere interesse ad estendere nei suoi confronti gli effetti del futuro giudicato (così, ad es, qualora l’azione confessoria o negatoria servitutis fosse stata proposta da uno dei comproprietari del fondo, la chiamata in giudizio degli altri assicurerebbe al convenuto una maggiore utilità dell’eventuale sentenza di rigetto, ponendolo al riparo da ulteriori domande analoghe); c) quando il terzo sia titolare di un rapporto giuridico dipendente da quello oggetto del processo (in questi casi l’intervento coatto potrebbe rappresentare uno strumento di tutela del terzo oppure un mezzo per estendere nei suoi confronti l’efficacia riflessa della sentenza. Tale intervento (tranne che nelle ipotesi c)) deve rendere possibile un allargamento oggettivo del processo, che conduca il giudice a decidere anche sul rapporto facente capo al terzo. Si tratta perciò di stabilire se a tale fine sia o meno necessaria le proposizione di un’apposita domanda (da una delle parti originarie o dallo stesso chiamato in causa). In realtà, se si considera che l’intervento coatto può essere chiesto da una qualunque delle parti (che potrebbe non aver alcun rapporto con l’interveniente) oppure può essere ordinato dal giudice, è logico pensare che esso debba in ogni caso condurre, di per sé, all'accertamento con efficacia di giudicato del rapporto facente capo al chiamato, pur quando nessuna esplicita domanda sia stata formulata in tal senso. Perché possa aversi, invece, una sentenza di condanna del terzo o a favore del terzo, deve ritenersi indispensabile una specifica domanda, proveniente da una delle parti o dal terzo (non è infatti pensabile che la domanda originaria possa estendersi automaticamente nei confronti del terzo o in suo favore). L'INTERVENTO PER ORDINE DEL GIUDICE In caso di INTERVENTO PER ORDINE DEL GIUDICE (iussu iudicis), la chiamata del terzo, che comunque conduce ad un'estensione del futuro giudicato nei suoi confronti, viene fatta dipendere da una valutazione di opportunità rimessa al giudice (art. 107)112. Il legislatore ha omesso di indicare, però, quali elementi debba valutare a tal fine il giudice. Una parte della dottrina ritiene che all'istituto non siano estranee esigenze lato sensu istruttorie: nel senso, cioè, che esso consentirebbe di acquisire, grazie alla partecipazione del terzo, una più adeguata cognizione anche del rapporto originariamente dedotto in giudizio. Si ritiene, anzi, che l'art. 107 attribuisca al giudice (di primo grado) un potere assolutamente discrezionale, non censurabile in sede di impugnazione. Nella prassi, però, è raro che tale potere venga esercitato dal giudice di propria iniziativa, prescindendo dalla sollecitazione di taluna delle parti; che magari vi ricorrono quando non sono più in tempo per chiamare esse stesse il terzo a norma dell'art. 269. 111 Ad es, il destinatario agisce contro l’assicuratore per i danni subiti dalla merce trasportata e poi, avendo questi dedotto l’inoperatività della copertura assicurativa, propone domanda di risarcimento nei confronti del vettore 112 Questo lo contraddistingue dall'ordine di integrazione necessaria del contraddittorio ex art. 102 96 Sezione III LO SVOLGIMENTO DEL PROCESSO LITISCONSORTILE SCINDIBILITÀ O INSCINDIBILITÀ DEL CUMULO SOGGETTIVO DI CAUSE. IL LITISCONSORZIO “UNITARIO” E IL LITISCONSORZIO NECESSARIO C.D. PROCESSUALE Il giudizio con pluralità di parti, indipendentemente dalla circostanza che il litisconsorzio sia originario o successivo, può dar luogo ad una serie di questioni del tutto sconosciute al processo che si svolga tra due parti soltanto. La prima di tali questioni concerne la natura scindibile o inscindibile del cumulo soggettivo di cause oggetto del processo litisconsortile: in altre parole, si tratta di stabilire se, al di fuori dei casi di litisconsorzio necessario ai sensi dell'art. 102, sussistano altre situazioni in cui la decisione (delle più cause cumulate) dev'essere unica rispetto a tutti i litisconsorti. Con riguardo specifico al cumulo soggettivo, almeno in un caso tale soluzione è imposta direttamente dalla legge→ l'art. 2378, 5° c.c., infatti, con riferimento all'impugnazione delle delibere di società di capitali, stabilisce che tutte le impugnazioni relative alla medesima deliberazione, anche se separatamente proposte, devono essere istruite congiuntamente e decise con unica sentenza. È quindi necessario che, dove più soci abbiano impugnato, le più cause confluiscano in un unico giudizio, che deve avere una trattazione