Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Riassunto di diritto processuale civile 2, Appunti di Diritto Processuale Civile

Riassunto paragrafo per paragrafo dei volumi 2 e 3 del manuale "Istituzioni di diritto processuale civile " di Giampiero Balena, nella quarta edizione (2017), preciso ed esaustivo

Tipologia: Appunti

2017/2018

In vendita dal 06/04/2018

emyb2002
emyb2002 🇮🇹

4.6

(130)

23 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Riassunto di diritto processuale civile 2 e più Appunti in PDF di Diritto Processuale Civile solo su Docsity! CAPITOLO XIV IL GIUDICATO E L'AUTORITA' DELLE SENTENZE IL FENOMENO DEL GIUDICATO E IL SUO RAPPORTO CON LE IMPUGNAZIONI. GIUDICATO FORMALE E SOSTANZIALE; GIUDICATO INTERNO ED ESTERNO Nei capitoli precedenti abbiamo fatto spesso riferimento al concetto di GIUDICATO, che ora dobbiamo approfondire, cominciando col chiarire cosa debba intendersi per giudicato e quando esso si formi. Il concetto di GIUDICATO FORMALE, desumibile dall'art. 324, serve solo a stabilire quando una sentenza si intende passata in giudicato e fa genericamente riferimento a tutte le sentenze che non siano più soggette, per scadenza dei relativi termini o per qualunque altra ragione, alle impugnazioni ordinarie1: ogni sentenza, definitiva o non definitiva, processuale o di merito, è senz’altro idonea, quando si verifichi tale condizione, ad acquisire questa qualità (cioè a passare in giudicato).il concetto di giudicato formale sta quindi ad indicare un notevole grado di stabilità della decisione, impropriamente descritta come immutabilità2. Il concetto di GIUDICATO SOSTANZIALE, invece, è previsto all'art. 2909 c.c . ed indica l'idoneità della sentenza a fare stato, per l'accertamento in essa contenuto, nei rapporti sostanziali tra le parti, i loro eredi o aventi causa. A tal fine, però, deve trattarsi di una pronuncia contenente un accertamento, e quindi di una sentenza che abbia deciso sulla fondatezza della domanda. In altre parole, qualunque sentenza passa formalmente in giudicato quando non sia più impugnabile con i mezzi ordinari, mentre il fenomeno del giudicato sostanziale riguarda esclusivamente le sentenze di merito in senso stretto. Va inoltre ricordato che, con l’eccezione rappresentata dall’efficacia esecutiva, che compete alle sentenze di condanna fin dal momento della loro pubblicazione, il passaggio in giudicato condiziona, in linea di principio, il prodursi di tutti gli effetti della sentenza. Si è soliti distinguere tra giudicato interno ed esterno, a seconda che la sentenza da cui esso deriva sia stata pronunciata nello stesso processo in cui il giudicato viene invocato oppure in un diverso giudizio tra le stesse parti. L'AUTORITÀ DEL GIUDICATO: IN COSA CONSISTE E COME OPERA Passiamo ora ad approfondire la nozione di giudicato sostanziale. Si è soliti affermare che il giudicato copre il dedotto e il deducibile . In via di prima approssimazione si può dire che la sentenza passata in giudicato rende incontestabile l'esistenza o l'inesistenza del diritto o dello status oggetto della decisione, impedendo che di essa possa tornare a discutersi, in un successivo processo, sulla base di fatti che erano già stati dedotti nel giudizio in cui è stata resa la sentenza, oppure che avrebbero potuto esservi fatti valere. Ciò significa che il risultato del processo, assistito dall'autorità della cosa giudicata, non può mai essere vanificato in un nuovo processo, direttamente o indirettamente, dall'allegazione di un fatto che, preesistendo alla formazione del 1 1 Cioè quelle che sono esperibili esclusivamente entro termini ben definiti e piuttosto brevi 2 In realtà, nessuna sentenza può mai dirsi assolutamente inattaccabile giudicato, avrebbe potuto essere utilmente dedotto nel primo processo3. Di regola, anzi (salvo diversa previsione di legge), la barriera del giudicato resiste anche allo ius superveniens (nonché alla pronuncia di illegittimità costituzionale) che incida, eventualmente, su taluna delle norme sostanziali poste a base della decisione. Inoltre, l’autorità del giudicato ha un’ovvia connotazione e limitazione temporale, non potendosi escludere la possibilità che il diritto negato dalla sentenza venga in vita successivamente ad essa, oppure che quello riconosciuto esistente si modifichi o si estingua per un fatto posteriore alla formazione del giudicato. Si ritiene inoltre che in un nuovo processo siano liberamente deducibili, senza trovare ostacolo nel giudicato, tutti i fatti nuovi (costitutivi, impeditivi, modificativi o estintivi) intervenuti in un momento in cui, sebbene non fosse stata ancora pronunciata la sentenza (poi passata in giudicato), i fatti stessi non avrebbero più potuto essere tempestivamente introdotti nel processo4. A questo punto dobbiamo capire come opera il vincolo del giudicato. Innanzitutto va detto che, anche se l’art. 2909 cc riferisca tale vincolo direttamente alle parti (oltre che ai loro eredi ed aventi causa), essa ha come ulteriore destinatario ogni giudice dinanzi al quale venga successivamente in rilievo l’esistenza o l’inesistenza del diritto o status investito dalla sentenza. Spesso si afferma che il giudicato produrrebbe, a seconda dei casi, un effetto negativo (cioè di tipo preclusivo), impedendo al giudice di tornare a decidere sullo stesso diritto di cui è già stata accertata l'esistenza o l'inesistenza (in applicazione del principio ne bis in idem), oppure un effetto positivo, di natura sostanziale, facendo solo obbligo al giudice di conformare la propria pronuncia all'accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato, la quale costituisce la nuova disciplina specifica del rapporto oggetto della decisione e dunque opera come opererebbe una qualunque norma di legge incidente su tale rapporto. Per molto tempo la giurisprudenza, in contrasto con la prevalente dottrina, ha ritenuto che il regime dell’eccezione di cosa giudicata (cioè quella con cui si deduce l’esistenza di un’anteriore sentenza, idonea a far stato sul rapporto controverso) fosse diverso a seconda che il giudicato si fosse formato nello stesso processo o in un diverso giudizio, e che nel secondo caso si trattasse di un’eccezione in senso stretto, subordinata al rilievo della parte interessata. Negli ultimi anni, però, la Cassazione ha mutato rotta, facendo leva sul principio per cui le eccezioni sono normalmente rilevabili d’ufficio: oggi, pertanto, si ammette che la violazione del giudicato, la cui esistenza risulti dagli atti acquisiti al processo, costituisca un vizio della decisione, deducibile in ogni stato e grado della causa. I LIMITI OGGETTIVI Poiché l’opinione dominante ricostruisce l’oggetto del giudicato sulla base dell’oggetto del processo, l’individuazione dei limiti del giudicato dipende da quella del diritto dedotto in giudizio. Uno dei pochi punti fermi sotto questo aspetto è rappresentato dal principio secondo cui, potendo l'accertamento giudiziale vertere esclusivamente su diritti o status, mai su meri fatti o sull'interpretazione di norme giuridiche, anche l'autorità del giudicato può riguardare solo l'esistenza, l'inesistenza o il modo di essere di un diritto o di uno status, non anche fatti oppure il significato e la portata di una norma di diritto. Una disposizione cui la dottrina attribuisce una grande importanza in relazione a tale tema è quella contenuta nell'art. 34, concernente l’accertamento incidentale: essa, infatti, consente di affermare che 2 3 E ciò indipendentemente dal fatto che si tratti di un fatto semplice, oppure di un fatto-diritto, concernente un diverso diritto o rapporto giuridico, incompatibile con quello accertato nella sentenza, che avrebbe potuto utilizzarsi per impedire l’accoglimento della domanda 4 Il giudicato, infatti, non impedisce di far valere, in un nuovo ed autonomo giudizio, qualunque fatto principale che si sia verificato dopo l’udienza di precisazione delle conclusioni 2. Maggiori sono i dubbi che si pongono in relazione all'EFFICACIA RIFLESSA della sentenza, quando questa investa rapporti che riguardano, in tutto o in parte, dei terzi, cioè dei soggetti che sono rimasti estranei al giudizio in cui la decisione è stata resa. In relazione a tale problema si è soliti distinguere fra i soggetti che, in mancanza di un vero collegamento giuridico tra un diritto proprio e quello controverso tra le parti, possono essere interessati esclusivamente in via di fatto alla sentenza resa tra queste ultime, ed i terzi che invece sono titolari di rapporti giuridici connessi a quello oggetto del giudicato. Nel 1° caso si ritiene che il terzo sia semplicemente tenuto a riconoscere il giudicato formatosi tra le parti, come se si trattasse di un qualunque atto giuridico di cui egli deve tenere conto e dal quale potrebbe derivargli un vantaggio o un pregiudizio in via di fatto9. Con riferimento poi alla 2a situazione, caratterizzata da un vero e proprio collegamento giuridico tra un diritto del terzo e quello oggetto del giudicato, si è soliti escludere che il terzo titolare di un diritto autonomo possa risentire alcun pregiudizio dal giudicato: pertanto, il problema può prospettarsi solo quando tale collegamento giuridico si atteggi in termini di dipendenza, nel senso che l'esistenza o l'inesistenza del diritto del terzo annoveri tra i propri fatti costitutivi l'esistenza o l'inesistenza del diritto sul quale si è formato il giudicato tra le parti10. Sono diverse le tesi su quali siano i limiti e le condizioni entro cui l’efficacia riflessa della sentenza possa prodursi nei confronti dei terzi titolari di rapporti giuridicamente dipendenti da quello oggetto del giudicato, ed il diritto positivo non offre argomenti decisivi in favore di alcuna delle soluzioni esposte. Noi possiamo affermare che l’art. 24 Cost, unitamente al principio del contraddittorio, induce ad escludere oggi (al di là delle ipotesi eccezionali in cui sia lo stesso legislatore a prevederlo espressamente) che il terzo titolare di un rapporto giuridicamente dipendente da quello oggetto del giudicato fra le parti subisca l’efficacia riflessa di una sentenza a lui sfavorevole, potendosi solo ammettere che l’accertamento del rapporto pregiudiziale, intervenuto fra le parti di tale rapporto, sia liberamente invocabile dal terzo se a lui favorevole. La giurisprudenza, dal canto suo, difficilmente ammette che il giudicato possa vincolare terzi titolari di situazioni dipendenti (quindi, la sentenza sarebbe utilizzabile esclusivamente per il suo valore di prova in ordine all’esistenza o all’inesistenza del rapporto pregiudiziale inter alios). I CONFLITTI DI GIUDICATO Anche se esistono diversi strumenti processuali volti a prevenire tale rischio, non è possibile escludere l’eventualità che, non essendo stata dedotta nel processo l'esistenza di un anteriore giudicato, venga pronunciata una nuova decisione sul medesimo oggetto, che acquisti a sua volta la stabilità e l'autorità della cosa giudicata. In tale situazione il vizio della seconda decisione non è più rilevabile, poiché non esistono impugnazioni straordinarie attraverso le quali sia possibile dedurre la violazione di un anteriore giudicato (l'art. 395 n. 5, infatti, configura tale vizio come possibile motivo di revocazione ordinaria, che può proporsi solamente fino a quando la sentenza non passi a sua volta in giudicato). Tenuto conto di ciò, può allora avvenire che: • le due decisioni siano di contenuto identico (in questo caso il problema non si pone, trattandosi di giudicati pienamente conformi); 5 9 Così, ad es, se Tizio ha rivendicato vittoriosamente la proprietà di un certo fondo nei confronti di Caio e poi agisce in negatoria servitutis contro Sempronio, proprietario di un fondo limitrofo, quest’ultimo non può difendersi affermando che Caio è il proprietario del preteso fondo servente, poiché ciò equivarrebbe a disconoscere la sentenza intervenuta fra Tizio e Caio 10 Si pensi, ad es, alla posizione dell’ente previdenziale rispetto al giudicato che abbia accertato l’esistenza o l’inesistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra determinati soggetti • la seconda decisione contrasti con quella precedente esclusivamente per una questione pregiudiziale che il secondo giudice ha risolto (in applicazione del principio di cui all'art. 34) incidenter tantum: in tal caso il contrasto è meramente logico, in quanto la seconda sentenza ha un oggetto diverso dalla prima, e quindi può con essa materialmente coesistere; • le sentenze divergano sull'esistenza o inesistenza di un diritto sul quale entrambe hanno pronunciato con efficacia di giudicato: qui il contrasto riguarda lo stesso oggetto ed è dunque pratico, sicché non è possibile che le decisioni coesistano. In assenza di una disposizione ad hoc, l’opinione dominante fa prevalere il giudicato posteriore. Infine, non sussiste alcun conflitto (ma mera disarmonia) di giudicati quando 2 decisioni divergano per la soluzione attribuita ad una o più questioni pregiudiziali di cui entrambi i giudici hanno conosciuto incidenter tantum. CAPITOLO XV LA CORREZIONE DEI PROVVEDIMENTI DEL GIUDICE GLI ERRORI E LE OMISSIONI MATERIALI O DI CALCOLO Sebbene i vizi di una sentenza (o di un diverso provvedimento non modificabile né revocabile dal giudice che l’ha emanato) siano emendabili, di regola, solo attraverso le impugnazioni, vi sono casi in 6 cui queste (in considerazione della particolare natura del vizio) apparirebbero eccessive rispetto allo scopo; in tali casi il legislatore reputa sufficiente, invece, un procedimento diretto alla CORREZIONE del provvedimento da parte dello stesso giudice a quo. Il codice vigente, a differenza di quello del 1865, disciplina tale rimedio prima delle impugnazioni, stabilendo che “Le sentenze contro le quali non sia stato proposto appello e le ordinanze non revocabili possono essere corrette, su ricorso di parte, dallo stesso giudice che le ha pronunciate, qualora egli sia incorso in omissioni o in errori materiali o di calcolo” (art. 287). Il vizio può riguardare sia un elemento formale (ad es, il nome di uno dei magistrati componenti il collegio) sia lo stesso contenuto della decisione, in particolare per quel che attiene al dispositivo vero e proprio. Quando l'errore sia formale, perché possa discorrersi di omissione o errore materiale deve trattarsi di una mera svista involontaria nella redazione del provvedimento, che sia riconoscibile con certezza dalla semplice lettura o dal raffronto con altri atti del procedimento. Così, ad es, l’errore concernente l’identità di una parte può sicuramente emendarsi con l’ausilio dell’atto introduttivo, ogni volta che ciò consenta di eliminare qualunque dubbio; è invece difficile che la composizione del collegio giudicante, come risultante dall’intestazione della sentenza, sia correggibile in base ad elementi diversi dalla sottoscrizione della sentenza stessa, dato che nient’altro potrebbe provare l’identità dei magistrati che hanno preso parte alla deliberazione. Quando invece il vizio investa il contenuto della decisione, dovrà trattarsi di un errore estraneo all'attività di giudizio e alla volontà del giudice, incidente esclusivamente sul modo in cui tale volontà si è concretamente manifestata, oppure riguardante, nel caso di errore di calcolo, le operazioni aritmetiche utilizzate dal giudice per pervenire ad un determinato risultato. I PROVVEDIMENTI CORREGGIBILI L’art. 287 è una norma formulata in modo piuttosto infelice, perché individua come oggetto di correzione le ordinanza non revocabili e le sentenze contro le quali non sia stato proposto appellociò fa evidentemente pensare alle sole sentenze di 1° grado. È però pacifico che il rimedio della correzione trovi applicazione anche rispetto alle sentenze di 2° grado e ai decreti non revocabili, oltre che, per espressa previsione dell'art. 391-bis, nei confronti delle sentenze e delle ordinanze della Cassazione. I rapporti tra la correzione e il ricorso per Cassazione non hanno mai suscitato particolari interrogativi, non dubitandosi che la correzione sia comunque attribuita al giudice a quo e non risenta in alcun modo dell'eventuale proposizione dell'impugnazione, quanto meno fino al momento in cui quest'ultima non pervenga eventualmente all'annullamento della sentenza. Più di un problema si poneva, invece, in passato, rispetto alle decisioni di 1° grado, soprattutto perché la formulazione dell'art. 287 sembrava escludere la correzione nei confronti delle sentenze già appellate; verosimilmente in considerazione del fatto che l'appello, quale impugnazione sostitutiva, conduce senz'altro alla pronuncia di una nuova decisione e che lo stesso giudice ad quem, pertanto, può porre rimedio, in tale occasione, anche agli errori ed alle omissioni materiali della sentenza appellata. La dottrina, però, non aveva mancato di sottolineare l’irrazionalità di questa limitazione, tenuto conto che la parte vittoriosa può avere interesse ad una correzione immediata della sentenza, senza dover attendere la conclusione del giudizio di 2° grado. Tale inconveniente è stato risolto dalla Corte costituzionale, che ha dichiarato illegittimo l'art. 287, per contrasto con l'art. 24 Cost., nella parte in cui fa riferimento alle sole sentenze “contro le quali non sia stato proposto appello”. 7 il decreto ingiuntivo), il principio è quello della non impugnabilità, indipendentemente dal contenuto del provvedimento nonché dalla circostanza che esso sia o no revocabile e modificabile. I mezzi di impugnazione delle sentenze aventi carattere generale, a norma dell'art. 323, sono: • l'appello; • il ricorso per cassazione; • la revocazione; • l'opposizione di terzo; • il regolamento di competenza. A tale elenco va aggiunta, sebbene non si tratti propriamente di un'impugnazione (poiché dà vita ad un processo nuovo ed autonomo), la c.d. actio nullitatis, cioè l'azione di accertamento negativo eccezionalmente ammessa nei confronti della sentenza priva della sottoscrizione del giudice. Le impugnazioni si possono classificare nei seguenti modi: A. IMPUGNAZIONI ORDINARIE E STRAORDINARIE. Sono ordinarie le impugnazioni che impediscono, finché sono proponibili, che la sentenza passi in giudicato: si tratta dell'appello, del ricorso per cassazione, del regolamento di competenza e, limitatamente ad alcuni dei motivi per cui è ammessa, della revocazione. Sono straordinarie, invece, l'opposizione di terzo e la revocazione per uno dei rimanenti motivi contemplati dagli artt. 395 e 397, che non interferiscono col passaggio in giudicato della sentenza e sono esperibili anche contro una sentenza formalmente passata in giudicato. Le impugnazioni ordinarie sono assoggettate a termini certi non soltanto nella durata, ma anche nella decorrenza (ossia nel dies a quo); le impugnazioni straordinarie, invece, essendo consentite per vizi che potrebbero emergere in un momento successivo alla pubblicazione della sentenza (revocazione), oppure a soggetti che sono estranei al processo (opposizione di terzo), sono esperibili entro termini la cui decorrenza non è determinabile a priori, o addirittura senza alcun limite temporale12. B. IMPUGNAZIONI A CRITICA LIBERA E A CRITICA VINCOLATA . Questa distinzione attiene alla circostanza che i vizi per i quali l’impugnazione è ammessa siano o no predeterminati dalla legge. E’ un’impugnazione a critica libera l'appello, che può fondarsi su qualunque errore attribuito al primo giudice; analoga qualificazione spetta al regolamento di competenza e all'opposizione di terzo di cui all'art. 404, 1°. Sono impugnazioni a critica vincolata il ricorso per cassazione e la revocazione, nonché l'opposizione di terzo revocatoria, ammessa quando la sentenza è l'effetto di dolo o collusione delle parti a danno del terzo (art. 404, 2°). C. IMPUGNAZIONI SOSTITUTIVE O RESCINDENTI. In teoria tutte le impugnazioni possono condurre (anche se, magari, indirettamente) alla sostituzione della sentenza impugnata con una nuova decisione che abbia il medesimo oggetto e dunque pronunci, entro i limiti dell'impugnazione, sulla stessa domanda che era stata formulata davanti al giudice a quo (sempre che il vizio denunciato non escluda la possibilità di decidere il merito della causa)13. Nella maggior parte dei casi, però, la fase rescissoria (cioè quella deputata alla pronuncia di una nuova decisione) presuppone che si sia positivamente conclusa una prima fase rescindente, destinata alla verifica dei vizi denunciati dall'impugnante (o di quelli eventualmente rilevabili d’ufficio dal giudice ad quem) e dunque all'annullamento o cmq alla caducazione del provvedimento impugnato (in 10 12 Nel solo caso dell’opposizione di terzo ordinaria 13 Si pensi all’ipotesi in cui il provvedimento impugnato abbia omesso di rilevare il difetto di un presupposto processuale, quale la giurisdizione o la competenza caso contrario, ogni volta in cui tale preliminare verifica non conduca all’accertamento di un vizio che implichi una siffatta caducazione, l’impugnazione viene rigettata e non si ha alcuna sostituzione). Tali impugnazioni si dicono rescindenti, perché hanno come primo obiettivo l'eliminazione del provvedimento impugnato. Prescindendo dal regolamento di competenza (il cui oggetto è ben circoscritto), solamente l’appello deroga a tale schema, in quanto conduce sempre e comunque alla diretta sostituzione della decisione impugnata, anche quando si concluda col rigetto dell'impugnazione e la piena conferma della sentenza di primo grado, che viene anche in questo caso rimpiazzata da quella del giudice ad quem. L'appello appartiene, pertanto, al novero delle impugnazioni sostitutive. LA QUALIFICAZIONE DEL PROVVEDIMENTO AL FINE DELLA SUA IMPUGNAZIONE L’individuazione dei rimedi esperibili nei confronti di un determinato provvedimento giurisdizionale dipende innanzitutto dalla forma che esso riveste, dato che le sentenze sono sempre impugnabili, anche se con mezzi diversi a seconda del giudice da cui promanano. Se invece non si tratta di una sentenza, possono assumere rilievo anche il contenuto del provvedimento ed il contesto in cui è stato pronunciato (dato che l’impugnazione delle ordinanze e dei decreti è consentita solamente per quelli aventi un determinato oggetto o una specifica finalità). Dal punto di vista dell'impugnazione, se il giudice pronuncia sentenza in luogo di un'ordinanza o di un decreto, o viceversa, l’opinione oggi prevalente, specie nella giurisprudenza, fa riferimento al principio della prevalenza della sostanza sulla forma, secondo cui l'elemento determinante, anche in vista dell'individuazione dei rimedi appropriati, sia rappresentato dal contenuto effettivo del provvedimento. Più precisamente, se l'errore conduce alla pronuncia di una sentenza in luogo di un'ordinanza o di un decreto, non sorgerà problema, in quanto la parte soccombente ha la possibilità di avvalersi delle impugnazioni tipiche delle sentenze. Se invece si verifica il caso opposto, l'errore potrebbe avere conseguenze più gravi, traducendosi in una “espropriazione” del diritto di impugnare14 . Per evitare questa assurde conseguenze la giurisprudenza suole invocare anche in tali casi il principio della prevalenza della sostanza sulla forma (anche se appare poco pertinente), e su tale base ammettere che l'ordinanza emessa al di fuori di presupposti di legge o comunque viziata, equivalga a sentenza appellabile; oppure in altre occasioni, muovendo dal presupposto che si tratti di provvedimenti sommari decisori, reputa esperibile il ricorso per cassazione straordinario, a norma dell'art. 111, 7° Cost. Il problema non sembra invece risolvibile in relazione alle ipotesi in cui l’errore del giudice attenga alla sussistenza dei presupposti per la pronuncia di un provvedimento sommario anticipatorio, che di solito non prevede alcuna impugnazione e, stando all’opinione dominante, si sottrare anche all’applicazione dell’art. 111, 7° Cost. LE CONDIZIONI DELL'IMPUGNAZIONE: LA LEGITTIMAZIONE Come il diritto d’azione presuppone, come elementi costitutivi, la legittimazione e l’interesse ad agire, così il diritto all'impugnazione è condizionato all'esistenza della legittimazione e dell'interesse ad impugnare. 11 14 Ad es, se il giudice pronuncia un’ordinanza di convalida di sfratto, ai sensi dell’art. 663, nonostante la comparizione e l’opposizione dell’intimato, tale illegittimo provvedimento si sottrarrebbe teoricamente a qualunque rimedio, dato che la legge ne consente l’impugnazione solo attraverso l’opposizione tardiva ai sensi dell’art. 668, che però è limitata ad ipotesi specifiche In linea di principio la LEGITTIMAZIONE AD IMPUGNARE (nonché quella ad essere destinatari della domanda di impugnazione) deriva dalla partecipazione al procedimento in cui è stata resa la sentenza impugnata, e dunque presuppone che in quel processo si sia comunque assunta la qualità di parte, ancorché invalidamente o come conseguenza di un errore del giudice15. Fanno eccezione le opposizioni di terzo, ordinaria o revocatoria, e la revocazione del pubblico ministero, nell’ipotesi di cui all’art. 397 n. 1), che anzi presuppongono proprio la mancata partecipazione dell'impugnante al processo da cui è scaturita la sentenza; e la legittimazione riconosciuta dall’art. 111 ult co al successore a titolo particolare, in quanto questi, divenuto il vero titolare del rapporto giuridico dedotto in giudizio, subisce in prima persona l'efficacia diretta della sentenza, pur formalmente resa nei confronti dell'alienante o dell'erede. Va poi sottolineato che, pur in mancanza di un'espressa previsione, la legittimazione ad impugnare spetta agli eredi della parte, che subiscono gli effetti del giudicato (art. 2909 cc) e nel contempo subentrano ipso iure in tutti i diritti e i poteri, anche processuali, del loro dante causa. Molto controversa (e tradizionalmente negata) è la legittimazione ad impugnare dell’interveniente adesivo dipendente, il quale non ha potere di azione in ordine al rapporto fra le parti principali, ma gode di una legittimazione meramente secondaria. L'INTERESSE AD IMPUGNARE E LA SOCCOMBENZA Per proporre un'impugnazione è necessario che sussista un interesse alla riforma o allo annullamento del provvedimento impugnato, affinché sia assicurata anche in questa fase del processo la concreta utilità della tutela giurisdizionale. Rispetto alla proposizione dell’azione, il requisito dell'INTERESSE AD IMPUGNARE ha un significato più pregnante, perché si ricollega direttamente alla soccombenza, cioè alla circostanza che la parte si sia vista rigettare, totalmente o parzialmente, nel merito o anche solo per ragioni processuali, una propria domanda, oppure che abbia visto accogliere, totalmente o parzialmente, una domanda che un'altra parte aveva proposto nei suoi confronti. Pertanto, la soccombenza deve essere valutata esclusivamente in relazione alle domande che le parti avevano conclusivamente formulato nel processo in cui è stata resa la sentenza (c.d. soccombenza formale), essendo irrilevante, invece, la soluzione eventualmente sfavorevole cui il giudice sia pervenuto in ordine a taluna delle questioni sollevate dalla parte vittoriosa16. Questa regola, però, deve essere opportunamente adattata alle soluzioni cui si ritenga di accedere in merito al tema dei limiti oggettivi del giudicato. Essa, infatti, può applicarsi rigorosamente solo se si ritiene che il giudicato si forma esclusivamente sull’oggetto della domanda, e non anche sui motivi o sulle questioni pregiudiziali eventualmente affrontate nella sentenza (infatti, se si ammette un’estensione del giudicato agli antecedenti logico-giuridici della sentenza, diviene inevitabile riconoscere alla parte che sia risultata pienamente vittoriosa nel merito, ma nel contempo possa essere pregiudicata dal modo in cui il giudice ha risolto una questione pregiudiziale, un autonomo interesse ad impugnare la decisione per questa parte che le è sfavorevole). Va inoltre considerato che l'interesse ad impugnare, pur mancando originariamente rispetto ad una sentenza che veda la parte totalmente vittoriosa nel merito, potrebbe sopravvenire quando la decisione di merito venisse da altri impugnata e dunque rimessa in discussione; in questo caso la parte stessa 12 15 Con la precisazione che, in caso di rappresentanza volontaria, la legittimazione competerà tanto al rappresentante quanto allo stesso rappresentato 16 Ad es, se la sentenza ha rigettato integralmente nel merito le domande dell’attore, il convenuto non ha alcun interesse ad impugnare le sentenze non definitive o i capi della sentenza che gli abbiano dato torto su una o più questioni, trattandosi di una soccombenza che si è soliti qualificare teorica L'ACQUIESCENZA è una manifestazione di volontà che ha per oggetto l'accettazione della sentenza e come effetto quello di escludere la proponibilità delle impugnazioni , salvi i casi di cui ai nn. 1, 2, 3 e 6 dell'art. 395 (ossia le ipotesi in cui la parte soccombente venga successivamente a conoscenza di un motivo di revocazione straordinaria). L'acquiescenza opera come una rinuncia al diritto di impugnare, determinandone l'estinzione, e presuppone, da un lato, che la sentenza sia già venuta giuridicamente in vita, tramite la pubblicazione, e dall’altro lato che l'impugnazione non sia stata ancora proposta20. L’acquiescenza può essere espressa, quando si traduca in una dichiarazione ad hoc, unilaterale e non recettizia (che può provenire esclusivamente dalla parte o da un suo rappresentante a ciò specificamente delegato), oppure tacita, quando risulti indirettamente da atti incompatibili con la volontà di avvalersi delle impugnazioni previste dalla legge (art. 329, 1°)21. Di maggiore interesse è la fattispecie contemplata dal 2° co dell'art. 329, in base al quale la impugnazione parziale importa acquiescenza alle parti della sentenza non impugnate tale ipotesi, definita di acquiescenza tacita qualificata, presuppone che nella sentenza siano individuabili una pluralità di capi22 e che taluno soltanto di essi sia investito dall'impugnazione. Per questo aspetto, l’art. 329 trova un’importante correlazione nell'art. 336, 1°, da cui si evince che tale principio può valere solo per i capi che siano autonomi e indipendenti da quello impugnato (perché se invece si trattasse di capi da esso dipendenti, l'impugnazione parziale per un verso non potrebbe considerarsi come acquiescenza e dall'altro potrebbe condurre, in caso di accoglimento, alla loro caducazione). L'INAMMISIBILITÀ E L'IMPROCEDIBILITÀ DELL'IMPUGNAZIONE. LA C.D. “CONSUMAZIONE” DEL POTERE D' IMPUGNAZIONE Inammissibilità ed improcedibilità sono nozioni delle quali il legislatore si serve con una certa frequenza in relazione alle ipotesi nelle quali l'impugnazione rispettivamente non poteva essere proposta o non può essere proseguita, e deve quindi essere definita con un pronuncia meramente processuale. L'INAMMISSIBILITÀ può derivare da svariate ragioni, tutte attinenti alla fase genetica della impugnazione, cioè al momento in cui è stata proposta (ad es., dalla circostanza che l'impugnazione era esclusa dalla legge, oppure dal difetto della legittimazione o dell’interesse ad impugnare). Nulla impedisce, inoltre, che il legislatore ricolleghi l’inammissibilità a vizi di forma-contenuto dell'atto di impugnazione: in questo caso il regime dell’inammissibilità (che di regola non ammette sanatorie) si sovrappone a quello della nullità. Queste ultime fattispecie di inammissibilità, però, hanno natura tassativa, perché, in assenza di un'esplicita previsione normativa, i vizi suddetti sono inevitabilmente assoggettati alla disciplina delle nullità. Le ipotesi di IMPROCEDIBILITÀ, invece, si collocano in una fase successiva all'instaurazione del processo di impugnazione, attengono solitamente al mancato compimento di determinate attività di parte e devono considerarsi tassative. La pronuncia d’improcedibilità, a differenza di quella di estinzione, investe solo una determinata impugnazione, mentre l'estinzione riguarda inevitabilmente il processo nella sua interezza. Gli artt. 358 e 387 prevedono, esclusivamente con riguardo all’appello e al ricorso per cassazione, che l'impugnazione dichiarata inammissibile o improcedibile non possa essere riproposta, anche se non è ancora decorso il termine previsto dalla legge. Si afferma che tali disposizioni siano espressione del principio di consumazione del potere di impugnazione (a cui la 15 20 Perché altrimenti potrebbe aversi solo una rinuncia all’impugnazione stessa 21 In concreto, però, le ipotesi di acquiescenza tacita sono piuttosto rare, perché non è facile che un determinato comportamento sia univocamente interpretabile come accettazione della sentenza 22 Cioè di parti distinte giurisprudenza attribuisce una portata più ampia di quella che sarebbe lecito desumere dalle disposizioni citate). A ben vedere, però, la stessa formulazione letterale delle predette norme dimostra che la consumazione dell’impugnazione non deriva solo dall'esercizio del relativo potere, ma anche dalla circostanza che l'inammissibilità o l'improcedibilità siano già state dichiarate dal giudice (perciò, fino a quel momento nulla impedisce di proporre una nuova impugnazione (della stessa specie), a condizione che ciò avvenga nel rispetto dei termini di decadenza previsti dalla legge)23. La dichiarazione di inammissibilità, inoltre, quando dipenda dal non essere l'impugnazione ancora proponibile (perché, ad es, diretta contro una sentenza non ancora pubblicata), non può precludere la reiterazione dell'impugnazione stessa nel momento in cui si verifichino le condizioni richieste dalla legge. GLI EFFETTI DELLA PRONUNCIA D' IMPUGNAZIONE. IN PARTICOLARE, IL C. D. EFFETTO ESPANSIVO INTERNO Gli effetti della pronuncia del giudice dell’impugnazione investono in via diretta, di regola, le sole parti della sentenza che erano state effettivamente impugnate. L'art.336, però, prevede che tali effetti possano espandersi anche oltre i capi di sentenza immediatamente coinvolti dalla riforma o dalla cassazione, e più precisamente: • alle altre parti della sentenza dipendenti da quella riformata o cassata (c.d. effetto espansivo interno); • agli altri provvedimenti ed atti dipendenti dalla sentenza riformata o cassata (c.d. effetto espansivo esterno). Per quel che concerne il primo punto, esso implica che la sostituzione o l'annullamento travolgono e caducano automaticamente anche le parti della sentenza che non erano state investite dalla impugnazione, quando si tratti di parti “dipendenti” da quella riformata o cassata (cioè che trovino in quest'ultima un necessario presupposto logico-giuridico). È chiaro che il capo della sentenza che ha accolto la domanda “dipende” inevitabilmente, in questo senso, dalle sorti, in fase d'impugnazione, di quello che ha ritenuto infondata una questione pregiudiziale di rito o preliminare di merito; mentre, qualora si tratti di una sentenza resa su più domande cumulate e l' impugnazione abbia investito solamente alcuno dei relativi capi, si tratterà di appurare caso per caso se la caducazione di questi ultimi, ad opera del giudice ad quem, sia o no compatibile con la conservazione dei capi non toccati direttamente dall' impugnazione24. L'effetto espansivo esterno Mentre l’effetto cui fa riferimento il 1° comma dell’art. 336 opera all’interno della pronuncia impugnata, quello contemplato dal 2° comma coinvolge “altri provvedimenti o atti” e perciò si 16 23 In altre parole, dagli artt. 358 e 387 può desumersi l’ammissibilità, se non di una mera integrazione dell’atto di impugnazione, quanto meno di una sua integrale rinnovazione-sostituzione, purchè tempestiva rispetto al termine di decadenza 24 Si pensi all’ipotesi in cui la sentenza impugnata abbia accolto sia la domanda con cui il lavoratore rivendicava il diritto ad una qualifica superiore per aver svolto la mansioni ad essa corrispondenti per il periodo previsto dall’art. 2103 cc, sia quella concernente il pagamento delle maggiori retribuzioni arretrate relative alla nuova qualifica: l’eventuale riforma (o cassazione) che tocchi solamente il primo capo fa cmq venir meno anche la seconda statuizione, anche se non impugnata, perché fondata sull’accertamento che è stato direttamente travolto dalla decisione del giudice superiore definisce esterno. N.B: la disposizione in esame è stata modificata sia dalla novella del ’50, sia dalla riforma del ’90. Nel 1950 il legislatore aveva previsto che in caso di “riforma” la caducazione degli atti “dipendenti” dalla pronuncia impugnata (e riformata) si sarebbe prodotta non subito, bensì dal momento del successivo passaggio in giudicato della sentenza di riforma. Ciò perché, avendo la stessa novella del 1950 reintrodotto la possibilità di impugnare autonomamente le sentenze non definitive, si voleva evitare (quando nei confronti di una sentenza non definitiva fosse stato per l'appunto proposto un appello immediato) che l'accoglimento di quest'ultimo travolgesse senz'altro il processo nel frattempo proseguito in primo grado e che poi, essendo stata a sua volta impugnata e cassata la sentenza d'appello, dovesse ricominciarsi tutto da capo. Stando all'opinione prevalente, quindi, l'art. 336, 2° implicava, nel caso in cui fosse stata riformata dal giudice d'appello una sentenza non definitiva immediatamente impugnata, la possibilità di continuare il giudizio di primo grado fino al passaggio in giudicato della sentenza d'appello, come se la sentenza non definitiva fosse ancora intatta. Questa conclusione veniva desunta anche dall'art. 129-bis disp. att., il quale prevede che, se la sentenza di riforma è stata a sua volta impugnata con ricorso per cassazione, il giudice istruttore, su istanza di parte e a condizione che la prosecuzione del giudizio dipenda dalla sentenza non definitiva riformata, può sospendere il processo di primo grado fino alla definizione del giudizio di cassazione (ma non è tenuto a farlo). Nel tempo, però, la nuova formulazione dell'art. 336 diede luogo a parecchi problemi, soprattutto perché, discorrendo di “provvedimenti” e di “atti” dipendenti, indusse a pensare che potesse riferirsi non soltanto agli atti istruttorii e ai provvedimenti resi nel corso del giudizio proseguito dopo la pronuncia di una sentenza non definitiva (immediatamente impugnata), ma pure all'ipotesi in cui, essendo stata impugnata una sentenza definitiva di merito provvisoriamente esecutiva, fossero stati compiuti, prima della sentenza di riforma, degli atti esecutivi (atti, cioè, del processo di esecuzione forzata). Il passo successivo fu quindi quello di ritenere che tali atti esecutivi, in caso di riforma, potessero sopravvivere fino al passaggio in giudicato della sentenza d'appello25. Questa soluzione fu motivo di accese discussioni in relazione alla delicata ipotesi della riforma di sentenza di reintegrazione di un lavoratore illegittimamente licenziato, perché consentiva di affermare che il lavoratore, una volta reintegrato in forza della sentenza di 1° grado, avesse il diritto di rimanere al suo posto fino al formarsi del giudicato. Ciò spiega perché il legislatore del '90 abbia preferito tornare alla formulazione originaria, sopprimendo il riferimento al passaggio in giudicato; con la conseguenza che la sentenza di 2° grado, quando riforma una sentenza di condanna, produce sicuramente effetti immediati su tutti gli atti esecutivi eventualmente posti in essere medio tempore, e comunque impedisce che il processo di esecuzione forzata prosegua. Il ritorno al passato, se per un verso ha risolto il problema suddetto, ha creato non pochi dubbi in relazione all’altra ipotesi cui si riteneva applicabile l’art. 336, 2°, cioè quella della riforma di una sentenza non definitiva immediatamente appellata. Ci si chiede, infatti, cosa accade oggi se, essendo stata appellata autonomamente una sentenza non definitiva, essa venga poi riformataebbene, guardando esclusivamente all'art. 336, 2° nella sua nuova formulazione, dovrebbe ammettersi che la sentenza d'appello, fin dal giorno della sua pubblicazione (e dunque indipendentemente dal passaggio in giudicato), determina, a seconda dei casi, l'improseguibilità del giudizio di primo grado (continuato dopo la pronuncia della sentenza non definitiva) oppure, se quest'ultimo sia nel frattempo terminato, la caducazione delle sentenze in esso successivamente intervenute, perfino quando si tratti di sentenze (non impugnate e dunque) già passate in giudicato. Il che, peraltro, rischia di produrre effetti 17 25 O, nel caso di successivo ricorso per cassazione, fino all’esito del relativo giudizio LE FATTISPECIE DI “CAUSA INSCINDIBILE” Una volta chiarita la disciplina risultante dagli artt. 331 e 332, bisogna capire il confine fra queste due disposizioni, e dunque cosa debba intendersi per causa inscindibile e per cause tra loro dipendenti, ai sensi dell’art. 331 (tenuto conto che tutte le altre fattispecie possono sicuramente ascriversi al concetto di cause scindibili, di cui all’art. 332). Deve ricondursi alla nozione di causa inscindibile ogni fattispecie in cui alla pluralità di parti corrisponda un litisconsorzio necessario originario, a norma dell'art. 102, giacché in questi casi, pur quando si tratti, in realtà, di più cause connesse, è lo stesso legislatore ad imporre un accertamento uniforme rispetto a tutti i litisconsorti (come fosse, appunto, un'unica causa). La giurisprudenza, inoltre, suole estendere lo stesso principio alle ipotesi di litisconsorzio necessario processuale, che ricorrerebbe sia quando, nel corso del processo, la parte fosse morta e fossero subentrati, in suo luogo, più eredi, sia in tutti i casi in cui il giudice avesse disposto l'intervento coatto di un terzo, ex art. 107. In realtà, però, nel valutare l'inscindibilità del processo cumulativo, sembra più corretto prescindere dal modo in cui il litisconsorzio si è instaurato e guardare esclusivamente al nesso che corre, in concreto, tra le posizioni dei litisconsorti. Detto questo, l’ipotesi dell’unica “causa inscindibile”, prescindendo dalle fattispecie di litisconsorzio necessario c.d. sostanziale (art. 102), e da quelle in cui più eredi siano subentrati all'unica parte originaria, parrebbe ricorrere: 1. in caso di successione a titolo particolare nel diritto controverso, sempre che il successore abbia partecipato al precedente grado di giudizio e l'alienante non sia stato estromesso prima della pronuncia della sentenza; 2. nelle fattispecie che una parte della dottrina riconduce alla figura del litisconsorzio c.d. unitario, caratterizzata da un cumulo di domande (tra parti diverse) connesse per identità dell'oggetto e del titolo, in quanto relative ad un rapporto giuridico sostanzialmente unico rispetto ai più contitolari: in tali ipotesi, allorché questi ultimi, pur non essendo litisconsorti necessari ex art. 102, abbiano partecipato al precedente grado di giudizio, deve ritenersi esclusa la possibilità di una scissione del cumulo, seppure in fase di impugnazione, prevalendo l'esigenza di un accertamento unitario ed uniforme nei confronti di tutti; 3. in caso di intervento (volontario o coatto) di un terzo titolare di un rapporto giuridico dipendente da quello oggetto del giudizio28: in quest'ultima situazione, la causa è una soltanto, tenuto conto che l'interveniente non propone una propria domanda e, secondo l'opinione tradizionale, neppure potrebbe impugnare autonomamente la sentenza; sicchè, se non gli si riconoscesse il diritto di partecipare al giudizio d' impugnazione instaurato da una delle parti originarie, le finalità stesse dell'intervento rimarrebbero inevitabilmente frustrate. Le “cause tra loro dipendenti” e le “cause scindibili” Molto più controversa è l’individuazione delle cause fra loro dipendentia questo riguardo si potrebbe pensare che il legislatore non abbia voluto semplicemente riferirsi qui alla figura della pregiudizialità- dipendenza, ma abbia voluto alludere ad una connessione più intensa fra le varie cause, nella quale non sia neppure distinguere una causa pregiudiziale da un’altra dipendente. Se fosse così, l’art. 331 dovrebbe applicarsi esclusivamente alle fattispecie caratterizzate da un’interdipendenza reciproca o al più alle ipotesi di alternatività e/o incompatibilità tra le diverse cause, connesse per identità dell’oggetto. 20 28 Corrispondente all’intervento adesivo dipendente Se però si ammette che la semplice pregiudizialità-dipendenza conduce all’applicazione dell’art. 331 già in caso di intervento adesivo-dipendente, sembra contraddittorio escludere tale applicazione nelle ipotesi in cui egli è stato parte a pieno titolo, poiché anche il rapporto che a lui fa capo è stato oggetto del processo litisconsortile (anche in questi casi si deve quindi pensare che l’accertamento del rapporto pregiudiziale debba essere unico rispetto a tutti i litisconsorti). Al di fuori di queste ipotesi, il processo cumulativo dovrà considerarsi liberamente scindibile in fase di impugnazione. Pertanto, ricadranno sotto il regime dell’art. 332 il litisconsorzio c.d. improprio e quello derivante da connessione per identità della causa petendi. Le cause di garanzia e le obbligazioni solidali Tra le fattispecie più discusse, in relazione alla scindibilità o inscindibilità del cumulo in fase di impugnazione, vi è senz'altro il rapporto tra la causa principale e quella di garanzia, che normalmente s'instaura attraverso la chiamata in cause del garante . Abbiamo parlato della differenza fra garanzia propria e garanzia impropria: quest’ultima, essendo fondata su un rapporto giuridico diverso da quello posto a base della domanda principale, denoterebbe una connessione meno intensa tra le rispettive cause, sì da escludere la deroga degli ordinari criteri di competenza prevista dall’art. 32. Ebbene, in relazione al problema del litisconsorzio in caso di gravame, si afferma che, nell’ipotesi di garanzia impropria, le cause rimarrebbero distinte e scindibili, ricadendo comunque sotto il regime dell'art. 332. Buona parte della giurisprudenza, però, suole distinguere a seconda della situazione concretamente determinatasi in seguito all'impugnazione, ammettendo l'applicazione dell'art. 331 ogniqualvolta, avendo il garante contestato, in primo grado, (anche) l'esistenza o la misura della obbligazione principale, gravante sul convenuto, l' impugnazione dell'attore o del convenuto-garantito abbia ad oggetto tale obbligazione. Al contrario, sarebbe applicabile l'art. 332 non soltanto nel caso in cui l'impugnazione verta esclusivamente sulla causa di garanzia, ma anche quando sia solo il garante ad impugnare nei confronti del convenuto-garantito, seppur muovendo contestazioni in merito all'an o al quantum dell'obbligazione principale garantita. In realtà, la distinzione fra garanzia propria ed impropria appare poco persuasiva, poiché le fattispecie che si è soliti ricondurre al concetto di garanzia impropria corrispondono al consueto schema della pregiudizialità-indipendenza, con la conseguenza che dovrebbe applicarsi l'art. 331 ogniqualvolta la impugnazione, da chiunque proposta, investa il rapporto pregiudiziale e rischi concretamente di condurre, in caso di mancata integrazione del contraddittorio, ad un accertamento difforme di tale rapporto pregiudiziale rispetto ai più litisconsorti. Sezione III L' IMPUGNAZIONE INCIDENTALE IL DIVIETO DI REFORMATIO IN PEIUS E L'IMPUGNAZIONE INCIDENTALE Di regola, l'impugnazione può giovare esclusivamente a chi l'ha proposta: pertanto, quando vi sono più parti soccombenti oppure ricorre una soccombenza parziale reciproca, non è possibile che 21 l'impugnante veda riformare la sentenza in senso a sé sfavorevole (c.d. divieto di reformatio in peius), a meno che tale esito non derivi dall'accoglimento dell' impugnazione proposta da un'altra parte29. Questo spiega perché la proposizione di una pluralità di impugnazioni contro la stessa sentenza sia un’ipotesi molto frequente e perché, se ciascuna delle impugnazioni desse vita ad un autonomo procedimento, ciò implicherebbe una ramificazione del giudizio che sarebbe intollerabile. Per evitare questo inconveniente ed assicurare l’unicità del processo anche in fase d’impugnazione, il legislatore ha previsto l’istituto dell’IMPUGNAZIONE INCIDENTALE, che serve a far confluire in un unico processo tutte le impugnazioni proponibili contro la stessa sentenza. Per comprendere il meccanismo dell’impugnazione incidentale bisogna tener presente che il processo di impugnazione, al pari di quello di 1° grado, viene instaurato, a seconda dei casi, con citazione o con ricorso30. La parte che impugna per prima, quindi, deve rispettare le forme prescritte per la impugnazione principale, che dà inizio al processo. A norma dell’art. 333, invece, le parti che abbiano già ricevuto la notifica di tale impugnazione principale31 e vogliano a loro volta impugnare la sentenza (sul presupposto che siano a loro volta soccombenti), debbono proporre, a pena di decadenza, le loro impugnazioni in via incidentale nello stesso processo (cioè devono rispettare per la loro impugnazione, successiva a quella principale, le forme specificamente previste per le impugnazioni incidentali)32. A ben vedere, ciò che distingue l’impugnazione incidentale da quella principale è soltanto la forma, la quale deve essere coerente con lo scopo di inserirsi nell’ambito di un processo già avviato dall’impugnazione principale33. Per il resto, invece, l’impugnazione incidentale non differisce da quella principale, né per il presupposti, né quanto agli effetti; e le sue sorti non sono in alcun modo legate a quelle dell’impugnazione principale, rispetto alla quale, di regola, è del tutto autonoma. Un nesso tra le due impugnazioni potrebbe derivare, semmai, dalla volontà stessa dell'impugnante incidentale, che subordini espressamente la sua impugnazione all'accoglimento o al rigetto della impugnazione principale. L'onere dell'impugnazione (in forma) incidentale e le conseguenze della sua inosservanza Come può evincersi dall’art. 333, l'onere di utilizzare la forma dell'impugnazione incidentale sorge solo nel momento in cui si riceve la notifica dell'impugnazione principale, oppure dell'atto di integrazione del contraddittorio che sia stata ordinata dal giudice a norma dell'art. 331, oppure dalla litis denuntiatio disposta ai sensi dell’art. 332. Può succedere che, trattandosi di una sentenza pronunciata fra più parti, dopo una prima impugnazione principale ne venga legittimamente proposta un'altra, anche questa in forma principale, da una parte che non era stata coinvolta dalla prima impugnazione, o alla quale quest’ultima non era 22 29 Così, ad es, se il convenuto impugna la sentenza che l’ha condannato a pagare 50, e l’attore, che ne aveva chiesto la condanna per 100, non impugna a sua volta, il giudice ad quem può confermare integralmente la decisione impugnata, oppure può rigettare del tutto la domanda o accoglierla per una somma minore di 50, ma in nessun caso può condannare il convenuto per un importo maggiore 30 L’appello, in base al rito ordinario, inizia con la notifica di un atto di citazione dall’appellante all’appellato (cioè alla parte convenuta in fase d’impugnazione); il processo di cassazione, invece, prende l’avvio da un ricorso, che viene prima notificato e poi depositato nella cancelleria della Corte 31 Oppure una delle notificazioni previste dagli artt. 331 e 332 32 Che sono diverse a seconda del tipo di impugnazione di cui si tratta 33 Così, l’appello incidentale va proposto, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta, rispettando il termine per la costituzione in giudizio; invece, il ricorso incidentale per Cassazione si propone con il controricorso, entro il termine previsto per quest’ultimo impugnazione differita, per conservare il diritto di proporre impugnazione al termine del processo, dopo la pronuncia della sentenza definitiva. Ulteriori novità sono intervenute in seguito alla riforma del giudizio di cassazione del 2006, relativamente al regime delle sentenze non definitive di 2° grado. N.B: l’istituto che stiamo per esaminare non appartiene alla trattazione generale delle impugnazioni, perché interessa solo l’appello e il ricorso per cassazione, mentre tutte le altre impugnazioni non ammettono alcuna