ed una decisione unitarie. La dottrina, per descrivere tale situazione, ha coniato il concetto di LITISCONSORZIO “UNITARIO”, caratterizzato dall’essere facoltativo dal punto di vista genetico (nel senso che non è necessaria, ai sensi dell’art. 102, la partecipazione di tutti i soggetti del rapporto plurisoggettivo dedotto in giudizio), ma necessario una volta che, avendo agito (o essendo stati convenuti) più contitolari del rapporto, il cumulo sia stato concretamente realizzato. Alcuni autori ritengono che la disciplina dell’art. 2378, almeno per quel che riguarda l’inscindibilità del cumulo, possa essere estensivamente applicata a tutte le fattispecie in cui, al di fuori dei casi di litisconsorzio necessario, siano proposte in un unico processo, da parti diverse, più domande connesse per identità dell’oggetto e del titolo, in quanto basate su un medesimo rapporto plurisoggettivo, che non tollererebbero un provvedimento di separazione113. La giurisprudenza, dal canto suo, ha invece coniato la figura del LITISCONSORZIO NECESSARIO PROCESSUALE, così definito in contrapposizione a quello dell’art. 102 (derivante da ragioni sostanziali) . Le fattispecie alle quali si fa più spesso riferimento in tal senso sono 2: a) l’ipotesi in cui, morta una parte dopo l’inizio del processo, la causa debba essere proseguita da o nei confronti dei suoi successori universali, che sarebbero litisconsorti necessari nel successivo corso del giudizio, indipendentemente dal tipo di diritto in esso dedotto; b) l’intervento, volontario o coatto, di un terzo. Nel 1° caso la soluzione adottata dalla giurisprudenza può ritenersi corretta, poichè la sentenza è cmq destinata a produrre effetti nei confronti di tutti i successori universali della parte venuta meno, e quindi sarebbe affetta da nullità (per violazione del principio del contraddittorio) se pronunciata senza la partecipazione di taluno di essi. 113 Si pensi al caso in cui agiscano congiuntamente, con una domanda di rivendica, più contitolari dello stesso diritto reale 97 Nelle altre ipotesi, invece, viene in rilievo esclusivamente la natura (scindibile o inscindibile) del cumulo soggettivo di cause; pertanto, il concetto di l.c.n. processuale viene utilizzato solo per escludere la separazione delle cause o cmq la scissione del cumulo, ogni volta in cui questo sia caratterizzato da una connessione particolarmente intensa (esso risulta quindi affine alla figura del litisconsorzio unitario, cui allude la dottrina)114. LE INTERFERENZE TRA LE ATTIVITÀ PROCESSUALI DEI SINGOLI LITISCONSORTI Un altro problema tipico del processo litisconsortile è quello di stabilire quale influenza e quali conseguenze possa avere l'attività processuale di taluno dei litisconsorti rispetto agli altri. Si tratta di un problema complesso, che deve essere impostato diversamente a seconda che si verta in ipotesi di litisconsorzio necessario o comunque “unitario”, oppure in ipotesi di cumulo scindibile. Nel primo caso, trattandosi di una causa sostanzialmente unica115, che deve essere decisa in modo uniforme rispetto a tutte le parti, è inevitabile che gli effetti dell'attività del singolo litisconsorte si comunichino agli altri. Nel secondo caso, invece, alla pluralità di parti corrisponde anche una pluralità di cause, tra loro in vario modo connesse, le quali, nonostante la formale unicità del processo, restano distinte e provviste di una sostanziale autonomia; sicché anche gli effetti dell'attività compiuta dal singolo litisconsorte dovrebbero prodursi, in linea di principio, esclusivamente rispetto alla causa di cui egli è parte. In concreto, però, le interferenze reciproche sono inevitabili, ove si tenga presente che il cumulo presuppone pur sempre un'istruttoria unitaria ed un accertamento dei fatti tendenzialmente omogeneo rispetto a tutte le cause→è chiaro, ad es, che la produzione di un documento o la richiesta di un determinato mezzo di prova, avente ad oggetto un fatto comune a più cause ed a più parti, dovrebbe operare anche rispetto agli altri litisconsorti (non essendo possibile che lo stesso fatto, all’interno dell’unico processo, sia ricostruito in modo differente in relazione alle più cause cumulate). 114 Infatti, la giurisprudenza più recente considera i due concetti perfettamente equivalenti 115 O, nelle fattispecie di litisconsorzio necessario propter opportunitatem, di più cause connesse per pregiudizialità- dipendenza ed abbinate per legge
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