riserva. LE SENTENZE PER LE QUALI È AMMESSA L'IMPUGNAZIONE DIFFERITA La riserva di impugnazione è ammessa nei confronti delle sentenze non definitive. A. Relativamente all'APPELLO, l'art. 340 fa espressamente riferimento alle sentenze di 1° grado previste dall'art.278 e dall'art.279, 2° n.4. La possibilità di scelta tra l'impugnazione immediata e la riserva, dunque, è data sia per le sentenze di condanna generica o provvisionale, sia per tutte quelle con le quali il giudice abbia pronunciato su una questione oppure su una delle più domande cumulate nel processo, impartendo distinti provvedimenti per l'ulteriore istruzione della causa. Riguardo alle sentenze su domanda, poi, l'art. 340 non richiama36 le sentenze con cui il giudice, avvalendosi delle facoltà previste dagli artt. 103, 2° e 104, 2°, abbia deciso alcune soltanto delle cause fino a quel momento riunite e, con distinti provvedimenti, abbia disposto la separazione e la prosecuzione dell'istruzione per le altre, provocando in tal modo la definitiva scissione del processo cumulato, fino a quel momento unico. B. Riguardo al RICORSO PER CASSAZIONE, invece, l'art. 361 prende in considerazione, accanto alle sentenza previste dall'art. 278 (cioè quelle di condanna generica o provvisionale), solamente le sentenze che decidono una o alcune delle domande senza definire l'intero giudizio. Nel contempo, l'art.360, 3° esclude che siano immediatamente ed autonomamente ricorribili le sentenze (di appello o di unico grado) che decidono di questioni insorte senza definire, neppure parzialmente, il giudizio37. I TERMINI E LE MODALITÀ DELLA RISERVA La riserva d'impugnazione, necessaria ad evitare la decadenza che altrimenti deriverebbe dallo spirare dei termini ordinari, può essere formulata38 tanto direttamente all'udienza (attraverso una dichiarazione orale inserita nel relativo verbale oppure attraverso una dichiarazione scritta su foglio separato, da allegarsi al verbale stesso), quanto mediante atto autonomo, da notificare ai procuratori delle altre parti costituite oppure alle parti stesse personalmente, quando siano contumaci. Per quel che riguarda i termini, la riserva è ammessa fino alla prima udienza successiva alla comunicazione della sentenza non definitiva. Oltre a questo termine specifico, però, devono però tenersi presenti anche i consueti termini previsti, rispettivamente, per l'appello o per il ricorso per cassazione, i quali, specialmente quando la sentenza fosse stata notificata, ben potrebbero scadere prima dell'udienza indicata e, implicando il passaggio in giudicato della sentenza non definitiva, ne escluderebbero l'impugnazione. Se invece i termini per appellare o per ricorrere in cassazione 25 36 Quindi per esse non è ammessa l’impugnazione differita 37 Queste ultime potranno essere impugnate, senza necessità di alcuna riserva, insieme alla sentenza che definisce, anche parzialmente, il giudizio (cioè la sentenza che abbia deciso taluna soltanto delle più domande cumulate) 38 Indipendentemente dal fatto che abbia ad oggetto una sentenza soggetta ad appello o a ricorso per Cassazione scadessero dopo la prima udienza successiva alla comunicazione della sentenza, la conclusione di tale udienza impedirebbe la successiva formulazione della riserva di impugnazione differita, ma non escluderebbe un'impugnazione immediata della sentenza non definitiva, nel rispetto dei termini ordinari. I TERMINI E LE MODALITÀ DELLA SUCCESSIVA IMPUGNAZIONE DIFFERITA Tenuto conto della ratio dell'istituto, ben può comprendersi come la riserva perda ogni ragion d'essere se viene comunque proposta un'impugnazione immediata contro una sentenza non definitiva, sia essa la stessa sentenza nei cui confronti era stata formulata la riserva oppure un'altra successiva pronunciata (nulla esclude, infatti, che nel corso del processo si abbia una pluralità di sentenze non definitive). In questo caso, poichè ormai un processo d'impugnazione è stato instaurato, dovrà in esso confluire anche l'impugnazione della sentenza precedentemente “riservata”. È ovvio chiedersi, una volta che la riserva sia stata validamente proposta, quando essa vada sciolta (cioè quando la sentenza non definitiva debba essere poi impugnata). La disciplina positiva, a questo riguardo, può così ricostruirsi: a. la riserva di impugnazione vincola esclusivamente la parte che l'ha formulata , che non potrà cambiare idea ed optare, in seguito, per l'impugnazione immediata, mentre non esclude che un'altra parte soccombente impugni immediatamente; nel qual caso, peraltro, la riserva già fatta rimane priva di efficacia, sicché la parte che l'aveva proposta dovrà, ove lo ritenga, impugnare a propria volta subito, di regola nella forma dell'impugnazione incidentale; b. qualora nel prosieguo del processo venga pronunciata un'altra sentenza non definitiva, nulla esclude che anche questa sia oggetto di riserva d'impugnazione differita . Se questa seconda pronuncia non definitiva è invece impugnata, da qualunque delle parti, nei termini ordinari, nel relativo processo dovrà proporsi anche l'impugnazione della sentenza anteriormente riservata; c. se poi si perviene alla pronuncia della sentenza definitiva, l'eventuale impugnazione della non definitiva deve essere proposta unitamente a quella contro la sentenza che definisce il giudizio: ciò va inteso nel senso che l'impugnazione della non definitiva deve essere contenuta nello stesso atto con cui la parte impugni, in via principale o incidentale, la sentenza definitiva, oppure deve comunque confluire nel processo instaurato da altra parte che abbia impugnato la sentenza definitiva; d. può avvenire, infine, che il giudizio, dopo la pronuncia della sentenza non definitiva oggetto della riserva, si estingua. In questo caso bisogna distinguere, a seconda del contenuto della sentenza: • se si tratta di una sentenza dal contenuto processuale, essa perde ogni efficacia in seguito all'estinzione, e non si pone il problema della sua impugnazione; • se invece la sentenza è di merito, sicché sopravvive all'estinzione, essa acquista efficacia di sentenza definitiva dal giorno in cui diventa irrevocabile l'ordinanza, o passa in giudicato la sentenza, dichiarativa dell'estinzione, e da questo momento prenderanno a decorrere i consueti termini di decadenza per la sua impugnazione. N.B: Le ultime tre ipotesi possono prospettarsi anche in relazione a sentenze (non definitive) di 2° o di unico grado su questioni, che sono impugnabili (con ricorso per cassazione) in via necessariamente differita, cioè solo quando sia impugnata la sentenza che definisce, anche parzialmente, il giudizio (art. 360, 3°) e per le quali non occorre nessuna riserva. 26 CAPITOLO XVII L'APPELLO I CARATTERI GENERALI DELL'APPELLO E IL PRINCIPIO DEL DOPPIO GRADO DI GIURISDIZIONE La più “ordinaria” fra tutte le impugnazioni è sicuramente l'appello, che, oltre ad avere una solidissima tradizione storica, ha anche una vastissima diffusione, con caratteri complessivamente abbastanza simili, nella maggior parte degli ordinamenti moderni. Alcune connotazioni fondamentali dell'appello sono: a. è un'impugnazione dall'effetto almeno potenzialmente DEVOLUTIVO, poiché sottopone ad un giudice diverso e superiore lo stesso oggetto sul quale ha già pronunciato a quo; b. ha natura SOSTITUTIVA, poiché il suo obiettivo non è la mera eliminazione della sentenza ma, sempre e direttamente, la pronuncia di una nuova decisione sul merito della causa, la quale prende in ogni caso il posto della sentenza di primo grado, pur quando il contenuto sia identico; c. è utilizzabile (quale impugnazione a CRITICA LIBERA) a fronte di qualunque vizio della sentenza di primo grado, sia esso in procedendo o in iudicando, indipendentemente dalla circostanza che attenga al giudizio in diritto oppure alla ricostruzione dei fatti rilevanti per la decisione39. Altre caratteristiche dell’appello sono legate a scelte di politica legislativa processuale e riguardano la funzione stessa di tale impugnazione. A questo proposito, infatti, ci si chiede se scopo dell’appello sia solo quello di porre rimedio agli errori del giudice a quo, o se invece, entro certi limiti, possa anche servire a favorire il perseguimento di una sentenza “giusta” (consentendo alle parti di emendare i propri errori e le proprie lacune difensive). Sul piano teorico, a queste diverse esigenze corrispondono due modelli d’impugnazione piuttosto distanti fra loro: • da un lato vi è l'appello novum iudicium, configurato come una sorta di prosecuzione del giudizio di primo grado, nel quale le parti possono liberamente dedurre, entro i confini tracciati dalla domanda originaria, nuove difese, nuove eccezioni e nuove prove, ed il giudice, dal canto suo, è potenzialmente investito, con cognizione piena e per effetto della sola impugnazione, della medesima controversia già sottoposta al primo giudice, sicché la sua decisione potrebbe differire da quella impugnata anche indipendentemente dalle censure mosse dall'impugnante nonché da un errore del giudice a quo, magari per effetto del nuovo materiale istruttorio portatogli dalle parti; • dall’altro lato vi è invece l'appello revisio prioris instantiae, che è rigorosamente circoscritto al riesame e al controllo dell'operato del primo giudice, e dunque all'eliminazione degli errori da lui commessi, mentre esclude l'introduzione di qualunque nuova allegazione o prova. Si tratta però in concreto di modelli estremi, che devono sempre contemperarsi sul piano positivo. Per tradizione, poi, si è poi soliti affermare che l'appello realizzerebbe il principio del doppio grado di giurisdizione, inteso nel senso che ogni domanda o questione deve poter essere sottoposta all'esame successivo di due giudici di merito. In realtà, però, tale principio non ha alcun concreto significato positivo, giacché non è affatto detto che per ogni punto rilevante della causa sia effettivamente 27 39 Il giudice d’appello è un giudice di merito, cui competono poteri del tutto analoghi a quelli che spettavano al giudice di 1° grado Il testo originario dell'art. 342 prescriveva laconicamente che l’atto introduttivo del giudizio di 2° grado dovesse contenere, tra l’altro, i motivi specifici dell’impugnazione, senza precisare cosa dovesse intendersi con tale espressione e quali conseguenze determinasse la proposizione di un appello basato su motivi del tutto generici. Stando ad una parte della dottrina, tali motivi servivano essenzialmente a chiarire quali parti della sentenza l'appellante intendesse effettivamente impugnare, con la conseguenza che la loro omissione sarebbe rimasta sostanzialmente irrilevante quando dall'atto di appello fosse desumibile la volontà di impugnare la sentenza nella sua interezza. Nel corso degli anni, tuttavia, questa tesi aveva perso progressivamente terreno, essendo prevalsa l'idea che i motivi “specifici” previsti dall'art. 342 non servissero solamente ad individuare i capi della sentenza concretamente impugnati, ma assolvessero, invece, la ben più incisiva funzione di “selezionare” le questioni che il giudice di 2° grado poteva e doveva a sua volta affrontare e risolvere. Ciò premesso, una recente riforma, nell'introdurre il c.d. filtro di ammissibilità dell'appello, ha inopportunamente modificato l'art. 342, 1°, che ora prevede che l'appello deve essere motivato e che la relativa motivazione deve contenere, a pena di inammissibilità: 1. l'indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado; 2. l'indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata. Da tali prescrizioni una parte della dottrina e della primissima giurisprudenza di merito ha dedotto che la riforma avrebbe addirittura aggravato, rispetto al passato, gli oneri dell’appellante; considerato, tuttavia, che l’art. 342 esige tuttora “le indicazioni prescritte dall’art. 163” e che i motivi rappresentano, in un certo senso, la causa petendi della domanda di impugnazione, è più plausibile che il legislatore abbia inteso solo confermare i risultati cui era già pervenuta in via interpretativa la giurisprudenza. Quindi, l'appellante, quando voglia far riesaminare dal giudice di 2° grado una determinata questione di fatto o di diritto già decisa dal primo giudice, non può limitarsi a sostenere che il giudice di primo grado ha sbagliato nel risolverla, ma ha anche l'onere di chiarire perché reputa erronea la soluzione cui era pervenuto il giudice a quo. Quest'onere incide sugli stessi poteri del giudice d'appello, il quale può riesaminare le sole questioni sulle quali la pronuncia del primo giudice sia stata oggetto di specifiche censure. Per quel che riguarda, poi, le questioni non decise in 1° grado, si ritiene che la cognizione del giudice d'appello si estenda, all'interno dei capi della sentenza impugnati, alle questioni, processuali o di merito, rilevabili d'ufficio anche in sede di impugnazione e risultanti dagli atti (si ammette, cioè, che il giudice possa analizzare tali atti di sua iniziativa, indipendentemente dalla sollecitazione della parte che ha impugnato). L'INTERVENTO NEL GIUDIZIO DI SECONDO GRADO Nel giudizio di appello l'intervento di terzi è ammesso in termini più ristretti che nel giudizio di primo grado (dato che si vuole evitare che una domanda proposta dal terzo o nei suoi confronti venga conosciuta dal giudice d’appello in unico grado). È pacifico che l'INTERVENTO COATTO sia in ogni caso escluso, anche quando, essendo stato chiesto al giudice di primo grado, questo l'avesse erroneamente negato. Per il solo INTERVENTO VOLONTARIO, invece, l'art. 334 prevede una deroga limitatamente ai terzi che potrebbero proporre opposizione a norma dell'art. 404, senza però distinguere tra opposizione di terzo ordinaria o revocatoria. Più precisamente, la legittimazione all'intervento compete esclusivamente: a) ai 30 litisconsorti necessari pretermessi; b) a coloro i quali vantino un diritto autonomo ed incompatibile rispetto a quello accertato nella sentenza; c) ai creditori e agli aventi causa di taluna delle parti. In tali ipotesi l'intervento mira, indipendentemente dall'esito del giudizio di primo grado, a prevenire la pronuncia di una sentenza viziata da parte del giudice d'appello, il quale dovrà comunque decidere nuovamente la causa nel merito. Fuori dalle previsioni dell'art. 344, inoltre, è pacifico che in appello possa intervenire volontariamente il successore a titolo particolare nel diritto controverso, cui l'art.111 ult co conferisce il diritto di impugnare autonomamente la sentenza. Infine, anche nel giudizio di 2° grado potranno aversi modificazioni delle parti originarie: l'estromissione di taluna, a norma degli artt. 108, 109 e 111; l'intervento o la chiamata in causa dei successori universali di una parte; la sostituzione del rappresentato al rappresentante, in ogni ipotesi in cui la rappresentanza legale venga meno (ad es. con il raggiungimento della maggiore età), oppure la rappresentanza volontaria sia revocata dallo stesso rappresentante. IL REGIME DEI C.D. NOVA: LE NUOVE DOMANDE L'attuale formulazione dell’art. 345 (frutto della riforma del ’90) delinea un appello tendenzialmente chiuso ai nova42, sebbene le deroghe non siano né poche, né trascurabili. Per quanto riguarda le DOMANDE FORMULABILI PER LA PRIMA VOLTA IN APPELLO, l’art. 345, 1° esclude che nel giudizio di appello possano proporsi “domande nuove” e prevede, per il caso in cui il divieto sia violato, che le nuove domande siano dichiarate inammissibili anche d'ufficio (ciò significa che esse rimarranno liberamente proponibili in un separato giudizio). Tale preclusione ammette deroghe solamente per la richiesta degli interessi, dei frutti e degli accessori maturati dopo la deliberazione della sentenza di primo grado, nonché per la domanda di risarcimento dei danni posteriori alla sentenza stessa (sull'implicito presupposto che la domanda di risarcimento fosse già stata avanzata in primo grado). Più che di domande nuove, in realtà, si tratta di un ampliamento quantitativo del petitum originario, giustificato da fatti sopravvenuti. Inoltre, si sottrae al divieto di nuove domande, nonostante la mancanza di una disposizione ad hoc, la richiesta di restituzione di quanto sia stato eventualmente corrisposto in esecuzione della sentenza di 1° grado. Ciò significa che l'art. 345, mentre esclude la mutatio libelli, lascia aperta la strada tanto alla modifica (emendatio), quanto, a fortiori, alla semplice precisazione delle domande formulate in primo grado43 (ad es., se la domanda riguarda un diritto autodeterminato44, non contrasterebbe col divieto di nuove domande la deduzione, in appello, di un fatto costitutivo diverso da quello originariamente prospettato in primo grado, poiché costituirebbe una mera emendatio della stessa domanda stessa). Le nuove eccezioni L'art. 345, 2° esclude le nuove eccezioni (processuali e di merito) che non siano rilevabili anche d'ufficio. In tal modo si ripropone in appello la distinzione tra le eccezioni di merito in senso stretto, riservate all'iniziativa delle parti, e le eccezioni in senso lato, rilevabili anche d'ufficio, nonchè l'ulteriore distinzione tra le eccezioni vere e proprie, da una parte, e le mere difese dall'altra. Se si accede alla tesi secondo cui le eccezioni (di merito) sono per principio rilevabili d’ufficio, la limitazione posta dall’art. 345 risulta meno incisiva di quanto potrebbe apparire prima facie, e cmq 31 42 Accentuandone la funzione di revisio prioris istantiae 43 Cioè, a tutte le variazioni che non incidano sull'identità delle domande stesse 44 Come la proprietà o un altro diritto reale di godimento non esclude che in appello vengano allegati nuovi fatti estintivi, impeditivi o modificativi ogni volta in cui si tratti di fatti che non sono subordinati all’eccezione della parte interessata. Resta da stabilire come le nuove eccezioni si coordino con la struttura del giudizio d'appello, e dunque fino a quando esse debbano considerarsi proponibili: • per le eccezioni processuali, fondate su questioni pregiudiziali di rito o su nullità di cui la legge, esplicitamente o implicitamente, ammette la rilevabilità d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio, deve ritenersi che il potere-dovere del giudice d'appello di rilevare l'impedimento alla decisione di merito prescinda dall'iniziativa delle parti, rimanendo subordinato solo all'esistenza di un'impugnazione idonea ad investirlo del riesame della domanda45; • per le eccezioni di merito è invece necessario ulteriormente distinguere, a seconda che la domanda sia stata rigettata o accolta: nel primo caso il giudice d'appello potrebbe sempre porre a base della decisione (di conferma), indipendentemente dal rilievo della parte interessata, la questione, rilevabile d'ufficio, che nessuno aveva sollevato in primo grado, e conseguentemente le stesse parti potrebbero introdurre la nuova eccezione per tutto il corso del processo di secondo grado; se la domanda invece è stata accolta, la proposizione della nuova eccezione costituisce esercizio del potere d'impugnazione e quindi non può non essere compresa nei motivi d'appello, a norma dell'art. 342, sicché la sua proposizione dovrà avvenire contestualmente all'impugnazione, principale o incidentale. Per quel che riguarda, poi, le mere difese, anche quando si traducano nella contestazione di fatti allegati dall'avversario, si ritiene che esse sfuggano alla preclusione prevista per le eccezioni in senso stretto, e restino proponibili anche in appello. Questo è deducibile dall'art. 115, 1°, secondo cui il giudice può porre a fondamento della decisione i fatti non specificamente contestati. Le nuove prove L'art. 345, 3° prevede che di regola non siano ammessi in appello nuovi documenti né nuovi mezzi di prova, ma nel contempo esclude da tale divieto: a. il giuramento decisorio; b. le prove (anche documentali) che la parte dimostri di non aver potuto proporre (o produrre) in primo grado per una causa ad essa non imputabile. In passato era prevista anche una terza deroga, relativa ai mezzi di prova e ai documenti che il giudice d'appello avesse ritenuto indispensabili ai fini della decisione della causa; ma è stata eliminata con un intervento del 2012. N.B: L'art. 345 si occupa esclusivamente dei mezzi di prova proponibili dalle parti, mentre lascia impregiudicata la possibilità che anche il giudice d'appello utilizzi i poteri istruttorii officiosi che la legge gli attribuisce46. IL PECULIARE REGIME DI APPELLABILITÀ (LIMITATA) DELLE SENTENZE DI EQUITÀ DEL GIUDICE DI PACE La riforma del 2006 ha introdotto un regime di impugnazione del tutto peculiare per le SENTENZE DEL GIUDICE DI PACE RESE SECONDO EQUITÀ a norma dell'art.113, 2°, stabilendo che esse sono appellabili esclusivamente per violazione delle norme sul procedimento, per violazione di norme 32 45 In parallelo, le parti potranno prospettare al giudice la relativa questione in qualunque momento, fino alla precisazione delle conclusioni 46 In questo caso, però, l’art. 183, 8° impone che alle stesse parti sia riconosciuta la possibilità di dedurre gli ulteriori mezzi di prova che si rendano necessari in relazione a quelli disposti d’ufficio Quando il processo si svolge davanti alla corte d'appello, inoltre, ogni attività viene svolta dal collegio nella sua interezza (art.350), e la stessa composizione del collegio ben potrebbe cambiare tra l'una e l'altra udienza, non essendo applicabile il principio di immutabilità previsto per il giudice istruttore (art. 174). In caso di mancata comparizione delle parti48, una disciplina ad hoc è dettata per l’ipotesi in cui l’appellante, pur essendosi anteriormente costituito in cancelleria, ometta di comparire alla prima udienzain questo caso il giudice, con ordinanza non impugnabile, è tenuto a rinviare la causa ad altra udienza, della cui data il cancelliere deve dare comunicazione all’appellante; se poi l’assenza si ripete alla nuova udienza, la sanzione è rappresentata dalla dichiarazione di improcedibilità dell’appello (art. 348, 2°)49. Nella prima udienza il giudice deve verificare la regolare costituzione del giudizio e delle stesse parti e pronunciare con ordinanza, quando ne ricorrano i presupposti, i provvedimenti occorrenti per porre rimedio ad eventuali vizi del contraddittorio, oppure diretti a salvaguardare l'unità del processo d'appello. Nella stessa udienza è altresì previsto che venga dichiarata l'eventuale contumacia dell'appellato (non quella dell'appellante, che implica improcedibilità dell’appello e può pronunciarsi solo con sentenza) e si procede al tentativo di conciliazione, ordinando la comparizione personale delle parti (art. 350). Di regola, anche la decisione sull'istanza di inibitoria è attribuita al collegio, che provvede con ordinanza non impugnabile nella prima udienza (art. 351); il soccombente ha però il diritto di chiedere, con ricorso al giudice monocratico o al presidente del collegio, che la decisione sulla sospensione sia pronunciata prima dell'udienza di comparizione. In questo caso si apre un procedimento incidentale autonomo e distinto da quello concernente il merito dell'appello, e al giudice o al presidente, col medesimo decreto con cui fissa la comparizione delle parti in camera di consiglio, è consentito disporre provvisoriamente, quando ne sia stato richiesto e sussistano giusti motivi di urgenza, la sospensione immediata dell'efficacia esecutiva o dell'esecuzione della sentenza, fermo restando che all'udienza in camera di consiglio tale decreto dovrà essere confermato, modificato o revocato con ordinanza non impugnabile. Quando vengano eccezionalmente ammesse (o disposte d’ufficio) nuove prove, oppure sia disposta la rinnovazione totale o parziale dell'assunzione già avvenuta in primo grado, all’assunzione dei mezzi istruttori può provvedere, con tutti i poteri che competono in 1° grado al giudice istruttore, lo stesso collegio, oppure uno dei suoi componenti delegato dal presidente. Anche in appello è espressamente prevista l'applicabilità dell'art.279, 2° n. 4, ossia la possibilità di pronunciare sentenza non definitiva su domanda o su questione, nelle stesse ipotesi in cui è consentita al giudice di primo grado. LA DECISIONE La fase decisoria del giudizio d’appello, disciplinata dall’art. 352, ricalca fedelmente quella del processo di 1° gradol’iter ordinario è il seguente: precisazione delle conclusioni, scambio delle comparse conclusionali e delle memorie di replica, eventuale fissazione dell'udienza per la discussione orale della causa quando una delle parti lo chieda; con la sola differenza che il termine per la decisione è sempre di 60 giorni, rispettivamente decorrenti, a seconda dei casi, dalla scadenza del termine per le memorie di replica o dall'udienza di discussione. 35 48 Anche in appello trovano applicazione, quando si tratti di diserzione bilaterale dell’udienza, le disposizioni degli artt. 181, 1° e 309 49 Questa disciplina deve ritenersi applicabile anche all’appellante incidentale che ometta di comparire alla prima udienza (invece, l’improcedibilità dell’impugnazione principale non si estende mai a quella incidentale, e viceversa) Fa eccezione l'ipotesi in cui oggetto dell'appello sia una sentenza che ha dichiarato l'estinzione del processo a norma dell'art. 308 (ossia la sentenza del collegio che ha respinto il reclamo proposto contro l'ordinanza di estinzione resa dal giudice istruttore): l'art.130 disp. att., infatti, prevede che l'appello sia cmq deciso con sentenza in camera di consiglio, escludendo sia lo scambio di comparse conclusionali e delle repliche, sia la fissazione di un'udienza di discussione, salva la possibilità che il collegio, quando è necessario, autorizzi le parti a presentare delle memorie, fissando i relativi termini. A prescindere da questa specifica ipotesi, l'art. 352 contempla l'eventualità che il collegio utilizzi per la decisione, a propria discrezione, anche l'iter semplificato disciplinato dall'art. 281-sexies50: il collegio, fatte precisare alle parti le conclusioni, può ordinare la discussione orale della causa nella stessa udienza (o, su istanza di parte, in un'udienza successiva) senza disporre lo scambio delle comparse conclusionali e delle repliche, dando poi lettura nella medesima udienza sia del dispositivo, sia della motivazione della sentenza. Il c.d. filtro di ammissibilità dell'appello Una recente (e contestatissima) riforma, nel tentativo di incrementare la “produttività” delle corti d'appello, ha introdotto il c.d. filtro di ammissibilità dell'appello, che dovrebbe consentire al giudice di 2° grado di sbarazzarsi agevolmente, già nella fase iniziale del giudizio, delle impugnazioni che gli appaiono ictu oculi prive di ogni fondamento. Più precisamente, i novellati artt. 348-bis e 348-ter prevedono che il giudizio possa essere immediatamente definito con un'ordinanza di inammissibilità allorché nessuna delle impugnazioni, principali o incidentali, abbia “una ragionevole probabilità di essere accolta”. Tale ordinanza, che deve ovviamente provvedere anche sulle spese del processo di 2° grado, può essere motivata succintamente, anche mediante il rinvio agli elementi di fatto riportati in uno o più atti di causa e il riferimento a precedenti conformi51. Resta esclusa l'applicabilità di tale meccanismo: 1. nelle cause in cui è obbligatorio l'intervento del P.M. a norma dell'art. 70; 2. quando l'appello sia stato proposto ai sensi dell'art. 702-quater, essendo stata la causa trattata in 1° grado col rito sommario di cognizione; 3. nei casi in cui deve essere dichiarata con sentenza l'inammissibilità o improcedibilità dell'appello. Tenuto conto di quest'ultima esclusione, è chiaro che si è in presenza di un'ipotesi di inammissibilità del tutto anomala, che non sanziona un vizio formale dell'atto di appello oppure l'inesistenza del diritto di impugnare, bensì l'infondatezza dell'impugnazione. Un'altra anomalia risiede nella circostanza che l'ordinanza d'inammissibilità non soltanto determina una sorta di reviviscenza della sentenza di 1° grado, ma riapre anche i termini per impugnare quest'ultima direttamente con ricorso per cassazione, per i motivi contemplati nell'art. 360. L'ordinanza è invece sottratta al ricorso per cassazione, a meno che non sia affetta da vizi propri oppure sia stata pronunciata in difetto dei presupposti indicati dal legislatore. Per quel che concerne l'ambito temporale in cui può intervenire l'ordinanza d' inammissibilità, occorre tenere presente che essa, in base all'art. 348-ter, 1°, dovrebbe essere pronunciata all'udienza di cui all'art. 35052, sentite le parti e prima di procedere alla trattazione. 36 50 Che in 1° grado si applica alle sole cause attribuite al tribunale in composizione monocratica 51 Ciò dovrebbe ridurre ai minimi termini l’obbligo di motivazione gravante sul giudice d’appello 52 Cioè, alla prima udienza di trattazione LE IPOTESI DI RIMESSIONE DELLA CAUSA AL GIUDICE DI PRIMO GRADO Poiché i poteri del giudice d’appello sono tendenzialmente uguali a quelli del giudice di 1° grado, l’obiettivo dell’appello è quello di pervenire ad una sentenza che si sostituisca a quella di primo grado e ne emendi gli eventuali errori; l’ipotesi “normale” è quella di una nuova sentenza sul merito della causa, ma è ovvio che, laddove il giudice ritenesse mancante un presupposto processuale o una condizione dell’azione, proprio il carattere sostitutivo della sua decisione gli imporrebbe di definire il giudizio con una sentenza meramente processuale. Gli artt. 353 e 354, tuttavia, prevedono alcune ipotesi nelle quali il giudice di 2° grado, anziché applicare il suddetto principio, deve limitarsi a riformare o ad annullare la sentenza impugnata, ed a restituire la causa la giudice di 1° grado, affinchè la decida nuovamente. Andiamo ad esaminare distintamente 2 gruppi di fattispecie: A. Gli artt. 353 e 354, 2° fanno riferimento alle ipotesi nelle quali il giudice di 1° grado abbia erroneamente dichiarato il proprio difetto di giurisdizione oppure l’estinzione del processo a norma e nelle forme dell'art. 308 (cioè con sentenza pronunciata a seguito di reclamo proposto contro l'ordinanza di estinzione resa dal giudice istruttore)in entrambi i casi il giudice d'appello non può, nel riformare l'erronea pronuncia processuale, decidere la causa nel merito, ma deve rimetterla al giudice a quo. N.B: nulla è previsto per l’ipotesi di erronea declaratoria di incompetenza in 1° grado; tale omissione però si spiega perché tale pronuncia, quando sia resa dal tribunale, non è impugnabile con l’appello, ma col solo regolamento di competenza dinanzi alla Corte di cassazione. B. Il 1° comma dell’art. 354, invece, contempla 4 distinte ipotesi di nullità del processo, che il legislatore ha ritenuto talmente gravi, da ritenere che il 1° grado non si sia validamente concluso: 1. NULLITÀ DELLA NOTIFICAZIONE DELLA CITAZIONE INTRODUTTIVA: in questo caso si presuppone che il vizio non sia stato sanato in 1° grado, tramite la rinnovazione della notifica o la spontanea costituzione del convenuto, e che, conseguentemente, tutti gli atti compiuti siano nulli. 2. OMESSA INTEGRAZIONE DEL CONTRADDITTORIO: si tratta dell’ipotesi in cui il 1° giudice ha omesso di rilevare la violazione dell'art. 102 (cioè la mancata partecipazione al giudizio di alcuni litisconsorti necessari), e conseguentemente di ordinare la citazione di questi. La sentenza è da considerarsi, a seconda dei casi, nulla o inutiler data, e la causa deve tornare in primo grado affinché possa regolarizzarsi il contraddittorio in quella sede. Si ammette tuttavia che i litisconsorti pretermessi, pur non potendo essere costretti a partecipare al solo giudizio di appello, possano intervenire volontariamente, dichiarando di rinunciare allo annullamento della sentenza o alla rimessione della causa al giudice a quo. 3. INDEBITA ESTROMISSIONE DI UNA PARTE: deve ritenersi che la norma abbia inteso riferirsi non a qualunque ipotesi di erronea estromissione o cmq di indebita scissione di un cumulo soggettivo di cause, ma esclusivamente al caso in cui sia stata estromessa dal giudizio una parte che addirittura doveva considerarsi litisconsorte necessario ai sensi dell'art. 102. 4. OMESSA SOTTOSCRIZIONE DELLA SENTENZA DA PARTE DEL GIUDICE: si tratta dell’ipotesi più grave di nullità, perché è l’unica che sopravvive perfino al passaggio in giudicato della sentenza e potrebbe farsi valere anche al di fuori dell’impugnazione, attraverso la c.d. actio nullitatis. Quando la causa è rimessa al 1° giudice, le parti sono tenute a riassumerla (a pena di estinzione) entro 3 mesi dalla notificazione della sentenza. 37 norma, pur correttamente intesa, è utilizzata per una ipotesi ad essa estranea (il che spesso avviene per un errore di “sussunzione” dovuto ad un’erronea qualificazione giuridica della fattispecie) N.B: il legislatore parla genericamente di norme di diritto, lasciando intendere che debba aversi riguardo non solo alle leggi e agli altri normativi ad essa equiparati, ma a tutte le fonti del diritto (quindi anche ai regolamenti e agli usi). Va inoltre detto che, sebbene il più delle volte la norma di diritto che si assume violata sia una norma sostanziale, non è escluso che la censura investa l’interpretazione o l’applicazione di una norma processuale che il giudice di merito ha utilizzato per la decisionesi tratterà pur sempre di un error in iudicando. B. VIOLAZIONE O FALSA APPLICAZIONE DEI CONTRATTI E ACCORDI COLLETTIVI NAZIONALI DI LAVORO (art. 360, n. 3). L’interpretazione dei contratti, non avendo ad oggetto una norma di diritto, costituisce una quaestio facti, trattandosi di ricostruire la volontà dei contraenti. Pertanto, rispetto ad essi il sindacato della Corte può essere al più indiretto, rimanendo circoscritto alla congruità della motivazione fornita dal giudice di merito. Il n. 3) dell’art. 36056, però, deroga a tali principi per quel che riguarda la violazione (o la falsa applicazione) dei contratti e degli accordi collettivi nazionali di lavoro, i quali, pur essendo estranei al sistema delle fonti di diritto, vengono accomunati alle norme di diritto dal punto di vista del ricorso per Cassazione. C. MOTIVI ATTINENTI ALLA GIURISDIZIONE (art. 360 n.1). Vi rientrano tutte e solo le questioni per le quali sarebbe anche esperibile, a norma dell'art. 41, il regolamento preventivo di giurisdizione; il ricorso è ammesso sia quando il giudice si sia occupato di una causa sulla quale era privo di giurisdizione, sia quando si sia dichiarato erroneamente privo di giurisdizione. D. VIOLAZIONE DELLE NORME SULLA COMPETENZA, QUANDO NON È PRESCRITTO IL REGOLAMENTO DI COMPETENZA (art. 360 n.2). Anche in questo caso il ricorso sarebbe esperibile sia quando la sentenza impugnata avesse risolto erroneamente una questione di competenza, sia quando avesse deciso il merito, omettendo di rilevare l’incompetenza. Poiché oggi l’incompetenza è rilevabile solo entro la prima udienza di trattazione (art. 38), la seconda eventualità non dovrebbe più configurarsi. Quanto alla prima ipotesi, l’utilizzazione del ricorso (ordinario) è consentita solamente quando il giudice ha deciso sulla competenza unitamente al merito (affermando la propria competenza); in caso contrario, infatti, la decisione sulla competenza sarebbe resa in forma ordinaria e l'unica impugnazione possibile sarebbe il regolamento di competenza, che egualmente investe della questione la Cassazione, ma è soggetto ad una disciplina parzialmente diversa da quella del ricorso ordinario e può avere ad oggetto esclusivamente la questione di competenza. E. NULLITÀ DELLA SENTENZA O DEL PROCEDIMENTO (art. 360 n. 4). In questo caso deve trattarsi di errores in procedendo, dai quali sia derivata cmq la nullità della sentenza: per vizi propri57 oppure per estensione dell'invalidità formale degli atti del procedimento, oppure per il difetto di presupposti processuali, diversi dalla giurisdizione e dalla competenza58. N.B: non rientra in tale fattispecie l’ipotesi in cui il giudice a quo abbia erroneamente ritenuto il difetto di un presupposto processuale, definendo il processo in mero rito. F. OMESSO ESAME CIRCA UN FATTO CONTROVERSO E DECISIVO PER IL GIUDIZIO CHE E’ STATO OGGETTO DI DISCUSSIONE TRA LE PARTI (art.360 n.5). per 40 56 Frutto, per questa parte, del d.lgs. 40/2006 57 Ad es, per difetto di sottoscrizione o per omissione di pronuncia 58 Si pensi al difetto di capacità processuale di taluna delle parti comprendere i delicati problemi interpretativi sollevati da questo motivo di ricorso, sono indispensabili alcune premesse. Se si tiene conto della sua funzione originaria ed essenziale quale giudice di legittimità, è facile comprendere perché dai poteri della Cassazione esulino l’accertamento e la valutazione dei fatti extraprocessuali rilevanti per la decisione della causa, per la cui ricostruzione essa non può che rifarsi ai risultati cui è pervenuto il giudice di merito. Già nella vigenza del codice del 1865, però, la Cassazione, nonostante l’assenza di una specifica previsione normativa, si era attribuita il potere di verificare la congruenza dell’iter logico seguito dal giudice di merito nella risoluzione delle questioni di fatto. Il legislatore del ’42, pur muovendo dalla convinzione che la giurisprudenza avesse abusato del suddetto potere, si guardò bene dall’escluderlo, codificandolo invece in termini piuttosto restrittiviinfatti, la formulazione originaria dell’art. 360, n. 5 faceva riferimento all’ “omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti”. La novella del 1950 ne estese poi la portata, prevedendo come motivo di ricorso la “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti o rilevabile d’ufficio”. Grazie a questo ampliamento, la Corte fino a poco fa ha potuto esercitare un sindacato indiretto (ma ciononostante piuttosto penetrante) sul giudizio di fatto operato dal giudice di merito. Tuttavia, il considerevole aumento del numero dei ricorsi ha indotto ad optare per una nuova restrizione del vizio in esamequesto spiega perché il d.l. 83/2012 ha ricondotto la disposizione in esame alla sua formulazione originaria, attribuendo rilievo esclusivamente all’omesso esame circa un fatto decisivo. Ciò premesso, va sicuramente escluso che tale ambigua espressione si riferisca all’ipotesi in cui il giudice abbia omesso di valutare un fatto decisivo e controverso fra le parti, perché in tal caso saremmo in presenza di una nullità della sentenza (deducibile ai sensi del n. 4 dell’art. 360). La disposizione in esame, invece, allude ad un VIZIO DELLA MOTIVAZIONE, ma a questo punto occorre capire in che misura la recente riforma abbia inciso sulla possibilità per il ricorrente di invocare il sindacato indiretto della Corte su questioni di fatto. A seguito della recente riforma, la Cassazione ha adottato un atteggiamento estremamente restrittivo nell’interpretazione della nuova disposizione, ritenendo che il legislatore abbia voluto escludere radicalmente il c.d. controllo di logicità della motivazione e limitando il suo sindacato solo alle ipotesi più gravi ed evidenti, in cui la motivazione offerta dal giudice a quo sia meramente formale, inconsistente o del tutto apodittica. Va poi sottolineato che il difetto di motivazione deve riguardare un fatto che sia decisivo e nel contempo sia stato oggetto di discussione fra le parti. Il 2° requisito non pone grossi dubbi interpretativi, perché mira solo ad escludere che per questa via possano trovare ingresso nel giudizio di legittimità questioni di fatto nuove. Più problematico, invece, è intendere il 1° requisito, perché, soprattutto quando si tratti di un fatto secondario, l’accertamento della sua decisività presupporrebbe il riesame dell’intero materiale probatorio a disposizione del giudice di merito, che sicuramente esorbita i poteri della Cassazione. Si deve quindi ritenere che la Corte debba limitarsi a verificare la potenziale decisività del fatto controverso. Ricordiamo poi che il d.l. 83/ 2012, oltre ad aver inopportunamente modificato il n. 5 dell’art. 360, ha anche escluso che il vizio in questione sia deducibile59 nei confronti della sentenza d’appello che abbia confermato la decisione di 1° grado e sia fondata sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della decisione impugnata. Identica limitazione si applica al ricorso per Cassazione proponibile nei confronti della sentenza di 1° grado, quando l’appello sia stato dichiarato inammissibile con ordinanza, ai sensi degli artt. 348-bis e 348-ter, e tale ordinanza 41 59 Salvo che si tratti di cause in cui è obbligatorio l’intervento del pm, a norma dell’art. 70, 1° risulti anch’essa fondata sulle stesse argomentazioni in fatto che erano state adottate dal giudice di 1° grado. IL RICORSO C.D. STRAORDINARIO DELL'ART. 111 COST. E LA NOZIONE “SOSTANZIALE” DI SENTENZA L'art.111,7° Cost. prevede che “contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in cassazione per violazione di legge”, con le sole eccezioni, quanto ai giudici speciali, dei tribunali militari in tempo di guerra, nonché del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, le cui decisioni sono ricorribili per i soli motivi inerenti alla giurisdizione. Applicando i consueti principi, si sarebbe dovuto ritenere che l’art. 111 implicasse la necessità di rimettere alla Corte costituzionale tutte le disposizioni del codice o di altre leggi ordinarie che escludevano l’impugnabilità di talune sentenze60. La giurisprudenza prevalente, però, si orientò verso la soluzione dell’applicabilità diretta dell’art. 111 da parte del giudice, sostenendo che la norma costituzionale prevalesse senz’altro sulle disposizioni di legge ordinaria limitative del ricorso, senza dover passare attraverso una declaratoria d’illegittimità di queste ultime. Inoltre, per evitare che il legislatore ordinario potesse eludere la garanzia costituzionale del ricorso per cassazione imponendo per determinati provvedimenti una forma diversa dalla sentenza, si è affermato il principio per cui per “sentenza” ai sensi dell’art. 111 Cost deve intendersi non solamente il provvedimento per il quale il legislatore ha previsto la forma della sentenza, ma ogni altro diverso provvedimento che possieda comunque la natura (o, se si preferisce, la sostanza) della sentenza. Va considerata quindi sentenza, ai sensi dell’art. 111 Cost, ogni provvedimento che: a. abbia natura decisoria, cioè statuisca su diritti o status, e nel contempo b. sia definitivo, non essendo soggetto ad alcuna diversa impugnazione né ad un'eventuale revoca o modifica da parte del giudice che l'ha pronunciato. Il 1° requisito esclude che la garanzia del ricorso possa operare rispetto ai provvedimenti meramente istruttorii, nonché rispetto al settore della giurisdizione volontaria (che pertanto resta sottratto al controllo di legittimità anche quando il relativo provvedimento può incidere su un vero e proprio diritto soggettivo). Il 2° requisito implica, invece, la non ricorribilità dei provvedimenti sommari anticipatorii e di quelli cautelari, che sono per definizione provvisori e sono altresì revocabili e modificabili dal giudice che li ha pronunciati. In questo modo si instaura una stretta relazione fra l’art. 111 Cost e la cosa giudicata sostanziale (art. 2909 cc), nel senso che, al di fuori delle ipotesi in cui, trattandosi di provvedimenti resi in forma di sentenza, può operare il ricorso ordinario disciplinato dall’art. 360, si ritiene che quello STRAORDINARIO assicurato dall’art. 111 riguardi tutti e soltanto i provvedimenti idonei ad acquisire l’autorità di cosa giudicata, sempre che la legge ordinaria non preveda un diverso rimedio. Quanto alla concreta disciplina del ricorso c.d. straordinario, è bene sottolineare che si tratta, in realtà, di un'impugnazione ordinaria, giacché è pacifico che essa debba proporsi entro i consueti termini degli artt. 325 e 327, nonché secondo le modalità di cui agli artt. 365 e seguenti. L'ultimo comma dell'art. 360, inoltre, chiarisce che detto ricorso è in realtà ammesso per tutti i motivi contemplati dal comma 1°, ossia per gli stessi vizi per i quali è esperibile il ricorso ordinario. 42 60 Come, ad es, l’originario art. 360, 1°, relativo alle sentenze del conciliatore, nonché l’art. 618, 2° e 3°, in tema di opposizione agli atti esecutivi domicilio eletto, entro 20 giorni dalla scadenza del termine per il deposito del ricorso (quindi entro 40 giorni dall'ultima notifica del ricorso stesso), e poi depositato in cancelleria, entro i successivi 20 giorni, unitamente agli atti e ai documenti in esso indicati, nonché alla procura speciale, se conferita con un atto separato (art.370). Il contenuto del controricorso è disciplinato, in quanto è possibile, dalle norme dettate per il ricorso (cioè dagli artt. 365 e 366). N.B: L'omessa notificazione o deposito del controricorso, nei termini indicati, non determina una situazione propriamente assimilabile alla contumacia, ma limita le successive attività difensive del resistente, che potrà solo partecipare alla eventuale discussione orale, e non anche presentare memorie si sensi dell’art. 378. L'OGGETTO DEL GIUDIZIO DI CASSAZIONE Mentre l’Appello, per tradizione, è considerato un’impugnazione dall’effetto pienamente devolutivo, in quanto idonea ad investire il giudice ad quem delle stesse domande e questioni già sottoposte al 1° giudice, il ricorso per cassazione è sempre stato strutturato come un controllo sulla sentenza impugnata, circoscritto alle questioni espressamente sollevate attraverso i motivi tassativi di ricorso. In linea di principio, dunque, la Corte suprema può essere investita (o eccezionalmente occuparsi d’ufficio) delle sole questioni sulle quali il giudice a quo ha effettivamente pronunciato o avrebbe dovuto pronunciare; ciò è confermato: • dall'assenza di una disposizione analoga all'art. 346, che attiene all'onere di riproposizione in appello delle domande e delle eccezioni non accolte64; • dalla mancata previsione di qualunque ius novorum, ancorché limitato alle nuove eccezioni che sarebbero rilevabili d'ufficio. Muovendo da tali premesse, deve anzitutto escludersi la deduzione di questioni (non importa se di fatto o di diritto) che erano state già decise dal giudice di primo grado e non erano state riproposte all'esame del giudice d'appello attraverso la formulazione di specifici motivi d'impugnazione. Per quel che concerne, invece, le questioni nuove, vi è da sottolineare che la giurisprudenza della Corte offre pochi lumi, poiché spesso affronta questo problema alla luce di argomentazioni poco pertinenti. Bisogna distinguere tra le questioni nuove che possono essere sollevate dalle parti, attraverso il ricorso o il controricorso, e quelle che la stessa Cassazione potrebbe rilevare d'ufficio: quanto alle prime, deve ritenersi che le parti possano dedurre ogni nuova questione, di rito o di merito, che il giudice a quo avrebbe dovuto esaminare d'ufficio; quanto alle seconde, invece, i dubbi sono senz'altro maggiori, ma la soluzione preferibile è quella di circoscrivere il rilievo d'ufficio della Corte, in linea di principio, alle sole questioni processuali per le quali la stessa legge sancisca, ancorché implicitamente, la rilevabilità in ogni stato e grado del giudizio. IL RICORSO INCIDENTALE La parte resistente, quando sia rimasta a sua volta soccombente in relazione ad una propria domanda o eccezione e voglia sperare nell'annullamento del relativo capo della sentenza, non può fare a meno di proporre un ricorso incidentale [di regola a pena di decadenza, con lo stesso atto contenente 45 64 È infatti pacifico che le domande e le questioni sulle quali la sentenza impugnata ha omesso di decidere per ragioni di assorbimento, non possano essere sottoposte all’esame della Cassazione, neppure attraverso un’impugnazione incidentale, e possano invece liberamente proporsi nell’eventuale giudizio di rinvio il controricorso e comunque nel termine previsto per quest’ultimo (art.371)]. Le parti che siano state destinatarie delle notificazioni previste dagli artt. 331 e 332 possono invece proporre l'impugnazione incidentale entro 40 giorni dalla notificazione stessa, attraverso un atto notificato al ricorrente principale e a tutte le altre parti. Il ricorso incidentale deve contenere tutti gli elementi prescritti per il ricorso principale, e deve essere depositato in cancelleria, a pena di improcedibilità, entro 20 giorni dall'ultima notifica, unitamente ai documenti indicati nell'art. 369 (eccezion fatta per la copia autentica del provvedimento impugnato, qualora al relativo deposito abbia giù provveduto ilricorrente principale). Il destinatario del ricorso incidentale può replicare a propria volta con un controricorso, nello stesso termine di 20 giorni dallo scadere del termine previsto per il deposito in cancelleria del ricorso incidentale. A differenza che per l’appello, per il ricorso per cassazione è pacifico che anche la parte soccombente in via meramente teorica sia tenuta a servirsi dell'impugnazione incidentale, per ottenere che la Corte riesamini le questioni risolte in senso a lei sfavorevole. La Corte di cassazione, però, non può provvedere alla diretta sostituzione della sentenza impugnata, ma deve limitarsi al suo annullamento, delegando la fase rescissoria al giudice di rinvio. Tale prospettiva può però essere non gradita alla parte che sia risultata totalmente vittoriosa nel merito e che abbia avuto torto solo su una o più questioni (perché può condurre, qualora essa proponga l’impugnazione incidentale e quest’ultima venga accolta, alla eliminazione di una sentenza a lei totalmente favorevole, senza sapere poi quale potrà essere l’esito dell’eventuale giudizio di rinvio). Ciò spiega perché in cassazione l’impugnazione incidentale condizionata abbia sempre avuto uno spazio applicativo più vasto rispetto all’appello. I NUOVI DOCUMENTI AMMESSI IN CASSAZIONE Nel giudizio di cassazione non è prevista, neppure eccezionalmente, alcuna fase istruttoria e sono esclusi in linea di principio (oltre alle nuove prove costituende) tutti gli atti e documenti non prodotti nei precedenti gradi del processo (art.372). Le uniche eccezioni sono rappresentate dai documenti riguardanti la nullità della sentenza impugnata e l'ammissibilità del ricorso e del controricorso. I documenti nuovi dovranno essere depositati unitamente al ricorso o al controricorso, a meno che non riguardino l'ammissibilità di questi ultimi: nel qual caso il loro deposito può avvenire anche autonomamente e in un momento successivo, fino all'inizio dell'udienza di discussione, a condizione che ne sia data notizia, tramite la notificazione del relativo elenco, alle altre parti. L'INIBITORIA DELLA SENTENZA IMPUGNATA Innanzitutto va precisato che la peculiarità di tale istituto, rispetto all’inibitoria della sentenza appellata, è rappresentata dal fatto che in questo caso la competenza è attribuita non al giudice ad quem, ma allo stesso giudice che ha pronunciato. L'istanza di inibitoria si propone con ricorso, in calce al quale il giudice adito (o il presidente, quando si tratti di un organo collegiale) fissa con decreto la data della comparizione delle parti, davanti a sé o davanti al collegio in camera di consiglio. Copia del ricorso e del decreto deve essere notificata, a cura del ricorrente, al difensore che aveva rappresentato l'altra parte nel giudizio definito con la sentenza impugnata, ovvero alla parte stessa personalmente, qualora essa sia rimasta contumace in quel giudizio o non si sia avvalsa del ministero di un difensore. Di norma, quindi, la decisione sull'istanza presuppone l'instaurazione del contraddittorio ed assume65 le forme dell'ordinanza non impugnabile (cioè, non revocabile né modificabile). È possibile però, in caso di eccezionale urgenza, che la 46 65 Quando accoglie la richiesta di inibitoria oppure ordina la prestazione di una congrua cauzione sospensione dell'esecuzione venga concessa col decreto di fissazione dell'udienza , fermo restando che in tale udienza il decreto dovrà essere confermato o revocato con ordinanza. In ogni caso poi, La concessione dell'inibitoria presuppone, da parte dell'istante, la prova di aver già impugnato in Cassazione la sentenza e di aver non soltanto notificato, ma pure depositato il relativo ricorso. L'ASSEGNAZIONE DEI RICORSI ALLE SEZIONI Salva la possibilità di un preventivo vaglio di un’apposita sezione-filtro, cui compete una prima scrematura delle impugnazioni inammissibili e di quelle manifestamente fondate o infondate, la decisione sul ricorso spetta ad una delle 5 sezioni semplici della Corte, il cui collegio giudicante è composto da 5 magistrati. In alcune ipotesi, contemplate dall'art. 374, è previsto che a decidere debbano o possano essere le sezioni unite, ossia un collegio formato da 9 magistrati in organico alle varie sezioni. In particolare, la pronuncia spetta alle sezioni unite in alcuni casi previsti espressamente dalla legge, nonché quando il ricorso riguardi una questione di giurisdizione oppure una delle questioni indicate nell'art. 362. Fuori da tali fattispecie, inoltre, possono attribuirsi alle sezioni unite i ricorsi che presentano una questione di diritto già decisa in senso difforme dalle sezioni semplici, oppure una questione di massima di particolare importanza. In concreto, l’assegnazione del ricorso ad una delle sezioni semplici o alle sezioni unite è compito del Primo presidente; se la causa è stata assegnata ad una sezione semplice, peraltro, ciascuna delle parti, che ritenga il ricorso di competenza delle sezioni unite, può, fino a 10 giorni prima dell'udienza di discussione, sollecitarne allo stesso primo presidente la rimessione alle sezioni unite. All'udienza, inoltre, tale rimessione può sempre essere disposta dalla sezione semplice, d'ufficio o su richiesta del pubblico ministero (art. 376). La riforma del 2006 ha poi previsto che la sezione semplice, quando ritenga di non condividere un principio di diritto precedentemente enunciato dalle sezioni unite, sia tenuta a rimettere a queste, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso (art. 374, 3°). Infine, alle sezioni unite, quando sono investite di un ricorso contenente anche motivi di competenza delle sezioni semplici, è consentito, ove lo ritengano opportuno, di decidere su tutti i motivi, oppure di limitare la pronuncia ai motivi di propria competenza, rimettendo la decisione degli altri ad una sezione semplice. L'OFFICIOSITÀ DEL PROCESSO DI CASSAZIONE E LA DISCIPLINA DELLA RINUNCIA AL RICORSO L’assenza di qualunque fase istruttoria rende il procedimento di cassazione piuttosto semplice. Fino alla riforma contenuta nel d. l. 168/2016, l’iter normale era rappresentato dalla decisione con sentenza in seguito ad una pubblica udienza, in cui le parti avevano la possibilità di discutere oralmente la causa; oggi, invece, la regola è data dalla definizione del giudizio con ordinanza in camera di consiglio, senza l’intervento delle parti. Prima di analizzare le diverse modalità della fase decisoria, va sottolineato che il giudizio di cassazione è retto dall’impulso officioso, nel senso che, una volta avviato dall’iniziativa del ricorrente, procede indipendentemente da successive attività delle parti. Questa caratteristica si coglie, in realtà, solo nella fase conclusiva del processo, in quanto, una volta fissata rispettivamente l’udienza di discussione o l’adunanza in camera di consiglio, la Corte deve pronunciare sulla fondatezza dell’impugnazione (salvo che non sussistano impedimenti di altra natura, derivanti ad es dall’inammissibilità o dall’improcedibilità del ricorso) anche se nessuna delle parti vi compare [si 47 Una volta passato indenne il vaglio preliminare della sezione-filtro ed essendo stata assegnata la causa ad una delle sezioni semplici, a quest’ultima spetta definire il giudizio. Oggi l’iter ordinario, risultante dall’art. 380-bis, 1°, è rappresentato dalla decisione con ordinanza in camera di consiglio, anche se la relativa disciplina è diversa da quella applicabile dinanzi alla sezione-filtroinfatti: ■ l’avviso della fissazione della camera di consiglio deve essere comunicato, almeno 40 gg prima della relativa data, non solo agli avvocati delle parti, ma anche al pm (il cui intervento non è invece previsto nel procedimento dinanzi alla sezione-filtro); ■ la stesso pm può depositare in cancelleria le proprie conclusioni scritte non oltre 20gg prima dell’adunanza in camera di consiglio; ■ le parti, invece, possono depositare le proprie memorie non oltre 10gg prima della stessa. N.B: neppure in questo caso è prevista la possibile comparizione e audizione delle parti in camera di consiglio. Un iter diverso è previsto per la decisione sulle ISTANZE DI REGOLAMENTO DI GIURISDIZIONE (che di regola è attribuito alle sezioni unite) o DI COMPETENZAin questo caso il presidente fissa la data dell’adunanza e richiede al pm le sue conclusioni scritte, che devono poi essere notificate agli avvocati, insieme al decreto presidenziale, almeno 20gg prima dell’adunanza, con facoltà per gli avvocati stessi di depositare memorie fino a 5 gg prima. La Corte, poi, decide con ordinanza in camera di consiglio, senza la partecipazione del pm e delle parti. LA DECISIONE IN SEGUITO A PUBBLICA UDIENZA La definizione del giudizio con sentenza, previa discussione della causa in una pubblica udienza, costituisce tuttora l’iter normale per i ricorsi assegnati alle sezioni unite, tranne quando ricorra una delle ipotesi contemplate dall’art. 375 (per cui è consentita la pronuncia con ordinanza in camera di consiglio). Dinanzi alle sezioni semplici, invece, in seguito alla riforma del 2016, la decisione con sentenza è prescritta in 2 ipotesi (art. 375, 2°): 1. quando la causa è rimessa alla sezione semplice dal collegio della sezione-filtro, che non ha condiviso la proposta del relatore di definire il giudizio con ordinanza in camera di consiglio; 2. quando la trattazione in pubblica udienza sia resa opportuna dalla particolare rilevanza della questione di diritto su cui occorre pronunciare. L' art. 377 prevede che l'udienza di discussione venga fissata direttamente dal primo presidente, contestualmente alla nomina del magistrato incaricato della relazione, per i ricorsi assegnati alle Sezioni unite, oppure, negli altri casi, al presidente della singola sezione designata. La relativa data deve essere comunicata agli avvocati delle parti almeno 20 giorni prima dell'udienza, e le parti hanno la facoltà di depositare in cancelleria delle memorie fino a 5 giorni prima dell'udienza (art. 378). A tale udienza il relatore riferisce al collegio i fatti rilevanti per la decisione ed il contenuto del provvedimento impugnato e, quando non vi sia discussione delle parti, illustra sinteticamente i motivi del ricorso e del controricorso (art. 379). Dopo la relazione ha luogo l'eventuale discussione, con l’esposizione orale delle motivate conclusioni del pm (che ora, per effetto della riforma del 2016, parla per primo) ed il successivo svolgimento delle difese di ciascuna delle parti, senza che siano ammesse repliche. Al termine della discussione segue, nella stessa seduta, la deliberazione della sentenza in camera di consiglio. La formazione della sentenza segue l’ordinaria trafila: • redazione della motivazione da parte dell’estensore (solitamente coincidente col relatore); • scritturazione e collocazione dell’originale; 50 • pubblicazione tramite deposito in cancelleria. L'art. 384, 3°, a garanzia dell'effettività del contraddittorio, fa obbligo alla Corte, quando essa ritenga di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d'ufficio, di soprassedere momentaneamente dalla decisione stessa, assegnando con ordinanza, al pubblico ministero e alle parti, un termine non inferiore a 20 e non superiore a 60 giorni (dalla comunicazione del provvedimento) per il deposito in cancelleria di osservazioni sulla questione stessa. Sezione II I POSSIBILI ESITI DEL PROCESSO E L’ EVENTUALE GIUDIZIO DI RINVIO LA DECISIONE SUL RICORSO E L’(EVENTUALE) ENUNCIAZIONE DEL PRINCIPIO DI DIRITTO: RILIEVI INTRODUTTIVI Indipendentemente dalla forma del provvedimento definitivo del giudizio, il ricorso per cassazione, principale o incidentale, può condurre ad una pronuncia di accoglimento o di rigetto. Prima di esaminare i diversi possibili esiti dell’impugnazione, conviene far cenno alle ipotesi in cui, nel definire il giudizio, la Corte deve (o può) enunciare espressamente il principio di diritto, cioè la sintetica esplicazione della corretta interpretazione che essa ha ritenuto di attribuire alla norma di diritto investita dai motivi del ricorso. In passato, l’ enunciazione del principio di diritto era prevista nella sola ipotesi di accoglimento del ricorso per violazione o falsa applicazione di norme di diritto. La riforma del 2006, invece, proprio al dichiarato fine di potenziare la funzione di nomofilachia della Corte, l’ha estesa alle ipotesi di rigetto dell’impugnazione, se il ricorso era stato proposto per i motivi di cui all’art. 360 n. 3, e ad ogni altro caso in cui sia stata risolta “una questione di diritto di particolare importanza” (art. 384, 1°)71. In altre parole, prescindendo dal vizio contemplato dall’ art. 360 n. 5 (che non può dar luogo a questioni di diritto), qualunque decisione della Corte, sia essa di accoglimento o di rigetto, può accompagnarsi all’enunciazione del principio di diritto, ogniqualvolta la questione affrontata, ancorché meramente processuale, sia suscettibile di riproporsi in un rilevante numero di futuri giudizi. IL RIGETTO DEL RICORSO E LA CORREZIONE DELLA MOTIVAZIONE DELLA SENTENZA IMPUGNATA Il RIGETTO del ricorso per cassazione determina il passaggio in giudicato della sentenza impugnata e può dipendere da ragioni processuali (inammissibilità, improcedibilità o nullità del ricorso) o semplicemente dall’infondatezza dell’impugnazione. In base all’art. 385, 1°, il rigetto dovrebbe implicare sempre la condanna del ricorrente alle spese del processo72. 51 71 Ricorrendo quest’ultima condizione, anzi, il principio di diritto può essere pronunciato, anche d’ ufficio, perfino in caso di inammissibilità dell’impugnazione (art. 363, 3°) 72 Anche se la prassi della Corte utilizza spesso l’istituto della compensazione delle spese (art. 92) Un’ipotesi di rigetto particolare è quella che si accompagna alla correzione della motivazione in diritto della sentenza impugnata: mentre gli accertamenti di fatto sono al più sindacabili dalla Cassazione in via indiretta (attraverso il controllo della congruità della motivazione), la Corte non incontra alcun limite nel valutare autonomamente, entro i confini tracciati dai motivi di ricorso, l’esatta soluzione delle questioni giuridiche affrontate nella sentenza impugnata; pertanto, se ritiene che il dispositivo sia conforme al diritto, le è consentito correggere direttamente l’erronea o lacunosa motivazione in iure che a tali questioni abbia dato il giudice a quo (art. 384, 4°). Ciò significa che, in linea di principio, lo errore di diritto porta all’annullamento della sentenza solamente quando abbia concretamente inciso sul dispositivo, determinando una decisione contra ius. LA TIPOLOGIA DELLE PRONUNCE DI ACCOGLIMENTO: LA CASSAZIONE SENZA RINVIO PER RAGIONI PROCESSUALI L’ACCOGLIMENTO del ricorso può condurre, in alcune ipotesi, alla mera eliminazione della sentenza impugnata e porre fine all’ intero giudizio, escludendo definitivamente la pronuncia di una decisione di merito che prenda il posto di quella cassata. L’ prevede la cassazione senza rinvio in due ipotesi: a. quando sia dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice del quale si impugna il provvedimento e di ogni altro giudice: la circostanza che la norma alluda ad “ogni altro giudice” , e non solamente a quello ordinario, ben si concilia con il principio recentemente consacrato nello art. 59 della l. 69/2009, per cui, nei rapporti tra giudice ordinario e giudice speciale, la decisione declinatoria della giurisdizione implica la continuazione del processo dinanzi al diverso giudice fornito di giurisdizione. Tenuto conto di ciò, è chiaro che la cassazione senza rinvio per motivi di giurisdizione resta ora circoscritta alle ipotesi in cui il difetto di giurisdizione sussista nei confronti della pubblica amministrazione oppure derivi dai limiti della giurisdizione italiana; b. in ogni altro caso in cui la causa non poteva essere proposta o il processo proseguito. Sebbene la formulazione della norma sia, per questa parte, assai ampia, l’opinione prevalente l’ha sempre circoscritta alle sole ipotesi in cui l’improponibilità della domanda o l’improseguibilità del giudizio dipendano da impedimenti processuali o dalla mancanza di condizioni dell’azione non rilevati dal giudice di merito. N.B: Dopo la cassazione senza rinvio non residua, di regola, alcuna sentenza che possa passare in giudicato, poiché, anche se oggetto diretto di annullamento è la sentenza di 2° grado, ciò non può determinare la reviviscenza della sentenza di 1° grado, già sostituita da quella d’appello. Fanno eccezione, però, le fattispecie in cui l’improponibilità o l’improseguibilità riguardano il solo giudizio di secondo grado73in questi casi, infatti, la pronuncia di cassazione non solo lascia sopravvivere la sentenza di 1° grado, ma altresì ne determina, indirettamente, il passaggio in giudicato. Quando cassa senza rinvio, la Corte è tenuta a provvedere sia sulle spese del procedimento svoltosi davanti a sé, sia su quelle dei precedenti gradi, potendo al più rimetterne al giudice a quo la sola liquidazione (ossia la quantificazione: art. 385, 2°). Nulla esclude, infine, che anche la cassazione senza rinvio si accompagni all’enunciazione di un principio di diritto, quando si fonda sulla risoluzione di una questione di diritto di particolare importanza. 52 73 Si pensi al caso in cui l’appello era inammissibile perché proposto fuori termine, oppure improcedibile per omessa costituzione dell’appellante necessaria, a seconda dei casi, la rinnovazione, totale o parziale, del precedente grado di giudizio o una nuova ed autonoma valutazione dei fatti già accertati dal giudice a quo o cmq a lui prospettati; c. in caso di violazione o falsa applicazione di norme di diritto78 è cmq possibile che la stessa sentenza di cassazione apra la strada a nuove indagini di fatto e a nuove conclusioni delle parti: ciò può avvenire, ad es, perché la Corte ha attribuito al rapporto controverso una diversa qualificazione giuridica, da cui potrebbero acquisire rilevanza nuovi fatti che non erano stati accertati nei precedenti gradi di giudizioin questo caso, il giudizio di rinvio potrebbe schiudersi perfino a nuove allegazioni, nuovi documenti e nuove richieste istruttorie, volte a sollecitare l’esame del giudice di rinvio sulle nuove questioni di fatto che hanno acquisito rilevanza per la decisione; d. in ogni caso, indipendentemente dal motivo che ha determinato la cassazione della precedente sentenza, possono trovare ingresso nel giudizio di rinvio le nuove allegazioni e le nuove richieste istruttorie ad esse collegate, che traggano rilievo da un mutamento della disciplina sostanziale (ius superveniens), oppure che abbiano ad oggetto fatti sopravvenuti dopo la conclusione del precedente grado di giudizio, oppure fatti che integrerebbero motivi di revocazione della sentenza, a norma dell’ art. 395. LA CASSAZIONE SOSTITUTIVA DI MERITO L’art. 384, 2°79 prevede che la Corte, nell’accogliere il ricorso, possa decidere essa stessa la causa nel merito qualora non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto. Si è dunque in presenza di un’ulteriore ipotesi di cassazione senza rinvio80 , detta “SOSTITUTIVA DI MERITO” poiché implica appunto una decisione di accoglimento o di rigetto della domanda. Nella versione più recente, però, i confini di tale istituto non sono del tutto nitidi. Fino al 2006, perché la Cassazione potesse decidere il merito della causa, dovevano concorrere due distinti presupposti: a. che il ricorso fosse accolto “per violazione o falsa applicazione di norme di diritto ”; b. che non fossero “necessari ulteriori accertamenti di fatto”. Nonostante una certa equivocità, la condizione indicata nel secondo punto veniva ricollegata, dalla dottrina e dalla giurisprudenza dominanti, non tanto all’impossibilità di assumere nuovi mezzi di prova nel giudizio di legittimità, bensì ai tradizionali limiti istituzionali della nostra Corte suprema, al cui diretto apprezzamento sfuggono tutti i fatti extraprocessuali. In altre parole, si riteneva che il legislatore avesse inteso in tal modo ribadire che alla Corte non era consentito valutare autonomamente i fatti rilevanti per la decisione, neppure sulla scorta delle prove già acquisite nei precedenti gradi di giudizio; sicché la pronuncia sostitutiva poteva aversi solamente quando la Cassazione fosse stata in grado di decidere in base alle valutazioni di fatto già compiute dal giudice di merito, senza poterne aggiungerne di proprie. A conferma di tale soluzione veniva spesso richiamata l’altra condizione menzionata dall’art. 384, ossia la necessità che il ricorso fosse stato accolto per il n. 3 dell’art. 360: infatti, solo in questo caso può accadere che gli accertamenti di fatto contenuti nella sentenza impugnata sopravvivano alla cassazione e vincolino il giudice di rinvio, e che dinanzi a quest’ultimo siano a priori esclusi nuovi ed ulteriori accertamenti di fatto. Negli altri casi, invece, il giudice di rinvio è sempre chiamato quanto meno a rinnovare gli accertamenti di fatto compiuti dal 55 78 Ipotesi sub a) 79 Dopo l’ultima modifica ad opera del d.lgs. 40/2006 80 Introdotta già dalla riforma del ‘90 giudice a quo; ed era in virtù di questa circostanza che si era soliti spiegare l’impossibilità di una diretta decisione del merito ad opera della Corte. In seguito alla nuova formulazione dell’art. 384, 2°81, si potrebbe pensare che il legislatore abbia voluto implicitamente sconfessare l’opinione prevalente in passato, riconoscendo alla Corte autonomi poteri di accertamento dei fatti, seppure con l’ovvia osservanza dei limiti istruttori che ne caratterizzano il procedimento. Tuttavia, questa non appare l’opinione più persuasiva: infatti, la legge- delega 80/2005 (sulla quale si è fondato il d.lgs. 40/2006), prevedeva semplicemente l’estensione delle ipotesi di decisione nel merito, possibile anche nel caso di violazione di norme processuali. Quindi, il legislatore delegante non aveva intenzione di stravolgere il ruolo tradizionale della nostra Corte suprema, trasformandola in un giudice del fatto, ma intendeva solo tener conto delle ipotesi in cui le violazioni di legge accertate riguardassero disposizioni processuali82. Pertanto, ancora oggi deve ritenersi che la cassazione sostitutiva di merito rappresenti un esito piuttosto infrequente, circoscritto alle ipotesi in cui al giudice di rinvio non rimarrebbe che mettere insieme il principio di diritto coi fatti, così come definitivamente accertati nei pregressi gradi del processo83. Infine, laddove ricorrano i presupposti indicati nell’art. 384, 2°, è pacifico ritenere che la Corte sia tenuta a decidere direttamente il merito, anche prescindendo da una sollecitazione in tal senso delle parti. E questo determina la concreta possibilità che la Cassazione opti per la decisione sostitutiva al di fuori delle ipotesi in cui le sarebbe consentita. Questo errore (molto grave perché si risolve in un vero e proprio diniego di giustizia) può trovare rimedio nella revocazione della sentenza di cassazione. LA CORREZIONE DELLE DECISIONI DELLA CASSAZIONE L’art. 391-bis prevede che anche per i provvedimenti della Corte suprema, affetti da errore materiale o di calcolo ai sensi dell’art. 287, sia esperibile in qualsiasi tempo la procedura di correzione. L relativo procedimento, però, si discosta dalle più semplici soluzioni contemplate dall’art. 288 e ricalca lo schema dell’ordinario ricorso per cassazione, dato che vengono richiamati gli artt. 365 ss, con la sola precisazione che la Corte pronuncia sempre in camera di consiglio con ordinanza, nell’osservanza delle disposizioni di cui all’art. 380-bis, 1° e 2°84 . Il richiamo agli artt. 365 ss, però, deve essere inteso come se fosse limitato alle disposizioni ordinarie compatibili con le caratteristiche dell’istituto della correzione (che non è un’impugnazione). Così, deve escludersi che il ricorrente sia tenuto a munire il proprio difensore di una procura speciale o ad eleggere domicilio in Roma; l’istanza deve essere notificata, a pena d’inammissibilità, a tutte le parti del procedimento, non essendo applicabili né l’art. 331 (che consente alla Corte di ordinare l’integrazione del contradditorio), né l’art. 387, che esclude la riproponibilità del ricorso dichiarato inammissibile. GLI ALTRI RIMEDI NEI CONFRONTI DELLE SENTENZE DELLA CASSAZIONE 56 81 Che subordina la cassazione sostitutiva alla sola non occorrenza di nuovi accertamenti di fatto 82 Le quali, secondo un’opinione diffusa, sarebbero estranee al n. 3) dell’art. 360 83 Quindi, la possibilità di definire la causa in Cassazione deve escludersi ogni volta che, in considerazione dell’error in iudicando che ha condotto all’annullamento della sentenza impugnata, debbano ritenersi consentite alle parti, in sede di rinvio, nuove allegazioni e/o istanze istruttorie, oppure siano richiesti nuovi accertamenti di fatto, eventualmente in relazione a domande o eccezioni che erano state ritenute assorbite dal giudice a quo 84 Cioè, ad opera della sezione-filtro e previa nomina di un relatore Fino alla metà degli anni ’80, in assenza di disposizioni che prevedessero la possibilità di impugnare i provvedimenti della Corte suprema, si riteneva che le decisioni di quest’ultima fossero sottratte a qualunque rimedio. Nel 1986, però, una famosa pronuncia additiva della Corte cost aprì un primo piccolo spiraglio all’impugnazione, ammettendo (entro limiti molto ristretti) la possibilità di revocazione delle sentenze della Cassazione. Questo spiraglio fu poi ampliato da un 1° intervento del legislatore, che disciplinò tale revocazione nell’art. 391-bis, ed è stato poi opportunamente dimensionato dalla riforma del 2006, la quale, con l’inserimento dell’art. 391-ter, ha esteso i confini della revocazione ed ha espressamente assoggettato le sentenze di cassazione all’opposizione di terzo. Nonostante tali progressi, il problema della non impugnabilità delle sentenza della Corte, al di fuori dei limiti in cui sono utilizzabili la revocazione e l’opposizione di terzo, resta ancora aperto, soprattutto in presenza di decisioni affette da gravi vizi del contraddittorio (in questo caso, il vuoto di tutela che ne deriva contrasta palesemente col combinato disposto degli artt. 3, 2°, 24, 2° e 111, 2° Cost, che garantiscono l’effettività del contraddittorio in ogni giudizio ed in qualunque fase del procedimento). CAPITOLO XIX IL REGOLAMENTO DI COMPETENZA I CARATTERI DELL' IMPUGNAZIONE 57 Innanzitutto, l'istanza di regolamento va proposta entro 30 giorni, che decorrono, rispettivamente, dalla comunicazione della sentenza che ha pronunciato sulla competenza oppure, quando si tratti di regolamento facoltativo, dalla notifica dell'impugnazione ordinaria proposta contro la sentenza che ha deciso sulla competenza e sul merito(art. 47, 2°). In mancanza di notificazione o comunicazione sì applica il termine lungo di 6 mesi dalla pubblicazione (a norma dell'art. 327). Il procedimento per regolamento inizia con la notifica di un ricorso, per il quale non sono prescritti particolari elementi di forma-contenuto. L'atto introduttivo può essere sottoscritto, senza bisogno di una nuova procura ad hoc, dallo stesso difensore che aveva rappresentato il ricorrente nel giudizio di merito87, ovvero direttamente dalla parte, se questa si era costituita personalmente in quella sede. La notifica del ricorso non è necessaria, peraltro, rispetto alle parti che vi abbiano aderito, anche attraverso la semplice sottoscrizione del ricorso medesimo. Entro 5 giorni dall'ultima notifica, il ricorrente deve chiedere ai cancellieri degli uffici davanti ai quali pendono i processi che i relativi fascicoli vengano trasmessi alla cancelleria della Corte di cassazione; dal giorno di tale richiesta tali processi restano ipso iure sospesi, salva la sola possibilità per il giudice di autorizzare in essi il compimento degli atti che ritiene urgenti (art. 48, 2°). Nel termine perentorio di 20 giorni dall'ultima notifica, l'istante deve depositare in cancelleria il ricorso ed i documenti necessari. Le altre parti, destinatarie della notifica dell'istanza di regolamento, non sono invece tenute a notificare un controricorso, ma possono semplicemente, entro i successivi 20 giorni, depositare nella cancelleria della Corte le proprie scritture difensive e i relativi documenti (art. 47). Per quel che riguarda la fase decisoria, l'art. 49 prevede che il regolamento sia pronunciato con ordinanza in camera di consiglio, entro i 20 giorni successivi alla scadenza dell'ultimo termine suddetto. L'art. 380-ter stabilisce che le parti hanno il diritto di ricevere, almeno 20 giorni prima dell'adunanza della Corte in camera di consiglio, la notifica delle conclusioni del pubblico ministero, nonché di depositare delle memorie non oltre 5 giorni prima dell'adunanza stessa. In seguito alla decisione della Corte, la causa deve essere poi riassunta dinanzi al giudice ritenuto compente entro il termine di 3 mesi dalla comunicazione dell’ordinanza di regolamento. Tale disciplina si applica (con gli opportuni adattamenti) anche al regolamento di competenza chiesto d'ufficio dal giudice, ai sensi dell'art. 45. In questo caso, è lo stesso giudice a disporre, con l’ordinanza che chiede il regolamento, la trasmissione del fascicolo della causa alla cancelleria della Corte suprema, e la sospensione del processo si produce fin dal giorno della pronuncia di tale ordinanza. CAPITOLO XX LA REVOCAZIONE I CARATTERI DELL'IMPUGNAZIONE. LA REVOCAZIONE ORDINARIA E STRAORDINARIA La REVOCAZIONE è un'impugnazione a critica vincolata, ammessa per i soli motivi tassativamente indicati nell'art. 395. Essa ha carattere essenzialmente rescindente, poiché è sì idonea a condurre ad una nuova decisione del merito della causa, ma soltanto se ed in quanto il giudice abbia previamente 60 87 Anche se non iscritto nell’albo speciale degli avvocati abilitati al patrocinio dinanzi alle giurisdizioni superiori accertato la sussistenza del vizio denunciato ed abbia conseguentemente revocato la prima sentenza. La revocazione, in concreto, è utilizzabile in due situazioni: a. quando, pur essendo la sentenza tuttora soggetta a una diversa impugnazione ordinaria a critica vincolata (cioè al ricorso per cassazione), si tratti di vizi che non potrebbero trovare rimedio attraverso tale impugnazione; b. nei confronti di sentenze non più impugnabili in via ordinaria, quando, successivamente al passaggio in giudicato, vengano scoperti dei fatti ovvero dei nuovi elementi probatori che rendono evidente l'ingiustizia della decisione. A tali ipotesi corrispondono due rimedi diversi fra loro: • la REVOCAZIONE ORDINARIA, esperibile solo contro sentenze pronunciate in grado d'appello o in unico grado non ancora passate in giudicato; • la REVOCAZIONE STRAORDINARIA, ammessa, oltre che nei confronti delle sentenze di secondo o di unico grado, anche contro quelle di primo grado, quando per queste ultime il termine per l'appello sia già scaduto ed esse siano già passate in giudicato. La ratio di questa distinzione può cogliersi tenendo presente la diversa natura dei vizi per i quali possono proporsi l’una e l’altra forma di revocazione: ✓ la revocazione ordinaria è esperibile per i motivi di cui ai nn.4 e 5 dell'art.395, cioè per vizi palesi, dei quali la parte soccombente può rendersi conto fin dalla lettura del provvedimento; i relativi termini decorrono dalla notifica o dalla pubblicazione della sentenza. ✓ la revocazione straordinaria invece è ammessa per i motivi di cui ai nn.1, 2, 3 e 6 dell'art.395 (oltre che nelle ipotesi contemplate dall’art. 397), che potrebbero emergere o essere conosciuti dal soccombente anche a notevole distanza di tempo dalla pronuncia della sentenza; i termini decorrono dal giorno in cui la parte viene concretamente a conoscenza del vizio. La sola revocazione straordinaria è ammessa anche nei confronti delle sentenze di primo grado, a condizione che il termine per l'appello, nel momento in cui il vizio revocatorio viene scoperto, sia già scaduto (art. 396, 1°). La revocazione può concorrere con il ricorso per cassazione (inidoneo a fornire tutela ai vizi revocatori, che attengono sempre all'accertamento dei fatti e che esorbitano dai poteri della Corte suprema), mentre non può mai concorrere con l'appello (poiché la proponibilità dell’appello esclude che sia proponibile la revocazione). N.B: una sentenza della Corte cost. del 1986 ha ammesso, in termini molto ristretti, anche la revocazione delle sentenze della Corte suprema, confermata ed ampliata poi dal legislatore negli artt. 391-bis e 391-ter. I MOTIVI DI REVOCAZIONE ORDINARIA La revocazione ordinaria88 è ammessa nelle 2 sole ipotesi previste dai nn. 4 e 5 dell'art. 395: A. La 1a fattispecie ricorre quando la sentenza è l'effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa. L’errore per cui è ammessa la revocazione, però, presuppone che la decisione si sia basata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, o, viceversa, sull'inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita. In altre parole, il giudice deve essere incorso non in un errore nella valutazione delle prove e nella conseguente ricostruzione dei fatti rilevanti per la decisione, ma in una mera svista ovvero in un errore di percezione (c.d. travisamento) circa i fatti che emergono, in positivo o in negativo, dalla semplice lettura degli atti e dei documenti della causa. Ovviamente, questo errore deve essere 61 88 Inclusa nel catalogo delle impugnazioni ordinarie menzionate dall’art. 324 risultato concretamente determinante per la decisione89. Non deve trattarsi, comunque, di un vero e proprio errore di giudizio, anzi la revocazione viene esclusa quando il fatto cui l'errore si riferisce ha costituito un punto controverso sul quale la sentenza si pronuncia. B. Il secondo motivo di revocazione ordinaria consiste nell’essere la sentenza contraria ad altra precedente avente fra le parti autorità di cosa giudicata, purché non abbia pronunciato sulla relativa eccezione. Quindi, la decisione impugnata deve contrastare con un’anteriore sentenza, già passata in giudicato, idonea, dal punto di vista oggettivo e soggettivo, a fare stato fra le parti e di conseguenza a vincolare il giudice, qualora questi ne avesse tenuto conto. Potrebbe quindi trattarsi non solo di un giudicato formatosi sullo stesso oggetto, ma anche di un giudicato riguardante un diritto o un rapporto giuridico pregiudiziale rispetto a quello su cui ha pronunciato la sentenza impugnata. Nessun contrasto sussisterebbe, invece, se la prima decisione, formalmente passata in giudicato, avesse pronunciato incidenter tantum90 sul diritto che viene in rilievo nel 2° giudizio. È pacifico che, ogni volta che il giudice di merito abbia pronunciato espressamente, d'ufficio o su eccezione di parte, sull'esistenza di un anteriore giudicato, la revocazione sia esclusa e sia ammissibile, invece, esclusivamente il ricorso per cassazione, vuoi per violazione dell'art. 2909c.c., vuoi, eventualmente, per difetto di motivazione ai sensi dell'art. 360 n 5. Va sottolineato che se la revocazione esaminata non viene proposta, la sentenza passa a sua volta in giudicato ed il vizio diviene irreparabile, salva la prevalenza di tale seconda sentenza, allorché si tratti di un conflitto pratico di giudicati. I MOTIVI DI REVOCAZIONE STRAORDINARIA La revocazione straordinaria è esperibile per 4 motivi: 1. Quando la sentenza sia l'effetto del dolo di una delle parti in danno dell'altra (art.395 n.1). Stabilire in astratto in cosa possa consistere il dolo in questione è assai difficiledall’ampia casistica offerta dalla giurisprudenza si ricava che deve trattarsi di atti o comportamenti processuali fraudolenti, concretatisi in artifici o raggiri, che abbiano avuto efficacia causale sulla decisione, limitando notevolmente l'attività difensiva dell'avversario oppure l'accertamento della verità da parte del giudice. 2. Quando la pronuncia impugnata sia fondata su prove riconosciute o dichiarate false dopo la sentenza oppure che la parte soccombente ignorava essere state riconosciute o dichiarate tali prima della sentenza; si presuppone che tali prove siano state determinanti per la decisione (art. 395 n.2). Anche in questo caso la norma viene intesa restrittivamente: si ritiene che il riconoscimento della falsità deve provenire direttamente dalla parte che si è avvantaggiata della prova e la dichiarazione, invece, deve aversi con sentenza, passata in giudicato, che non contenga semplicemente degli accertamenti di fatto difformi dalle risultanze della prova assunta nel primo processo, ma verta direttamente sulla falsità della prova stessa. N.B: A tale ipotesi di revocazione (applicabile a qualunque tipo di prova) resta sottratto il giuramento, decisorio o suppletorio, la cui falsità può dar luogo esclusivamente al risarcimento del danno. 62 89 Si pensi al caso in cui il giudice, chiamato a dirimere una controversia concernente l’adempimento di un contratto redatto in forma scritta e prodotto in giudizio, abbia dato per scontata l’inesistenza di una certa pattuizione (ad es, la previsione di una penale), che invece compariva nel contratto 90 Cioè senza autorità di giudicato sentenze con cui la Corte abbia direttamente deciso il merito della causa, a norma dell’art. 384, 2°. Detto ciò, è opportuno distinguere: a. In linea di principio le sentenze e le ordinanze della Cassazione sono impugnabili per revocazione, in base all'art.391-bis, esclusivamente per il particolare errore di fatto contemplato all'art. 395 n.4 (quando, cioè, siano fondate sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa o sull'inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, a condizione che l'errore risulti dagli atti o documenti della causa e che il fatto non abbia costituito un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare). La revocazione sarà pertanto esperibile sia quando la svista riguardi atti che vengono comunque in rilievo per la decisione circa l'ammissibilità o la procedibilità o la fondatezza del ricorso, sia quando, trattandosi di fatti extraprocessuali per i quali la Corte è vincolata alla ricostruzione contenuta nella sentenza impugnata, l'errore di percezione investa tale ricostruzione. Essa, inoltre, potrà porre rimedio, in qualche caso, alle ipotesi in cui la Cassazione abbia erroneamente pronunciato una sentenza sostitutiva di merito in assenza dei relativi presupposti, o abbia semplicemente omesso di pronunciare su taluna delle impugnazioni oppure su uno dei motivi di impugnazione. b. Se però la sentenza o l’ordinanza della Corte ha deciso essa stessa il merito della causa, la revocazione è ammessa, ai sensi del nuovo art.391-ter, anche per i motivi di cui all'art. 395 nn. 1, 2, 3 e 6, ossia per i vizi che solitamente giustificano la revocazione straordinaria. L'unico vizio per cui la revocazione resta esclusa è rappresentato dal contrasto con un anteriore giudicato, ai sensi dell’art. 395 n. 593. Anche la revocazione delle decisioni della Cassazione è soggetta ad un duplice termine perentorio: quello breve di 60 giorni dall'eventuale notificazione della sentenza (o dell’ordinanza) e quello lungo di 6 mesi dalla pubblicazione. Per quel che concerne il procedimento, esso è praticamente assimilato all’ordinario giudizio di cassazione, dato che l'art. 391-bis prevede che l'impugnazione si proponga alla stessa Corte con ricorso e richiama gli artt. 365 ss.anche in questo caso, dunque, trovano applicazione le disposizioni di cui all’art. 380-bis, 1° e 2°, per quel che riguarda il vaglio preliminare della sezione- filtro: quest’ultima può però definire il giudizio (con ordinanza in camera di consiglio) nella sola ipotesi in cui ritenga il ricorso inammissibile, altrimenti è tenuta a rimettere la causa ad una sezione semplice, che deciderà con sentenza in seguito a pubblica udienza. Per quanto riguarda il contenuto della decisione, se la Corte accoglie la revocazione, decide nuovamente la causa nel merito qualora non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto, o altrimenti rinvia la causa allo stesso giudice che aveva pronunciato la sentenza cassata . Questo significa che la fase rescindente della revocazione compete in ogni caso alla Cassazione, davanti alla quale dovranno ammettersi i nuovi documenti occorrenti per la prova del vizio revocatorio (in deroga all'art. 372). I rapporti tra il giudizio di revocazione, la sentenza impugnata in cassazione e l'eventuale giudizio di rinvio Mentre la revocazione proponibile nei confronti della sentenza di appello o di unico grado può essere, a seconda dei motivi, un'impugnazione ordinaria o straordinaria, quella esperibile contro le sentenze o le ordinanze della Cassazione sembra configurata come un'impugnazione straordinarial’art. 391-bis, infatti, pur non affrontando direttamente la questione, prevede che la pendenza del termine per tale revocazione non impedisce il passaggio in giudicato della sentenza impugnata con ricorso per cassazione respinto; inoltre, qualora tale revocazione sia proposta, non è ammessa la sospensione 65 93 Ciò trova spiegazione nel carattere straordinario dell’impugnazione in esame dell'esecuzione della sentenza passata in giudicato, né è sospeso il giudizio di rinvio o il termine per riassumerlo. Esaminiamo distintamente le varie ipotesi prospettabili a seconda del contenuto della sentenza o dell'ordinanza di cassazione impugnabile tramite revocazione: A. La decisione ha rigettato il ricorso (oppure l'ha dichiarato inammissibile o improcedibile): in questo caso la sentenza che era stata impugnata passa senz’altro in giudicato, quantunque la pronuncia della Cassazione possa essere a sua volta ancora impugnata tramite revocazione, ed è esplicitamente escluso che il giudice dell'eventuale revocazione possa disporne l'inibitoria. B. La decisione ha accolto il ricorso e ha cassato con rinvio: in questo caso il problema riguarda esclusivamente i rapporti tra la revocazione (della pronuncia di cassazione) e il giudizio di rinvio. Tale problema viene espressamente risolto dall'art. 391-bis, nel senso che l'eventuale istanza di revocazione non sospende né il termine per la riassunzione del giudizio di rinvio, né, quando sia già iniziato, il giudizio stesso. C. La decisione ha accolto il ricorso e ha cassato senza rinvio, o per ragioni processuali o per ragioni di merito: nessuna di tali fattispecie è menzionata nell'art. 391-bis, e nel primo caso il silenzio del legislatore è giustificato alla circostanza che in seguito all'annullamento senza rinvio non vi è più, di regola, alcuna sentenza che sopravviva e possa passare in giudicato. Resta da considerare, tuttavia, l'ipotesi in cui la cassazione senza rinvio, dovuta alla improponibilità o all'improseguibilità del solo giudizio di secondo grado, fa eccezionalmente riemergere (e passare in giudicato) la sentenza di primo grado che era stata appellata; ed inoltre, quella in cui la stessa corte suprema decide direttamente il merito della causa. In entrambi i casi la disciplina contenuta nell’art. 391-bis sembra ispirarsi al principio per cui la decisione della cassazione, indipendentemente dal suo contenuto, deve sempre considerarsi passata in giudicato dal giorno stesso della pubblicazione, nonostante l'esperibilità della revocazione ivi prevista, e comunque non ammette (quand'anche si tratti di una sentenza di condanna, idonea a fondare un'esecuzione forzata) l'inibitoria contemplata dall'art. 401. È ovvio chiedersi, ora, quale situazione possa determinarsi laddove la domanda di revocazione sia accolta. Anche a questo proposito è opportuno distinguere: ✓ quando, nonostante l'accertata sussistenza del vizio, la revocazione conduce alla pronuncia di una nuova decisione dal contenuto assolutamente conforme a quello della pronuncia di cassazione impugnata (quale che fosse il contenuto di quest'ultima), è escluso che essa possa incidere sugli atti e sulle situazioni giuridiche lato sensu dipendenti dall'anteriore decisione della cassazione; ✓ se invece la revocazione ha un esito diverso da quello dell'anteriore giudizio di cassazione, ne deriverà, ai sensi dell'art. 336, 2°, l'immediata caducazione di tutti gli atti e i provvedimenti dipendenti dalla sentenza revocata. 66 CAPITOLO XXI L'OPPOSIZIONE DI TERZO GENERALITÀ L'OPPOSIZIONE DI TERZO si caratterizza per essere esperibile soltanto da chi non ha assunto la qualità diparte nel processo in cui la sentenza è stata resa. Nell’ambito della stessa impugnazione, l'art. 404 configura due rimedi eterogenei: • l'OPPOSIZIONE ORDINARIA (1° comma), che il terzo può utilizzare quando una sentenza pronunciata tra altre persone pregiudica i suoi diritti; • l'OPPOSIZIONE REVOCATORIA (2° co), che è consentita specificamente agli aventi causa e ai creditori di una delle parti, quando la sentenza è effetto di dolo o collusione a loro danno. In entrambi i casi si tratta di un'impugnazione straordinaria, ammessa anche nei confronti di sentenze già passate in giudicato [l’opposizione di terzo ordinaria, anzi, è la “più straordinaria” fra tutte le impugnazioni, essendo l’unica per cui non è previsto nessun termine di decadenza]. Oggetto dell'impugnazione, per la quale è competente lo stesso ufficio giudiziario da cui proviene la decisione impugnata, può essere, indifferentemente, una sentenza di primo o di unico grado o di appello, e anche una decisione della Corte suprema, limitatamente alle ipotesi in cui questa abbia accolto il ricorso e deciso direttamente il merito della causa (art. 391-ter). L'OPPOSIZIONE C.D. ORDINARIA, QUALE RIMEDIO RISERVATO AI TERZI CHE NON SUBISCONO GLI EFFETTI DEL GIUDICATO In base all'art.404, 1°, l'opposizione è consentita nei confronti di qualunque sentenza passata in giudicato o comunque esecutiva che pregiudica i diritti di un terzo. È legittimato il soggetto che non 67 il proprio patrimonio offre al creditore stesso [ad es, il debitore potrebbe sottrarre determinati propri beni alla possibile azione esecutiva del produttore semplicemente alienandoli ad un terzo: in tal caso il rimedio sarebbe offerto dall’azione revocatoria, che mira a far dichiarare inefficace l’atto di disposizione lesivo. Un analogo risultato potrebbe però essere conseguito, indirettamente, tramite una azione giudiziaria, nella quale il debitore, d’accordo con un terzo, facesse proporre a quest’ultimo una domanda di rivendica ed omettesse di difendersi adeguatamente: in questo caso, l’accoglimento della domanda proposta dal terzo sottrarrebbe il bene al patrimonio del debitore, ma il pregiudizio per il creditore deriverebbe non da un atto di disposizione sostanziale, ma d auna sentenza, contro cui sarebbe esperibile l’opposizione revocatoria]. Si tratta di un’impugnazione che, pur essendo anch’essa straordinaria, è soggetta ad un termine breve di decadenza (30giorni), che decorre dal giorno in cui il creditore o l'avente causa ha avuto conoscenza del dolo o della collusione in suo danno (art. 326, 1°)97. IL PROCEDIMENTO E LA DECISIONE Anche per l’opposizione di terzo, ordinaria e revocatoria, è competente lo stesso giudice a quo98, dinanzi al quale si applicano le norme stabilite per il processo davanti a lui, salvo che non siano derogate da quelle più specifiche risultanti dagli artt. 405ss. Anche le forme dell’atto di opposizione sono le stesse prescritte per il procedimento conclusosi con la sentenza impugnata: pertanto, il giudizio deve instaurarsi, di regola, con una citazione (a meno che non si tratti di un processo che va promosso con ricorso). L'unica particolarità dell'atto introduttivo è la necessità di indicare, oltre ai consueti elementi prescritti dall'art.163, la sentenza che si impugna e, nel caso di opposizione revocatoria, il giorno in cui l'opponente è venuto a conoscenza del dolo o della collusione delle parti in suo danno, nonché la prova offerta a tale riguardo. Quanto all’eventuale inibitoria, l'art. 407 prevede che possa chiedersi con un'istanza inserita nell'atto di impugnazione e, per il relativo subprocedimento in camera di consiglio, rinvia all'art. 373, che richiede il pericolo di un grave ed irreparabile danno. La fase della decisione, infine, non presenta peculiarità degne di nota: se l'opposizione viene accolta, il momento rescindente coinciderà con quello rescissorio, ossia con la pronuncia di una nuova decisione sul merito della causa, sempre che ne sussistano i presupposti. A volte però la natura del vizio è tale da escludere la pronuncia di una nuova sentenza di meritociò avviene quando l’opposizione si fonda su una lesione del contraddittorio oppure sulla violazione dell'art.102. Nel primo caso (si pensi all’opposizione con cui l’erede deduce che il proprio dante causa, convenuto nel giudizio in cui è stata pronunciata la sentenza impugnata, era morto, in realtà, prima dell’inizio del processo) il vizio è insanabile e neppure il giudice a quo avrebbe potuto porvi rimedio (sicché è inevitabile che l'opposizione si concluda con il mero annullamento della decisione). Nel secondo caso invece è necessario distinguere: ✓ se l'opposizione si dirige contro una sentenza di primo grado, lo stesso art. 102 consente di pervenire direttamente ad una nuova pronuncia sul merito; ✓ se invece viene impugnata una sentenza di appello, il combinato disposto degli artt. 354 e 406 fa sì che il giudice dell'opposizione debba limitarsi ad una pronuncia rescindente, rimettendo la causa al giudice di primo grado. 70 97 Questa differenza induce a dubitare che possa valere anche per l’opposizione revocatoria il presupposto della esecutività della sentenza: si ritiene quindi che essa sia esperibile nei confronti di qualunque sentenza di merito, anche se non passata in giudicato e neppure esecutiva 98 Inteso come ufficio giudiziario Deve cmq ritenersi che l'eliminazione della sentenza impugnata e la decisione che ad essa si sostituisce debbano valere, in ogni caso, sia per l'opponente vittorioso che per le parti originarie. Infine, laddove l’opposizione sia proposta contro una decisione (di merito) della Cassazione, le limitazioni istruttorie proprie del giudizio di legittimità fanno sì che la Corte possa accogliere l’impugnazione e decidere nuovamente la causa nel merito solo quando non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto (dovendosi altrimenti arrestare alla declaratoria di ammissibilità del ricorso, con rinvio della causa allo stesso giudice che aveva pronunciato la sentenza precedentemente cassata). CAPITOLO I IL PROCEDIMENTO SOMMARIO DI COGNIZIONE PROFILI GENERALI Una delle innovazioni più significative della riforma del 2009 è l'introduzione del procedimento sommario di cognizione, così definito nella rubrica dell'art. 702-bis. Il legislatore ha inteso mettere a disposizione dell'attore, nelle controversie meno complesse, un procedimento più snello e semplificato rispetto a quello ordinario, ma che allo stesso tempo conduca ad un provvedimento idoneo, se non impugnato, ad acquisire l'autorità di cosa giudicata ai sensi dell'art. 2909 c.c. L'ambito di applicazione di questo rito non è delimitato in ragione di una specifica materia, essendo liberamente utilizzabile dall'attore, salvo successivo controllo del giudice, per qualunque tipo di domanda, purché si tratti di cause in cui il tribunale giudica in composizione monocratica (quindi sono esclusi sia giudice di pace che corte d'appello come giudice di unico grado),escludendo quindi le cause regolate all'art. 50 bis e quelle attribuite alla competenza del giudice di pace. Se ne esclude l'applicabilità relativamente alle cause assoggettate ad un rito a cognizione piena diverso da quello ordinario (es. cause del lavoro, previdenziali o locatizie). LA FASE INTRODUTTIVA La domanda si propone con ricorso, sottoscritto ex art.125 (dal difensore munito di mandato, salvo che la parte sia abilitata a stare in giudizio personalmente), e contenente tutti gli elementi all'art. 163 comma 3, compreso l'avvertimento di cui al n. 7. Il deposito del ricorso determina la litispendenza e segna il momento della costituzione dell'attore. Il cancelliere forma il fascicolo d'ufficio e lo presenta senza ritardo al presidente del tribunale, il quale designa il magistrato cui è affidata la trattazione del procedimento. Il magistrato incaricato fissa con decreto l'udienza di comparizione ed assegna il termine per la costituzione del convenuto, indicato dall'art. 702-bis in non oltre10 giorni prima dell'udienza. L'attore deve avvertire il convenuto che, qualora non si costituisca almeno dieci giorni prima dell'udienza fissata con decreto, incorrerà nelle decadenze di cui all'art. 702 bis (uguali all'art. 167). La notificazione del ricorso e del decreto sono a cura dell'attore, il quale non è sottoposto a particolari limiti temporali, purché rispetti il termine dilatorio di almeno 30 giorni prima della data 71 fissata per la costituzione del convenuto (cioè 40giorni prima della data dell'udienza di comparizione), affinché il convenuto possa approntare tempestivamente le proprie difese. La disciplina della costituzione del convenuto è analoga a quella del processo ordinario. Il convenuto nella comparsa di risposta deve: • proporre le sue difese e prendere posizione sui fatti posti dal ricorrente a fondamento della domanda, indicando anche i mezzi di prova di cui intende avvalersi e i documenti che offre in comunicazione e formulando le sue conclusioni; • a pena di decadenza, proporre le eventuali domande riconvenzionali e le eccezioni processuali e di merito che non sono rilevabili d'ufficio; • a pena di decadenza, dichiarare se intende eventualmente chiamare un terzo in garanzia, chiedendo nel contempo al giudice designato lo spostamento dell'udienza. Nessuna specifica limitazione temporale è prevista relativamente alle richieste istruttorie e la produzione di documenti. Se il convenuto ha dichiarato di voler chiamare in causa un terzo, il giudice, con decreto da comunicarsi alle parti costituite, fissa la data della nuova udienza nonché il termine perentorio entro cui il convenuto deve provvedere alla citazione del terzo. Il terzo deve costituirsi con le stesse modalità prescritte per la costituzione del convenuto: il terzo è tenuto a costituirsi almeno 10 giorni prima della nuova udienza, il termine assegnato al convenuto per la notificazione della citazione del terzo deve scadere almeno 40 giorni prima di tale udienza. Il convenuto è tenuto a depositare la citazione notificata entro i dieci giorni successivi. I POSSIBILI ESITI DELL'UDIENZA DI PRIMA COMPARIZIONE Ai sensi dell’Art.702 ter, all'udienza di comparizione il giudice deve preliminarmente accertare che sussistano i presupposti specifici a cui è subordinata l'utilizzazione del procedimento sommario di cognizione, se ritiene che la domanda principale o quella riconvenzionale non rientri tra quelle indicate ex art. 702 bis, la dichiara inammissibile con ordinanza non impugnabile. È possibile che il giudizio di mero rito sia immediatamente definibile, quando il giudice reputi fondata una questione processuale sollevata dal convenuto o rilevata d'ufficio (es. relativamente alla competenza o al difetto di giurisdizione). Al di fuori di tale ipotesi, il giudice deve verificare, con un giudizio prognostico ed approssimativo, se le difese svolte dalle parti non richiedano eventualmente un'istruzione non sommaria, cioè se la causa si presti o no ad essere convenientemente trattata ed istruita col rito semplificato. Qualora tale valutazione sia negativa, il giudice, con ordinanza non impugnabile, dispone che il processo prosegua col rito ordinario, a norma dell'art.163 ss., fissando l'udienza di trattazione dell'art. 183 (non è però previsto un termine ulteriore a favore del convenuto, nonostante i termini ristretti del rito sommario). Se invece il giudice ritiene che la causa si presti ad un'istruzione sommaria, sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione rilevanti in relazione all'oggetto del provvedimento richiesto e provvede con ordinanza all'accoglimento o al rigetto delle domande. Il giudice viene dotato di considerevole discrezionalità nel decidere come debba concretamente proseguire. LA NATURA E LE PECULIARITÀ DEL RITO SOMMARIO Il giudice, fatto salvo l'imprescindibile principio del contraddittorio, ha la possibilità di definire la causa in qualunque momento; questo compensa la circostanza che le parti siano esentate da specifiche preclusioni relativamente alla proposizione di eccezioni in senso lato nonché alla richiesta di prove 72 CAPITOLO II LE CONTROVERSIE DI LAVORO E PREVIDENZIALI INTRODUZIONE Nell’ambito dei processi a cognizione piena di competenza del tribunale, diversi da quello ordinario disciplinato dagli artt. 163 ss cpc, un posto di assoluta preminenza spetta al rito delle controversie individuali di lavoro e previdenziali si tratta dell'unico rito regolato in maniera realmente organica ed in larga misura autonoma rispetto a quello ordinario. Le controversie di lavoro e previdenziali, sommate tra loro, raggiungono un numero di poco inferiore a quello di tutti gli altri processi a cognizione piena che seguono il rito ordinario. Dopo la sua radicale riforma, operata con la l. 533/’73, il rito del lavoro ha vissuto nel tempo una considerevole espansione, che lo ha visto estendersi a tutte le controversie agrarie e all'intera materia della locazione e del comodato di immobili urbani e dell'affitto di aziende. Tra il 2006 e il 2009 era esteso anche alle cause di risarcimento danni per morte o lesioni conseguenti ad incidenti stradali. LE CARATTERISTICHE FONDAMENTALI DEL RITO SPECIALE Le principali peculiarità della disciplina, che lo differenziano dal processo ordinario sono: • la competenza, prescindendo dalle controversie attribuite alle sezioni specializzate agrarie, spetta sempre al tribunale in composizione monocratica ed è disciplinata con norme inderogabili; • la proposizione della domanda deve essere preceduta, a pena di improcedibilità, da un tentativo di conciliazione stragiudiziale, da promuoversi davanti ad un'apposita commissione istituita presso l'ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione; • il giudizio inizia con ricorso, e l'instaurazione del contraddittorio fra le parti si realizza in un momento successivo, presupponendo un provvedimento di fissazione dell'udienza da parte del giudice; • il processo dovrebbe essere marcatamente orale ed estremamente concentrato, potendosi in teoria esaurire nella prima udienza o in pochissime udienze ravvicinate tra loro, essendo esplicitamente vietate le udienze di mero rinvio; • la concentrazione del processo viene perseguita con un sistema particolarmente drastico e generalizzato di preclusioni, ricollegate agli atti introduttivi delle parti, con modestissime possibilità di nuove allegazioni, richieste istruttorie e produzioni documentali nel corso del processo; • il giudice gode di ampi poteri istruttorii autonomi, potendo utilizzare d'ufficio quasi tutti i mezzi di prova normalmente riservati alle parti; • la decisione della causa avviene sempre, senza soluzione di continuità, al termine della discussione orale e viene resa immediatamente nota alle parti attraverso la lettura in udienza del dispositivo e (almeno normalmente) della motivazione. In ogni caso, laddove il giudice differisca la stesura della motivazione, il solo dispositivo costituisce già titolo idoneo per iniziare il processo di esecuzione forzata. LA MATERIA CUI SI APPLICA: LE CONTROVERSIE INDIVIDUALI DI LAVORO La materia delle cause cui si applica il rito del lavoro è individuata dall'art. 409: 75 • rapporti di lavoro subordinato privato, anche estranei all'esercizio di impresa (viene quindi in rilievo la distinzione, non sempre netta ed univoca, tra lavoro subordinato e lavoro autonomo)99 • controversie in materia di contratti agrari oppure conseguenti alla conversione dei contratti associativi in affitto, che sono attribuite alle sezioni specializzate agrarie del tribunale; • rapporti di agenzia o rappresentanza commerciale, nonché altri rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione di opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato (rapporti di lavoro parasubordinato); • rapporti di lavoro dei dipendenti di enti pubblici economici, cioè quelli che svolgono istituzionalmente, in via esclusiva o prevalente, un'attività economica; • rapporti di lavoro dei dipendenti di enti pubblici non economici ed altri rapporti di lavoro pubblico, semprechè non siano devoluti dalla legge ad altro giudice. Altre specifiche disposizioni di legge attribuiscono al tribunale, in funzione di giudice del lavoro, anche le controversie latu sensu collettive previste dal nostro ordinamento. L'EVENTUALE TENTATIVO PREVENTIVO DI CONCILIAZIONE Lo spostamento del contenzioso sul pubblico impiego dal giudice amministrativo a quello ordinario aveva indotto il legislatore nel ’98 a rendere obbligatorio, per le cause di lavoro, un tentativo di conciliazione preventivo, al fine di creare una sorta di filtro che arginasse l’inevitabile incremento del carico di lavoro dei tribunali. In questo modo, tale tentativo di conciliazione preventivo si sommava a quello (previsto nel ’73), che il giudice deve espletare tra le primissime attività richieste in occasione della prima udienza. L’esperienza poco felice di tale istituto ha indotto il legislatore ad invertire la rotta, tornando, nel 2010, ad un tentativo di conciliazione meramente facoltativo in tutte le cause di lavoro. La disciplina del previo tentativo di conciliazione è contenuta negli artt. 410 e 411 cpc [che ora si applicano anche alle controversie contemplate dall’art. 63 d.lgs. 165/2011100]. Chi intenda proporre in giudizio una domanda relativa ai rapporti previsti all'art.409 può promuovere, anche tramite l’associazione sindacale cui aderisce, un previo tentativo di conciliazione della controversia, avvalendosi delle procedure di conciliazione previste dalla contrattazione collettiva oppure rivolgendosi alle apposite commissioni costituite presso le direzioni provinciali del lavoro. La relativa richiesta, contenente gli elementi elencati dall’art. 410, 6° e sottoscritta dall’istante, deve essere consegnata o spedita, a mezzo di raccomandata con avviso di ricevimento, tanto alla commissione adita quanto alla controparte. Da questa comunicazione discende l'effetto interruttivo della prescrizione e la sospensione, per la durata del tentativo di conciliazione e per i 20 giorni successivi alla sua conclusione, di ogni eventuale termine di decadenza. Se l’altra parte intende accettare la procedura conciliativa, deve depositare presso la commissione, entro i 20gg successivi al ricevimento della copia della richiesta, una memoria contenente le difese e le eccezioni in fatto e in diritto, nonché le eventuali domande in via riconvenzionale. Se tale deposito avviene, la commissione, entro 10gg, fissa la comparizione delle parti per l’esperimento del tentativo di conciliazione, da tenersi nei successivi 30gg101. Se la conciliazione ha esito positivo, il relativo verbale viene sottoscritto dalle parti e dai componenti della commissione di conciliazione ed acquista efficacia esecutiva tramite un decreto del giudice. Se 76 99 Le controversie aventi ad oggetto l’impugnativa dei licenziamenti, nelle ipotesi di cui all’art. 18 Statuto dei lavoratori, sono state recentemente assoggettate ad una disciplina speciale (il c.d. rito Fornero), che diverge per parecchi profili da quello che stiamo esaminando 100 Cioè alle controversie relative ai rapporti di lavoro alla dipendenze delle PP.AA. 101 In caso contrario, ciascuna delle parti è libera di adire l’autorità giudiziaria invece la conciliazione non riesce, la commissione deve formulare una proposta “per la bonaria definizione della controversia” che, qualora non sia accettata, deve essere poi riassunta nel verbale, con l’indicazione delle valutazioni espresse dalle parti. L’art. 411 aggiunge che di tale proposta (qualora la sua mancata accettazione non sia sorretta da adeguata motivazione) il giudice potrà tener conto in sede di giudizio. I CRITERI DI COMPETENZA E IL REGIME DELL'INCOMPETENZA La competenza verticale su tutte le controversie di cui all'art. 409 è attribuita, per materia ed indipendentemente dal valore, al tribunale, in funzione di giudice del lavoro e in composizione monocratica. Invece, la competenza per territorio viene disciplinata dall'art.413 in base a criteri autonomi e non modificabili dalle parti (essendo espressamente sancita la nullità di ogni eventuale clausola che vi apporti deroga). e.A. In generale, la competenza è individuata in base a tre criteri: 1. il luogo in cui è sorto il rapporto; 2. il luogo in cui si trova l'azienda; 3. il luogo in cui si trova una dipendenza dell'azienda alla quale è addetto il lavoratore o presso la quale egli prestava la sua opera al momento della fine del rapporto. L’orientamento prevalente ritiene che questi fori siano tra loro concorrenti e che la scelta competa all'attore. I criteri di cui ai nn. 2) e 3) sono utilizzabili anche dopo il trasferimento dell'azienda o la sua cessazione, a condizione che la domanda sia proposta entro 6 mesi dal trasferimento o dalla cessazione. e.B.Per le cause relative ai rapporti di agenzia o rappresentanza commerciale (di cui all’art. 409, n. 3) è competente in via esclusiva il giudice del domicilio del lavoratore parasubordinato all'epoca dello svolgimento del rapporto di collaborazione. e.C.Per le controversie relative a rapporti di lavoro alle dipendenze di pubbliche amministrazioni, la competenza spetta in via esclusiva al giudice del luogo in cui ha sede l'ufficio al quale il dipendente è addetto o era addetto al momento della cessazione del rapporto, senza che tale criterio possa subire una deroga per il fatto che sia parte del giudizio un'amministrazione dello Stato. Solo quando tutti questi criteri risultino inapplicabili, è prevista l'applicazione del foro generale di cui all'art.18 (residenza, domicilio o dimora del convenuto), che pertanto assume un rilievo meramente residuale. L'incompetenza può essere eccepita, ex art. 428, sia dal convenuto, esclusivamente nella memoria difensiva che costituisce il suo primo atto difensivo, sia dal giudice d'ufficio, non oltre l'udienza di cui all'art. 420 (cioè l'udienza di discussione). L'INTRODUZIONE DELLA CAUSA: PREMESSA SUL SISTEMA DI PRECLUSIONI OPERANTI NEL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO Il rito del lavoro si differenzia nettamente dal rito ordinario in considerazione del fatto che tutte le principali attività difensive, incluse l'offerta di mezzi di prova e la produzione di documenti, sono ancorate, in linea di principio, ai primi atti rispettivi delle parti, con limitatissime possibilità di variare o integrare le allegazioni e le richieste istruttorie iniziali nel corso del processo. La rigidità del sistema 77 sembra potersi desumere dalla circostanza che tale chiamata implica normalmente una nuova domanda di accertamento nei confronti del terzo [qui, peraltro, a differenza che nel rito ordinario, l’effettiva citazione del terzo non può aver luogo subito, ma solo dopo che il giudice, all’udienza di discussione, l’abbia autorizzata]. L'art.416 prevede poi che il convenuto debba, nella memoria difensiva, prendere posizione, in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione, circa i fatti affermati dall'attore a fondamento della domanda, e proporre tutte le sue difese in fatto e in diritto. COSTITUZIONE E DIFESA PERSONALE DELLE PARTI Fermo restando che di regola anche nel rito del lavoro vige l'obbligo di rappresentanza tecnica, l'art. 417 consente alla parte (attore o convenuto) di stare in giudizio personalmente allorché il valore della causa non ecceda euro129,11, accontentandosi in tal caso di una elezione di domicilio nell'ambito del territorio della Repubblica. L'attore che utilizzi tale facoltà ha pure la possibilità di proporre la domanda verbalmente al giudice, che deve allora farla raccogliere in un processo verbale. In caso di difesa personale, a tutte le notificazioni occorrenti provvede la stessa cancelleria. L'art.417-bis prevede per le cause relative a rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni una disciplina particolare: queste ultime, limitatamente al giudizio di primo grado, sono abilitate a stare in giudizio avvalendosi direttamente dei propri dipendenti o, nel caso di enti locali, conferendo apposito mandato alle strutture delle amministrazioni civile del Ministero dell'interno. Quando si tratti di amministrazioni statali che godono istituzionalmente della rappresentanza e difesa in giudizio da parte dell'Avvocatura dello Stato, questa deve trasmettere immediatamente ai competenti uffici dell'amministrazione interessata, comunque entro 7 giorni, gli atti introduttivi che le vengono notificati; a meno che, venendo in rilievo questioni di massima o aventi notevoli riflessi economici, decida di assumere essa stessa, direttamente, la trattazione della causa. L'UDIENZA DI DISCUSSIONE: RILIEVI INTRIDUTTIVI La prima udienza, che corrisponde a quella fissata dal giudice col decreto di cui all'art. 415, è virtualmente l'unica della causa, giacché potrebbe concludersi con la discussione orale e l'immediata pronuncia della sentenza definitiva (tanto più che sono espressamente vietate le udienze di mero rinvio). In realtà, però, la definizione del processo alla prima udienza costituisce un’eventualità piuttosto remota. Ciononostante, rimanendo allo schema ideale delineato dall’art. 420, il legislatore prevede, nell'ambito della stessa udienza di discussione: a. una prima fase di trattazione della causa (in molti aspetti analoga a quella disciplinata dall’art. 183), che si conclude con i provvedimenti relativi all'ammissione dei mezzi di prova; b. una seconda fase, eventuale, deputata all’assunzione delle prove ammesse; c. una terza ed ultima fase, propriamente decisoria, che conduce, senza soluzione di continuità, alla deliberazione della sentenza, di cui viene immediatamente letto in udienza il dispositivo. L'ATTIVITÀ DI TRATTAZIONE DELLA CAUSA Esaminiamo in dettaglio le diverse attività previste nell’ambito della trattazione della causa (art. 420): A. Interrogatorio libero e tentativo di conciliazione 80 Le prime incombenze attribuite al giudice nell'ambito della trattazione della causa sono l'interrogatorio libero delle parti e il tentativo di conciliazione, che deve condurre il giudice a formulare una proposta transattiva o conciliativa. Queste attività sono sempre obbligatorie (sebbene la loro omissione non determini alcuna nullità) e le parti sono in ogni caso tenute a comparire personalmente, salva la possibilità di farsi rappresentare da un procuratore, generale o speciale, che però sia a conoscenza dei fatti della causa e sia stato investito del potere di conciliare o transigere la controversia. La sanzione in caso di inadempimento è la possibilità che il giudice tragga argomenti di prova, a norma dell'art.116, 2°, dalla mancata comparizione (ingiustificata) ovvero dalla circostanza che il procuratore designato mostri di non conoscere i fatti della causa. B. Modificazione delle domande ed eccezioni originarie Come nel rito ordinario, è esclusa, in linea di principio, la proposizione di domande nuove ed anche la mutatio libelli (ossia la trasformazione radicale della domanda in taluno dei suoi elementi identificativi). È invece possibile, in presenza di gravi motivi e previa autorizzazione del giudice, la sola modificazione delle domande e delle conclusioni originariamente formulate (emendatio libelli). La stessa disciplina dovrebbe applicarsi (ai sensi dell’art. 420, 1°) alle nuove eccezioni; poiché però le eccezioni precluse sono solo quelle processuali e di merito che non siano rilevabili d’ufficio (art. 416), si deduce che il legislatore ha inteso riferirsi alle sole eccezioni in senso stretto, dovendo invece ammettersi la libera allegazione di nuovi fatti estintivi, impeditivi o modificativi che il giudice potrebbe rilevare d'ufficio. Tornando al divieto di nuove domande, deve senz’altro consentirsi all'attore, anche in mancanza di una disposizione ad hoc, di proporre, almeno nella prima udienza di discussione, ogni domanda riconvenzionale che trovi la propria ragione d'essere nelle domande, eccezioni o difese formulate dal convenuto nella memoria difensiva. C. Decisione immediata sulle questioni preliminari o pregiudiziali Quando, essendo fallito il tentativo di conciliazione, la causa risulti già matura per la decisione nel merito, oppure siano sorte questioni attinenti alla giurisdizione o alla competenza o ad altre pregiudiziali la cui decisione può definire il giudizio, il giudice dovrebbe dare immediato ingresso alla fase decisoria, invitando le parti alla discussione e pronunciando sentenza, eventualmente anche non definitiva. Sotto questo profilo, l’art. 420 differisce notevolmente dall’art. 187, sia perché non menziona le questioni preliminari di merito, sia perché lascia intendere che, laddove sorga una questione pregiudiziale idonea a definire il giudizio, il giudice debba risolverla immediatamente. L'orientamento prevalso in giurisprudenza, tuttavia, ha rifiutato questa soluzione interpretativa, ritenendo che anche in questo caso, indipendentemente dalla natura della questione preliminare o pregiudiziale, il giudice possa optare, a propria discrezione, tra la decisione immediata ed anticipata, anche con sentenza non definitiva, ed il differimento della decisione stessa al momento in cui la causa, conclusa con l'eventuale istruttoria, sarà matura anche per il merito. D. Provvedimenti relativi all’ammissione dei mezzi di prova Sempre nella prima udienza, salvo che la causa non sia già matura per la decisione senza necessità di istruttoria, il giudice dovrebbe decidere sull'ammissione dei mezzi di prova chiesti dalle parti nei rispettivi atti introduttivi, disponendo, se possibile, per la loro immediata assunzione Non sono consentite di regola nuove richieste istruttorie, a meno che non si tratti di prove che le parti non abbiano potuto proporre prima; nel qual caso il provvedimento di ammissione delle nuove prove deve assegnare all'altra parte un termine perentorio di 5 giorni per dedurre, a sua volta, gli ulteriori mezzi di 81 prova che si rendano necessari in relazione a quelli ammessi [N.B: anche la prova documentale è soggetta a tali limiti]. N.B: Se non sia possibile provvedere all'assunzione immediata dei mezzi di prova ammessi, il giudice deve fissare una nuova udienza a non oltre 10giorni dalla prima, eventualmente concedendo alle parti, ove ricorrano giusti motivi, un termine perentorio non superiore a 5 giorni prima di tale udienza per il deposito in cancelleria di note difensive. L'INTERVENTO, VOLONTARIO O COATTO, DI TERZI La disciplina dell'intervento di terzi presenta varie peculiarità: ✓ Per quel che concerne l'INTERVENTO VOLONTARIO, esso è ammesso solo entro il termine di costituzione del convenuto, cioè fino a10 giorni prima dell'udienza di discussione (art. 419), a meno che non riguardi un litisconsorte necessario pretermesso, nei cui confronti sarebbe comunque indispensabile integrare il contraddittorio. L'intervento si realizza con il deposito in cancelleria di una memoria contenente gli elementi prescritti dagli artt. 414 e 416, a cominciare (a pena di decadenza) dalle domande che il terzo eventualmente propone nei confronti delle parti originarie, con le relative richieste istruttorie e l'indicazione dei documenti prodotti. Il giudice, inoltre, in questo caso è tenuto a fissare una nuova udienza, nel rispetto del termine minimo previsto dall'art.415,5°, disponendo che tale provvedimento, entro 5giorni, sia notificato all'interveniente nonché, unitamente alla memoria del terzo, alle parti originarie, le quali hanno tempo fino a 10giorni prima della nuova udienza per il deposito della loro memoria, contenente nuove domande, allegazioni e richieste istruttorie giustificate dall'intervento. ✓ Per quanto riguarda l'INTERVENTO COATTO, quello iussu iudicis (al pari dell’ordine di integrazione del contraddittorio ex art. 102) può disporsi invece in qualunque momento del giudizio di primo grado. La chiamata del terzo su istanza di parte, invece, in assenza di una disciplina specifica, si ritiene possa essere richiesta dal convenuto nella sola memoria difensiva di costituzione, e dall'attore entro la prima udienza di discussione, a patto che l'esigenza dell'intervento possa ricondursi alle domande o alle difese del convenuto. La chiamata del terzo, inoltre, deve sempre essere autorizzata dal giudice, previa verifica della sussistenza dei presupposti ex art. 106, tenuto conto che implica sempre la fissazione di una nuova udienza di discussione e la notifica al chiamato, entro 5 giorni, del relativo provvedimento nonchè del ricorso introduttivo e della memoria di costituzione del convenuto. A tutte le notificazioni e comunicazioni occorrenti per la chiamata del terzo o del litisconsorte necessario pretermesso provvede la cancelleria. L'ASSUNZIONE DEI MEZZI DI PROVA E I POTERI ISTRUTTORII DEL GIUDICE La fase istruttoria in senso stretto non presenta, nel rito del lavoro, peculiarità degne di rilievo, se non fosse per la massima concentrazione che dovrebbe caratterizzarla: è previsto, infatti, che tale fase debba esaurirsi in un'unica udienza o al più, in caso di necessità, in udienza da tenersi nei giorni feriali immediatamente successivi (art.420), ed è addirittura possibile, in teoria, che l'assunzione abbia inizio nella stessa prima udienza. Ciò che caratterizza ancor più nettamente il processo in esame è l’ampiezza dei poteri autonomi attribuiti al giudice, sia in 1° grado che in appello: il primo di tali poteri è quello di indicare alle parti 82 ordinarie. Quanto alle preclusioni già maturate, deve ritenersi che vadano valutate in base alla disciplina del rito ordinario. LA FASE DECISORIA E L'ESECUTIVITÀ DELLA SENTENZA Sono parecchie le peculiarità del rito del lavoro nella fase decisoria: in 1° luogo, la concentrazione di questa fase dovrebbe essere massima, poichè non sono previsti né una formale precisazione delle conclusioni, né uno scambio di scritti difensivi conclusivi tra le parti. Di regola tutto si conclude con la discussione orale, alla quale segue, senza soluzione di continuità, la pronuncia della sentenza, che deve essere immediatamente portata a conoscenza delle parti tramite lettura nella stessa udienza sia del dispositivo sia dell'esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione (art. 429). Solo quando il giudice lo ritenga necessario è consentito, su richiesta delle parti, il rinvio ad una nuova udienza e l'assegnazione di un termine non superiore a 10 giorni per il deposito di note difensive; fermo restando che a tale nuova udienza si avrà la discussione orale e l'immediata decisione. In caso di particolare complessità della controversia, il giudice può limitarsi a leggere in udienza il dispositivo, fissando contestualmente un termine non superiore a 60 giorni per la stesura della motivazione ed il deposito della sentenza in cancelleria. L'immediata lettura del dispositivo è prevista a pena di nullità, mentre il successivo procedimento di formazione della sentenza differisce da quello ordinario solo per il termine, e la sentenza potrà dirsi perfezionata solo col deposito in cancelleria. Il dispositivo letto in udienza, reso immediatamente pubblico, non ha il valore meramente interno che gli compete nel processo ordinario, e si ritiene che non sia in nessun caso modificabile dalla sentenza successivamente depositata in cancelleria, neanche quando il giudice dovesse rendersi conto di aver commesso un errore, pena la nullità della decisione contrastante col dispositivo letto in udienza. Questa particolarità riguardante le modalità della pronuncia si riflette sul regime di esecutività della sentenza: nel caso in cui si tratti di sentenza di condanna favorevole al datore di lavoro, l'art.431,5° rinvia espressamente agli artt. 282 e 283, sicchè si ha esecutività ope legis della sentenza di primo grado ed eventuale inibitoria. Per le sentenze che pronunciano condanna a favore del lavoratore per crediti derivanti dai rapporti di cui all'art.409, ferma restando la provvisoria esecutività di diritto della condanna, il lavoratore può iniziare immediatamente l'esecuzione forzata, sulla base di una copia del dispositivo letto in udienza, senza dover attendere il deposito della sentenza in cancelleria, eventualmente differita dal giudice in un momento successivo. Si ritiene che tale efficacia del dispositivo permanga pure dopo lo spirare del termine per il deposito della sentenza e addirittura quando il deposito della sentenza in cancelleria sia già avvenuto. Anche per queste sentenze è consentito che il soccombente chieda al giudice d'appello l'inibitoria, ossia la sospensione dell'esecuzione della sentenza impugnata, ma tale sospensione può essere accordata solamente quando dall'esecuzione possa derivare alla parte impugnante un gravissimo danno. L'inibitoria, inoltre, può riguardare solo una parte della somma per cui è stata pronunciata la condanna, e non può mai essere totale. Va precisato che la richiesta di inibitoria presuppone che vi sia un giudice investito dell'appello, e che quindi il datore di lavoro abbia già impugnato. Per questa ragione, l'art. 433, 2° , per l’ipotesi in cui l’esecuzione forzata sia stata iniziata prima della notificazione della sentenza, consente di proporre appello con riserva di motivi (quindi solo sulla base del dispositivo), che dovranno essere presentati, a pena di decadenza, entro il termine ordinario dell'appello (30 giorni). 85 CENNI SULLA DISCIPLINA SPECIFICA DELLE CAUSE DI LAVORO ALLE DIPENDENZE DI PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI Nel passaggio dalla giurisdizione amministrativa a quella ordinaria le controversie di lavoro alle dipendenze di pubbliche amministrazioni hanno conservato una disciplina parzialmente autonoma, risultante dagli artt. 63 ss del d.lgs. 165/2001. Le maggiori peculiarità riguardavano il previo tentativo di conciliazione, originariamente obbligatorio, che la l. 183/2010 ha reso facoltativo, assoggettandolo integralmente alla disciplina ordinaria di cui agli artt. 410 e 411 cpc. Oggi, quindi, le residue particolarità degne di nota riguardano l’ipotesi in cui nel processo sorga una questione concernente l'efficacia, la validità o l'interpretazione delle clausole di un contratto o accordo collettivo nazionale sottoscritto dall'ARAN (agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni), da cui dipenda la decisione della causain questo caso il giudice, con ordinanza non impugnabile nella quale indica la questione da risolvere, deve rinviare l'udienza di discussione di almeno 120 giorni e disporre la comunicazione degli atti all'ARAN, affinché questa, convocate le organizzazioni sindacali firmatarie, possa promuovere un accordo circa l'interpretazione autentica del contratto o accordo collettivo, oppure circa la modifica della clausola controversa. In assenza di tale accordo il giudice decide la questione con sentenza non definitiva, che è impugnabile esclusivamente con ricorso immediato per cassazione, da proporsi entro 60 giorni dalla comunicazione dell'avviso di deposito della sentenza. La proposizione dell'impugnazione determina la sospensione automatica del processo in cui è stata pronunciata la sentenza, e consente anche la sospensione, a discrezione del giudice, degli altri processo la cui definizione dipenda dalla risoluzione della stessa questione. La decisione della Cassazione vincola direttamente, in caso di annullamento, il solo giudice che aveva pronunciato la sentenza cassata; ma gli altri giudici davanti ai quali venga sollevata la stessa questione, qualora non ritengano di uniformarsi alla soluzione recepita dalla Cassazione, non possono investire nuovamente l'Aran, ma devono decidere con sentenza. Ricordiamo infine che all'Aran e alle organizzazioni firmatarie dei contratti collettivi sono riconosciute la possibilità di intervenire volontariamente nel processo, anche oltre il termine indicato nell’art.419, quella di impugnare autonomamente, in seguito all'intervento, le sentenze pronunciate su una delle questioni viste, e, anche quando non siano intervenute, la facoltà di presentare memorie sia nel giudizio di merito sia in quello di cassazione. L'APPELLO IN GENERALE, LA SUA FASE INTRODUTTIVA E L'APPELLO INCIDENTALE Anche relativamente al giudizio d’appello la distanza fra il rito del lavoro e quello ordinario si è notevolmente ridotta dopo la riforma del secondo con la l. 353/’90 e con la soppressione delle preture. Del resto, prescindendo dalle non molte disposizioni specifiche che vedremo, all’appello in esame è applicabile la normativa ordinaria contenuta negli artt. 339-359 (nei limiti in cui non risulti incompatibile con le caratteristiche del rito speciale). Più a monte, inoltre, è ancor più ovvio che debbano trovare piena applicazione le disposizioni generali sulle impugnazioni di cui agli artt. 323- 338104. L'atto introduttivo riveste, anche in appello, la forma del ricorso, deve essere depositato nella cancelleria della corte d’appello territorialmente competente (in funzione di giudice del lavoro) e deve 86 104 Così, sebbene l’art. 434, 2° preveda per l’appello solo un termine di 30gg dalla notificazione della sentenza (elevato a 4° se tale notifica sia avvenuta all’estero), è pacifico che valga anche per il rito del lavoro il termine di decadenza lungo previsto dall’art. 327 contenere, oltre alle indicazioni prescritte dall'art. 414, a pena di inammissibilità, l’indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che vengono richieste , nonché l’indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata. L’intera fase introduttiva, poi, è disciplinata in modo analogo a quella del processo di 1° grado, salvo qualche lieve differenza nei termini: in particolare, fermo restando che l'udienza di discussione dovrebbe aver luogo entro 60 giorni dalla data di deposito del ricorso e che l'appellante deve provvedere alla notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza entro 10 giorni dalla pronuncia del decreto, il termine minimo che deve intercorrere tra tale notifica e l'udienza è di 25 giorni, elevato a 60 quando la notifica debba eseguirsi all'estero. Il decreto di fissazione dell'udienza compete al presidente della corte e contiene la nomina del giudice incaricato della relazione al collegio. Per quel che riguarda i vizi di questa prima fase, ricordiamo che, poiché il processo inizia con il deposito del ricorso, ogni eventuale nullità della vocatio in ius non può incidere sulla valida e tempestiva proposizione dell'appello, implicando solamente la necessità di una rinnovazione degli atti viziati nonché di una nuova notificazione del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza. Anche dal punto di vista della costituzione delle parti, il procedimento d’appello ricalca fedelmente quello di 1° grado: mentre l'appellante, dunque, è costituito per effetto del deposito del ricorso introduttivo, l'appellato deve costituirsi almeno 10 giorni prima dell'udienza, depositando in cancelleria il proprio fascicolo e una memoria difensiva contenente la dettagliata esposizione di tutte le sue difese (art.436), nonché, a pena di decadenza, l'eventuale appello incidentale ed i motivi specifici sui quali esso si fonda. L'impugnazione incidentale dovrà considerarsi tempestiva o tardiva a seconda che sia stata proposta prima o dopo lo spirare dei termini per l'appello, ma, a differenza del rito ordinario, deve essere in ogni caso notificata alla controparte almeno 10 giorni prima dell'udienza. La disciplina dei nova Nel rito del lavoro l’esclusione dei nova in appello sembra molto più netta rispetto al processo ordinario. Infatti, in base all'art. 437: a. Vige il divieto di nuove domande in appello e l'esclusione di nuove eccezioni, senza alcun distinguo tra quelle processuali e quelle di merito, né tra quelle in senso stretto e quelle in senso lato. Nonostante la diversa opinione manifestata da una parte della dottrina e della giurisprudenza, la soluzione più conforme alla volontà del legislatore è nel senso di escludere l’allegazione di qualunque nuovo fatto estintivo, impeditivo o modificativo, indipendentemente dalla circostanza che sia rilevabile solo dalle parti o anche d’ufficio. Ciò non toglie che al giudice sia consentito rilevare di propria iniziativa l’effetto estintivo, impeditivo o modificativo di fatti che erano stati già allegati o cmq acquisiti agli atti del processo di 1° grado. b. Sono preclusi anche i nuovi mezzi di prova e tale preclusione deve intendersi estesa anche ai nuovi documenti; fanno eccezione solamente il giuramento decisorio ed estimatorio, nonché le nuove prove (costituende o documentali) che il collegio, anche d'ufficio, ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa. Inoltre, anche se l’art. 437 non lo prevede espressamente, devono ritenersi proponibili, ai sensi dell’art. 345, 3°, i nuovi mezzi istruttorii ed i nuovi documenti che la parte, per causa ad essa non imputabile, non aveva potuto chiedere o produrre nel giudizio di 1° grado. Qualora vengano ammesse nuove prove, il collegio rinvia la causa ad una nuova udienza, da tenersi entro 20 giorni, tanto per l'assunzione delle nuove prove, quanto per la discussione e la pronuncia della sentenza. Lo stesso collegio, inoltre, può disporre, ove lo ritenga opportuno, una consulenza 87 CAPITOLO III LE CONTROVERSIE IN MATERIA DI LOCAZIONE O COMODATO DI IMMOBILI E DI AFFITTO DI AZIENDE LE MODESTE DIFFERENZE RISPETTO AL RITO DEL LAVORO Con la riforma del 1990 le cause di locazione di immobili urbani sono state attribuite alla competenza per materia del giudice togato106 ed assoggettate ad un rito che ricalca il modello delle controversie individuali di lavoro. Inoltre, per evitare incertezze nella qualificazione del rapporto controverso, il legislatore ha assimilato alle cause di locazione quelle in materia di comodato di immobili urbani e quelle di affitto di aziende107. Tali controversie sono disciplinate attraverso un esplicito rinvio alla maggior parte delle disposizioni comprese negli art. 414 a 441, in quanto applicabili (art. 447 bis), con alcune differenze: • la competenza per territorio spetta in ogni caso al giudice del luogo in cui è situato l'immobile o l'azienda, essendo nulla ogni diversa pattuizione tra le parti; • il giudice può disporre d'ufficio, in ogni momento, l'ispezione della cosa e l'ammissione di ogni mezzo di prova, ad eccezione del giuramento decisorio, nonché la richiesta di informazioni, scritte o orali, alle associazioni di categoria indicate dalle parti, ma senza poter superare i limiti di ammissibilità previsti dal codice civile; • è possibile la pronuncia dell'ordinanza di pagamento delle somme non contestate, ma non anche di quella sul pagamento di una somma a titolo provvisorio per il caso in cui il giudice ritenga il diritto accertato e nei limiti per cui ritiene già raggiunta la prova; • all'esecuzione della sentenza può sempre procedersi con la sola copia del dispositivo in pendenza del termine per il deposito della sentenza, e l'inibitoria può essere disposta dal 90 106 Inizialmente al pretore, poi, con la soppressione di quest’ultimo, al tribunale 107 Se però si tratta di aziende agrarie, le relative controversie spettano alle relative sezioni specializzate giudice ad quem senza limitazioni quantitative ed ancor prima che l'esecuzione sia iniziata, quando da questa possa derivare alla parte soccombente un gravissimo danno; • è esclusa l'applicazione dell'art. 429, 3°, che prevede la rivalutazione automatica dei crediti di lavoro, nonché dell’art. 432, che consente al giudice di liquidare in via equitativa la somma dovuta. CAPITOLO IV I PROCESSI DI SEPARAZIONE PERSONALE E DI DIVORZIO Sezione I IL PROCESSO DI SEPARAZIONE PERSONALE DEI CONIUGI LA COMPETENZA E LA FASE INTRODUTTIVA Nel testo originario del codice, la disciplina del processo di separazione era scarna e lacunosa per questo motivo la l. 74/1987 ha esteso temporaneamente a tale processo le disposizioni contenute nell’art. 4 della l. 898/’70 riguardanti il divorzio. Le riforme del 2005-2006, poi, hanno restituito al processo di separazione un’autonoma regolamentazione, che però è rimasta per molti aspetti analoga a quella del giudizio sul divorzio. Prescindendo dall’ipotesi della separazione consensuale, le peculiarità del giudizio di separazione personale dei coniugi riguardano essenzialmente la fase introduttiva, caratterizzata dalla comparizione dei coniugi davanti al presidente del tribunale per l'esperimento di un tentativo di conciliazione, ed il raccordo con la fase successiva di trattazione ed istruzione della causa, retta dalla disciplina ordinaria del processo di cognizione davanti al tribunale in composizione collegiale. A norma dell'art. 706, è competente per territorio il tribunale del luogo dell'ultima residenza comune dei coniugi. Nell'ipotesi in cui tale criterio sia inutilizzabile, si applica il criterio generale della residenza o del domicilio attuali del convenuto; in via ulteriormente subordinata, se il coniuge convenuto risiede o è domiciliato all'estero o è irreperibile, la domanda si propone al tribunale del luogo di residenza o di domicilio dell'attore, o, se anche l'attore risiede o è domiciliato all'estero, davanti ad un qualunque tribunale italiano. Il giudizio si instaura con il deposito di un ricorso, che deve contenere l'esposizione dei fatti sui quali si fonda la domanda e deve indicare l'esistenza di figli di entrambi i coniugi. Nei 5 giorni successivi al deposito, il presidente del tribunale fissa con decreto: 91 • la data dell'udienza di comparizione dei coniugi davanti a sé, da tenersi non oltre 90 giorni dal deposito del ricorso • il termine entro cui il ricorrente deve far notificare il ricorso ed il decreto • nonché quello in cui il coniuge convenuto può depositare una memoria difensiva ed eventuali documenti (che possono servirgli per contrastare le allegazioni e le richieste dell'attore in vista della pronuncia dei provvedimenti presidenziali urgenti). Entrambi i coniugi hanno l'obbligo108 di allegare le ultime dichiarazioni dei redditi presentate, affinché il presidente possa valutare le condizioni economiche di ciascuno di essi già all'udienza di comparizione. L'UDIENZA PRESIDENZIALE ED I CONSEGUENTI PROVVEDIMENTI “TEMPORANEI ED URGENTI” L’art.707 stabilisce che all'udienza davanti al presidente i coniugi debbano comparire personalmente con l'assistenza del difensore. Se il ricorrente omette di presentarsi o rinuncia al ricorso, la domanda di separazione resta priva di effetti. Se invece è il coniuge convenuto a non presentarsi, il presidente, prescindendo dall'eventuale rilievo di vizi della prima notificazione (che renderebbero doveroso il rinvio), può discrezionalmente fissare una nuova data per l'udienza di comparizione, ordinando che sia reiterata la notificazione del ricorso e del nuovo decreto al convenuto stesso. La comparizione personale delle parti è strumentale all'esperimento del tentativo di conciliazione, in vista del quale il presidente deve sentire i coniugi prima separatamente e poi congiuntamente. Se il tentativo sortisce effetto positivo, il presidente fa redigere processo verbale dell'avvenuta conciliazione; altrimenti109, pronuncia anche d'ufficio, con ordinanza, i provvedimenti temporanei e urgenti che reputa opportuni nell'interesse della prole e dei coniugi, designando il giudice istruttore e fissando l'udienza di comparizione e trattazione davanti a lui. L’ordinanza presidenziale riguarda tanto i rapporti patrimoniali fra coniugi, quanto l’affidamento, il mantenimento, l’educazione e l’istruzione dei figli. Tale ordinanza costituisce titolo esecutivo, può essere revocata o modificata nel prosieguo del giudizio dal giudice istruttore e conserva la propria efficacia anche in caso di estinzione del processo, fino al momento in cui sia sostituita da un altro analogo provvedimento emesso dal presidente o dal giudice istruttore in un nuovo giudizio di separazione. L’art. 708 prevede che essa può essere impugnata, nel termine perentorio di 10gg dalla notificazione, con reclamo alla Corte d’appello, che si pronuncia in camera di consiglio. IL RACCORDO TRA LA FASE PRESIDENZIALE E QUELLA DAVANTI AL GIUDICE ISTRUTTORE Poiché il prosieguo del giudizio dinanzi al giudice istruttore è retto dalle regole del processo ordinario di cognizione, l’art. 709 si preoccupa di disciplinare il passaggio a questa fase successiva. In primo luogo è previsto che l'ordinanza del presidente sia comunicata al pubblico ministero (il quale è obbligato ad intervenire ai sensi dell’art. 70) e, nel caso in cui il convenuto non sia comparso all'udienza presidenziale, debba essergli notificata a cura dell'attore, entro il termine perentorio stabilito nello stesso provvedimento. Nel fissare l'udienza di prima comparizione davanti all'istruttore, inoltre, il presidente deve assegnare un primo termine al ricorrente per il deposito in cancelleria di una memoria integrativa avente il contenuto di cui all'art. 163, 3° n. 2, 3, 4, 5, 6, ed un secondo 92 108 Privo però di una specifica sanzione 109 Come pure quando il tentativo di conciliazione non possa aver luogo per la mancata comparizione del convenuto A. L'ACCORDO RAGGIUNTO IN SEGUITO A NEGOZIAZIONE ASSISTITA : in tale ipotesi (come nella disciplina generale della negoziazione assistita), il legislatore menziona separatamente la convenzione di negoziazione assistita e l’accordo raggiunto a seguito di tale convenzione. Anche in tale ipotesi, ciò che rileva, in definitiva, è esclusivamente l'(eventuale) accordo, cui le parti ben potrebbero pervenire senza passare attraverso una preventiva formalizzazione della suddetta convenzione; accordo che tiene luogo dei corrispondenti provvedimenti giudiziali ed è egualmente soggetto ad annotazione, iscrizione e trascrizione negli atti e negli archivi dello stato civile. Sotto il profilo formale, è richiesto solo che ciascuno dei coniugi sia assistito da (almeno) un proprio avvocato e che nell'accordo si dia atto che gli avvocati hanno tentato di conciliare le parti e le hanno informate della possibilità di esperire la mediazione familiare nonché, in presenza di figli minori, dell'importanza per il minore di trascorrere tempi adeguati con ciascuno dei genitori. Le disposizioni in esame devono integrarsi con quelle più generali contenute nell'art. 5 del d.l. 132/2014, che prevedono che gli avvocati certifichino l'autografia delle firme delle parti nonché la conformità dell'accordo alle norme imperative e all'ordine pubblico. Una volta raggiunto l'accordo, il procedimento è diverso a seconda che vi siano figli minori o incapaci o portatori di handicap grave o economicamente non autosufficienti: nel primo caso l'accordo deve essere trasmesso entro 10 giorni al procuratore della Repubblica presso il tribunale competente, cui è attribuito il compito di verificare che l'accordo medesimo risponda all'interesse dei figli; se il giudizio è positivo, il procuratore lo autorizza; in caso contrario deve trasmetterlo entro 5 giorni al presidente del tribunale, il quale fissa nei successivi 30 giorni la comparizioni delle parti e provvede senza ritardo. Nel secondo caso l'accordo è egualmente trasmesso al procuratore della Repubblica, che tuttavia, non essendovi soggetti deboli da tutelare, deve solo verificare, prima di concedere il suo nullaosta, che non vi siano irregolarità. In entrambi i casi, dopo che siano intervenuti l'autorizzazione o il nullaosta del procuratore, gli avvocati sono tenuti a trasmettere all'ufficiale dello stato civile del comune in cui il matrimonio era stato iscritto o trascritto, entro 10 giorni, una copia (da essi stessi) autenticata dell'accordo. B. L'ACCORDO CONCLUSO DINANZI AL SINDACO: in assenza di figli minori o incapaci o portatori di handicap grave o economicamente non autosufficienti, i coniugi possono anche concludere un accordo di separazione o di divorzio o di modifica delle relative condizioni dinanzi al sindaco del comune di residenza di uno di loro ovvero del comune presso cui era stato iscritto o trascritto l'atto di matrimonio. In tale ipotesi l'assistenza dell'avvocato è facoltativa e il sindaco, che opera in veste di ufficiale dello stato civile, si limita a ricevere dalle parti personalmente la dichiarazione della volontà di separarsi o di divorziare di modificare le precedenti condizioni di separazione o divorzio e a far loro sottoscrivere, immediatamente dopo, il relativo atto. Pertanto, al di fuori dell'ipotesi in cui si tratti di mera modifica delle condizioni di separazione o del divorzio anteriormente avvenuti, è previsto che l'ufficiale dello stato civile, dopo aver ricevuto le suddette dichiarazioni dei coniugi, debba invitare questi ultimi a comparire nuovamente dinanzi a sé non prima di 30 giorni, al fine di confermare l'accordo già raggiunto. In tal modo viene assicurata a ciascuno dei coniugi la possibilità di un ripensamento, che potrebbe essere finanche tacito, tenuto conto che l'omessa comparizione al nuovo incontro equivale senz'altro a mancata conferma dell'accordo. È importante sottolineare che l'accordo delle parti non può contenere patti di trasferimento patrimoniale, da intendersi come patti che trasferiscono la proprietà di beni. 95 Sezione II IL PROCESSO DI DIVORZIO LA COMPETENZA E LA FASE INTRODUTTIVA Nonostante la scelta del legislatore di mantenerne autonoma la rispettiva disciplina, le differenze fra il giudizio di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio (disciplinato dalla l. 898/’70) e quello di separazione sono, dal punto di vista strettamente procedimentale, davvero minime. Per quanto riguarda la competenza, anche nel processo di divorzio il tribunale giudica in composizione collegiale con l'intervento obbligatorio del pubblico ministero. La competenza territoriale è regolata con criteri identici a quelli previsti dall'art.706. A questo riguardo, però, è intervenuta la Corte costituzionale, che ha ritenuto irragionevole il criterio prioritario rappresentato dall'ultima residenza comune dei coniugi, che potrebbe costringere il ricorrente ad adire il tribunale di un luogo che non ha più effettivo collegamento con le parti. Di conseguenza, il criterio principale è divenuto quello della residenza o del domicilio attuali del coniuge convenuto, salva l'applicazione dei criteri sussidiari allorché il convenuto risieda all'estero o sia irreperibile. Quanto alla fase introduttiva, poi, per il ricorso è sufficiente la sola esposizione dei fatti e degli elementi di diritto sui quali si fonda la domanda, accompagnata dall'indicazione dell'eventuale esistenza di figli di entrambi i coniugi. Unica particolarità degna di nota è l’obbligo del cancelliere di dare comunicazione del ricorso all'ufficiale di stato civile del luogo in cui il matrimonio è stato trascritto, affinché provveda all'annotazione in calce all'atto. La fissazione dell'udienza presidenziale è disciplinata in maniera identica rispetto al processo di separazione, anche per quel che concerne la fissazione del termine entro cui il coniuge convenuto può depositare memorie difensiva e documenti. L’unica peculiarità è rappresentata dalla previsione sulla nomina di un curatore speciale quando il convenuto sia malato di mente o legalmente incapace. L'UDIENZA PRESIDENZIALE, I PROVVEDIMENTI “TEMPORANEI E URGENTI” E IL PROSIEGUO DEL GIUDIZIO Anche la disciplina dell’udienza presidenziale è analoga a quella del processo di separazionei coniugi sono obbligati a comparire personalmente, salvo sussistano gravi e comprovati motivi, affinché il presidente possa espletare il tentativo di conciliazione, sentendoli prima separatamente e poi congiuntamente, sempre con l'assistenza del difensore. Quando la conciliazione non riesca o il convenuto non sia comparso, il presidente, sentiti i coniugi presenti e i rispettivi difensori, nonché quando lo ritenga strettamente necessario anche in considerazione della loro età, i figli minori, dà con ordinanza, anche d'ufficio, i provvedimenti temporanei ed urgenti che reputa opportuni nell'interesse dei coniugi e della prole, nominando un giudice istruttore e fissando la prima udienza di comparizione e trattazione davanti a lui. Il giudizio di divorzio, dopo l'esaurimento della prima fase speciale davanti al presidente, è destinato ad essere assoggettato alle regole del processo ordinario di cognizione, sicchè ad entrambe le parti è rispettivamente consentito, entro i termini assegnati dal presidente, depositare 96 una memoria integrativa dell'atto introduttivo (nel caso del ricorrente) o costituirsi in giudizio (nel caso del convenuto che non vi abbia già provveduto nella fase presidenziale). Quanto al regime dei provvedimenti “temporanei ed urgenti”, va sottolineato che l'ordinanza del presidente, oltre ad essere revocabile e modificabile, nel prosieguo del giudizio, da parte del giudice istruttore e a sopravvivere all'eventuale estinzione del processo, deve anche ritenersi reclamabile alla corte d'appello entro 10 giorni dalla notificazione. Come per la separazione, anche per il giudizio di divorzio è previsto: • che il giudizio davanti al giudice istruttore prosegua secondo l'ordinaria disciplina del processo di cognizione; • che il tribunale, quando il processo debba continuare per la determinazione dell'assegno di mantenimento, è tenuto a pronunciare sentenza non definitiva di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, appellabile solo in via immediata e idonea a passare automaticamente in giudicato; • infine, che l'appello è deciso in camera di consiglio, ossia è soggetto al rito camerale e va quindi proposto con ricorso. Sempre il relazione all’appello va sottolineato che l’art. 5, 5° l. 898/70 (in deroga all’art. 72 cpc) consente al pubblico ministero di impugnare la sentenza di divorzio solo limitatamente agli interessi patrimoniali dei figli minori o legalmente incapaci. La sentenza di primo grado è provvisoriamente esecutiva per la parte relativa ai provvedimenti di natura economica. In presenza di giustificati motivi sopravvenuti le parti possono chiedere con procedimento in camera di consiglio la revisione dei provvedimenti concernenti l'affidamento dei figli o la misura e le modalità di corresponsione degli assegni di mantenimento dell'altro coniuge o dei figli. IL RICORSO SU DOMANDA CONGIUNTA Anche il divorzio, come la separazione, può essere chiesto dai coniugi congiuntamente, con ricorso sottoscritto da entrambi. In questo caso non sarebbe certo corretto discorrere di divorzio “consensuale”, poiché lo scioglimento del vincolo matrimoniale non deriva semplicemente dal consenso degli interessati (accertato dal tribunale), ma pur sempre dalla rigorosa verifica della sussistenza di una delle fattispecie contemplate dall’art. 3 della l. 898. La circostanza che il divorzio sia chiesto da entrambi i coniugi incide solo sull'iter processuale, che ne risulta semplificato, poiché consente di saltare la fase davanti al presidente e di adire direttamente il tribunale in camera di consiglio. La domanda congiunta di divorzio può essere indifferentemente proposta al tribunale del luogo di residenza o domicilio dell’uno o dell'altro coniuge, deve indicare le circostanze che giustificano la domanda di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, le condizioni concernenti la prole ed i rapporti economici tra i coniugi. Il tribunale, sentiti i coniugi, decide con sentenza, dopo aver valutato che sussista una delle fattispecie di divorzio previste dalla legge, sia che le condizioni indicate dalle parti rispondano all'interesse dei figli. In difetto di quest’ultimo presupposto, il tribunale non rigetta la domanda, ma pronuncia con ordinanza i provvedimenti temporanei ed urgenti nell'interesse dei coniugi e della prole e rimette le parti davanti al giudice istruttore, affinché il giudizio prosegua secondo le regole ordinarie. 97
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved