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La Consolidazione del Potere Romano: Cittadinanza, Diritto e Colonie, Sbobinature di Diritto Romano

Sulla consolidazione del potere romano attraverso l'evoluzione delle pratiche sociali, il sistema di governo e la costituzione di colonie. Come la creazione del cittadino, il grande progresso di roma e l'espansione del diritto romano contribuirono alla formazione di un nuovo ordinamento politico-giuridico. Vengono trattati temi come la creazione del cittadino, il ruolo delle colonie latine e romane, il diritto onorario e il processo di trasformazione del diritto romano.

Tipologia: Sbobinature

2018/2019

Caricato il 27/05/2019

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valeria_aceti 🇮🇹

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Scarica La Consolidazione del Potere Romano: Cittadinanza, Diritto e Colonie e più Sbobinature in PDF di Diritto Romano solo su Docsity! STORIA DI ROMA TRA DIRITTO E POTERE CAPITOLO PRIMO: LA GENESI DELLA NUOVA COMUNITA’ POLITICA 1. Le condizioni materiali nel Lazio arcaico Agli inizi dell’ultimo millennio a.C. il paesaggio fisico in cui si situavano gli insediamenti umani che avrebbero dato origine a Roma e alle altre città del Latium vetus non doveva essere molto diverso da quello odierno, solo segnato da maggiori e improvvisi dislivelli. Soprattutto la presenza di aree boschive e di vasti acquitrini, negli avvallamenti, contribuiva all’isolamento delle comunità umane. Il territorio era limitato a Nord dal Tevere, a Ovest dal mare, a Est dai primi altipiani che segnano il confine fra i Latini e le popolazioni sabelliche e a Sud , infine , dagli ultimi contrafforti dei colli Albani che si sporgono sulla grande pianura che si apre verso Cisterna, Circeo e Terracina. Nella primitiva economia delle popolazioni laziali un ruolo importante era rappresentato dall’allevamento. Era però già praticata anche una forma primitiva di agricoltura, e abbastanza antico appare anche lo sfruttamento di certi alberi da frutto. Sin dagli inizi dell’ultimo millennio a. C venero sviluppandosi, forme di circolazione di uomini e cose. Le principali rotte commerciali, attraversando verticalmente la pianura laziale, univano l’Etruria alla Campania: due aree di più precoce sviluppo economico. Uno dei pochi punti di passaggio, dove era facile il guado del Tevere, è costituito dall’area su cui sorgerà Roma. Non meno importanti erano anche le vie di comunicazione del mare verso l’interno: allora , infatti, il Tirreno era già coperto da una fitta rete di traffici marittimi che contribuivano all’intenso flusso di beni tra la zona costiera degli scambi e l’entroterra , attraversando la pianura controllata dai colli Albani da un lato, dal Palatino e dal Campidoglio Quirinale dall’altro (commercio del sale). Quest’area, sin dagli inizi dell’ultimo millennio a.C. , era caratterizzata dalla presenza di numerosi villaggi vicini gli uni agli altri e costituiti da poche capanne. La loro aggregazione interna, e conseguentemente la reciproca differenziazione, si fondava sulla presenza di forme familiari o pseudo parentali, legate alla memoria di una più o meno leggendaria discendenza comune. Contro ogni accelerazione della loro crescita materiale giocava la persistente difficoltà di assicurarsi lo sfruttamento di zone adeguate di territorio. Cosicché non possono meravigliare le piccole dimensioni dei numerosi centri che, ancora tra IX e VIII secolo a.C. , appaiono disseminati nell’area laziale. Sembra echeggiare questa situazione un suggestivo testo di Plinio in cui si afferma che , in un tempo remoto , in Latio vi furono, accanto a piccole cittadine ( clara appida ), dei populi, uniti da un vincolo religioso costituito dal culto di Iupiter Latiaris che si svolgeva in monte Albano , l’odierno Monte Cavo, nel cuore dei Castelli romani. Questi populi, designati unitariamente come Albanes , sono menzionati in numero di trenta e richiamati al plurale. Sia questi che gli appidia sarebbero stati tutti destinati < a dissolversi in età storica senza lasciar traccia >. 2. Villaggi , distretti rurali e leghe religiose Nelle tombe d’epoca arcaica, scavate nelle varie località laziali, vediamo la presenza di antiche forme culturali , attestate dal trattamento del cadavere, dalle suppellettili che lo attorniano, legate alla vita quotidiana : recipienti con cibo, ornamenti , le armi per gli uomini , e gli strumenti di tessitura per le donne. Ciò fa pensare che fosse già diffusa la credenza in una vita ultraterrena. Un altro aspetto importante è costituito dalla grande omogeneità di questi ritrovamenti , a testimoniare una notevole uniformità di condizioni economiche. Le elementari funzioni di guida del gruppo dovevano poi associarsi all’età e al ruolo militare. Accanto agli anziani, ai patres, detentori della saggezza e della capacità di ben guidare la comunità , è verosimile che, nei momenti di pericolo e di crisi , i poteri di decisione e di comando venissero deferiti ad alcuni guerrieri di particolare valore e capacità. E’ probabile che questi stessi patres, o alcuni di essi, assolvessero anche a particolari funzioni religiose, non solo all’interno della singola famiglia, ma anche in un ambito più ampio , essendosi già affermata , in questo campo, una competenza particolare di singoli individui, assunti quindi a una posizioni di prestigio all’interno della comunità. 
La grande quantità di questi piccoli villaggi, situati in un’area relativamente circoscritta, sovente a poche centinaia di metri gli uni dagli altri, contribuiva ad accentuare un ininterrotto e fitto sistema di relazioni tra di essi. Era un mondo magmatico caratterizzato da una < cultura > comune , consistente anzitutto nella comunanza della lingua latina e nella partecipazione a riti e culti. La gestione in comune o la spartizione dei pascoli, il controllo dei sistemi di comunicazione e dei traffici commerciali, la circolazione e lo sviluppo delle pur rudimentali tecniche agricole, la ripartizione o l’uso in comune delle terre, nonché le possibili forme di circolazione del bestiame nel corso dell’anno dai pascoli più alti alla pianura, a seconda delle stagioni , e la diffusione dei prodotti metallurgici sono fattori di coagulo tra più comunità. 
La celebrazione dei sacrifici in comune, come nel caso dei trigenta populi Albenses costituisce un momento importante nel sistema di comunicazioni e di scambio tra le varie comunità , assumendo anche un valore più propriamente < politico >. Il bosco era il luogo di un culto collettivo e di aggregazione di più comunità , non meno di altri centri religiosi.
Intorno agli anni in cui la tradizione colloca la fondazione di Roma , verso la metà del VIII secolo, precisamente nel 753 a.C. , profonde trasformazioni sembrerebbero verificarsi nell’organizzazione economico sociale del Lazio primitivo. Si tratta anzitutto di un processo di differenziazione, documentato dalla presenza di tombe con arredi funerari di crescente opulenza, nettamente distinte da quelle tuttora più diffuse , assai più modeste. Esse attestano , con l’affermata egemonia dei gruppi economicamente e socialmente più forti , una chiara ideologia aristocratica. Un processo del genere fu reso possibile da un primo sviluppo economico delle società da esso interessate, con l’avvio dei primi fenomeni di accumulazione della ricchezza e con la parallela crescita della popolazione. Dove ormai interveniva in modo sempre più accentuato, a favorire l’ineguaglianza di distribuzione dei beni , un fondamentale fattore costituito dalla guerra, < il grande lavoro collettivo > di questa prima età. E’ in essa infatti che il valore individuale , gli stessi armamenti e quindi le prede belliche, definivano diversità di posizioni e di prestigio. 
E’ allora , inoltre, che la documentazione archeologica evidenzia un primo sviluppo tecnologico, con il passaggio da una produzione < domestica > dei principali manufatti, e in primo luogo degli oggetti di terracotta, a una produzione specializzata, mentre si moltiplicano gli oggetti metallici. In questa fase lo sviluppo economico permette ormai ad alcuni individui di non partecipare immediatamente alla produzione dei beni alimentari e immediatamente funzionali al sostentamento , specializzandosi invece in altre attività artigianali e dando così luogo a un primo < mercato > di scambio. 
Tra i fattori che dovettero contribuire a tale processo di trasformazione, si può probabilmente annoverare lo sviluppo delle attività agricole . Dovevano già essere presenti forme limitate di pertinenza della terra, se non altro sulla capanna e sullo spazio circostante, ma anche con ogni probabilità sui primi circoscritti campi coltivati. Ciò insieme alla diversa distribuzione delle risorse della pastorizia, dovette determinare una progressiva stratificazione dei singoli patres all’interno delle varie comunità d’appartenenza rafforzando maggiormente alcune di queste a danno di altre. L’accentuarsi di tali squilibri, a sua volta, poteva in alcune situazioni ottimali dar vita a fenomeni di < sinecismo > ( Concentrazione della popolazione delle campagne in una sola città). 3. La fondazione di Roma In questa condizione, appaiono le prime città in formazione: è in quest’epoca che vari insediamenti laziali assunsero una fisionomia diversa di quella dei villaggi dell’età precedente. Il nucleo della città sociali, legati in buona parte al controllo della ricchezza fondiaria. A differenziare i vari gruppi sociali dovette contribuire anche il fatto che fossero soprattutto le genti più antiche a conservare il controllo dei loro territori d’origine , in una condizione ambigua , ormai , non essendo essi parte del nuovo demanio distribuito per heredia ( forse l’unico in proprietà secondo il nuovo diritto cittadino ). I due iugeri degli heredia romulei, non meno della sacertà delle pietre di confine, tutelata con la morte del loro eventuale violatore, corrispondono a questo mondo di piccoli proprietari – agricoltori, non alla gestione di mandrie e greggi e agli spazi legati all’allevamento. 5. La città delle origini come sistema aperto La legenda del ratto delle Sabine evoca il ricordo di un confronto (scontro tra la comunità latina del Palatino e quella sabina del Quirinale). Esso si concluse con la loro fusione , e segna il primo grande balzo in avanti nella storia di Roma. 
Un carattere proprio della storia di Roma è che essa lungi dall’apparire in forma monolitica, viene costruendosi con elementi eterogenei, se non contraddittori. Latini e Sabini , poi Etruschi sono componenti diverse che, fondendosi nel nuovo organismo politico della città , contribuirono a staccarla da uniformi radici etnico culturali e a modernizzarla. Tali fusioni appaiono dunque riproporre e accentuare il carattere di Roma come < ponte > , vincolo strategico e punto di controllo dei collegamenti e delle comunicazioni di più ampio respiro. Una circolazione ristretta, e processi di crescita e di integrazione che incontravano un limite fortissimo in questo carattere familiare: il gruppo sociale presupponeva un < padre > , un comune antenato ed era circoscritto ai soli suoi discendenti , veri o fittizi. 
Qui è la differenza radicale di questa più fluida fisionomia che caratterizza molte società arcaiche con la città : che ha un < fondatore > , non un < padre > e che pertanto può unire insieme soggetti diversi senza necessariamente inglobarli in un vincolo parentale. Ed è qui che la politica opera tendenzialmente in modo eversivo verso la predominanza del sangue e dell’apparato familiare. Mentre insomma, nelle strutture precedenti, l’insediamento del nuovo individuo avviene nella sua trasformazione in < partente > nella città essa avviene con la sua integrazione nelle istituzioni : come < cittadino> , membro del populus. Il successore di Romolo, Numa non era membro della città , provenendo dalla città sabina di Cures . La lotta tra la Roma del Palatino e la conquista sabina del Quirinale risoltasi nella loro fusione è un processo che si ripete nel corso dei successivi conflitti: la vittoria dell’una comunità sull’altra significava infatti la scomparsa della città vinta e l’assorbimento della sua popolazione da parte della città vincitrice. In tal modo le guerre di Roma appaiono, nel complesso, come una forma accelerata di successi sinecismi, con uno spostamento degli insediamenti sottomessi ed il loro totale assorbimento nella città vincitrice. E’ allora che gli antichi appida, i populi , i castelli isolati come anche molte città ancora non consolidare < scomparvero senza lasciare traccia> , alimentando la forza di quelle comunità destinate invece quasi tutte a persistere nel corso di tutta l’antichità e oltre ancora. Ma è anche da segnalare anche un altro tipo di mobilità rappresentato dalla facilità con cui gruppi minori, clan gentilizi o singole famiglie e addirittura individui, si staccarono dalle loro comunità di appartenenza , emigrando in Roma. Accelerando le forme di circolazione culturale, tali processi dovettero contribuire in modo determinante allo sviluppo degli assetti sociali e politici romani. Da un lato le possibili migrazioni di interi gruppi gentilizi, esaltavano indubbiamente l’autonomia delle strutture gentilizie, ma dovette essere ancor più numerosa una forma capillare di spostamenti individuali o di nuclei familiari, non riconducibile all’interno delle gentes, che contribuirono invece a rompere le logiche di schiatta e di sangue. Si tratta di un processo che, alla lunga, avrebbe disarticolato la natura confederale della società primitiva , rafforzando ulteriormente il ruolo di supremo mediatore del rex. CAPITOLO SECONDO: LE STRUTTURE DELLA CITTA’ 1. La chiave di volta delle istituzioni cittadine : il rex Dovette essere il rex a costituire il fattore propulsivo dell’ordinamento cittadino. Egli ne esaltava infatti l’interno dinamismo rispetto ai vecchi meccanismi parentali e alle logiche di lignaggio, affermando, con il suo potere, la funzione unificante della città. In tale figura sono ben presenti le radici preistoriche che cogliamo anzitutto nel suo carattere carismatico e nella forte accentuazione religiosa derivata dall’arcaica immagine dei re – sacerdoti. Il rex tuttavia si colloca egli stesso in un quadro nuovo, dove anzitutto è assente ogni logica dinastica . Non è il figlio che succede al padre in questa monarchia. La volontà divina aveva un ruolo fondamentale nella designazione del nuovo re. Se Romolo, il leggendario fondatore della città , consulta direttamente gli dei, interpretando i segni favorevoli, anche il successore ascende alla carica attraverso la solenne cerimonia dell’inauguratio. Rex innaguratus, dunque, perché carico di una dimensione sacrale, supremo sacerdote e tramite della comunità con i suoi dei. Ma non solo quello, e non solo in virtù di un volere divino: giacché nell’avvento del nuovo re intervengono sia il senato che il popolo. L’inauguratio infatti è effettuata nei riguardi del nuovo re, già individuato ad opera del senato , attraverso un suo membro specificamente qualificato per la sua funzione di interrex. Dopo la sua creatio e la successiva inauguratio il nuovo rex si sarebbe presentato al popolo riunito nella forma dei comizi curiati da lui stesso convocati, al fine di assumere di fronte a loro il supremo comando. E’ questo incontro che perfeziona il rituale dell’acquisizione dei poteri regali da parte dell’investito dal favore umano e divino. Sacerdote e capo militare , il rex è insieme il ductor dell’esercito ma anche, rispetto alla città , il garante della pax deorum dove si esalta la sua funzione di custode e tutore del diritto. Colui che sa e dice le norme della città e le applica nella gestione e composizione dei conflitti interindividuali e nella repressione delle condotte criminali , onde assicurare l’esistenza stessa e la sicurezza della compagine cittadina. Nella memoria degli antichi vi sono precisi riferimenti all’esistenza di leges regiae e si riportano varie norme attribuite di volta in volta ai vari re succedutisi a Roma.
Non è molto probabile che , in origine , il rex , analogamente al magistrato repubblicano , sottoponesse formalmente all’approvazione dell’assemblea del popolo una sua proposta. Incerto tra una dimensione magica e i primi sviluppi di un sapere tecnico scientifico è l’altro ruolo del re , di custode del tempo, scandendo la vita cittadina. Ciò dipendeva dal fatto che in quell’epoca, i Romani non conoscevano ancora un calendario fisso, corrispondente al ciclo annuale del sole. I periodi e le date del calendario erano pertanto definiti secondo un sistema mobile e sempre variante di divisione dell’anno che serviva a stabilire tutte le scadenze della vita cittadina . In ogni sfera della sua attività, il re fu progressivamente coadiuvato da una serie di collaboratori istituzionali: al comando dell’esercito accanto a lui vi era un comandante militare, che lo poteva anche sostituire in questo ruolo delicatissimo. Era il magistr populi a sua volta associato a un magister equitum , al comando della cavalleria. Al governo civile della città era assistito da un prafectus urbi. Infine nell’altra sua fondamentale funzione di garante e custode dei mores, il corpo consuetudinario del diritto cittadino, e di tutore dell’ordine legale della città, il rex fu coadiuvato sin dall’inizio dal collegio pontificale (di cui egli stesso ne era parte). 2. I patres Secondo l’indicazione degli antichi, con la morte del re, auspicia ad patres redeunt. Con il potere di interrogare gli dei , tornava al senato il supremo ruolo di governo esercitato a turno da alcuni suoi membri designati come interreges, tra i re: ponte dunque , tra il vecchio e il nuovo re ancora da nominare. Tale interregnum veniva esercitato da dieci membri del senato, per cinque giorni ciascuno. Dopo i primi cinquanta giorni si deve supporre che il comando passasse a un altro collegio di dieci patres, ove non fosse ancora stato scelto un nuovo rex. L’antico potere di governo dei patres, ridotto a un ruolo pressoché residuale di fronte al rex , alla sua scomparsa riprenderebbe, dunque, l’originaria pienezza. E’ dunque l’assemblea degli anziani delle varie gentes, il senato, che oltre a ritrovarsi investita del particolare potere dell’interregum si riunisce e collabora con il rex.
 Tra coloro che fossero emersi all’interno delle varie gentes, per lignaggio , ricchezza e per le proprie azioni in guerra e in pace, il rex sceglieva i membri del senato: i patres. (probabilmente tale consesso coincideva con i capi delle gentes). Il numero dei patres, si presentava in forma artificiale : prima cento, poi cinquecento o duecento giungendo infine al numero pressoché definitivo di trecento senatori. Un’altra importante funzione dell’assemblea dei patres è costituita dall’opera di consiglio e di ausilio fornita all’azione del rex. 3. Il populus Una divisione fondamentale della popolazione consisteva nella sua distribuzione in trecento decurie, dieci per ognuna delle trenta curie a loro volta ripartite in tre tribù. Questa suddivisione, si sarebbe fondata sui genera hominum (si è di una curia perché vi appartenevano i propri antenati). Dovette anche intervenire, la sovrapposizione di nuove forme religiose comuni, atte a emarginare la connessione fra le singole curie e specifiche aree territoriali. Nella primitiva costituzione romulea l’organico dell’esercito romano era dato dalla somma dei contingenti fissi che ciascuna curia doveva fornire. Il popolo riunito nel comizio curiato ( cioè tutti e solo i maschi adulti ), partecipava all’investitura del nuovo rex inauguratus. Si annovera poi tra le competenze dell’assemblea popolare anche la designazione dei magistrati ausiliare del rex. Anche in questo caso il popolo appare più atto a ricevere la notizia di delibere, che non ad approvare , con un voto , i provvedimenti proposti. 
Ma la competenza dei comizi si estendeva anche a una serie di atti di carattere, diciamo così, più privato sulla composizione interna delle famiglie. 
Ancora per tutta l’età repubblicana una parvenza degli antichi comizi si riuniva a presenziare e ad approvare l’adrogatio con cui un pater familias si assoggettava volontariamente alla potestas di un altro padre assumendo, a tutti gli effetti, nei riguardi di costui , la condizione di figlio . In tal modo si assicurava artificialmente la sopravvivenza di una famiglia che, altrimenti si sarebbe estinta: tale atto infatti era possibile solo nel caso in cui mancassero discendenti diretti dell’arrogante. Collegata in origine all’adrogatio appare a prima vista una forma arcaica di testamento. Nel testamentus calatis comitiss la designazione di un erede era il risultato indiretto della sua adozione come filius. Un risultato deliberatamente perseguito dalle parti e per cui si era escogitato che questa particolare adozione a differenza dell’adrogatio, avesse effetto solo alla morte del pater familias adottante , privo di figli legittimi, comportando come conseguenza la successione nella posizione del defunto da parte del designato. Ed infine vanno ricordati tutti quei provvedimenti che modificano la condizione delle gentes o all’ammissione di uno straniero o di un intero gruppo . Tra di essi risalta la detestatio sacrorum, con la quale il membro di una gens scindeva il suo vincolo familiare e religioso con il gruppo di origine. E’ di notevole rilievo il fatto che le attività che incidevano sulla vita delle curie o che riguardavano, mediamente l’inauguratio dei sacerdoti maggiori, il rapporto del populus Romanus, con la divinità, non potessero prescindere dalla presenza solenne del comizio. Ciò comportava già una prima forma di controllo. Certo con dei forti limiti, giacché tali assemblee non dovevano avere il potere di esprimere esse stesse la volontà della città e neppure quello di modificare o di paralizzare decisioni prese dagli organi del governo cittadino: rex e patres, chiamata semplicemente a esprimere rumorosamente la sua approvazione o il dissenso senza tuttavia che si addivenisse ancora a un voto formale. Era la sede d’espressione e di verifica di quel consenso su cui si fondava, in ultima istanza la persistente legittimità e la forza del rex. 4. I collegi sacerdotali 6. Le radici arcaiche del diritto cittadino La valenza arcaica del termine ius è lungi dal corrispondere alla nostra idea di diritto, così come non facile è il rapporto originario tra le due sfere del ius e del fas, quest’ultimo solo malamente traducibile con costume. Esso a sua volta, va posto in relazione alla fusione nel blocco unitario della città del molteplice e differenziato patrimonio di riti, credenze, cosmogonie, delle concezioni di una vita ultraterrena e delle pratiche connesse, nonché di una molteplicità di rituali villaggi e delle minori comunità, ma anche nell’ambito delle più ampie aggregazioni sociali quali le leghe religiose. Un processo che fu sicuramente agevolato dalla forte somiglianza delle istituzioni delle varie comunità in esso coinvolte. E’ abbastanza naturale la più accentuata dispersione dell’originario patrimonio gentilizio relativo alla sfera più propriamente sociale e giuridica. Priva infatti della maggiore forza di conservazione delle forme religiose, questi altri mores gentilizi furono esposti a una maggiore erosione, anche per la pressione cittadina volta a ridurre al mero livello sociale le regole gentilizie restate fuori dal proprio ordinamento. E’ probabile che lo stesso riflusso nelle nuove istituzioni cittadine di parte del contenuto culturale dei vari gruppi minori avesse riguardato anche altre sfere, oltre a quella religiosa. Dal governo della comunità di villaggio, allo sfruttamento della terra e degli altri beni essenziali, ai criteri che regolavano il matrimonio e i sistemi familiari, alla divisione del lavoro, collegata da una parte alle classi di età dall’altra ai sessi, alla successione ereditaria, al disciplinamento dei rapporti di dipendenza, al controllo sociale dei comportamenti individuali pericolosi per il gruppo. D’altra parte, come gli aspetti religiosi, queste stesse regole spesso non erano esclusive di una sola gente, o di un solo villaggio, ma costituivano un comune tessuto che era venuto saldando insieme, in una struttura culturale omogenea , più villaggi e più gruppi originariamente distinti . Credenze , pratiche sepolcrali, riti , sistemi matrimoniali e forme familiari erano d’altra parte circolate già nel mondo precivico, talché il consolidarsi all’interno dell’unità cittadina, piuttosto che segnare una rottura o una radicale sovrapposizione di forme nuove, esprime il quasi inevitabile sviluppo di fattori già presenti nel mondo laziale. Ed è proprio questo antico patrimonio a definire l’identità politico culturale, dando altresì consistenza e contenuto a molti dei collegi sacerdotali cittadini. Di contro le tradizioni rimaste di pertinenza di ciascun gruppo interno alla nuova comunità sopravvissero solo e nella misura in cui esse non contraddicessero e minacciassero il sistema unificato di valori condivisi. La società infatti è costruita secondo una prospettiva dove sovranità e diritto sono intimamente associati attraverso l’azione della legge, di cui il giudice in teoria è il servo. In Roma il diritto è concepito come preesistente al legislatore, che interviene solo a modificare e innovare singoli punti. Il suo fondamento sono i mores : il punto di partenza di tutta la storia del diritto romano. Il re può intervenire a regolare o a limitare e modificare il ruolo del pater familias nell’ambito della repressione domestica, può circoscriverne alcuni eccessi, può controllare, attraverso le curie, le modifiche artificiali nella composizione dei gruppi familiari e lo spostamento di patrimoni ereditari. E ancor più il suo giudizio, con la consulenza determinante dei pontefici, può innovare in uno o altro specifico aspetto di pratiche tradizionali. Ma le strutture fondanti dell’ordinamento , organizzazioni familiari, forme di signoria sui beni, rapporti tra individui, appaiono saldamente fondate sui mores. 
 CAPITOLO TERZO: I RE ETRUSCHI 1. Le basi sociali delle riforme del VI secolo Il VI sec. fu un momento di forte modernizzazione dell’apparato politico istituzionale, tale da anticipare alcuni caratteri di quello che sarà l’impianto di fondo del successivo sistema repubblicano.
 Tali trasformazioni furono a loro volta rese possibili dalla crescita politica e sociale di Roma , nel corso del primo secolo e mezzo di vita, accingendosi a un nuovo salto in avanti nel suo sviluppo economico sociale. In parallelo agli sviluppi politico militari che avevano contribuito all’accentuato rafforzamento della struttura urbana di Roma è da registrarsi l’azione di altri fattori, dall’accresciuta importanza delle forme di proprietà individuale all’ancor più significativa espansione delle attività artigianali e mercantili. Ora queste molteplici attività urbane si dovettero inserire sempre più malamente nella logica chiusa del sistema delle curie. Rispetto alle consorterie gentilizie che le dominavano, nuovi gruppi sociali e nuovi ceti erano infatti i protagonisti di questa stagione, la cui organizzazione interna tendeva in generale a fondarsi sulla centralità delle minori unità familiari, se non dei singoli individui. La prorompente economia urbana era più congrua a mestieri e attività individuali che permettevano a singoli individui o unità familiari anche piccole, d’aspirare a uno status economico sociale autonomo. Da un lato dovette così verificarsi una crescita complessiva degli strati sociali estranei al sistema gentilizio, e costituiti sia da un popolo minuto, ai margini o quasi dell’economia cittadina sia da strutture familiari abbastanza importanti per consistenza economia in grado di prendere uno spazio autonomo nella città. Dall’altro si verificò anche un processo d’erosione nella stessa compattezza delle gentes a seguito delle tendenze centrifughe di singole famiglie o lignaggi. Oltre al fatto che non di rado dovette intervenire la rottura dei vincoli di dipendenza dei clienti arcaici, sia per una loro emancipazione economica sia per l’estinzione di alcune gentes. Le attività rurali potevano essere organizzate ancora in forme limitatamente comunitarie nell’ambito delle gentes e delle curiae. Ma le sempre più importanti attività artigianali e lo stesso commercio presupponevano una specializzazione del lavoro e un’articolazione delle forze produttive poco adatte a organizzarsi così ampi come le gentes. Sin dai tempi della monarchia latino sabina la società romana disponeva di un’ organizzazione familiare straordinariamente funzionale a questo tipo di attività ( e anche a un’economia agraria fondata sulla piccola proprieta ). In essa dunque più generazioni potevano essere saldate insieme, sotto la potestas dell’avus , dando luogo a un sistema particolarmente adatto alla trasmissione di un sapere tecnico. Si può notare un carattere più aggregato e meglio evidenziato dei clan patrizi, rispetto ai gruppi sociali che avrebbero dato origine alla plebe. Questi ultimi, infatti, in un primo momento, parrebbero privi di una loro specifica identità, potendosi piuttosto definire in termini negativi come non patrizi. 
La crescita economica del VI secolo a.C. accentuò questi dislivelli sociali. 2. La fisionomia della nuova città Nel corso del VI secolo a.C. fu protagonista una serie di re d’origine etrusca, portatori di un diverso e più elevato livello culturale rispetto alle società del Lazio primitivo che riflettevano la grande crescita economica e lo splendore culturale della loro civiltà . Questi mutamenti coincisero, d’altra parte , con un più generale avvicinamento di Roma alle potenti città etrusche che tuttavia in nessun modo significava una sua subordinazione politica, facendo di essa anche un punto d’importanza strategica nel contesto ostile delle città latine. Per la tradizione Servio Tullio, un capo militare venuto a Roma che si sarebbe impadronito del regnum spodestando Tarquinio Prisco. Secondo l’indicazione pressoché unanime delle fonti, il potere dei nuovi re si accentuò sia nella sostanza che nella sua rappresentazione simbolica. Tutti questi re parrebbero essere ascesi al regnum in forme difettose, per l’assenza dell’inauguratio, per la mancata procedura dell’interregum o della presentazione ai comizi curiati. Oltre alla mera violenza con cui l’ultimo Tarquinio, nell’esecrazione della leggenda, strappa il potere al grande Servio. L’altro aspetto che connota la fisionomia di questi sovrani, è la forte spinta militare che a sua volta, sottolinea il carattere autoritario del loro comando. Le fonti antiche sono esplicite nell’attribuire a questi nuovi re una politica folopopolare e un potere parzialmente diverso da quello tradizionale : più forte e con una fisionomia più accentuatamente militare. Sono introdotte , quasi tutte dal mondo etrusco, le insegne della sovranità e del comando: la corona d’oro, la toga purpurea, le calzature rosse, il trono d’avorio , la corona d’alloro , lo scettro d’avorio e la guardia dei littori armati dei fasci e della scure . Essi evidenziano quel potere supremo di governo che la repubblica erediterà dai re etruschi, indicato con il termine imperium, estraneo alla fisionomia dei primi re latino sabini. Dall’altra parte il fondamento popolare dei re etruschi fu a sua volta la condizione per la realizzazione di una prolungata e incisiva politica di riforme, a causa di cui l’intero assetto istituzionale preesistente, costituito dall’identificazione tra ordinamento curiato, organizzazione militare e struttura gentilizie, fu così travolto, sostituito dalla centralità della ricchezza individuale e dalla proprietà privata. 
Va spiegato cosa si intenda per proprietà privata, in riferimento alla società romana. Nella sfera privata, dei diritti e delle ricchezza, persisteva infatti una rigida logica patriarcale in base a cui solo il pater familias era il titolare di tale insieme di facoltà . I filii familias, quale che fosse la loro età , rango e posizione pubblica, restavano privi di qualsiasi potere di carattere giuridico economico. Proprietà privata, obbligazioni , crediti ecc. erano tutti e solo del pater. 3. Le prime riforme Tarquinio Prisco avvio due riforme : l’ampliamento del senato e dell’organico della cavalleria . Entrambe modificarono e allargarono la compagine aristocratica. Si attribuisce a lui l’incremento del numero dei patres, da duecento a trecento. Esso non si fuse con i patres preesistenti, dando origine invece a un nuovo gruppo sociale, probabilmente anch’esso annoverato tra i patrizi, ma di minor rango ndicato nelle fonti come minores gentes : genti minori.
Quello che interviene con Tarquinio è il salto da un carattere graduale e circoscritto di una crescita di un gruppo aristocratico all’elevazione in blocco di un nuovo gruppo sociale. 
La politica dei re etruschi mirava a trarre tutte le conseguenze organizzative dalle migliorate condizioni economiche della città di cui ne è esempio l’altra riforma tentata da Tarquinio, volta ad allargare l’organico della cavalleria. L’opposizione a tale tentativo, di cui fu espressione un augure, Atto Navio, indusse il re ad aggirare l’ostacolo raddoppiando le tre antiche centurie di celeres.. D’altra parte l’intervento sull’organico dei cavalieri, se da una parte rispondeva a esigenze tattiche, dall’altra doveva avere una portata più ampia, mirando al superamento delle stesse tribù romulee con l’inserimento al vertice dell’esercito di gruppi non appartenenti alla vecchia aristocrazia gentilizia. Si comprende meglio così l’opposizione dell’augure e la difesa dell’antico ordine da parte di un probabile difensore degli interessi e dei valori dell’aristocrazia gentilizia. 
Verso la metà del VI secolo, erano anche aumentati i gruppi detentori di una notevole percentuale della ricchezza cittadina, di lì l’aspirazione a una integrazione nel vertice cittadino, soddisfatta da Tarquinio Prisco con l’incremento dei senatori, ma anche con l’utilizzazione di questo nuovo organico di ricchi nelle file della cavalleria cittadina. Il che, a sua volta, non poteva dissociarsi da un più generale potenziamento della struttura di base dell’esercito : la fanteria. Ciò si rivelò possibile facendo leva sull’accresciuta potenza economica della città, utilizzando le ricchezze individuali. 4. L’ordinamento centuriato (riforma di Servio Tullio) Al centro della sua riforma s’impone una nuova organizzazione militare, in funzione di un tipo di combattimento più moderno. La primitiva legione fornita dalle curie e costituita secondo i genera gominum, fu sostituita da uno schieramento oplitico che costituì la grande novità delle forme di combattimento; la sua denominazione deriva dalla parola greca oplites, che significa armato, sottolineando la presenza di guerrieri dotati di armi pesanti, a sostituire ormai gli antichi soldati armati, privi di scudo e corazza. L’affermazione di questo sistema bellico coincise con un profondo mutamento dei rapporti sociali e politici. Entrò in crisi infatti il fondamento guerriero del predominio gentilizio. 
Con l’armamento criterio su cui era fondata la distribuzione dei cittadini nelle varie classi delle centurie ) che invece, sia nel sistema delle sole quattro tribù urbane che in quello precedente delle tre originarie tribù , non aveva rilevanza. Mentre poi la denominazione delle quattro tribù urbane si riferiva a entità territoriali ( Subarana , Esqquiliana, Collina e Palatina) , quella delle più antiche tribù rustiche derivava dall’onomastica gentilizia. Questo non significa naturalmente, che la struttura interna di codeste tribù fosse fondata sui legami gentilizi : al contrario, l’appartenenza a esse era data dalla proprietà individuale della terra. E’ però possibile che siffatti riferimenti onomastici attestino la persistenza, all’interno di queste tribù , in aree omogenee e con una loro identità territoriale , di gruppi compatti di proprietari appartenenti alla stessa gens.. 
Solo a partire dagli inizi del V secolo a.C. comincerà con la Clustumina la serie di tribù con nomi locali.
Solo con le tribù rustiche poteva essere rilevata in modo adeguato la ripartizione della proprietà fondiaria : la base delle ricchezze individuali. Nell’ipotesi quindi in cui il nuove assetto centuriato si fosse esaurito nelle centurie di juniores, esso avrebbe tagliato fuori proprio quei patres più anziani , titolari di quella ricchezza familiare in base a cui i figli potevano essere inseriti in una adeguata classe di centurie. Solo distribuendo tutta la popolazione nelle diverse tribù territoriali si poteva rendere trasparente l’organico cittadino, identificandone le varie unità familiari e i corrispondenti livelli sociali e di proprietà che costituivano la base dello stesso ordinamento centuriato. In tal modo assumeva tutta la sua rilevanza l’unità familiare , definità < l’unità economica di base > del sistema centuriato, in relazione a cui il singolo cittadino veniva collocato in una classe o in un’altra di centurie. In tal modo diveniva definitiva la distinzione tra il mondo dei proprietari fondiari e quello, forse ancor più numeroso, dei nullatenenti, ammucchiati tutti nelle sole quattro tribù urbane , degradate ora a strutture pressoché residuali. Alle diciannove tribù esistenti alla fine dell’età monarchica avrebbe fatto seguito immediatamente l’istituzione di due nuove tribù. Numero destinato a crescere nei cento cinquant’anni successivi , per raggiungere quello definitivo di trentacinque, trentuno rustiche e quattro, le più antiche, urbane. 6. Controllo sociale e repressione penale Una delle conseguenze della stratificazione economica formalizzata dal sistema centuriato fu la quasi subitanea scomparsa di quei comportamenti di singoli o di gruppi familiari volti ad affermare una gerarchia sociale in forme individuali. Ci si riferisce al lusso funerario, venuto totalmente meno nel corso del VI secolo che corrispose a una fase di grandi spese pubbliche, con la costruzione di importanti templi e di imponenti opere urbane. Le prime leggi volte a stabilire un limite alle spese funerarie dovettero essere allora introdotte venendo poi recepite nella successiva legislazione delle XII Tavole. Un altro e più importante settore della vita sociale in cui dovette aversi un incisivo intervento del rex , già prima dell’epoca etrusca, fu quello costituito dalla repressione dei comportamenti individuali pericolosi per l’ordinamento cittadino. In questo ambito infatti la sua azione dovette essere più diretta e innovatrice che nel più vasto campo dei mores. Giacchè ora la stessa esistenza della comunità moltiplicava, con la vicinanza, le occasioni di conflitto e, quindi, si dovettero consolidare i primi meccanismi di una procedura civile e di regole che permettessero agli organi cittadini di distribuire ragioni e torti tra i privati litiganti. L’autonoma presenza della città, a imporre il proprio ordine, anche nella sfera criminale, concerneva pertanto due tipi di comportamenti : l’uccisione violenta di un membro della comunità , e forme di tradimento o azioni dirette contro l’esistenza stessa della comunità politica dall’altro. Questi ultimi tipi di condotta sono richiamati sotto due termini: perduellio, crimine contro l’ordine politico e della civitas e proditio, il tradimento con il nemico; entrambi comportano la morte del colpevole. In questi casi il rex interveniva direttamente attraverso suoi magistrati, i quaestores parricidii e i duoviri perduellionis. La loro esistenza conferma la novità di questi reati rispetto al mondo precivico. 
Accanto a questi casi, va ricordata una molteplicità di procedimenti repressivi, alcuni dei quali d’efficacia immediata, che potremmo chiamare “di polizia”, e altri invece in cui la punizione interveniva soprattutto sul piano della sfera religiosa, con conseguenze sino alla morte dell’autore del reato. Tali condotte, attiravano l’ira degli dei sull’autore del misfatto e, con esso, sulla comunità intera. Il caso più importante è costituito dalla particolare sanzione consistente nella consacrazione (sacratio) del colpevole agli dei . Tale condizione comportava il suo distacco dalla comunità e la perdita di ogni tutela giuridica. Non meno numerosi tuttavia sussistevano comportamenti lesivi dei singoli cittadini ed effettuati ingiustamente: ad esempio il furto, o il danneggiamento di un bene o a delle lesioni fisiche arrecate a un individuo; in questi casi la comunità primitiva interveniva a proteggere il danneggiato contro l’autore della condotta illegittima, ma lo faceva solo se la stessa vittima si faceva parte attiva per difendersi , e l’eventuale condanna aveva l’obiettivo di risarcire il danno e di punire l’autore della condotta illegittima. Tutta la sfera privata dei diritti , rimane invece riferita alla figura forte del pater della familia proprio iure. CAPITOLO QUARTO: 
DALLA MONARCHIA ALLA REPUBBLICA 1. La cacciata dei Tarquini e la genesi della costituzione repubblicana Nella vicenda romana si innesta un fattore internazionale : il collegamento di Roma con il mondo etrusco; Ciò che contribuiva a sua volta ad accentuare la tradizionale inimicizia tra i Greci d’Occidente e gli Etruschi , alleati ai Cartaginesi, per il controllo del Tirreno . Pur destinata a persistere ancora nel secolo successivo, negli ultimi decenni del VI secolo a.C. la spinta etrusca verso la Campania aveva conosciuto una seria battuta d’arresto a seguito di alcune gravi sconfitte militari ad opera dei Greci e dei loro alleati Latini. Tutto ciò ebbe a riflettersi anche sugli equilibri interni a Roma , giacché divenne allora possibile un vero e proprio colpo di stato da parte dell’aristocrazia romana, che non solo estromise dal trono Tarquinio il Superbo , ma cancellò lo stesso istituto della monarchia. Questa svolta si colloca nel 509 a.C. Dove si può immaginare che intervenissero, forse in modo determinante , importanti fattori interni alla società romana. E’ infatti possibile che la vasta rivoluzione istituzionale attuata dai re etruschi in Roma , forzasse eccessivamente i tempi. E’ possibile cioè che le forze che la nuova costituzione mobilitava e su cui si doveva fondare non fossero ancora in grado di sostituirsi alle vecchie strutture. Potè anche pesare negativamente l’inizio di quella crisi economica che sembra caratterizzare gran parte del V secolo. Allora, tra l’altro si può cogliere una significativa stratificazione della cittadinanza romana, accompagnata addirittura da un’erosione delle aree territoriali. In questa fase, dunque, è facile immaginare che riprendessero forza le forme sociali ed economiche più arretrate, le gentes. 
I primi anni della repubblica furono caratterizzati da una fisionomia incerta e da gravi difficoltà internazionali. Da un lato Roma ebbe a fronteggiare la reazione etrusca , in appoggio ai Tarquini. E’ abbastanza certo che il capo etrusco di Chiusi, Porsenna, abbia conquistato militarmente Roma. Ma è ancora più importante il fatto che successo di questo, non influisse sulla successiva vicenda costituzionale romana e non comportasse quindi la restaurazione di Tarquinio. 
D’altra parte è indubbio che Roma, dopo la caduta dei Tarquini , per qualche tempo restasse ancora legata alla sfera d’influenza etrusca. Era del resto un orientamento reso inevitabile dal suo isolamento nel contesto laziale, a seguito della lotta delle città latine contro gli Etruschi. La conservazione delle antiche alleanze dovette infatti risultare indispensabile per difendere la sua precedente preminenza, ora contestata dai Latini. Che tuttavia la solidità di Roma fosse ormai un fatto acquisito , lo prova la relativa rapidità con cui essa seppe reagire, anche militarmente, all’ostilità latina pervenendo a un esito sostanzialmente positivo e al rinnovo dell’antica alleanza con il Foedus Cassianum ( patto fra romani e latini). Esso prende il nome da Spurio Cassio che nel 493 a.C. dopo aver guidato gli eserciti romani nella guerra contro i Latini riuscì a concludere con essi una pace duratura. 
La brusca scomparsa del rex, a opera dell’antico patriziato , aveva ridato a quest’ultimo una rinnovata preminenza di cui resta traccia evidente. In effetti , dopo i primi anni di vita della nuova forma repubblicana, le gentes patrizie si spinsero a bloccare a proprio vantaggio l’ascesa politica che aveva funzionato nell’età precedente e che aveva permesso la presenza in senato, di un gruppo di conscripti accanto ai patres. Questa chiusura segnò tuttavia l’inizio di una crisi lenta a danno dei momentanei vincitori. Essi sin dall’inizio trovarono un limite nella loro reazione a causa dell’impossibilità di un semplice ripristino della situazione anteriore all’età serviana, poichè esso avrebbe causato un indebolimento della città. 
V’era infatti un aspetto irreversibile delle riforme serviane, su cui si sarebbero fondate a lungo le fortune della repubblica. Si tratta del nuovo ordinamento centuriato, con il superamento dei comizi curiati. Un ritorno alla situazione originaria avrebbe pertanto comportato un collasso dell’apparato militare in un momento di massima necessità di difesa. Egualmente difficile, sarebbe stato il ripristino dell’originaria figura del re sacerdote, vanificando il rafforzato imperium dei re etruschi. 
L’aristocrazia gentilizia, rinunciando quindi al ritorno alle origini latino sabine, puntò piuttosto sull’ulteriore modifica delle riforme serviane. Fu un meccanismo abbastanza semplice, anche se non privo di difficoltà, quello da essa messo in atto e che consisteva nel circoscrivere , senza però depotenziarlo, il vertice del governo cittadino.
La soppressione del carattere vitalizio della carica suprema di governo e il suo sdoppiamento, con i due consoli eletti annualmente, realizzarono perfettamente tale riequilibrio, salvaguardando nondimeno il forte carattere militare assunto dal comando supremo in età etrusca. In tal modo si realizzavano le premesse per un permanente spostamento del baricentro politico a favore dell’altro organo del governo cittadino: il senato. Nei primi 50 anni della repubblica sono incerti gli elenchi di magistrati eponimi che hanno inizio con la in questo periodo . Giacché in questi Fasti come sono chiamati dai Romani, compaiono sino al 486 a.C. circa, acanto a nomi di consoli patrizi, anche quelli di magistrati plebei. Poi , questi nomi cessano, a conferma dell’esclusione dei plebei dal consolato e dalle altre magistrature, così come dagli stessi ranghi del senato.E’ abbastanza verosimile che la scomparsa di nomi plebei dai Fasti consolari corrisponda al momento di massimo arretramento di questo gruppo sociale di fronte alla ripresa gentilizia. D’altra parte tale questione si intreccia al problema della possibile precoce presenza, nel consesso dei patres, accento a costoro, di un certo numero di conscripti, estranei alle gentes patrizie. In effetti per la fase finale della monarchia e per quella iniziale della repubblica, è ben possibile che essi potessero rientrare nel senato, pur restando questo una roccaforte patrizia. Stando alle fonti si suppone che, con la caduta dei re si fosse giunti in Roma alla nomina di un supremo collegio di due consoli sino alla metà del V secolo, quando per due anni di seguito essi sarebbero stati sostituiti da un collegio di dieci membri avente anche il compito di raccogliere e redigere il testo delle leggi romane : i decemviri legibus scribundis. D’altra parte , con la liquidazione di siffatto collegio, nel 449 , il ripristino dei due consoli non sarebbe stato costante , essendo questa carica frequentemente sostituita dalla nomina di più tribuni militum consulari potestate,
 sino al 367 a. C. quando si sarebbe raggiunta la definitiva parificazione politica dei patrizi e plebei ammettendo che uno dei due consoli potesse essere plebeo. La durata della fase intermedia conferma la presenza di alcuni elementi di fondo del nuovo assetto politico come condizione per il funzionamento complessivo della macchina politica. Tra essi si elenca anzitutto il forte limite temporale nelle supreme cariche di governo, la fisionomia militare, unita all’elevata concentrazione dell’imperium loro attribuito , nonché , nel governo della città dell’accresciuto ruolo dell’esercito oplitico. Il mutamento istituzionale intervenuto con la cacciata dei Tarquini, esalta la nuova libertas repubblicana. Connaturato a tale libertas è comunque il fondamentale diritto riconosciuto a ciascun cittadino di appellarsi al popolo di fronte al potere di repressione criminale del magistrato , sino ad allora giudice ultimo sulle questioni di vita e di morte. E’ possibile che una prima legge in tal senso fosse approvata sin dall’inizio della repubblica, certo essa dovette essere ribadita e meglio formulata nel 449 a.C., immediatamente di seguito alle XII Tavole, con una legge Valeria Orazia in cui si vietava ai magistrati competenti (di rango patrizio) di mettere a morte un cittadino romano colpevole di una colpa capitale, senza previa consultazione del popolo riunito nei comizi ( provocatio ad polum ). Però questa garanzia fu insufficiente ad attenuare il violento conflitto ancora in corso tra patrizi e plebei. 2. Patrizi e plebei secoli come il punto iniziale della loro storia giuridica. Il nuovo grande corpo legislativo costituì da allora il fondamento del ius civile : il diritto della città. Malgrado il loro valore pressoché fondativo era però chiaro che non tutto il diritto vigente in Roma era stato in esso riportato. La maggior parte delle norme contenute nelle XII Tavole presuppone altri segmenti del diritto che ad esse preesistono e su cui esse si innestano, modificandoli eventualmente. E questi segmenti , appunto , altro non sono che i mores ancestrali.
Ma era anche altrettanto evidente che le regole in seguito applicate dai magistrati giusdicenti, non si limitarono certo all’originario dettato dei decemviri. La loro portata effettiva si venne infatti modificando nel corso del tempo a opera dell’interpretatio, dei pontefici prima e dei giuristi laici in seguito . Quello che è certo è che con il 449 a . C. nuovi vincoli e confini più precisi furono posti ad antiche pratiche. La libertà dei pontefici di conservare, o eventualmente di modificare le antiche tradizioni conobbe ora un limite evidente; per quanto riguarda l’aspetto formale ogni cittadino fu in grado di sapere quale fosse il diritto della città. La legislazione delle XII tavole concerneva essenzialmente il processo civile e il sistema dei diritti privati che attengono ai rapporti tra i cittadini. Il diritto pubblico e l’organizzazione della società romana restarono essenzialmente al margine. Le XII tavole hanno quindi valore di spartiacque tra vecchio e nuovo, tra ciò che è stato raccolto e conservato dai decemviri degli antichi mores e le nuove regole da essi introdotte . Il primo aspetto che ci riporta a epoca più antica delle XII Tavole lo si può trovare nel sistema che regola le obbligazioni legali liberamente contratte tra i privati. In esse il debitore è legato e sottoposto anche personalmente al potere del creditore. La figura più importante è quella del nexum, dove il terme latino evoca appunto un legame materiale che vincola giuridicamente. La stessa logica arcaica la ritroviamo poi nell’insieme di vincoli personali derivanti dalle conseguenze di azioni dannose e illegittime in cui si introduce un elemento nuovo costituito dalla possibilità per le parti di un accordo privato e tra loro vincolante, un pacisci, da cui poi il pacrum come fonte di obbligazione , che supera lo stadio della vendetta ( peraltro egualmente sancita nelle XII Tavole con la cosiddetta legge del taglione) per giungere poi alla nozione di accordo privato vincolante, fonte di un nuovo tipo di obbligazioni. Fu inoltre il sistema decemvirale a introdurre fattori di elasticità alla pesante autorità del pater familias, il quale in precedenza dominava l’intera famiglia, essendone l’unico titolare dei diritti e legittimato alla loro gestione. Ma ancor più importante, sotto tale profilo, appare il superamento del sistema patriarcale costituito dal matrimonio com manu che necessariamente assimilava la moglie alla condizione di una figlia di famiglia sottomessa alla piena potestà del marito.
In linea di massima il sistema giuridico adombrato dalle XII Tavole, corrisponde a una società agraria relativamente stabile. Al centro di esso si pone coerentemente la figura della proprietà fondiaria. Essa non appare isolata ma governata piuttosto da un insieme di regole che miravano a integrarla all’interno di un coerente assetto territoriale. Esse introducevano una vasta regolamentazione territoriale, avviando quella successiva straordinaria esperienza romana rappresentata dalla centuratio. I beni in proprietà sono distinti poi in due categorie diverse , le res mancipi e necmancipi, sottoposte a un diverso regime di circolazione. Per le prime, in generale le cose più importanti in un’economia primitiva, anzitutto gli immobili, il trasferimento della proprietà era possibile solo attraverso l’impiego di una forma negoziale particolarmente solenne e che coinvolgeva la presenza di una pluralità di testimoni : la mancipatio . Ma ancor più interessante è la presenza dell’usus a sanare gli eventuali vizi intervenuti negli atti di trasferimento della proprietà stessa e della mancipatio. Anche il sistema della successione dei familiari nel patrimonio del defunto fu ben disciplinato, così come fu importante la libertà del pater di disporre del suo patrimonio mediante testamento. 4. La conclusione di un percorso In molti degli anni che vanno dal 444 al 368 a. C. al posto della coppia consolare, si provvide ad attribuire l’imperium consulare agli ufficiali delle legioni: i tribuni militum. Questi, eletti in numero da tre a sei, sostituirono la coppia consolare, essendo titolari di un imperium di rango e forza minori di quello dei consoli , tant’è che costoro potevano convocare il senato solo in via eccezionale, non conservavano il prestigio dopo la carica ed erano esclusi dal trionfo; a tale carica vennero eletti anche elementi plebei. Un’ altra importante innovazione fu l’introduzione, verso il 442 a. C. della censura. Si trattava di una nuova magistratura preposta alla funzione di effettuare il censimento della città, da parte del censore. Il secolo si chiudeva dunque con sostanziali progressi verso l’equiparazione politica dei due ordini, mentre restava immutato il monopolio patrizio sulle terre pubbliche e addirittura aggravato il problema dell’indebitamento degli strati più poveri della plebe. Nel 396 a.C. si concluse però il tentativo di Roma di conquistare militarmente la potente città etrusca di Veio, che bloccava la sua espansione verso il Nord. Questa vittoria, seguita rapidamente dall’acquisizione dei territori intermedi, e dall’accentuata espansione anche verso il Lazio meridionale, fece cadere in mano romana un enorme e ricco patrimonio fondiario, che portò in pratica a raddoppiare il precedente ager Romanus. La distribuzione a tutti i cittadini romani di un apprezzamento di sette iugeri ricavati dalle terre strappate a Veio ( circa due ettari ) attenuò l’interesse plebeo per la redistribuzione dell’antico ager publicus. E questa stessa redistribuzione di ricchezza alleggerì anche la pressione esercitata sugli strati più deboli dai processi d’indebitamento. E’ in quell’epoca che le basi economiche della società romana si allargarono in misura consistente, innescando un rapido processo d’espansione e iglioramento di tutta la società. Nel 367 a. C. furono così approvate tre distinte proposte di legge chiamate Leggi Licine Sestie. Nella memoria storica dei Romani esse appaiono come un fondamentale punto di svolta nella lunga vicenda della lotta patrizio plebea con il quale la plebe appare conseguire gran parte dei suoi obiettivi principali, sia sul piano politico che economico sociale. I patrizi e i plebei restarono distinti per tutta l’età repubblicana e oltre ancora, ma a livello politico essi vennero rapidamente fondandosi in un nuovo ceto di governo patrizio plebeo. Inoltre la nuova legislazione introdotta nel 367 a. C. avviò quasi immediatamente l’unificazione politica della città, destinata a tradursi altrettanto rapidamente in una formidabile e durevole spinta espansionista. - La prima delle tre Leggi Licinie Sestie prevedeva che uno dei due consoli potesse essere plebeo. Si apriva così la strada per la piena partecipazione della plebe a tutte le cariche politiche e religiose romane. - Con la seconda legge si introduceva un limite al possesso di terre pubbliche da parte di ciascun cittadino, cosicché, con la definitiva frantumazione delle terre dei patrizi, i possessi di minori lotti di terre pubbliche divennero effettivamente accessibili a un maggior numero di cittadini, compresi i plebei. - Per i debiti, l’ultima legge prevedeva infine una serie di provvedimenti volti a limitare il peso di questi, prevedendo che gli interessi già pagati dovessero computarsi come parte del capitale da restituire. Un insieme di norme di grandissima rilevanza sociale, limitava e poi sopprimeva definitivamente l’asservimento personale del debitore, rompendo le forme di dipendenza arcaiche. Il cittadino indebitato era così sottratto all’asservimento personale da parte del creditore, restando vincolato solo sul piano giuridico ed economico. La sequenza politico sociale che si innesta a partire dal 396 è d’impressionante evidenza. Da un lato infatti, dopo un ristagno durato tutto il V secolo, si completò il numero complessivo delle tribù , giungendo al totale di 31 tribù, non più destinato a mutare. D’altra parte con la svolta del 367 a.C. si era ormai pervenuti al completamento dell’architettura costituzionale della città. In quello stesso anno, a conclusione del lungo processo di completamento delle istituzioni repubblicane, un nuovo magistrato veniva introdotto, destinato ad amministrare la giustizia e a regolare le controversie tra i privati : il pretore. CAPITOLO QUINTO: IL COMPIUTO DISEGNO DELLE ISTITUZIONI REPUBBLICANE 1. Il consolato e governo della città Nella fisionomia delle città repubblicane, vi era l’assenza di una costituzione scritta. I consoli sono stati probabilmente introdotti all’inizio della repubblica ma riaffermati a regime definitivamente solo nel 367 a.C. A questa coppia di magistrati, al vertice dell’intero assetto di governo della città, è conferito il supremo potere di comando. Esso è indicato come imperium maius, in quanto superiore a quello di ogni altro magistrato. Insieme alla collegialità, questa carica è caratterizzata, dall’annualità. L’antica figura del rex presentava fusi in sé due fondamentali aspetti : un ruolo politico militare e uno religioso che si esprimeva nella sua inauguratio, e nella legittimazione a interrogare la volontà degli dei, mediante gli auspicia. Con la sua scomparsa i Romani ne preservarono alcuni aspetti meramente religiosi con il rex sacrorum. La sopravvivenza dell’antico rex all’interno del nuovo ordinamento repubblicano era necessitata dall’esigenza di scindere la figura inaugurata dal rex dal potere politico di cui egli era stato il titolare supremo. Il titolare dell’imperium perde infatti quell’intimo rapporto con la sfera sacra che aveva invece caratterizzato il rex inaguratus delle origini. Vi era tuttavia un aspetto della sfera religiosa che non poteva invece disgiungersi dalla vita politica e militare: il potere / dovere di interrogare la volontà degli dei prima di intraprendere ogni azione pubblica. L’imperium consolare era poi distinto, a seconda che fosse esercitato all’interno del confine della città, orientato essenzialmente a governare la comunità politica e la vita dei suoi membri ( imperium domi ) o che si sostanziasse in un comando militare, fuori della città ( imperium militiare ) . Una serie di limitazioni introdotte gradualmente a circoscrivere l’efficacia dell’imperium domi nei riguardi dei cittadini non poteva infatti applicarsi o si sarebbe applicata in dimensioni minori in relazioni all’imprium militiae, al comando dell’esercito romano. Ci si riferisce anzitutto al diritto dei cittadini di appellarsi al popolo contro la repressione esercitata dai magistrati, ma anche al potere di veto esercitato dai tribuni della plebe. Questo non significa che i consoli potessero anche decidere della guerra , essendo ciò di competenza dei comizi centuriati, era però loro compito provvedere all’arruolamento dei cittadini, previa decisione del senato, e , successivamente, dirigere la campagna militare, anche qui con la supervisione del senato, assicurando la disciplina dell’esercito. In funzione di ciò il loro imperium militiae si spingeva sino al potere di mettere a morte i propri soldati, in casi particolarmente gravi. Sempre a fini militari i consoli avevano altresì il compito di imporre dei tributi ai cittadini per sostenere le spese della guerra. 
All’interno della città, nell’esercizio del governo civile, ai consoli era riconosciuto sin dall’inizio un duplice potere: il jus agendi com populo e il ius agendi com patri bus. Da una parte cioè il potere di convocare i comizi centuriati, sia al fine di proporre l’approvazione di nuove leggi, che di fare eleggere i magistrati. L’altra facoltà era quella di chiedere il parere del senato, avendolo convocato su problemi di particolare rilievo relativi al governo della città, soprattutto per quanto concerne la politica estera, la politica monetaria e ogni materia di carattere religioso. 
 Altri poteri dei consoli, accanto alla politica tributaria, consistevano nella gestione del tesoro pubblico, e nell’amministrazione delle terre pubbliche, nell’intervallo tra due censure successive. Accanto a un’ampia sfera di competenze nel campo della repressione criminale, i consoli o i tribuni militum consulari potestate ebbero, sino alla creazione del pretore, anche la giurisdizione sulle controversie private tra i cittadini. 
Ciascuno dei due consoli aveva il potere di paralizzare qualsiasi attività del collega con quel singolare strumento costituito dall’intercesso; una facoltà che i consoli potevano esercitare anche verso qualsiasi altro magistrato cittadino, a eccezione del dittatore. Nel corso del tempo l’ambito di competenze assegnate a ciascuno dei due consoli si definì in modo più netto. Esso venne indicato con il termine provincia, e cioè il territorio extraitalico su cui esso si esercitava. governo. Per questo essi non erano muniti di imperium, estranei ai compiti militari e anche alle dirette delibere politiche : il che spiega perché non avessero il diritto di convocare il senato e i comizi popolari. E’ abbastanza incerto sino a che punto l’intercessio dei tribuni della plebe potesse rivolgersi contro la loro attività. Vennero istituiti altri collegi a cui erano attribuite molteplici e diverse competenze: dalla coniazione della moneta, alla manutenzione delle strade pubbliche; mentre vere e proprie funzioni di polizia furono affidate ai quinqueviri cis Tiberim, la cui denominazione segna anche i confini del loro ambito d’attività. 
 3. Il senato In età monarchica, il senato romano era designato col termine di patres . Tale vocabolo serviva a indicare sia la figura del capo della famiglia nucleare, sia l’insieme dei patrizi, contrapposti ai i plebei. Le cose non erano destinate a mutare, con la cacciata dei re. Per gran parte del primo secolo della repubblica patriziato e senato dovettero coincidere pressoché integralmente. Solo quando i plebei iniziarono a essere ammessi gradualmente alle magistrature superiori, cum imperio, come tribuni militum consulari protestate, e poi come pretori e consoli, i ranghi del senato si allargarono a ricomprendere, accanto ai membri delle antiche gentes patrizie, anche gli ex magistrati di rango plebeo, arruolati per la prima volta, conscripti, in tale organo. Da allora l’endiadi patres conscripti indicherà il senato nella sua pienezza. Spettano a tale organo, sin dalle origini della repubblica, alcune funzioni esclusive: anzitutto quella di approvare, le delibere dei comizi in tema di legge. La sua funzione di propulsore e ispiratore dell’intera politica romana, trovava un momento di particolare rilievo nell’assistenza e consulenza prestata all’azione di governo dei magistrati superiori. Consulenza non meramente facoltativa, giacché il consiglio non lasciava molti margini alla libertà d’azione del magistrato steso. Questo appare evidente soprattutto in certi settori particolarmente delicati e importanti, nell’ottica della classe dirigente romana, coma la politica estera , le scelte tra la guerra e la pace, i problemi e gli affari di carattere religioso, la gestione delle entrate e delle uscite. In questi settori si affermò infatti una prassi consolidata che vincolava sostanzialmente l’azione del magistrato, prima, a chiedere il consultum del senato e poi a seguirne l’orientamento. Il senato, almeno sino all’età dei Gracchi, governò la politica cittadina senza sostanziali opposizioni; esso appare in grado di assicurare un costante e talora non facile equilibrio dell’intero assetto delle magistrature romane. 4. Il popolo e leggi le della città Nonostante il potere dei magistrati e il predominio del Senato, in età repubblicana la popolazione partecipava attivamente alla vita della città. I luoghi istituzionali della sua partecipazione erano le assemblee, alle quali spettavano competenze in materia elettorale, legislativa e giudiziaria. In quest’epoca, accanto ai vecchi comizi curiati vennero a porsi altre assemblee: piú precisamente i comizi centuriati, i comizi tributi, i concili tributi (concilia plebis). - Secondo la tradizione i comizi centuriati si devono a Servio Tullio, ma in realtà risalgono ai primi decenni della repubblica. Essi erano basati sulla divisione della popolazione in cinque classi di censo (cioè sulla base della ricchezza), e per segnalare la loro superiorità su tutte le altre assemblee popolari erano detti comitiatus maximus. In origine essi erano riservati ai proprietari terrieri, ma Appio Claudio Cieco (un personaggio di grande rilevanza, che fu censore nel 310 a.C.) stabilí che l’iscrizione a una classe venisse effettuata equiparando una certa quantità di danaro a una certa misura di terra. Piú precisamente, egli stabilí che nella prima classe fossero iscritti coloro che possedevano almeno 100 000 assi (monete di bronzo), alla seconda coloro che ne possedevano 75 000, alla terza 50 000, alla quarta 25 000 e alla quinta 12 500. Al di fuori di queste cinque classi vi erano i proletari o capite censi, vale a dire coloro che erano censiti in base alla sola persona poiché non possedevano altro. Nei comizi ogni classe era organizzata in gruppi chiamati centurie in quanto ognuno di essi doveva fornire all’esercito un contingente («centuria», ossia in origine un gruppo di cento) di soldati o cavalieri: la prima classe forniva 80 centurie di fanti e 18 di cavalieri; la seconda, la terza e la quarta classe fornivano 20 centurie di fanti ciascuna; la quinta classe forniva 30 centurie di fanti e i proletari 5 centurie di uomini non armati (fabbri, trombettieri). Su un totale di 193 centurie (ognuna delle quali poteva esprimere un solo voto), ben 98 appartenevano alla prima classe, che aveva cosí sempre la maggioranza assoluta: con questo sistema la funzione legislativa era esclusivamente nelle mani dei cittadini piú ricchi. I comizi centuriati eleggevano consoli, censori e pretori, decidevano paci e guerre, potevano condannare a morte i cittadini, e avevano inoltre competenza legislativa: approvavano o respingevano, senza poterle cambiare, le proposte di legge dei magistrati. Da un punto di vista politico, quindi, con i comizi centuriati, si creava una coalizione tra patrizi e plebei ricchi e alla tradizionale contrapposizione patrizi-plebei, si sostituiva quella tra ricchi e poveri. - Accanto ai comizi centuriati vi erano i comizi tributi, all’interno dei quali la popolazione era stata organizzata per tribú, una sorta di distretti territoriali che riunivano tutti i cittadini non in base alla famiglia o alla stirpe ma secondo il luogo in cui avevano domicilio. Questo genere di suddivisione tendeva a eliminare, almeno in parte, le differenze gentilizie. I comizi tributi eleggevano i magistrati minori (edili e questori). - I concili tributi, invece, erano le assemblee in cui si riuniva soltanto la plebe. Le loro deliberazioni, prese su richiesta (rogatio) di un tribuno, erano chiamate plebis scita, ovvero «decisioni, pareri della plebe». Solo nel 287 a.C. una lex Hortensia stabilí che i plebisciti avessero valore di legge anche per il patriziato. Poiché i patrizi continuarono a non essere ammessi ai concili della plebe, quest’ultima, da sola, poteva emettere deliberazioni vincolanti per tutta la città. 5. la sovranità del legislatore e i suoi limiti Sin dalla seconda metà del IV secolo a.C. e sempre più chiaramente in seguito, possiamo constatare la convergenza, all’interno dell’ordinamento romano, di una pluralità di organismi e di ruoli, tendenzialmente autonomi gli uni dagli altri. Con la repubblica una nuova idea di legalità si dovette imporre rispetto all’immagine primitiva del governo di un rex; questa legalità si associa non solo all’idea di un’eguaglianza dei cittadini di fronte alle norme della città, quanto al dominio della legge, il cui primato appare temperato dal potente fattore costituito dall’interpretatio dei gruppi a ciò deputati: i pontefici , prima, i giuristi laici poi. Quasi in quegli stessi anni in una legge di Silla, si sanciva che “se non sia legittimo votare ( dai comizi ) alcunché, ciò si consideri come non votato”. Un limite dunque assoluto che chiariva e limitava la portata di quell’altra norma antichissima circa l’onnipotenza delle delibere popolari, piegandola a un superiore principio di legalità. All’interno della res publica romana esistevano principi e norme (non scritte e mai formalmente definite) che difendevano la stessa repubblica e che stavano alla base di essa. CAPITOLO SESTO: LA STRADA PER L’EGEMONIA ITALICA 1. Cittadini e stranieri Il territorio di Roma verso la fine del VI secolo a.C. era aumentato di circa otto o nove volte e rapido era stato l’incremento della popolazione cittadina, accelerato dall’assorbimento delle minori comunità investite della sua espansione. Inoltre vi è anche l’accentuarsi dei caratteri di separatezza tra la comunità cittadina e ciò che ne è fuori: tra Romani e stranieri. A eccezione dei diritti politici, riservati ovviamente ai propri cittadini, vige in questi ultimi il cosiddetto principio della territorialità del diritto. Il diritto dello stato si applica cioè a tutti coloro che a qualsiasi titolo si trovano nel suo territorio, indipendentemente dalla loro cittadinanza. Costoro dovranno rispettare le leggi civili e penali dello stato ospitante e automaticamente riceveranno una tutela analoga a quella dei suoi cittadini, in una condizione di sostanziale eguaglianza. Uno dei primi strumenti fu la concessione a un singolo o a un gruppo di stranieri dell’hospitium da parte di privati o della città, senza che ciò postulasse un accordo con la città di questi stranieri. Presto, accanto a questo hospitium privato, intervenne un hospitium pubblico concesso dalla città stessa ad alcuni stranieri che permetteva a essi di rivolgersi ai tribunali locali per protezione legale. Lo strumento generalizzato per fronteggiare le esigenze di tutela dei propri cittadini all’estero, fu però quello dei trattati internazionali. Solo in seguito i Romani avrebbero realizzato un sistema generalizzato e sicuro di tutela degli stranieri, indipendentemente dall’esistenza di un trattato internazionale che li vincolasse a proteggere legalmente i cittadini della controparte. Questo è dato dalla presenza di un persistente sentimento di comunanza, con il Lazio arcaico, che sin dall’inizio ha agevolato i rapporti fra le varie comunità e le comunicazioni commerciali ed economiche fra di esse. Qui, soprattutto nell’ultima fase dei re, Roma affermò la sua superiorità. 
In effetti la politica romana d’incorporazione delle comunità minori, era restata circoscritta essenzialmente alle popolazioni più omogenee, concludendosi, comunque, con la fine del periodo monarchico. La superiorità politica di Roma nel Lazio è attestata da uno dei più importanti documenti relativi alla prima fase della sua storia a noi pervenuto, ovvero il testo del primo trattato tra Romani e Cartaginesi che, secondo Polibio, sarebbe stato stretto proprio nell’anno immediatamente seguente alla cacciata di Tarquinio il Superbo da Roma e che quasi sicuramente riprendeva uno schema di relazioni già realizzato sotto la dominazione dei re etruschi, nel quadro della più generale alleanza tra Etruschi e Cartaginesi. Tra le molte notizie che questo trattato ci fornisce, vi è la conferma delle pretese egemoniche di Roma, nel quadro di un suo diversificato tipo di relazioni con le varie città laziali. 
I limiti stabiliti a possibili aggressioni da parte cartaginese riguardano infatti tutte le città del Lazio: vi è tuttavia una netta distinzione fra alcune città che sono considerato come “soggette”, cioè alleate dipendenti, e altre città che invece sono espressamente indicate come non soggette. E tuttavia l’egemonia di Roma non si estendeva a tutto il Lazio: nel trattato erano menzionate città del Lazio non soggette ai Romani , ma egualmente tutelate contro ogni invadenza cartaginese. 2. Latini e cittadini delle colonie Il testo di Polibio non ci offre solo una conoscenza di prima mano del quadro politico geografico del Mediterraneo occidentale verso la fine del VI secolo a.C., esso ci informa anche sull’insieme di meccanismi posti in essere dai due soggetti contraenti per assicurare reciproca tutela ai propri cittadini che possano trovarsi nell’ambito di influenza della controparte. Per questo tali meccanismi dovettero svolgere un ruolo fondamentale nel rafforzamento delle comunicazioni e del traffico commerciale, attenuando quelle forme di ostilità. Il trattato con Cartagine sarà seguito pochi anni dopo da un ancor più importante patto d’alleanza fra Romani e Latini, che va sotto il nome di Foedus Cassianum. E’ di particolare importanza il fatto che la logica adottata in ques’ultimo, per fornire la protezione reciproca dei cittadini delle comunità alleate, sembri essere abbastanza diversa da quella che pare ispirare l’accordo romano carataginese. Lo schema in esso seguito postulava dei meccanismi di parziale assimilazione tra le varie città coinvolte nel trattato, compresa Roma. Riprendendo forse pratiche ancora più antiche , si veniva così a sancire una forma di comunanza giuridica tra Romani e Latini, secondo cui il Latino che si fosse trovato in ambito romano non solo veniva assimilato ai cives Romani nella fruizione di tutto il diritto privato ( ius civile ) e della conseguente protezione processuale nelle forme solenni del diritto romano, ma era anche ammesso a stringere validi rapporti matrimoniali con i Romani. Questi meccanismi di assimilazione sono indicati dai Romani con due espressioni tecniche : ius commercii e ius conubii : diritto di commercio e diritto di sposarsi. In altre parole i Latini a Roma godevano di una condizione analoga a quella dei Romani che si fossero trovati nelle altre città dell’alleanza. 
Quasi sicuramente non appartiene invece all’originario regime del Foedus Cassianum, il diritto di emigrare ( ius migrandi) che, in seguito , avrebbe legittimato i membri delle città della Lega ad acquistare la cittadinanza di Roma, precedente al 338 a.C., così non è nel caso delle comunità costituite da cittadini romani; questi cittadini fanno parte infatti dell’ordinamento romano e vivono secondo le sue leggi. Sappiamo anche come l’organizzazione di governo e l’assetto istituzionale di questi nuovi municipi sia stato reso gradualmente omogeneo con la presenza di magistrature uniformi e di senati locali ( l’ordine dei decurioni). Si tratta dei prefetti, magistrati delegati dal pretore, aventi competenze per aree territoriali e gruppi di popolazione più o meno ampi. La loro giurisdizione concerneva le questioni di maggiore rilevanza economica, che, in genere riguardavano le elites locali, più accentuatamente romanizzate , mentre è probabile che i magistrati originari delle singole città avessero conservato una competenza per le questioni di minor momento , continuando per queste ad applicare le tradizioni giuridiche locali. D’altra parte un vincolo che contribuì a limitare un’espansione accelerata del diritto romano era la sua insuperabile connessione con l’uso della lingua latina. Infatti il carattere formalistico e orale del diritto romano, escludeva che chi non sapesse parlare latino potesse accedere al diritto romano. Per questo motivo nasce la figura dello ius honorarium, ovvero il sistema di norme che nel periodo successivo al 367 a.C. venne introdotto dai magistrati romani (principalmente dal pretore) al fine di colmare le lacune dell'ormai obsoleto ius civile, sempre più inadeguato a regolare la crescente società di Roma in un periodo di grande espansione geografica, militare ed economica. Questa situazione rese anche possibile la relativamente indolore assimilazione delle popolazioni e delle culture più lontane. Di qui la relativa facilità con cui s’ebbe la definitiva espansione del diritto romano in tuta la penisola, dopo la concessione della piena cittadinanza romana a tutti gli Italici. 
Naturalmente uno dei principali vantaggi conseguiti dai Romani con tale organizzazione fu una rapidissima crescita degli organici cittadini. Si ricordano dunque altre figure quali i fora, i conciliabula, i pagi e gli stessi villaggi (vici), quali località in cui popolazioni rurali venivano a incontrarsi in mercati stagionali, si saldavano in comuni luoghi di culto e in distretti rurali aventi una loro identità amministrativa. Si tratta di strutture con una loro più o meno accentuata autonomia, situate all’interno e in funzione dell’ager Romanus , rispetto a cui intervenivano, con funzioni di controllo e di coordinamento, i magistrati romani. 
Nel mentre, una miriade di nuovi rapporti di alleanza venivano stretti dai Romani con le varie popolazioni e comunità italiche, nel corso della loro rapida espansione. Il fatto che tra gli impegni reciproci assunti tra le parti vi fosse l’obbligo di aiutare l’alleato in caso di guerra era la vera chiave di questi rapporti. Così si moltiplicava la forza militare di Roma, per nuove conquiste, per nuove vittorie sancite da nuove alleanze subalterne. CAPITOLO SETTIMO: UN’ARISTOCRAZIA DI GOVERNO 1. La nuova direzione politica patrizio - plebea Il compromesso patrizio plebeo del 367 a.C. aveva sanato un punto debole del precedente assetto costituito dal suo esclusivismo. Nell’antichità classica ma soprattutto in Roma, il buon cittadino, l’individuo che dà il suo contributo alla vita della città è anzitutto un potenziale soldato. É altresì una persona che partecipa attivamente alla vita politica cittadina. Il suo tempo non è dedicato all’attività economica: il sostentamento suo e della famiglia è ricavato in genere da una proprietà fondiaria lavorata da altri soggetti: gli schiavi, i contadini pagati a giornata o, come coloni, con parte del prodotto del fondo. Per questo solo il giovane appartenente a una famiglia di buoni proprietari fondiari poteva pensare a una sua ascesa politica, condizione per il suo inserimento nella nobilitas patrizio plebea, o in servizio militare prolungato: non meno di dieci anni dovevano passare in tale condizione, prima che il cittadino, avrebbe potuto presentarsi alle elezioni per le cariche minori: quella di questore e di edile. E lì occorrevano amicizie, protezioni e alleanze, cosa che tagliava fuori chi non avesse appoggi in senato o tra i magistrati proponenti. Occorreva impegnarsi poi in una propria campagna elettorale. Col tempo si venne definendo un preciso insieme di regole volte a disciplinare la carriera pubblica dei cittadini romani. Questa aveva inizio con l’elezione alle magistrature minori, presupposto per aspirare alle cariche superiori, dopo un regolare intervallo di tempo tra l’una elezione e l’altra, giungendo infine al vertice della repubblica, con l’elezione a console e a censore. Tale disciplina escludeva altresì un’immediata rielezione alla stessa carica, sempre al fine di evitare un’eccessiva concentrazione di potere in singoli individui. 
Malgrado il costante, anche se controllato e circoscritto, rinnovamento del ceto dirigente romano di cui s’è detto, tutta la vita politica continuò a essere solidamente controllata dalle consorterie nobiliari. In effetti la formazione e la condotta politica e sociale dei membri della nobilitas si ispirava anzitutto alle tradizioni familiari e al ricordo dell’opera delle generazioni precedenti. Non esistevano dunque le condizioni perché si formasse un tipo di alleanze o raggruppamenti politici su progetti e programmi, come nell’esperienza moderna, del partito politico. Non che non esistessero divergenze all’interno dell’oligarchia romana ma tutto ciò era anzitutto affidato alla memoria familiare e di ceto: ancorati alla loro specifica tradizione, i diversi clan continuavano nel tempo a ispirarsi ai modelli antichi, a ripercorrere, in contesti politici nuovi, i loro valori.
Rapporti di parentela e appartenenza gentilizia, legami di amicizia individuali e di gruppo e, soprattutto, vincoli clientelari costituivano in effetti, nel corso di tutta la storia romana quei collanti su cui si fondava la politica , e con cui si costruivano il consenso sociale e le fortune individuali. 2. Gli sviluppi sociali tra IV e III secolo a.C. La seconda metà del IV secolo a.C. fu soprattutto dominata dal conflitto con la popolazione militare più forte esistente allora in Italia, situata sugli altipiani appenninici tra l’attuale Abruzzo, il Molise, sino a lambire la Campania e la Lucania: i Sanniti. Contro costoro la potente organizzazione militare romana ebbe grandi risultati che si poterono apprezzare quando Roma fu in grado di resistere all’esercito di Pirro, chiamato a soccorso dall’ultima città della penisola italica ancora indipendente, Taranto. La tradizione militare macedone, illustrata dalla straordinaria avvenuta di Alessandro Magno, e di cui lo stesso Pirro , suo parente, era un importante rapresentante , non riuscì a prevalere sulle legioni romane. Fu l’ultimo ostacolo che si frapponeva ancora alla completa acquisizione dell’intero mezzogiorno d’Italia, un fatto compiuto nel 272 a.C. , con la caduta di Taranto. Questa ininterrotta e felice politica espansionistica comportò un processo di crescita economica, incrementato dai bottini ricavati dalle ricche città della Magna Grecia e dalle ulteriori acquisizioni territoriali. 
 Forse i Romani del IV secolo non avevano ancora pienamente conosciuto la ricchezza, ma già allora la precedente stratificazione sociale aveva dovuto subire significativi mutamenti, anzitutto per la saldatura degli strati superiori della plebe con le famiglie patrizie. Qui interessa infatti la formazione di una proprietà fondiaria di una certa consistenza e di patrimoni sufficientemente importanti da costituire il fondamento di un altro meccanismo . 
Da sempre l’organizzazione statale romana si è venuta strutturando, in un insieme di attività di carattere gratuito: il vir bonus (il cittadino romano dedica i suoi sforzi a servire la patria, prima come guerriero, poi nella vita politica della città, senza alcuna retribuzione). La gratuità di tale impegno e delle cariche politiche presupponeva una selezione tra aspiranti in possesso di adeguati mezzi economici. Tale meccanismo favorisse il sostanziale monopolio delle cariche magistratuali da parte di una nobiltas relativamente ristretta, con il conseguente accumularsi di tradizioni e di competenze funzionali a tali ruoli. Ma con il passare del tempo era nato il bisogno di personaggi esperti e qualificati per i diversi ruoli nella civiltà romana: sia per l’apparato amministrativo, che pubblico (per la costruzione di opere pubbliche come strade, ponti, ecc. e nel settore economico in cui si necessitava di conoscitori dei sistemi finanziari). 3. Appio Claudio Cieco e gli inizi della modernizzazione Nel 312 a.C. viene eletto Appio Claudio Cieco alla censura. Egli ebbe un ruolo determinante nel processo di laicizzazione della scienza giuridica romana. La più importante via di comunicazione costruita da Roma, la via Appia, prende il nome da questo personaggio che, nella sua censura, ne determinò la costruzione. Essa corrisponde anzitutto ad un progetto politico e militare di espansione verso la Magna Grecia, in un percorso che unisce Roma alla Campania, dirigendosi poi verso l’Apulia, sino al grande porto di Brindisi: la porta verso la Grecia e il Mediterraneo orientale. Si apriva quindi la possibilità di nuove aperture verso un’economia dominata dagli interessi commerciali e orientata verso i grandi traffici mediterranei. L’attenzione di Appio Claudio verso gli aspetti mercantili appare confermata dalla riforma della composizione delle tribù. Con essa egli ridistribuì i cittadini anche in base alla ricchezza mobiliare e non solo alla loro proprietà fondiaria. In una società fortemente tradizionale e gerarchica come quella romana, dove il rango sociale era determinato dai meriti degli antenati, l’appartenenza ad un lignaggio gentilizio diventava un sicuro punto di riferimento. Quando infatti un magistrato romano, con la sua vittoria militare, aveva ottenuto la resa di una città o popolazione, egli assumeva il ruolo di protezione, facendosi intermediario tra gli interessi di quella comunità e il senato, cercando di diventare il referente costante per ogni richiesta che tale popolazione dovesse fare ai romani. 4. Le regole di un’oligarchia La legislazione comiziale romana si è svolta secondo un percorso orientato a ridefinire in continuazione l’instabile equilibrio tra organi cittadini. Ma ancora più laboriosa e mai compiuta in un disegno definitivo fu la disciplina dei vari organi costitutivi della repubblica in cui il disegno si è venuto continuamente modificando nel corso di tutta l’età repubblicana, anche con riforme di notevole importanza. Per il senato, si è già detto come si definissero in modo sempre più ripido i criteri di selezione dei nuovi membri, sottraendoli all’arbitrio e all’incertezza delle scelte autoritative dei magistrati. Particolarmente rilevante, fu l’intervento legislativo nei riguardi dei comizi. Qui infatti si provvide, nel corso del tempo, a modificare la stessa composizione delle unità di voto, intervenendo sul numero delle centurie, nonché sull’ordine che presiedeva alla loro consultazione nei comizi. 
Le votazioni non erano contemporanee per tutti i distretti di voto, al contrario ciascuna centuria veniva chiamata a votare secondo un ordine predeterminato e legato alla divisione in classi, chiudendosi la votazione una volta raggiunta la maggioranza. Infine nuove norme intervennero più volte , non solo a modificare quest’ordine di voto, ma anche a ridefinire il rapporto tra le centurie stesse e il fondamentale sistema di distribuzione della popolazione per tribù territoriali. Tali modifiche appaiono costantemente ispirate alla salvaguardia della natura oligarchica della repubblica. Si trattava pertanto di evitare che la compattezza dell’aristocrazia di governo, fondata su una logica essenzialmente paritaria, fosse intaccata dal prevalere di singole personalità politiche troppo forti, che avrebbero potuto squilibrare il sistema afferendo un potere personale; i due elementi che assicuravano che ciò non avvenisse furono la non duplicabilità delle cariche e l’intervallo di tempo tra la fine di una carica e la possibilità di presentarsi alle prossime elezioni. La lex Villia annalis, del 180 a.C. ribadì, con l’età minima per l’accesso alle cariche pubbliche, derivata dall’obbligo dei preliminari dieci anni di servizio militare, l’intervallo di due anni tra l’una carica e la successiva. CAPITOLO OTTAVO: L’EVOLUZIONE DEL DIRITTO ROMANO E GLI SVILUPPI DELLA SCIENZA GIURIDICA 1. I giuristi e il diritto privato regole di condotta e delle correlate situazioni giuridiche non restarono però confinati ai soli rapporti tra stranieri o tra stranieri e romani, estendendosi, a tutti i cittadini. In tal modo la specifica esperienza del praetor peregrinus contribuì ad arricchire lo stesso patrimonio giuridico romano, di cui il ius gentium venne a far parte a tutti gli effetti. Esso derivava dall’esigenza di fornire tutela a uomini appartenenti a esperienze giuridiche diverse, adeguandosi alla loro cultura e talora recependo anche pratiche mercantili diffuse nel bacino mediterraneo o comuni ai popoli italici, di cui molti elementi potevano essere presenti in Roma. Necessità elementare di tutti gli ordinamenti cittadini, in un quadro dove circolavano ampiamente uomini e cose, era quella di tutelare il valore degli accordi pacificamente stipulati, garantirne i risultati privilegiando la buona fede ed evitando ogni formalismo. Le origini di questo sistema risalgono alla prima età repubblicana. Vanno inoltre ricordati gli ordini del pretore contenuti negli interdetti ( una specie di procedimento sommario e di urgenza, anch’esso già definito nel II secolo a.C. e volto a tutelare situazioni non configurabili come diritti individuali ), nonché le stipulationes e le cautione. Con queste egli poteva costringere i litiganti, in via pregiudiziale, a fornire garanzie e ad assumere specifiche obbligazioni processuali per conseguire risultati lontani dal diritto civile, ma conformi a criteri di giustizia sostanziale. Il successore di un pretore che aveva bene amministrato la giustizia, ricevendo consenso dalla comunità, non aveva mai interesse ad azzerare il già fatto, lo recepiva integralmente, modificando qualcosa che non andava, introducendo qualche altra novità che sembrava utile e necessaria. Così l’editto del pretore di anno in anno , veniva ripubblicato dal nuovo magistrato , conservandosi e completandosi nel tempo. Certo potevano, porsi al pretore, nel corso del suo anno di carica, nuovi problemi non preventivamente previsti nel suo stesso editto e non regolati dall’antico ius civile. In tal caso egli poteva assumere qualche nuovo provvedimento con un decreto appositamente assunto. Questo, a sua volta, se si fosse rivelato efficace, poteva successivamente essere inglobato organicamente nel nuovo editto emanato dal suo successore. La rivoluzione introdotta dalla giurisdizione del pretore urbano come di quello peregrino, non avvenne seguendo la logica di una giustizia caso per caso e incapace quindi di esprimersi in un regola generale; gli editti emanati da tali magistrati, divennero nei fatti un nuovo corpo normativo. Romani e stranieri sapevano che, anche rispetto al diritto civile, l’editto del pretore innovava nella sostanza e prevaleva, poichè senza protezione processuale, il diritto in sé valeva poco. Accanto al sistema del diritto civile si venne così affermando un nuovo sistema di regole , che non potevano abrogare quello, ma che con quello coesistevano in modo sostanzialmente autonomo: il diritto pretorio (ius honorarium).Oltre al pretore, anche altri magistrati aventi competenze giurisdizionali hanno emanato editti di un certo rilievo, anche se minori rispetto a quello pretorio: si tratta anzitutto degli edili curuli, che erano preposti al controllo dei mercati cittadini e, in quell’ambito, erano titolari di una limitata giurisdizione. In secondo luogo, si parla dei governatori provinciali, chiamati ad amministrare la giustizia nelle loro province, e che nel loro editto fissavano i criteri cui si sarebbero attenuti nel corso della loro carica. 
A partire dal II secolo a.C. sono ormai evidenti due logiche parallele su cui si struttura l’intero ordinamento giuridico romano: da una parte il diritto in senso stretto (le norme del diritto civile, esclusive dei cittadini romani) e dall’altra il diritto onorario, non meno efficace delle regole del diritto civile, ma fondato esclusivamente sul potere magistratuale e illustrato dall’editto pretorio. Per riassumere si può quindi dire che il pretore aveva l’onere di concedere una formula processuale il cui scopo era di verificare la soluzione del problema giuridico proposta dai giuristi. 4. La scienza giuridica romana come sapere aristocratico La legge , sia quella generale e fondante identificata nelle XII Tavole, sia la singola norma particolare era concepita come vincolante per l’intera comunità, ma sopra di essa, si poneva l’interpretatio dei giuristi: senza di essa la norma sarebbe restata inoperante. Interpretatio che non era nelle mani del popolo adunato in comizio né affidato al potere sovrano del magistrato elettivo, ma delegato a un corpo di sapienti. 
Gran parte del diritto vigente nelle varie società europee era redatto in testi scritti in latino, lingua estranea alle lingue correnti e in nessun modo ancora codificato in testi unitari. I saperi e i poteri istituzionali che servivano a gestire e controllare i fondamentali aspetti della vita sociale e politica restarono per secoli eslcusivamente nelle mani dell’aristocrazia romana. A ciò fu riscontrato il fatto che, sino alla prima età del principato, anche la scienza giuridica si sia identificata integralmente con questa stessa nobilitas. Come d’abitudine per questo tipo di aristocratici, l’attività da essa svolta al servizio dei cittadini, cavere, agere e respondeer, era effettuata gratuitamente. Chi deve lavorare, come piccolo mercante , come artigiano o quant’altro , per assicurare il proprio sostentamento è in partenza escluso dagli happy few chiamati a reggere la città, a guidare gli eserciti, a far parte della nobilitas.
 D’altra parte si preparava , nel corso del III secolo a. C., a contatto con la Magna Grecia e poi direttamente con il mondo ellenistico, una rivoluzione negli orizzonte intellettuali: nuovi spazi si aprivano alla classe dirigente romana e nuove occupazioni, purché gratuite . Nacquero nuovi interessi, dal filosofeggiare al dilettarsi di letteratura e poesia, all’arte oratoria, così importante nella vita politica cittadina, ma anche nei dibattiti giudiziari con cui ci si faceva una fama da spendere egualmente nella carriera politica. Le grandi correnti filosofiche greche, anzitutto lo storicismo, contribuiranno a dare una maggiore profondità alla scienza giuridica, con una maggiore consapevolezza del suo significato nella costruzione della società umana. E’ vero che, nel corso del I secolo d.C., la comunità dei giuristi mutò in parte la sua fisionomia, con la presenza di elementi provenienti dall’ordine equestre, ma ciò corrispose al generale mutamento negli assetti sociali e al diverso ruolo che vennero allora assumendo gli stessi giuristi. Sempre più, con l’accrescersi della potenza di Roma, la fondamentale questione del controllo e dell’organizzazione di un numero crescente di individui e realtà territoriali differenziate s’impose al centro dell’attenzione della classe di governo; il diritto fu lo strumento attraverso cui si definì il complessivo funzionamento della società, per determinare i confini entro cui ciascun potere pubblico e privato poteva esercitarsi e per individuare quell’insieme di comportamenti che garantivano il godimento dei beni materiali , la loro circolazione e il loro accrescimento. 
Il linguaggio e le logiche che legavano la comunità dei cittadini e la stessa struttura della città erano così dominati in misura crescente dalla forma giuridica. Ed è interessante notare che, anche quando la lotta politica ruppe la compattezza di ceto e segnò le sorti della libertas repubblicana, l’autonomia della scienza giuridica romana era così consolidata da sopravvivere alla crisi, restando, seppure in condizioni e con spazi diversi, ancora al centro della vita giuridica del principato. 5. La giurisprudenza dalle guerre annibaliche alla crisi della repubblica Il diritto romano “classico” vigente nell’età dell’oro di Roma nasce dalla concettualizzazione del diritto romano arcaico. Avvalendosi degli schemi elaborati dalla filosofica greca, i giuristi romani iniziarono a classificare, distinguere e a raggruppare la molteplicità dei fatti giuridicamente rilevanti in base alla presenza o meno di elementi comuni. Tali raggruppamenti erano distinti tra loro in base alla diversa presenza di questi elementi ed erano finalizzati anzitutto ad applicare al singolo caso una regola prevista per l’intera classe di fatti in cui esso rientrava. Ci fu inoltre un’accresciuta circolazione delle conoscenze attraverso le opere dei giuristi. In tal modo infatti la nobilitas senatoria, lo stesso ceto equestre e gli amici e i frequentatori dei ceti dirigenti erano in grado di conoscere, volendolo, quali soluzioni tecniche e quali interpretazioni di antiche norme fossero ormai divenute vincolanti agli occhi dei giuristi. Si venne formando un sistema di regole organizzato secondo gli schemi della dialettica greca, per generi e specie. E’ allora che si definirono alcune delle strutture fondanti dello stesso sistema del diritto: la distinzione tra rapporti obbligatori e diritti sulle cose, la definizione di proprietà, nettamente distinta dal possesso. Ma è soprattutto nel campo dei contratti che si introdusse il concetto rivoluzionario che un nuovo assetto legale, derivante da un accordo volto ad assicurare uno scambio di prestazioni tra due o più parti che poteva divenire il contenuto unitario di una situazione giuridicamente protetta, generatrice di obblighi specifici a carico di ciascuno dei partecipanti all’accordo. A questa fase fondatrice fece seguito una stagione dove i risultati conseguiti iniziarono a essere organizzati e sistemati: fu il momento straordinariamente creativo che coincide con l’età delle guerre civili, dominato da due personalità: Quinto Mucio Scevola e Servio Sulpicio Rufo. - Quinto Murcio si staglia come l’autore di una prima generale organizzazione del sistema giuridico. Cicerone, ci dice che egli fu il primo a organizzare il diritto generatim . Il grande giurista, che si colloca agli inizi dell’ultimo secolo della repubblica, presenta un aspetto ambivalente: pontefice e cultore del diritto sacro insieme a quello civile, egli ha la tipica fisionomia aristocratica che giungeva a sostanziarsi in una tradizione di studi e di specialisti trasmessa di padre in figlio. Ma di Quinto va soprattutto ricordata l’importanza delle sue opere scritte, un libro di definizioni così popolare e autorevole da sopravvivere sino a Giustiniano, e soprattutto i diciotto libri di ius civilis. - Cicerone era amico di Servio (successivo a Quinto) ed esprime nelle sue opere la grande amministrazione nutrita per questo giurista, dandogli il merito di avere per la prima volta elevato lo studio del diritto al rando di scienza. In questo autore l’organizzazione di categorie appare fondarsi su una tecnica più matura e collaudata di quella del suo grande predecessore, segnando il vero punto di partenza per i successivi percorsi giurisprudenziali. Con Servio la struttura dei problemi di fondo relativi alle grandi categorie giuridiche e alla disciplina di molteplici istituti del diritto privato romano è stata posta in termini che non sarebbero stati modificati granché dalla giurisprudenza dei secoli successivi. Sarà la numerosa schiera degli allievi diretti e indiretti di Servio , gli auditore Servii, che ci lascerà raccolta dei suoi pareri, i responsa, relativi soprattutto alla soluzione di casi pratici. Egli fu il primo giurista del cui pensiero resti consistente documentazione. - Resta infine un’ultima grande figura di giurista che si nasce sui nuovi orizzonti del principato augusteo e che segna piuttosto il momento finale della grande tradizione repubblicana. Di spiriti antimonarchici, Marco Antistio Labeone, tenacemente si sottrasse alle insistenti blandizie di Augusto per attrarlo nella sua orbita di collaboratori e amici. La sua chiara adesione ai valori dell’antica nobilitas l’indusse ad appartarsi dalla vita politica dominata ormai dalla grande ombra del principe, rinunciando così alla prospettiva di quel cursus honorum, ormai possibile solo con il favore del nuovo potere. Dedicatosi soprattutto alla riflessione scientifica, oltre che all’insegnamento e ai responsa, egli fu l’autore di un numero elevatissimo di opere nelle quali dovette rifulgere la sua autonomia e peculiare creatività. CAPITOLO NONO: I NUOVI ORIZZONTI DEL III SECOLO a.c. E L’EGEMONIA ROMANA NEL MEDITERRANEO 1. Le guerre puniche e l’eredità di Annibale Il controllo romano dei grandi centri mercantili e marittimi della Magna Grecia, conclusosi con la conquista di Taranto era destinato ad ampliare la spinta espansionista romana verso il mare. La svolta precipitò in occasione dell’aiuto fornito dagli stessi Romani ai Mamertini, mercenari che si erano impadroniti della città di Messina, in Sicilia, sottraendola ai consistenti interessi cartaginesi nell’isola. Si trattava di una scelta politica molto grave, giacché inevitabilmente li poneva in diretto contrasto con l’antica alleanza, dando luogo al primo conflitto militare tra Cartagine e Roma. Iniziava una nuova e drammatica stagione per la politica romana, destinata a concludersi solo alla fine del secolo, nel 202 a.C. , con la definitiva vittoria sull’avversaria e sul più grande nemico che Roma abbia mai avuto: Annibale. Nel 265 iniziò la Prima guerra punica che si protrarrà sino al 241 a.C; nel 238 – 237 s’ebbe l’occupazione da parte dei Romani della Sardegna e della Corsica, sottratte ai Cartaginesi, nel 238 si realizzò la conquista della Liguria e della Gallia Cisalpina e nel 231 si strinse l’alleanza dei Romani con Sagunto contro l’espansione cartaginese in Spagna; la prima guerra si concluse con la vittoria romana nella battaglia delle isole Egadi. Nel 218 – 202 si svolse la Seconda guerra punica e tra il necessità di stabilire le destinazioni dei vari magistrati in modo relativamente imparziale, poissibile solo con l’assegnazione di queste già al momento dell’assunzione della carica magistratuale, mediante “sortitio”, un sistema che sottraeva al senato l’arbitiro e il potere di favorire gli amici e svantaggiare i nemici. 
In linea di massima ogni provincia era retta da un particolare statuto, elaborato, su incarico del senato e in base alle sue istruzioni, da dieci cittadini (decem legati). Successivamente il governatore provinciale emanava il suddetto statuto come lex data in virtù del suo imperium, in cui si provvedeva a dividere il territorio provinciale in diversi distretti. 
Dato il modo empirico con cui i Romani si impegnavano a risolvere i problemi man mano che si ponevano, si capisce come, solo molto lentamente, il sistema dell’amministrazione provinciale sia venuto disegnandosi in forma coerente e razionale. Lo schema generale del governo provinciale prevedeva la presenza, accanto al governatore , di un gruppo di legati di rango senatorio inviati direttamente dal senato, un po’ come collaboratori del governatore stesso e un po’ come suoi controllori, e , sotto di lui, di un questore con funzioni militari e finanziarie, ma a cui verranno affidati i più diversi incarichi. Il governatore era preposto anche al controllo del sistema giudiziario, con una competenza che si estendeva soprattutto a tutte quelle comunità al di fuori degli ordinamenti cittadini e, in teoria , ormai prive di un loro proprio diritto cui fare riferimento. Di fatto le tradizioni locali continuarono a essere praticate e tutelate dai Romani, ma la superiore titolarità del governatore avviò un processo di trasformazione verso un sistema in cui esse vennero integrandosi e confondendosi con le forme più elementari e immediate del diritto romano.
La repressione criminale discendeva invece dall’imperium militiae del governatore, che non s’arrestava neppure di fronte alle città autonome, mentre le città alleate in base a un trattato conservavano la loro autonomia giurisdizionale anche in questo settore. 3. L’innesto della cultura ellenistica Negli anni in cui la vita politica e la società romana furono dominate dalla personalità di Publio Cornelio Scipione l’Africano prese definitiva consistenza in Roma, quella fisionomia imperialistica della politica estera romana. Di fatto, verso la metà del II secolo a.C. , Roma era pervenuta a controllare l’intero bacino mediterraneo e l’insieme di quei regni ellenistici che, sino ad allora avevano rappresentato la massima concentrazione di ricchezze e di popoli. 
Il problema di fondo, che Annibale ancora una volta aveva ben visto, fuggendo dalla patria sconfitta e recandosi in Oriente per cercare di ricostruire una vasta alleanza antiromana tra gli ancora potenti e ricchi regni di quell’area, per Roma era rappresentato dallo squilibrio a lei sfavorevole in termini di forza rappresentato dall’insieme dei regni asiatici rispetto alla sue pur grandi potenzialità , consolidate dalla clamorosa vittoria su Cartagine. Macedonia, Siria , Egitto, il regno del Ponto, l’Asia Minore e la stessa Grecia, unite insieme , costituivano infatti un concentrato di ricchezze, di popoli e una tradizione militare tali da rendere assolutamente impari il confronto di Roma con una loro ipotetica alleanza : essa ne sarebbe uscita sicuramente soccombente. Il capolavoro politico romano , tra il 200 e il 167 a.C: , fu di perseguire sistematicamente la divisione tra questi stati, stringendo alleanze con gli uni e isolando l’altro, affrontando così separatamente, prima la Macedonia, poi la Siria, definitivamente sconfitta già nel 188 a.C. , ad Apamea, e infine liquidando gli ultimi sussulti macedoni con la conclusiva vittoria di Pidna nel 168 a.C. La graduale trasformazione di queste grandi realtà in nuove province e la riduzione della stessa Grecia a realtà provinciale sono solo ulteriori conseguenze di un gioco già definitosi. Salvo alcuni casi in cui il senato romano preferì mantenere una parvenza di autonomia di tali stati, queste vaste acquisizioni si sostanziarono in un continuo incremento del numero di province direttamente governate dai magistrati romani. 
 La continua importazione di idee, valori e tecniche nuove, che ampliavano a dismisura i ristretti orizzonti della società romana, contribuì alla formazione di un vero bilinguismo culturale (oltre che linguistico) dell’intera sua classe dirigente. Il fenomeno, già avviato sin dalla seconda metà del III secolo a.C. , conobbe un’ulteriore dilatazione e accelerazione nel secolo successivo. Malgrado l’opposizione degli abitanti più tradizionalisti, timorosi degli effetti a lungo termine di siffatti mutamenti e i temporanei successi di Catone che, anzitutto con la sua censura, tentò di ripristinare gli austeri costumi del buon tempo andato, questo processo si rivelò inarrestabile. D’altra parte tutti gli uomini appartenenti alle varie popolazioni erano attirati dal centro del potere mondiale ormai rappresentato da Roma. E’ allora infatti che la classe dirigente, non solo imparò il greco come sua seconda lingua , ma soprattutto , andò a scuola dai filosofi e dagli oratori, utilizzando questo nuovo sapere nell’oratoria politica e giudiziaria, nonché nella scienza giuridica. Fu un fenomeno di enorme rilievo che, ovviamente , allargò a dismisura gli orizzonti dei Romani del II secolo a . C. Ma, proprio per questo contribuì a indebolire quelle semplici e forti idealità della repubblica antica. D’altronde i dilatati orizzonti e gli accresciuti livelli di consapevolezza e di responsabilità politica del ceto dirigente romano, successivamente alle conquiste orientali, erano anche, potenzialmente, fattori di crisi. Di ciò aveva avuto intuizione la generazione di Catone e di quei dirigenti politici che avevano cercato di restaurare e difendere antiche tradizioni di sobrietà, mirando a limitare , se non a evitare, le conseguenze negative indotte, nella società romana, dalle grandi trasformazioni ingenerate dallo stesso successo di Roma, la quale rischiava di male utilizzare quel grande potere da essa ottenuto nel corso delle ultime grandi vittorie. 
 4. L’impero mediterraneo e la trasformazione della società romana L’effetto della crescita imperiale di Roma fu la sua rapida trasformazione nell’arco cronologico di due o tre generazioni. Già la Roma che usciva dalle guerre annibaliche era qualcosa di radicalmente diverso dalla città dei primi decenni del secolo, e destinata a mutare ulteriormente, in forma accelerata, nei decenni successivi.
Anzitutto sotto il profilo dell’accumulazione di ricchezze e, conseguentemente della trasformazione dei rapporti sociali. L’aristocrazia romana e il ceto equestre, più di ogni altro gruppo, furono i beneficiari di questa crescita, con la conseguente concentrazione di grandi capitali nelle mani di pochi privilegiati (soprattutto i cavalieri). Il loro ruolo tuttavia restava, se non circoscritto , sicuramente orientato alla gestione finanziaria e ai correlati investimenti nei processi mercantili, nei traffici marittimi, nelle attività bancarie e nella gestione degli appalti e delle grandi opere pubbliche cresciute in quantità e in dimensioni. La nobiltà delle cariche, rimase invece relativamente al margine di queste forme di moltiplicazione delle ricchezze, poiché il suo steso ruolo la vincolava alla politica cittadina. Di qui la necessità di investimenti relativamente stabili, che non la impegnassero eccessivamente in un diretto lavoro di gestione. Nell’amministrazione dei loro patrimoni, i membri della classe dirigente romana fruivano di un insieme di collaboratori, sovente schiavi o liberi orientali con particolari competenze commerciali e finanziarie. E’ attraverso costoro che molti dei patrimoni nobiliari vennero investiti in attività finanziarie e mercantili. La durata dello sforzo militare contro Annibale e la mobilitazione di tute le risorse disponibili avevano inoltre impegnato una intera generazione di contadini a passare la maggior parte della loro vita attiva lontani dai campi. Non era facile per costoro tornare, una volta lasciato l’esercito, a una vita lontana nel tempo e da cui si erano disabituati. D’altra parte il crescente splendore di Roma, la vita facile e i flussi di ricchezza che si riflettevano su ogni ceto, le nuove occasioni di guadagno offerte dalle attività commerciali e i nuovi arruolamenti per le guerre d’Oriente, con il miraggio dei ricchi bottini, costituivano un potente fattore d’attrazione. Così per molti antichi proprietari contadini, dopo la lunga stagione di guerre era pressoché irresistibile la spinta all’inurbamento. Di contro, le campagne spopolatesi di una parte dei loro antichi contadini, vennero riorganizzate dai membri dell’oligarchia romana che estesero i loro domini. Si impose allora un sistema di grandi tenute favorita, per un certo tempo, dalla disponibilità di grandi masse di schiavi a buon mercato riversatesi nei grandi mercati specializzati, a seguito delle guerre vittoriose di Roma. La schiavitù nella società romana ha avuto una fondamentale importanza già a partire dai primi secoli della repubblica. Con Plauto, alla fine del III secolo abbiamo la precisa testimonianza di questa realtà come un fenomeno di massa. Gli sviluppi del II secolo a.C. non possono quindi essere considerati che in termini di continuità con l’età precedente. Da un lato colpisce lo sfruttamento sistematico e brutale di questo tipo di forza lavoro, e, dal lato opposto, tale istituto venne utilizzato, in modo straordinariamente efficace, in una molteplicità di impieghi e di attività che moltiplicarono la capacità d’azione e di gestione della classe dirigente romana. Inoltre spiccarono nuove figure di schiavi ben diverse da quelli destinati a lavorare nei latifondi: si tratta di artisti, letterati formatisi alla grande tradizione ellenistica, specialisti in ogni campo, dalla professione medica alle tecniche commerciali e bancarie, così sviluppate in Oriente, ai vari settori artigianali, oltre a tutta la sfera delle attività letterarie e pedagogiche. 
Questo tipo di schiavi era acquistato a prezzi sovente molto elevati e quasi sempre destinato a lavorare a stretto contatto con i loro padroni. L’ordinamento romano dava la possibilità a ciascun proprietario di concedere al proprio schiavo, insieme alla libertà , anche la cittadinanza romana. Divenuti liberi, essi e i loro discendenti costituirono un nuovo e importante gruppo sociale la cui diversa fisionomia e la cui differenziazione culturale , contribuì ad arricchire ulteriormente la società romana. In Roma la libertà individuale era garantita al cittadino, di questa o di un’altra città con cui si fosse in relazione reciproca. Ma questo stretto collegamento tra libertà e cittadinanza poneva un problema nel caso della liberazione di uno schiavo , dovendosi configurarlo anche come cittadino. Per questo, in origine, fu pressoché inevitabile che allo schiavo di un Romano, che aveva perso la sua cittadinanza originaria, la concessione della libertà s’accompagnasse contestualmente all’acquisizione dell’unica cittadinanza di cui Roma disponeva : quella romana, appunto. Così s’ebbe il paradosso che ciascun privato cittadino di Roma , proprietario di uno schiavo, potendolo trasformare in un uomo libero con la manomissione, disponesse anche di un potere squisitamente sovrano come quello di concedere la cittadinanza.
A partire dal III secolo a. C. e sempre più nel tempo , Roma disponeva anche di altre cittadinanze tra cui lo stesso statuto di peregiunus (straniero), come appunto di sudditi delle province . Ai liberti dunque si sarebbe potuto dare questo più basso statuto personale , invece della sempre più pregiata cittadinanza romana. Divenuta la grande metropoli dell’intero Mediterraneo, Roma da tutti i popoli attrasse energie, conoscenze, saperi rifondendo e riplasmando questa realtà e con essa rinnovando la sua composizione sociale, le sue competenze e la sua popolazione. Non si deve dimenticare infatti, nel sistema stratificato della società romana, non solo questa costante forma d’arruolamento di nuovi cittadini dal basso, ma anche la loro ulteriore mobilità . Giacché i figli di ex schiavi , se nati quando il padre era già divenuto libero, avevano lo statuto di ingenui potendo ulteriormente ascendere nella scala sociale.
 5. La teoria della “costituzione mista” Polibio, s’interrogò a fondo sui motivi dello straordinario successo politico di Roma.
Il grande vantaggio di Roma consisterebbe, secondo lui, in un equilibrio sempre mutevole fra le tre forme di governo proprie delle società umane , già identificate dai filosofi greci : il governo monarchico, quello aristocratico e, infine quello democratico. L’avere selezionato il meglio di questi tre meccanismi di governo e averli fusi in un disegno unitario sarebbe dunque la ragione ultima del successo romano : il potere monarchico , identificabile nella forza dei consoli, quello aristocratico, nel ruolo del senato e quello democratico nei comizi. L’enorme peso che tale schema ha avuto nella formazione degli stati moderni ha finito quasi col L’esperienza romana appare ispirata a una logica , in cui più che la < divisione dei poteri >, parrebbe giocare la confusione di più poteri nello stesso soggetto e, contemporaneamente, la scissione di uno stesso tipo di potere tra soggetti diversi , chiamati a operare insieme. Sia la collegialità dei magistrati , sia l’autoritas del senato nei riguardi dei comizi , sia l’interazione tra magistrati e senato con i suoi consulta, sembrano elementi di un’architettura costruita per funzionare attraverso la cooperazione e l’integrazione, con il conseguente equilibrio derivante da tutto ciò. Nell’esperienza romana su cui Polibio veniva riflettendo, ciascun portatore di un potere ciascun cittadino poteva acquisire: 500 iugeri, circa 125 ettari, per ogni pater familias cui si sarebbero potuti aggiungere altri 250 iugeri per ogni figlio maschio, sino a un totale complessivo di ben 1000 iugeri.
In base a tale proposta, gli antichi possessi di ager publicus che rientravano nei limiti previsti dalla legge sarebbero divenuti proprietà privata dei singoli possessori, mentre la terra eccedente tali misure era recuperata alla res publica per essere redistribuita tra i cittadini non abbienti, in forma di piccola proprietà contadina. Si trattava di una vera e propria riforma agraria. Il compito di recuperare e distribuire tali terre ai piccoli proprietari contadini venne affidato a un triumvirato appositamente istituito, eletto dai concilia plebis. L’aristocrazia senatoria, privata del proprio potere sulle terre, si affidò ad un altro tribuno, C. Ottavio, perché, interponesse l’intercessio contro la proposta del collega, impedendo quindi che i concilia potessero discuterla e votarla. Ma questo espediente non bloccò Tiberio nell’attuazione del suo progetto politico: l’ostacolo dell’intercessio fu da lui rimosso in modo efficace quanto brutale e ai limiti della legittimità . Non potendo superare la paralisi derivante dal veto del collega, egli lo aggirò , facendo votare dagli stessi concilia la deposizione di Ottavio. Così, solo a seguito di un’azione sostanzialmente illegale la legge agraria proposta da Tiberio poté essere votata. A rafforzare la propria iniziativa Tiberio sfruttò poi un evento esterno appena accaduto e consistente nel testamento di Attalo II, re di Pergamo, il quale aveva istituito il popolo Romano come sue erede. Prevenendo qualsiasi decisione del senato che si era sempre arrogato una competenza esclusiva per tutti i problemi di politica estera, Tiberio fece votare dai concilia un plebiscito con cui si affidava il tesoro alla commissione appena istituita, a fine di finanziare l’operazione di ripopolamento delle campagne prevista dalla legge agraria. 
Tiberio era un politico che rappresentava interessi e valori condivisi: dietro di lui era schierato non solo il popolo minuto, attirato dalla promessa della distribuzione gratuita di terre pubbliche ai non abbienti, ma anche membri dell’aristocrazia romana, compresi non pochi senatori che condividevano molti dei motivi di fondo che avevano ispirato le progettate riforme di Gracco. Lo stesso Tiberio volle ripresentarsi alla caria di tribuno della plebe per l’anno successivo, allontanandosi dai criteri tradizionali che regolavano il cursus honorum, e benché non esistesse un esplicito divieto d’iterazione immediata della carica, tale situazione fu sfruttata dai nemici di Tiberio che maliziosamente l’associarono all’idea che questi aspirasse a un potere monarchico, mossa che fece accrescere i sospetti nei gruppi dell’oligarchia romana, scatenando una violentissima opposizione dei suoi avversari politici. Nei tumulti che seguirono, lui stesso e alcuni suoi seguaci vennero assaliti e uccisi da un gruppo di senatori, nei pressi della curia dove si riuniva il senato. Questa fine cruenta era destinata ad avviare una vera e propria persecuzione che tentò di coprirsi a sua volta con forme legali, attraverso l’emanazione di un senatusconsultum ultimum per la salvezza suprema della repubblica. Tale tentativo del partito antigraccano fu vanificato dalla ferma opposizione di Publio Mucio Scevola, il console in carica per il 133-132 a.C. La sua opposizione, tuttavia, non fece che rinviare la persecuzione dei seguaci di Gracco a opera dei suoi immediati successori: i consoli Popilio Lena e Publio Rupilio, con cui i sostenitori di Tiberio furono quindi dichiarati nemici della repubblica. Successivamente, nel 129 a.C. Scipione Emiliano tentò di ostacolare la riforma di Tiberio dell’assegnazione delle terre a difesa degli Italici rimasti esclusi, ma essa durò abbastanza a lungo da imporre le proprie radici. 3. L’eredità politica di Tiberio e il programma di Gaio Gracco Gaio, eletto tribuno della plebe nel 123 a.C. , e rieletto nell’anno successivo, fece approvare un complesso intreccio di leggi che appaiono corrispondere a un progetto politico ormai ben più ampio e ambizioso di quelle limitate riforme a suo tempo propugnate dal fratello Tiberio. Anche le leggi agrarie furono riprese e ribadite da Gaio, benché di ciò non abbiamo una chiara e precisa conoscenza. Le terre assegnate furono sottoposte al pagamento di un vectigal , di un canone, e fu diminuito il tetto dei cinquecento iugeri di terre pubbliche lasciate agli originari possessores.
Colpisce soprattutto, nell’azione di Gaio, la quantità e la complessità dei campi toccati dalle riforme . Con una fitta serie di leggi si riprendevano infatti tutte le linee tradizionali del partito agrario e dell’antica politica filo plebea, con un forte rilancio della colonizzazione romana. Un’altra lex Sempronia accentuava la linea antisenatoria, con la fondazione di una colonia a Taranto e il progetto di un’altra colonia a Capua che avrebbe recuperato parte delle fertilissime terre campane restate di pertinenza di Roma, dopo la severa punizione inflitta a tale città per la sua defezione da Annibale. Terre che , di fatto, erano state sfruttate per quasi un secolo esclusivamente dalla nobilitas senatoria. Egualmente un’altra legge stabili la fondazione di una colonia a Cartagine, sottraendo al senato la competenza esclusiva sulla condizione delle province romane. Sempre nell’ambito della politica agraria vanno ancora ricordati altri provvedimenti come la costituzione di grandi magazzini pubblici per il deposito del grano e di nuove strade volte a favorire la complessiva politica di ripopolamento delle campagne. 
L’iniziativa legislativa di Gaio andava tuttavia oltre, toccando una molteplicità di altri punti della vita della repubblica, in modo da modificare i complessivi equilibri politici . Evidente appare nella sua azione l’obiettivo strategico da lui perseguito che mirava anzitutto all’annullamento o, quanto meno, ad un forte ridimensionamento del senato attraverso la costruzione di un diverso blocco sociale. Va ricordata in questa direzione la lex Sempronia de provincia Asia che sottraeva al controllo del senato gli appalti per le imposte nelle ricchissime province d’Asia. In questo contesto una lex Sempronia de provinciis consularibus che obbligava il senato a sorteggiare quali province fossero assegnate ai futuri consoli, prima delle elezioni eliminando le assegnazioni provenienti da amicizie e simpatie. Venne introdotta una legge che impediva la repressione di reati non prima definiti mediante leggi comiziali e la lex Sempronia de capite civis Romani che riaffermava il ruolo di controllo dei comizi per tutti i casi d’applicazione della pena capitale nelle quaestiones; esse miravano a rendere impossibile, per il futuro, qualsiasi tipo di operazione come quella a suo tempo messa in atto contro i seguaci di Tiberio. Di contro un altro principio normativo veniva fatto valere, a chiudere la questione apertasi in età di Tiberio, con cui si sanciva la legittimità formale della rielezione di un tribuno in carica. Infine da parte di Gaio si interveniva anche sui comizi centuriati, proponendosi la soppressione dell’antico sistema di voto per classi di centurie, con cui i ceti economicamente più deboli erano stati ridotti in pratica all’irrilevanza. La proposta di Gaio prevedeva il sorteggio dell’ordine di voto delle varie centurie, mettendole, almeno formalmente, sul piano di parità . A patire da una lex Sempronia iudiciaria, si mirò a modificare la composizione dei tribunali giudicanti e in particolare quella della questio de repetundis composta da membri del ceto senatorio, ovviamente più indulgenti verso i loro pari rango. A seguito della nuova legislazione l’organico dei giudici veniva a essere fornito dai cavalieri , portatori di interessi in parte diversi, e che disponevano in questo modo di un efficace mezzo di pressione nei confronti del ceto senatorio. E qui emerge con chiarezza l’intento di saldare gli interessi del potente ceto equestre alla politica del partito popolare. 
A questo gruppo, così rilevante economicamente , ma restato sostanzialmente estraneo della vita politica cittadina, si offriva ora un prezioso strumento di controllo proprio sui membri del senato, creando con esso un elemento di contrasto.
D’altra parte l’organicità delle iniziative legislative e politiche di Gaio ci fa pensare che la sua azione mirasse a qualcosa di più della semplice resa di conti con il senato, o nel riequilibrio delle competenze dei vari gruppi della città. Sino ad allora mai era stato messo in discussione il suo stesso fondamento di carattere aristocratico, intimamente collegato ai ruoli militari e alle cariche politiche. Si delineava ora per la prima volta la possibilità di spostare tali assetti verso una più radicale forma di democrazia, quale forse solo l’esperienza greca aveva conosciuto. Di qui , ad esempio, l’insistenza figura del tribuno e sulla legge quali strumenti pressoché esclusivi per attuare questo cambiamento radicale del sistema politico. La legge votata dal popolo e il diverso ruolo assunto dal tribuno, che cessava di essere titolare di un potere prevalentemente di controllo sul governo altrui per diventare invece il promotore di un proprio progetto, nel suo disegno , venivano posti al centro dell’intera scena politica. La sovranità popolare tendeva così a svincolarsi da quel costante riequilibrio costituito dall’auctoritas del senato e dallo stesso cursus honorum per divenire autonomo fondamento della politica e della legittimità repubblicana.
Che questo fosse il vero nocciolo della politica graccana, sembrerebbe confermarlo la grande quantità di leggi fatte votare direttamente da Gaio o da lui ispirate: di gran lunga eccedenti, per un arco di tempo così breve, il numero relativamente ridotto di leggi ordinariamente votate dai comizi. A quelle che si è già ricordato, infatti , vanno aggiunte ancora, per quel che sappiamo, una lex Sempronia militaris che mise a carico dello stato le spese per le vesti dei soldati e introdusse un limite d’età per l’arruolamento, una lex Sempronia de Popilio Lenate senza autorizzazione dei comizi, una lex Sempronia de siariis et veneficiis, con cui si estendeva la repressione criminale a nuove fattispecie, una lex Sempronia viaria e una lex Sempronia de coloniss Tarentum deducendam, con cui si destinavano ricchi territori a una politica di ripopolamento agrario , una Runovius portoris, relativa alla politica doganale e al controllo dei conti dei pubblicani, una rogatio Marcia de tribunis militum, una lex Papiria de tresviris capitali bus, anch’essa relativa alla repressione penale, e infine , oltre all’importantissima lex Acilia repentundarum, di cui di sono pervenuti frammenti epigrafici, le due leggi relative alla composizione dei comizi centuriati e al sistema processuale. 4. Un nuovo modello di rex publica Sembra dunque delinearsi una res publica direttamente governata dal popolo, dai suoi magistrati e dal tribunato della plebe. Affiorava infatti, più nettamente di quanto non fosse emerso nelle lontane vicende del decemvirato legislativo, la potenziale emarginazione dei magistrati dalla repubblica e dello stesso senato. Affiorava così la possibilità di una deriva in senso ateniese, con un primato della democrazia assembleare sul costante temperamento dei poteri attraverso le mediazioni necessarie ad assicurare quelle convergenze postulate dalla costituzione romana. E, ancora una volta , lo scontro ebbe un esito mortale. Nel momento infatti in cui gli equilibri vennero modificandosi, con una parziale erosione del consenso popolare di cui Gaio Gracco godeva, i suoi avversari non esitarono, nei giorni di tumulto che seguirono la mancata rielezione di Gaio al tribunato della plebe per la terza volta consecutiva, a organizzarne il suo assassinio. La sua sconfitta appare legata anzitutto alla precarietà del blocco politico e sociale da lui costruito in funzione antisenatoria e fondato sull’alleanza con il ceto equestre. E soprattutto si deve riflettere sulle radici ultime della politica graccana che sembrano riallacciarsi alla tradizione agraria e allo spirito conservatore che aveva sempre visto con sospetto le forme più avventurose di espansionismo imperialistico d’oltremare, temendone le ricadute in patria. Ebbene, sin dall’età di Catone, con la sua lotta contro gli Scipioni, in questo partito si annidava un’intima contraddizione : esso voleva infatti evitare gli aspetti più patologici e più evidentemente corrompenti di tale politica, ma non era disposto a contestarne le premesse , fondate su una logica di potenza che appare invece pienamente condivisa. Lo abbiamo già visto in Catone che difende Rodi dalla volontà di sopraffazione dei senatori romani, ma che insiste sulla brutale e politicamente ingiustificata distribuzione di Cartagine. Lo si coglie egualmente in Gaio Gracco che, se da un lato favorisce una politica di risanamento sociale attraverso la fondazione di colonie e la distribuzione di terre ai piccoli agricoltori, fa poi votare una legge che assicura la distribuzione di grano a prezzo politico ai cittadini romani meno abbienti. Questa legge frumentaria, segna infatti il sostanziale congiungimento degli interessi popolari alla politica imperialistica gestita dai ceti dirigenti. Le distribuzioni gratuite o quasi di grano erano infatti possibili solo imponendo i corrispondenti oneri a carico dei provinciali. Non solo , ma essa garantiva, finanziandola, l’esistenza di una plebe parassitaria e, in fondo, subalterna, in contrasto con il progetto di ripopolamento delle campagne perseguito dello stesso Gracco. In verità le soluzioni prospettate dai due fratelli erano sin dall’inizio, o insufficienti , come appunto la semplice riforma agraria di Tiberio, o inconsistenti, come il più complesso progetto di Gaio. Una radicale trasformazione del tradizionale assetto gerarchico di Roma in una grande democrazia di tipo ateniese avrebbe infatti potuto essere veramente praticabile solo a condizione che una stabile alleanza tra l’assemblea popolare e il ceto degli equites emarginasse il ruolo del senato e dell’aristocrazia politica che in esso aveva il suo riferimento stabile. Ma proprio la costruzione imperiale ormai realizzata contribuiva in modo determinante a preservare ed a valorizzare ulteriormente quelle funzioni militari e di governo che costituivano lo specifico know how di tale significativo poiché per la prima volta l'esercito non venne usato per difendere lo stato, ma per imporre la volontà di un comandante. Mario e i suoi alleati scapparono e Silla si mise in viaggio per combattere Mitridate. Dopo la partenza di Silla a Roma i popolari si riorganizzarono sotto la guida di Mario e di Lucio Cornelio Cinna (eletto console nell'87 a.C.). Cinna occupò Roma con delle truppe arruolate tra i Sanniti ed eliminò gli avversari politici. Per due anni, dopo la morte di Mario, esercitò una dittatura sulla città finché non venne ucciso. Silla nel frattempo, dopo aver battuto Mitridate e stipulato con lui un trattato di pace (Pace di Dardano, nell' 85 a.C.) si trattenne in Grecia per un paio d'anni, e ripartì per Roma nell' 83 a.C. Al suo ritorno si scatenò una sanguinosa guerra civile tra i suoi sostenitori e quelli di Mario. Alla fine prevalsero i sostenitori di Silla, nella battaglia di Porta Collina nell'82 a.C. La vendetta si Silla fu spietata, infatti per la prima volta furono pubblicate le liste di proscrizione, ovvero liste che contenevano i nomi dei "nemici pubblici", che potevano essere uccisi da chiunque e a cui venivano confiscati i beni e rivenduti a prezzi bassissimi; inoltre Silla assunse il titolo di Felix (colui che è protetto degli dei) e si fece eleggere dittatore a tempo indeterminato. Si trattava di un colpo di stato volto a combattere gli avversari interni, tentando di ripristinare una volta per tutte l'ordine a Roma. Silla introdusse anche alcune riforme: • Aumentò il numero dei senatori (da 300 a 600) aprendo il senato anche ai cavalieri con maggior prestigio; • Estese fino ai fiumi Rubicone e Magra la linea del pomerium (confine sacro in cui nessun generale romano poteva penetrare in armi); • Stabilì che alla fine del mandato di consoli e pretori, quest'ultimi fossero inviati come governatori nelle province; • Tolse ai tribuni delle plebe il diritto di veto e la facoltà di formulare proposte di legge durante i comizi centuriati. In questo modo il governo romano tornava nelle mani del senato che vedeva rafforzata la sua autorità sulle classi dello stato. Silla si ritirò a vita privata nel 79 a.C. 3. Le riforme sillane Silla era un convinto esponente dell’aristocrazia romana che, si sostanziava in un sistema fortemente gerarchico, con il suo punto di riferimento e di forza nel senato, ed infatti mirò a riaffermare l’antica centralità di questo organo. L’obiettivo ultimo di ridare forza al senato e ai gruppi sociali fu realizzato, anzitutto restituendo , ancora una volta, al ceto senatorio il controllo dell’intero sistema criminale romano. Vi sopperì la rinnovata composizione di tutte le quaestiones perpetuae, i cui giudici tornarono a essere membri dell’ordo senatorius. In secondo luogo, si limitò a riaffermare l’antico controllo senatorio sui processi legislativi : a tal fine operarono una serie di provvedimenti con cui s’attuò una parziale rivitalizzazione dell’auctoritas patrum interposta alla leggi comiziali. E’ comunque indubbio che le riforme sillane mirassero soprattutto a ridimensionare il peso dell’assemblea tributa , che sin dai Gracchi abbiamo visto essere stata la base costante dell’azione popolare. Quanto al senato, Silla provvide a reintegrare le file dei senatori ormai dimezzate dalla lunga stagione di guerre e di persecuzioni interne, confermando l’ampliato organico di seicento senatori progettato da Druso figlio. In tal modo egli potè inserirvi in esso un numero significativo di esponenti del ceto equestre , assicurando una più stretta integrazione dei due gruppi sociali al vertice della repubblica : la nobiltà senatoria e i cavalieri . Al fine poi di garantire la piena indipendenza del blocco di governo egli ridusse ulteriormente l’autonomia di scelta da parte di costoro, rafforzando gli automatismi selettivi. 
Un aspetto più contraddittorio dell’azione riformatrice del dittatore sembra invece costituito dal modo in cui egli ridisegnò il ruolo e i poteri dei tribuni della plebe. L’obiettivo era chiaro : si trattava di impedire che, per il futuro, potesse riproporsi l’azione eversiva di questi magitrati. Tuttavia, nel far ciò , Silla finì con l’intaccare la tradizione repubblicana. La svalutazione radicale della figura del tribuno, attivata cancellando quasi totalmente la sua integrazione all’interno della costituzione romana, modificava un punto centrale degli equilibri consolidatisi da secoli.Al fine di rendere meno ambita tale carica e, insieme , di contenerne fortemente il potenziale rivoluzionario, Silla stabilì la preventiva approvazione del senato dei candidati all’elezione a tribuno. Inoltre coloro che avevano ricoperto questa magistratura non potevano rivestirne altre, comprese quelle com imperio. 
Parallelamente, anche l’ambito d’intervento e l’efficacia del tribunato furono ridotti notevolmente; in particolare, per quanto concerne il potere di veto ( intercessio ) , esso poteva esplicarsi ormai solo a favore del singolo cittadino, cessando quindi di essere un fattore condizionante della politica romana. 
Sempre in una linea antipopolare si colloca l’altro provvedimento assunto da Silla volto a sopprimere le frumentationes a favore della plebe urbana. Queste erano state un fondamentale strumento con cui i capi popolari avevano guadagnato il supporto dei loro seguaci. 
Di contro Silla mirava anche a impedire che altri potessero riprendere l’esempio da lui stesso dato, guidando l’esercito contro Roma e annullando con forza le delibere dei suoi organi costituzionali . Egli ritenne di poter realizzare tale obiettivo, accentuando la distinzione tra governo civile e comando militare, ribadendo l’antica tradizione che escludeva l’esercizio dell’imperium militiae entro i confini sacri di Roma ( pomerium ).
Solo che, ora , i confini civili di Roma furono estesi sino a comprendere tutta l’Italia peninsulare, rendendo illegale ogni attività di tipo militare in tale ambito territoriale. Questo di fatto comportò la totale spoliazione dei consoli dell’imperium militiae, essendo questi vincolati ora a risiedere permanentemente e a esercitare le loro funzioni solo in ambito italico. Il comando militare , da allora, restò di pertinenza esclusiva delle pro magistrature. In qualche modo egli formalizzò e meglio definì molti dei meccanismi e principi consuetudinari, formatisi nell’incertezza di prassi mai irrigidite in regole troppo precise. Il cambiamento appare in modo esemplare, ad esempio, nella nuova disciplina del cursus hornoum introdotta da Silla : dalla proibizione del rinnovo delle cariche magistratuali per più anni di seguito alla contestuale precisazione dei criteri d’età per l’ammissione alle varie cariche. Ora il certus ordo magistratum si presentava con disegno più netto, fissando lo schema di carriera possibile per i cittadini romani.
E’ invece ad una maggiore efficacia dell’azione di governo che si mirò, riaffermando la competenza del senato nell’assegnazione delle province ai promnagistrati, elevando gli organici complessivi nel governo provinciale ed accrescendo il numero dei magistrati minori e dei pretori. Di egual rilievo appare il tentativo sillano di limitare le prevaricazioni perpetrate sul governo provinciale, soprattutto quelle poste in essere dal ceto equestre e dai pubblicani. Esemplare è il provvedimento assunto per la gestione della ricca provincia d’Asia con cui Silla annullò l’assegnazione dell’appalto delle imposte ai pubblicani effettuata da Gaio Gracco, stabilendo che il tributo fissato a carico delle varie comunità fosse riscosso direttamente dal governatore della provincia.
Ma l’azione di Silla va al di là di questi pur rilevanti interventi sulla macchina istituzionale , seguendo profondamente anche gli equilibri sociali della sua epoca. Con le proscrizioni, con la violenta persecuzione dei suoi avversari, tra cui molti senatori, egli incise in profondità sulla composizione dell’aristocrazia di governo. L’espropriazione di grandi patrimoni fondiari non ridisegnò solo il panorama delle ricchezze romano – italiche, impoverendo ed emarginando interi gruppi sociali, ma permise anche l’accumulazione di un vasto demanio territoriale redistribuito ai suoi veterani. Un altro settore infine in cui il suo intervento avrebbe lasciato una traccia profonda, il processo criminale . Anche qui, l’obiettivo era anzitutto politico, volendo sopprimere , in questo settore, il ruolo delle assemblee popolari e ridurre conseguentemente i margini di arbitrio dei singoli magistrati e in particolare dei tribuni. 4. L’evoluzione del diritto e del processo criminale sino alle grandi riforme di fine II secolo Nel corso del tempo, l’intervento diretto della città si ampliò gradualmente, comportando un maggior coinvolgimento dei magistrati com imperio, e in particolare dei pretori aventi generali funzioni giusdicenti, nei procedimenti relativi ai vari crimini. Alla loro competenza, si aggiunse nel tempo la funzione repressiva dei tribuni della plebe, anch’essa destinata ad ampliarsi progressivamente. In effetti l’originaria facoltà d’irrogare sanzioni a chi avesse attentato alla loro persona sacrosanta, era stata estesa a perseguire molti altri comportamenti illeciti dei cittadini e dei magistrati e si era venuta sviluppando per loro quella più ampia azione volta a tutelare in generale la maistes populi Romani. Una serie di reati minori fu progressivamente sottoposta alla competenza dei questori e degli edili, mentre la più immediata repressione per reati colti in flagranza o nei riguardi di figure di minor conto era affidata ai poteri, diremmo oggi , di polizia dei tresviri capitales. Tali magistrati, istituiti per combattere le forme di illegalità dilaganti in Roma nella sua fase di rapido sviluppo urbano, tra il III e il II secolo a.C. , erano originariamente nominati dal pretore divenendo poi elettivi . Essi operavano direttamente irrogando sanzioni minori come la fustigazione o l’incarceramento, mente per i reati più gravi la loro funzione era quella di istituire il procedimento criminale. Nel corso del tempo s’era tuttavia evidenziata una seria debolezza di questo sistema, soprattutto se confrontato con il tecnicismo del processo civile. Com’è noto, sin dalla prima età repubblicana, i giudizi criminali che comportavano la condanna a morte dell’imputato erano stati sottratti alla competenza esclusiva dei magistrati mediante la provocatio ad populum. In tal modo i magistrati repubblicani finivano con lo svolgere solo una funzione istruttoria, mentre di fatto la funzione giudicante passava all’assemblea popolare, in cui il tecnicismo proprio di una procedura in mano agli specialisti aveva permesso lo sviluppo di forme sempre più raffinate e articolate in funzione di adeguare quanto più possibile la regola astratta alla verità e alla giustizia dei casi concreti. Il diritto di provacatio (= diritto del condannato a morte di appellarsi all’assemblea popolare per essere difeso) e il conseguente controllo dei comizi centuriati appare di gran lunga preminente in ordine ai giudizi de capite (condanna a morte) , estendendosi tuttavia nel corso del tempo anche ai sempre più numerosi reati repressi sia con multe pecuniarie, sia con la detenzione del colpevole, sia infine con la fustigazione. I limiti così imposti a magistrati romani, furono poi rafforzati da un gruppo di leges Porciae , probabilmente tutte degli inizi del II secolo a.C. con cui, tra l’altro, si estese il diritto di provocazione dei cittadini romani anche contro la loro fustigazione e anche nel caso essi si fossero trovati fuori di Roma e nelle province. La quantità di coloro che dovevano essere informati dei fatti addebitati al colpevole era molto ampia in quanto prevedeva situazioni talora abbastanza complesse, mentre la comprensione del tecnicismo dei meccanismi applicativi delle norme penali, era affidata ai pochi intenditori. Con il grande ammodernamento dell’apparato amministrativo e della cultura giuridica romana, oltre che dell’intera società, intervenuto dopo lo spartiacque costituito dalla guerra annibalica, questi aspetti di debolezza apparvero sempre più intollerabili. Tanto più che molti meccanismi arcaici della repressione criminale ancora presenti nelle XII Tavole, in cui maggiormente si saldava la sfera religiosa e la repressione cittadina, erano ormai caduti in desuetudine. Ma soprattutto il disarticolarsi della società romana, nel corso del III secolo a.C. , in un quadro istituzionale e culturale di crescente complessità , incisero negativamente sul ruolo giudiziario degli antichi comizi, ed è allora che intervenne un progressivo processo di trasformazione e di riforma. 5. Le “quaestiones perpetuae” A partire dal II secolo a.C. le repressioni di carattere straordinario cedettero il posto a tribunali stabili (quaestiones perpetuae), istituiti per legge e presieduti da un magistrato (pretore) o da un ex magistrato, che, aiutato da un gruppo di senatori, dovevano giudicare dei reati di concussione dei magistrati, di rango senatorio, o dei semplici cittadini commessi nelle province governate da Roma. conseguenza dei fenomeno verificatisi nell’età precedente : la centralità dell’esercito e la ricorrente tendenza dei suoi comandanti a sottrarsi al controllo ordinario degli organi della res publica. Il rimedio da lui escogitato avrebbe addirittura sguarnito il presidio della libertas repubblicana, agevolando il carattere potenzialmente eversivo progressivamente assunto dall’imperium militiae , ormai sottratto alle magistrature ordinarie. CAPITOLO DODICESIMO: L’ETÀ DELLE GUERRE CIVILI 1. La perdita di centralità del senato e i nuovi poteri personali Vi era un altro e più impalpabile elemento, ma non meno significativo, che contribuì a riaccendere la situazione di crisi e di guerra civile permanente, facendola precipitare nei decenni immediatamente successivi al ritiro di Silla. Si tratta della progressiva perdita di prestigio del senato. La perdita di autorità di tale assemblea era ormai palese e si evidenziava proprio quando politiche giuste da esso perseguite ( come appunto la sua cautela nell’intraprendere una faticosa guerra oltremare contro lo stesso Giurta ) venivano svalutate nell’opinione pubblica per i sospetti di corruzione e di debolezza ormai pericolosi e diffusi. In verità il senato era divenuto sempre più parte nel gioco politico , perdendo in parte l’antica funzione di stanza di compensazione e centro di controllo dell’intero sistema politico. Questo declino, già affiorato nella tumultuosa stagione dei Gracci, ebbe ulteriore conferma negli anni successivi a Silla. Ormai le divergenze di un tempo, nel chiuso della classe dirigente, si erano trasformate nello scontro di due fazioni, se non di veri e propri partiti nel senso moderno. Il senato era divenuto parte del gioco, alla testa del gruppo conservatore e aristocratico. Sia questo che il partito popolare si rifacevano a una loro eredità politica , con alcuni punti fermi di un embrionale programma d’azione. A ciò si aggiungeva anche la tendenza alla formazione di poteri personali a base militare addirittura aggravata con le riforme sillane. Alla tradizionale divisione tra il sistema ordinario delle magistrature com imperio e delle pro magistrature associate al governo delle province e ormai titolari esclusive degli effettivi poteri militari, ai aggiunse un ulteriore meccanismo. Ci si riferisce all’esperienza sempre più frequente di conferire, per scopi relativamente eccezionali, poteri magistratuali sganciati dal meccanismo della prorogatio imperii. Il sistema, come sappiamo, era antico, essendo stato collaudato addirittura con il giovane Publio Cornelio Scipione. E quanto timore un tipo di poteri del genere suscitasse nel ceto dirigente romano lo prova l’ostilità del senato a conferire a Pompeo, un antico collaboratore di Silla , già distintosi per le sue virtù militari , i poteri straordinari per combattere il crescente pericolo ella pirateria nel Mediterraneo orientale e nell’Adriatico che minacciava di interrompere l’intero sistema di comunicazioni marittime da cui dipendeva lo stesso approvvigionamento di Roma. Ipoteri furono conferiti a Pompeo mediante una lex Gabina de piratis persequendis del 67 a.C. La forma e la sostanza dell’antica costituzione si modificarono vistosamente, giacché questi poteri erano stati attribuiti a un privato cittadino, qual era allora Pompeo, e non, come sarebbe stato nella prassi, a un magistrato com imperio allo scadere della carica ordinaria. Tale imperium, mettendo il titolare nel pieno controllo di più province territoriali e dell’intera flotta, comportava di fatto per Pompeo una signoria pressoché assoluta su tutta la parte orientale dell’impero, senza alcun limite imposto da colleghi e controlli esterni. Avvalendosi egualmente del favore popolare Pompeo , in seguito, potè strappare, senza veri motivi, a Lucullo il comando della guerra in Oriente, ingigantendo ulteriormente il suo già eccezionale potere personale. A sua volta, proprio in ragione dei timori suscitati in senato da questa vicenda fuor delle regole, al termini del suo comando in Oriente, lo stesso Pompeo si sarebbe scontrato con la pervicace resistenza del senato ad approvare il suo progetto di sistemazione delle grandi conquiste in Oriente, con la creazione di nuove province. Era infatti in genere lo stesso magistrato che aveva guidato la conquista e l’assoggettamento di nuove comunità a predisporre l’inquadramento e la sistemazione nell’ambito dell’organizzazione provinciale romana, assumendone il ruolo semiufficiale di protettore, con la conseguente crescita della sua sfera d’influenza e di prestigio politico. 2. Il primo triumvirato Lo sviluppo di questi poteri personali, con la sostanziale erosione della costituzione repubblicana, trovò drammatica evidenza quando, nel 60 a.C., un accordo privato compromise esplicitamente il ruolo del senato, affermando nuovi e complessivi equilibri sulla scena politica romana al di fuori e sopra di esso. I protagonisti furono tre eminenti personalità provenienti da storie diverse e talora opposte: da un alto due antichi e importanti seguaci di Sila, Marco Licinio Crasso, e Pompeo, dall’altro Gaio Giulio Cesare. Quest’ultimo, pur appartenente alla migliore aristocrazia romana, era legato alla tradizione di parte popolare anche per la stretta parentela della moglie con il grande e leggendario Mario. Cesare aveva già dato prova di quanto fosse forte la sua influenza sui comizi facendosi eleggere alla prestigiosa carica di pontifex maximus. Egli ora, si riprometteva soprattutto di conseguire l’appoggio politico e finanziario di Crasso, indispensabile per completare la carriera politica con il consolato e tentare poi, con i comandi provinciali, di acquisire quella rilevanza e quella forza militare di cui invece era già insigne Pompeo. Diversamente, Pompeo era stato indotto ad aderire a questo accordo dall’intendimento di ottenere , grazie ai comizi controllati da Cesare, l’approvazione del suo progetto di sistemazione delle province d’Asia che il senato era restio a concedergli . L’obiettivo di Crasso era invece quello di rialzare il suo prestigio militare, ormai datato, con una nuova guerra contro i Parti. L’accordo fra i tre personaggi giovava dunque a tutti, seppure in forme e secondo progetti diversi, rendendo palese la marginalità del senato come sistema regolatore degli equilibri politici e degli interessi in campo. Il fatto che questo stesso triumvirato non fosse altro che un accorto politico privato, irrilevante in sé rispetto ai ruoli istituzionali e alle forme di governo , sottolineava ulteriormente la debolezza di un’architettura ormai incapace di reggere sulle sue proprie fondamenta, alla mercè di rapporti di forza, di volta in volta delineatisi nel gioco politico. 
E del resto, quanto il diritto si piegasse ormai al fatto, lo mostra l’enorme rilevanza assunta, dal pubblico rinnovo dell’accordo politico tra i tre, intervenuto quattro anni dopo a Lucca. Quanto all’azione politica di Cesare, negli anni in cui resse l’accordo con Pompeo e, ancora in seguito , allorchè maturò invece la crisi tra i due , sino allo scontro finale per il potere, sono da segnalare alcuni aspetti che ne connotano l’intima adesione alla tradizione popolare. Da una parte appaiono emblematiche le proposte di legge agraria da lui ispirate e contro cui si schiererà, a difesa degli interessi e dei pregiudizi oligarchici, Marco Tullio Cicerone. Esse miravano a una nuova distribuzione di ager publicus sia in Italia che in varie province e a una nuova disciplina delle terre restate pubbliche , riprendendo , seppure in un contesto profondamente modificato, un punto centrale simbolico del programma di potere popolare sin dall’età dei Gracci. Attenzione ai generali interessi di buon governo traspare poi dalla sua lex Iulia de pecuniis repetundis, con cui si riorganizzava l’intera disciplina di questo reato ed il relativo processo con tale efficacia da giustificarne la sua successiva durevole fortuna. Di contro la sua forte intesa con Crasso e con gli interessi dei cavalieri di cui questi era portatore è segnalata da alcuni provvedimenti legislativi che tendevano nuovamente a favorire, nel sistema degli appalti, l’ordine equestre. 
Durante gli anni di assenza da Roma, per Cesare sarà fondamentale l’azione in suo appoggio dei tribuni della plebe. Sin dal primo triumvirato del resto la sua alleanza con Clodio, un patrizio fattosi plebeo per poter ricoprire tale carica, era stata un elemento importante della sua politica. Il tribuno infatti aveva solidamente tutelato gli interessi di Cesare, negli anni della lontananza di questi, andato a governare, dopo il suo consolato, la Gallia Cisalpina . Anche dopo la scomparsa violenta di Clodio, soprattutto quando i rapporti con Pompeo vennero a incrinarsi, si avviò la definitiva crisi con l’oligarchia senatoria, e fu assolutamente indispensabile per Cesare, dalla sua solida posizione nelle Gallie , avvalersi dell’azione di altri tribuni contro le innumerevoli iniziative legislative avviate in Roma dai suoi nemici volte a indebolirne la posizione. 3. L’ascesa di Cesare Le ragioni più profonde di una radicale trasformazione ormai inevitabile furono anzitutto la debolezza delle strutture politiche cittadine rispetto agli immani compiti che si ponevano per il governo e il controllo di un potere esercitato ormai su tutto il mondo civilizzato. La stessa concessione della cittadinanza romana agli Italici, aveva finito col rendere più evidente l’inadeguatezza della forma della res publica. Proprio qui, all’improvviso era venuta meno quella rigida gerarchia tra alleati italici e Romani consolidata nel corso, non già di decenni, ma di secoli. Vi era poi il problema del controllo politico della forza militare , che il tentativo di restaurazione sillano aveva finito con l’aggravare, rischiando di sortire gli effetti opposti a quelli divisati dal dittatore. Divenne addirittura clamoroso il fatto che i membri del senato, lungi dal rivendicare la loro centralità, si misero essi stessi al seguito ora di quello ora di quell’altro capo militare, spostandosi addirittura fisicamente dove le sue armate si trovavano. Vinse alla fine, tra Cesare e Pompeo, Cesare. Egli andava quindi incontro alla radicale trasformazione dell’antica libertas repubblicana e dei suoi valori consolidati. La situazione precipitò dopo una prolungata e velenosa controversia, avviatasi sin dal 52 a.C. e formulata in termini giuridici. Da una parte infatti il senato voleva disarmare Cesare, tributario di un’immensa popolarità per gli straordinari successi conseguiti con la conquista della Gallia Transalina , e forte della fedeltà di un esercitò bel collaudato. Il progetto dei suoi avversari era quello di costringerlo a presentare personalmente la sua candidatura al consolato come privato cittadino; d’altra parte il generale chiedeva di poterlo fare non di persona, restando ancora alla testa del suo esercito in Gallia, per rientrare in Roma solo dopo la sua elezione e progetto della nuova carica. Il disegno del partito senatorio era evidentemente quello di ridurre fortemente il potere di Cesare, privilegiando la posizione di Pompeo, ormai schieratosi decisamente con esso. Cesare , in effetti, si trovava ina situazione difficile in quanto sostenuto a Roma solo dai tribuni della plebe schierati dalla sua parte. Varcando, nel 49 a.C. , il Rubicone, il fiumiciattolo presso Rimini che segnava il confine dello spazio civile di Roma entro cui era vietato ordinare e guidare eserciti , Cesare si mise fuori di quella legalità il cui rispetto, lo avrebbe portato alla sconfitta politica e, verosimilmente, alla morte . Egli si avvia così a costruire una nuova legalità. Lo scontro tra Cesare e Pompeo si spostò dal piano politico a quello militare. Allontanatosi dall’Italia Pompeo con tutto il suo seguito, dove numerosi erano anche membri del senato, Cesare restò padrone del campo. Il suo avversario aveva infatti prescelto come teatro dello scontro militare ormai inevitabile l’Oriente, dove egli aveva numerose clientele e amicizie per il ruolo a suo tempo svolto nella sistemazione di quell’area. A Farsalo, a Nord della Grecia , si giocò dunque l’ultima partita, dove Cesare a capo di un’armata assai minore dell’esercito di Pompeo, ma meglio organizzata e più abilmente guidata inflisse una radicale sconfitta a quest’ultimo. La fuga successiva di Pompeo, il suo assassinio da parte del giovane Tolomeo, sovrano d’Egitto, per compiacere l’ignaro Cesare, e le successive guerre vittoriose condotte da quest’ultimo contro gli ultimi baluardi delle forze senatorie conclusesi a Tapso, in Africa , con il suicidio del più illustre degli ultimi difensori dell’oligarchia romana, Catone, segnano la conclusione dell’intera vicenda. 4. Il governo, le riforme e l’ombra di un potere monarchico Tornato a Roma Cesare si accinse dunque a costruire la nuova realtà politica romana. Il suo potere legale era molto forte quanto complesso poiché composto di una serie di cariche e poteri magistratuali tradizionali, ma solitamente conferiti a distinti titolari. Non solo in ciò egli si distaccava dalla tradizione repubblicana, ma anche dalla più recente scissione, in essa realizzatasi, tra potere civile e militare, ora in lui nuovamente ricongiunti. Egli infatti ricoprì per più anni di seguito l’ufficio di console, conservando tuttavia il diretto controllo dell’esercito mediante l’imperium proconsolare. Ma l’eccezionalità della posizione di Cesare risalta soprattutto per il potere assoluto ed eccezionale da lui acquisito facendosi conferire la dittatura. La particolare fisionomia militare di questa sua posizione Votato triumviro con poteri costituenti ed eccezionali, Ottaviano condivideva con i suoi due soci una signoria sovrana, ampia ed efficace, quanto indeterminata nel contenuto. Essa era tale a assicurargli sia il controllo dell’elemento militare che del governo civile, essendo costituito l’unico limite dalla presenza dei colleghi. Di fatto, si giunse a una divisione di competenze su base essenzialmente territoriale: si attribuì il governo d’Oriente , la parte più ricca e popolosa dell’impero , a Marco Antonio, quello dell’Italia e delle province occidentali a Ottaviano Augusto, mentre a Lepido era assegnata l’Africa. Era una scelta che evidenziava l’identificazione d’Antonio con i progetti politici di Cesare, tutti incentrati, negli ultimi anni, sul consolidamento delle frontiere orientali dell’impero e sulla grande spedizione militare progettata contro i Parti . Ottaviano sembrava invece ispirarsi alla convinzione che il nucleo centrale del potere fosse ancora situato in Italia. 
Malgrado la vastità dell’impero da governare e il compito gravoso di provvedere a risanare popoli e città devastate dalla guerra civile, già pochissimo tempo dopo questa grande suddivisione di potere iniziarono disguidi tra le due figure eminenti : Antonio e Ottaviano. Il precario equilibrio tuttavia continuò , rendendo possibile , nel 37 a.C. , il rinnovo del triumvirato per altri 5 anni, anche se, subito dopo, si addivenne alla definitiva emarginazione politica di Lepido, che conservò la sola carica onorifica di pontefice massimo. Era pressoché inevitabile che si avviasse il diretto confronto tra gli altri due personaggi, restati soli al vertice dell’intero apparato politico e ormai in diretta concorrenza per il potere supremo. 
A indebolire la posizione di Antonio giocava il sostanziale insuccesso nella campagna contro i Parti, abortita quasi prima del suo inizio e conclusasi con il solo assoggettamento dell’Armenia, ridotta, come stato vassallo, a far da cuscinetto con gli stessi Parti. L’esito negativo di questo punto centrale dell’eredità cesariana, contribuì anche a scoprire la forza militare di Antonio ai pericolosi confini orientali dell’impero. Inoltre la scena politica fatta da Antonio che preferì sistemare le zone di confine attraverso la creazione di un insieme di piccoli stati e monarchie dipendenti da Roma, piuttosto che annettere territori conquistati creando nuove province, poteva ingenerare non pochi sospetti. Ingiusti, se consideriamo che la creazione di stati cuscinetto era stata un sistema costantemente perseguito dai Romani : ma qui venivano a giocare altri fattori. In particolare il dubbio che Antonio fosse intenzionato a spostare in Oriente il cuore politico dell’impero era avvalorato, nel 32 a.C. , dal suo matrimonio con Cleopatra, conservata come regina dell’Egitto. Ad aggravare la posizione d’Antonio intervenne poi, in quello stesso anno, la pur illegittima pubblicazione del suo testamento da parte di Ottaviano. In esso si confermava infatti il sistema di piccoli stati orientali dipendenti da Roma , su cui venivano posti come sovrani locali i figli che Cleopatra aveva avuto, prima di Cesare e poi da lui. Nel frattempo Ottaviano, con l’aiuto determinante del suo più grande generale , Marco Vipsanio Agrippa, aveva rafforzato la sua posizione sconfiggendo , nel 36 a.C. il figlio di Pompeo, Sesto. Questi aveva avviato da tempo una guerra sul mare contro i nemici della plebe, bloccando con la sua agile flotta i commerci mediterranei e minacciando gli stessi porti italici. Contestualmente Ottaviano si era fatto attribuire dai comizi il contenuto della tribuncia potestas , senza peraltro assumerne la carica. Dieci anni dopo Filippi, al termine della relativamente lunga stagione di questa pace armata, nella sapiente strategia di Ottaviano erano ormai maturi i tempi per lo scontro finale. 
Ed egli , come al solito, seppe ben scegliere il momento e la scenografia, poiché possedeva una superiore capacità politica ; non fece guerre in prima persona , ma scelse buoni generali e grandi ministeri e con questa superiorità giunse allo scontro finale con Antonio. Forte di ciò , alla fine del 32, Ottaviano entrerà in guerra , non già con il romano Marco Antonio, ma con la regina d’Egitto , Cleopatra. Attirato con la sua flotta ad Azio, nell’estate del 31 a.C. , Antonio quasi non combatté, preferendo allontanarsi per raggiungere Cleopatra, che si era subito allontanata dallo scontro, con la sua flotta. Con questa sciagurata manovra egli perdeva buona parte delle sue navi e dei suoi soldati. In Egitto , ad Alessandria, ormai senza difesa, nel 30 a.C. Antonio e Cleopatra si uccisero al sopravvenire del vincitore. 
Si concluse allora la lunga stagione delle guerre civili, e la repubblica romana si spense con essa. La conseguenza della vittoria di Ottaviano fu la nascita del principato. CAPITOLO TREDICESIMO: AUGUSTO E LA COSTRUZIONE DI UN NUOVO MEDELLO POLITICO – ISTITUZIONALE 1.La sperimentazione di una forma politica Tornato a Roma padrone assoluto dell’impero finalmente riunificato, Ottaviano, doveva provvedere a dar veste formale al nuovo sistema di potere destinato ad assicurare il suo ruolo personale. La strada per la creazione del nuovo ordine politico costituzionale ebbe allora inizio, perseguita in un arco di tempo relativamente lungo. In un primo momento, negli anni immediatamente successivi alla sua definitiva vittoria su Marco Antonio e alla riunificazione di tutto il governo nelle sue mani, si protrasse sostanzialmente la situazione precedente, in un quadro di non grande chiarezza istituzionale. Esso si concluse pochi anni dopo Azio, nel 27 a.C. dopo che nell’anno precedente si era fatto rieleggere alla carica di console lo stesso Ottaviano con il suo fidatissimo Agrippa. Immediatamente di seguito egli assunse la funzione di princeps del senato al quale, dopo la crisi delle guerre civili, egli apparve restituire prestigio e ruoli. Nel gennaio di quell’anno, in due solenni sedute del senato, Ottaviano annunciò che finalmente l’opera di restaurazione della res publica era stata completata e che, pertanto , essa poteva riprendere a funzionare regolarmente. Si tratta delle Res Gestae, la memoria ufficiale e il bilancio del suo governo , da lui diffuse in tutto l’impero. Dove dunque scriveva, a proposito di questa svolta istituzionale, di avere sciolto la res publica dal suo potere e (d’averla) restituita alla volontà del senato e del popolo romano. E’ però vero che, anche dopo questa restituzione, egli restava titolare del consolato, princeps senatus e investito dei poteri della tribuncia potestas. Ma soprattutto , in riconoscimento di quanto da lui fatto, dal senato gli fu votato un insieme di oneri straordinari e di nuovi poteri. E’ allora che prese forma la progressiva innovazione dell’organizzazione istituzionale romana, con una sapiente combinazione delle antiche forme repubblicane e del suo potere personale basato soprattutto sul controllo della componente militare. Di qui l’importanza del conferimento a suo favore di un imperium, con il diretto comando di tutte le province non pacificate. Egli era qualificato come maius, sancendo una superiorità gerarchica del suo titolare nei riguardi di tutti i magistrati e gli altri titolari di imperium; questa sua posizione fu integrata anche da un diritto d’intervento per salvaguardare in generale ogni interesse pubblico, in seguito indicato da Plinio come omnium rerum potestas. Inoltre successivamente al 27 a.C. , Ottaviano non era più solo il princeps senatus, essendo ormai indicato come il princeps universorum: di tutti, che venne poi ulteriormente sottolineata dalla sua nuova designazione come Augustus, atta a collegarsi anche con la sfera religiosa. Egli in base all’adozione testamentaria di Cesare, aveva già assunto il prenome di questi : Imperator, a significare , insieme all’eredità politica del grande predecessore, la sua posizione eminente nella res publica e il fondamento militare del suo ruolo. Nel 23 a.C. si completò il percorso costituzionale di Augusto. Nell’agosto di quell’anno egli , infatti, rinunciò al consolato: carica che, in seguito avrebbe ricoperto solo altre due volte, evitando questa come ogni altra magistratura repubblicana.
Secondo questo stesso schema il carattere sacrosanto della sua persona, la possibilità di convocare i comizi e soprattutto il potere di veto contro ogni possibile iniziativa dei magistrati in carica gli derivava dalla tribunizia potestas, confermatagli ora in tutta la sua pienezza e a vita, senza però la titolatura della carica. Avendo inoltre acquisito lo ius agendi cum patri bus degli antichi magistrati com imperio, poteva convocare e presiedere il senato. A ciò si aggiungeva il diritto di modificare la decisione delle corti giudicanti nei processi criminali, aggiungendo il suo voto a quello dei loro componenti. 
In tal modo la costruzione augustea perfezionava e rafforzava ciò che era già stato avviato da Cesare, confermando la fine di quell’esiziale diversità tra ordinamento politico e potere militare che aveva sconvolto la tarda repubblica, almeno a partire da Mario. Ormai la catena di comando, appare concentrarsi una volta per tutte, nella figura del principe. Quasi ovvia conseguenza di questa sua peculiare situazione era il controllo da lui acquisito introno a ogni decisione circa la guerra e la pace, e sulla stipula dei tratti internazionali. Egli svolse l’attività censoria, ma non si deve sottovalutare il fatto che, in parallelo a questa sua assunzione delle funzioni censorie, egli ripristinasse proprio nel 22 a.C. la coppia ordinaria di censori nelle persone di due autorevoli senatori: Lucio Munazio Planco e Paolo Emilio Lepido.
In tal modo si venne perfezionando il compiuto disegno di un sistema di governo che conservava la forma della costituzione repubblicana, il senato anzitutto, i comizi, le antiche magistrature repubblicane, ma in cui la struttura portante dell’intera impalcatura delle istituzione era ormai fondata su un potere personale garantito dal diretto controllo dell’esercito e da un capillare e amplissimo potere d’intervento in tutte le sfere della politica e dell’amministrazione. Ora al vertice dello stato così restaurato si trova l’Imperator Caesar Augustus, nome che evoca la sua discendenza da Cesare, ormai assunto tra le divinità di Roma.
Augusto, nominato pontefice massimo, assolve alla necessaria ed esclusiva intermediazione tra la sfera divina e quella umana e sarebbe restato al potere sino al giorno della sua morte, nel 14 d.C. 2. Equilibri da salvaguardare Per placare i timori degli antichi Augusto eviterà costantemente le brusche accelerazioni che Cesare aveva tentato di dare alla complessa macchina politico istituzionale romana, salvando quanto più possibile delle istituzioni dell’antica res publica. A tal fine era indispensabile, soprattutto in una prima stagione di questa nuova fase politica, che le antiche istituzioni mantenessero un ruolo non semplicemente formale, anzitutto il senato. Augusto non amava tale corgano che, al momento dello scontro definitivo con Antonio, si era schierato contro di lui, e che aveva sostenuto i gruppi che avevano ucciso il padre adottivo, Gaio Giulio Cesare, per impedirgli d’affermare quel superiore potere che ora egli aveva realizzato. La strategia di Augusto si occupò dalla politica religiosa al controllo dei costumi, dall’influenza esercitata sugli orientamenti letterari e artistici dell’epoca, con un forte recupero della classicità e del passato, teso a conciliare la società romana con la nuova realtà. Egli fu pontefice massimo, e avvenne la solenne inaugurazione dell’Ara Pacis Augustae, a lui dedicata nel 9 a.C., a celebrare la definitiva pacificazione dell’impero. A evidenziare invece un almeno parziale svuotamento della costituzione repubblicana giocava la centralità dei due riferimenti divenuti i veri titoli di legittimità del nuovo potere: l’esercito e il popolo. L’imperium proconsolare e la tribunizia potestas, che avevano un ruolo determinante nella costruzione del nuovo sistema di potere, esprimono appunto questo speciale rapporto. Ne risaltava l’immagine di un governo fondato sul consenso popolare e sul supporto di un’armata di cui presto il grosso dell’organico avrebbe cessato di essere costituito da Romani e da Italici, per aprirsi anche ai sudditi delle province più profondamente romanizzate. Ma guardando solamente al’enorme potere personale nelle mani di Augusto, come avverrà per i suoi successori, si presumerebbe l’esistenza di una forma monarchica, cosa che non è affatto esatta. Insomma, il principe era titolare di un potere assolutamente sovrastante che metteva alla sua mercé qualsiasi cittadino, pur di rango elevato o appartenente al ceto senatorio, come qualsiasi magistrato in carica e ciò non poteva non ricondurre alle tradizioni monarchiche, ma a questo potere così espansivo e potenzialmente assoluto , molti limiti erano posti dalla persistenza dei vari blocchi sociali e in particolare dalla struttura stessa della società imperiale. La sua azione politica non mirava certo a intaccare il fondamento di quel mondo che egli intendeva controllare e consolidare, infatti il suo intento era di creare un equilibrio tra il vecchio sistema repubblicano e il nuovo dell’impero. Il ruolo di Augusto, regolato dall’attributo auctoritas, era quello di sorvegliare e perfezionare i processi decisionali degli altri organi di governo; per questo il titolare dell’auctoritas non è il sovrano ma il protettore. Per cogliere la fisionomia complessiva del principato di Augusto bisogna tenere conto della presenza di quel blocco politico che fu alla base della sua conquista del potere composto anzitutto all’importantissima figura di Livia, la sposa del princeps e incarnazione dell’antica matrona romana, e poi dai grandi collaboratori del principe: Agrippa, generale e uomo di governo, designato da Augusto come suo successore, Mecenate, l’autore di quella preziosa politica CAPITOLO QUATTORDICESIMO: UN’ARCHITETTURA DI GOVERNO 1. L’assetto istituzionale Augusto e i suoi successori non potevano dimenticare di essere al vertice di quella che era stata una semplice città e che tuttora, attrverso i suoi abitanti, restava la sede più immediata del consenso popolare essenziale al loro stesso potere. Di qui l’importanza del tutto particolare del loro diretto controllo della città, attuato con l’introduzione del praefectus urbi, a sua volta coadiuvato da altre figure minori. Le competenze del praefectus urbi si limitavano originariamente a funzioni di polizia e alla connessa sfera giurisdizionale, al di fuori del processo ordinario. Ben presto tale sfera si dilatò sino a ricomprendere la giurisdizione criminale entro le cento miglia di Roma, oltre che in Roma stessa. Malgrado il fatto che i titolari di tale ufficio fossero non solo di rango senatorio, ma scelti tra coloro che avessero gestito il consolato, i consulares, esso non poteva in alcun modo identificarsi con una magistratura tradizionale, essendone la nomina effettuata direttamente dal principe. Di contro la carica più elevata per il ceto dei cavalieri fu quella del prefetto al pretorio, al comando delle truppe scelte poste a presidio di Roma e, poi, dell’intera Italia peninsulare, con un trattamento economico privilegiato e con grandi opportunità di carriera nell’esercito. Anche il praefectus praetorio, nel corso del tempo, ampliò il suo ruolo, sino a esercitare un diretto controllo sul funzionamento amministrativo dell’Italia e , soprattutto , estendendo anche la competenza nel campo della giurisdizione, sotto l’immediato controllo del principe stesso. A ciò si aggiungevano altre funzioni nella repressione criminale, fuori di Roma e del territorio circostante. Ma soprattutto , sul piano più strettamente militare, il praefectus praetorio assunse progressivamente un generale ruolo di comando delle armate romane, accanto all’imperatore, quasi come un moderno capo di stato maggiore. Ben si comprende quindi la sua posizione di primo piano, soprattutto nel corso delle grandi campagne militari che lo videro sovente impegnato in prima fila, sul teatro delle operazioni, anche lontano da Roma e dall’Italia. In parallelo, in alcuni passaggi cruciali dei primis secoli del principato se ne accrebbe il peso politico, sino a che il praefectus praetorio finì con lo svolgere quasi una funzione vicaria dell’imperatore. Solo tenendo conto di quanto importante continuasse a essere, per il principe, la vita e la sicurezza di Roma, e avendo un’eguale consapevolezza delle particolarità dei meccanismi economici che presiedevano alla vita della società antiche, si può apprezzare l’importanza di un altro gruppo di funzioni attribuite ad Augusto ed ereditate poi dai suoi successori, relative al controllo dell’annona. Attraverso tale competenza era infatti salvaguardata l’esigenza di un costante e sicuro approvvigionamento di quell’enorme centro di consumi costituito dalla città di Roma, sulla cui rilevanza politica è addirittura inutile insistere. Un problema che, a sua volta, va inquadrato in un aspetto più generale che concerne il funzionamento dei mercati. In effetti nell’antichità , l’esistenza di una libera circolazione commerciale e di mercati autoregolantesi era limitata sempre dall’intervento della città o del sovrano. Esso infatti perseguiva l’obiettivo politico primario rappresentato da un’adeguata disponibilità di derrate alimentari per la popolazione, soprattutto urbana, e si sostanziava anche in un’attenta rilevazione dei prezzi di mercato, forse talora atta a sfociare in qualche forma di rudimentale controllo. Anche in questo caso Augusto e i suoi successori eserciteranno codeste competenze attraverso funzionari delegati : anzitutto il praefectus annonae, preposto appunto a tali funzioni, e anch’egli appartenente all’ordine equestre, con un rango inferiore solo agli altri due praefecti , praetorio e urbi. Sempre all’interno dell’amministrazione cittadina, seppure in posizione più subalterna, va infine ricordato un praefectus vigilum incaricato, con le sue cohortes vigilum, della prevenzione e della difesa della città dagli incendi. Accanto al praefectus urbi, di rango senatorio, si delineano dunque al vertice della nuova amministrazione centrale quattro carice di praefecti ( pretorio , annonae , vigilum e quella non meno importante dell’Egitto ) assegnate a membri dell’ordine equestre. Il che evidenzia gli effettivi equilibri sanciti dal principe tra i due ceti di governo. 2. Una rete amministrativa Ma le innovazioni perseguite da Augusto nella riorganizzazione del sistema amministrativo romano vanno al di là della sfera centrale di governo, per investire una ben più ampia e capillare articolazione del potere. 
In virtù delle sue funzioni censorie, il principe assunse, attraverso l’opera di una molteplicità di curatores, quasi tutti di rango equestre, la gestione e tutela dell’immenso patrimonio immobiliare e delle strutture materiali costituito da monumenti religiosi e pubblici ( affidati ai curatori medium sacrarum operum locorumque publicorum ), oltre che dalla splendida rete di vie, acquedotti pubblici, fognature e dalle altre strutture pubbliche esistenti in Roma e in Italia ( per cui erano competenti i curatori viarum , aquarum, alvei Tiberis et riparum et cloaca rum urbi e i curatores regionum in cui era stata ripartita la città : 14 regioni e 265 vici ). In parallelo molteplici altre incombenze di carattere amministrativo furono deferite a un insieme di procuratores. Già tale termine evoca l’origine privatistica della loro attività , modellata sullo schema di un mandato conferito da un soggetto a un altro per l’espletamento di un insieme di attività effettuate nell’interesse del primo. Uno schema diffuso proprio nell’ambito della gestione individuale dei patrimoni, delegata nei suoi vari settori, dal titolare a singoli procuratore. 
La < pubblicizzazione > di tale rapporto effettuata dal principe riflette una logica tipicamente romana, radicata nell’esperienza repubblicana, dove assai spesso il magistrato aveva svolto le sue funzioni pubbliche anche con strumenti propri della sua sfera privata : con l’ausilio cioè e con il lavoro dei suoi schiavi e dei suoi liberti. 
Anche ora questo supremo ed anomalo magistrato che è il princeps perseguì i suoi obiettivi al servizio della res publica e assolse alla molteplici funzioni mediante una delega conferita ai procuratores da lui preposti alle varie incombenze. Sotto i successori d’Augusto , definendosi meglio la fisionoma burocratica dell’apparato centrale, alla originaria preminenza dei liberti , subentrò un vertice amministrativo costituito dai procuratores Augusti , di rango equestre , e con un ruolo più elevato. Al di sotto di essi si collocarono poi, almeno per tutto il I secolo d.C. , una rete di altriprocuratores , costituiti , in un primo momento, da liberti imperiali. In seguito , a partire da Adriano, anche queste funzioni furono affidate essenzialmente a funzionari di rango equestre. Tale sistema fu generalizzato a tutti i settori d’interesse pubblico in cui rilevava una responsabilità di governo del principe : in primo luogo nell’amministrazione delle finanze. 
Infine, un campo di attività sempre più importante riguardò la gestione della complessa segreteria del principe ( retta da procuratores scriniorum ) e il coordinamento e la direzione dei vari uffici del governo centrale. Quest’ultima funzione fu possibile solo attraverso una fitta e costante rete di comunicazioni di cui resta ampia traccia , non solo nella raccolta delle costituzioni imperiali , ma anche nella ricca corrispondenza con Taiano di Plinio il Giovane, negli anni del suo governo della provincia di Bitinia. Gli uffici preposti a tali attività vennero affidata ad altri procuratores : ab epistulis Latinis , ab epistulis greci , a libellis.
Al vertice del sistema , furono in genere collocati funzionari scelti nel ceto equestre, sotto cui si venne poi articolando una rete di collaboratori minori, in genere costituiti da liberti imperiali. Tale presenza evidenzia quella confusione tra il governo dell’impero e l’amministrazione della domus privata del principe, attraverso la sua familia. In effetti, con tale organizzazione, Augusto e i suoi successori non facevano che perpetuare pratiche proprie dell’oligarchia tardo repubblicana. Ci si riferisce all’organizzazione economica e al funzionamento di un sistema anche molto complesso come poteva essere la gestione di un patrimonio e dell’insieme di persone appartenenti a livelli diversi, a un grande e potente clan familiare. Questa gestione, talora imponente anche per le dimensioni economiche e gli interessi coinvolti, aveva comprtato la formazione di vere e proprie burocrazie private alle dipendenze del pater familias e dei suoi più diretti collaboratori , eventualmente i figli o alcuni liberti ( quanto non addirittura schiavi ) di fiducia. Non a caso , nel trasferire queste pratiche private alle funzioni pubbliche, il settore in cui tale fenomeno si rese più evidente fu quello relativo agli aspetti finanziari. Qui il patrimonio privato dell’imperatore, la res privata, pur progressivamente inserito nel sistema delle finanze pubbliche , continuò a essere gestito secondo le logiche delle grandi signorie aristocratiche tardo repubblicane che, proprio sulla figura dei liberti oltre che degli schiavi, si erano fondate. 
Era questo uno degli aspetti di quell’ambigua configurazione istituzionale che caratterizzò il potere di Augusto . Ed è significativo infatti che, con il progressivo accentuarsi del carattere ufficiale del principe e con il conseguente mutamento di significato della sua sfera privata , divenuta ormai anch’essa un altro aspetto del suo ruolo pubblico, i liberti imperiali fossero sostituiti con quadri provenienti dal ceto equestre. 
Il nuovo sistema di governo aveva un carattere composito , funzionava sulla base di due logiche parallele e intersecantesi. Da una parte il sistema burocratico – amministrativo facente capo direttamente al principe, dall’altra l’azione delle vecchie istituzioni repubblicane, secondo quella logica di < dualismo squilibrato > . Uno < squilibrio > che si evidenzia invero ove si consideri il punto di riferimento dell’intero sistema. Giacché , sin da Augusto e sempre più in seguito, la vera e unica < cabina di comando> in cui confluiva l’enorme flusso d’informazioni provenienti da ogni regine dell’impero e da ogni ufficio amministrativo, a cui pervenivano le più varie richieste e quesiti di funzionari imperiali e di privati, dove delibere i più diversi problemi di governo era essenzialmente la figura del principe. Così come ogni impulso e direttiva, ogni decisione in merito alle varie richieste da lui proveniva. Di qui l’importanza degli uffici centrali , la rapida loro crescita di numero e di organici e, infine, la crescente formalizzazione ed uniformazione delle procedure da essi seguite. 
Il potenziamento degli uffici centrali di governo e il loro maggior coordinamento con il sistema periferico si riflesse anche su un particolare, ma importante, aspetto organizzativo. 
Ci si riferisce non solo al sistema di comunicazioni stradali, fluviali e marittime con il ricchissimo complesso di infrastrutture ad esse collegate e di cui gli apparati di governo avevano la responsabilità , solo in parte trasferita alle autorità locali. Non meno importante fu il funzionamento di quel cursus publicus un efficacissimo reticolo di supporti – stazioni di posta- , tappe per i rifornimenti ecc, -, che permetteva a chi ne poteva fruire di percorrere grandi distanze in tempi eccezionalmente veloci. Ad esso potevano accedere i messaggeri imperiali, e gli alti funzionari ed ufficiali in missione, oltre che, in virtù del rango, i membri dell’ordo senatorius. Tale cursus era già esistente in età repubblicana , ed ora passò sotto la responsabilità dei curatores e degli altri funzionari competenti. In effetti ,nel sistema imperiale romano, le comunicazioni tanto via terra che per mare non furono solo condizione per la vita del commercio e dell’economia, ma anche per il governo e la politica. 
L’ambiguità tra le antiche forme del governo e l’inovazione augustea si ritrova anche in un altro organismo destinato ad assumere particolare rilievo. In effetti sin dalla repubblica era stata prassi costante che i magistrati superiori e i pro magistrati in carica si avvalessero, sia per la loro azione di governo che nell’attività giurisdizionale, di un consilium, fatto di amici e di esperti. Nulla di nuovo quindi, salvo l’incomparabile posizione del princeps rispetto agli antichi magistrati repubblicani, che anch’egli si avvalesse di un organismo analogo. 
Il consilium principis sembra proittare anche nei tempi nuovi codesta tradizione , e , con essa, l’antico, impalpabile, ma reale elemento costituito dalla consorteria politica : alleanze personali , ma anche ereditarie, spirito di clan, dipendenza clientelare e scambio di benefici. Era stato questo il fondamento dei giochi politici nella repubblica e ora continuava ad opeare come sistema di relazioni sempre più accentuatamente intrecciato dal e intorno al principe. Nei primi tempi Augusto si limitò a valorizzare questo strumento per garantire i suoi rapporti col senato. Egli infatti si avvalse di un consilium di senatori per istruire e predisporre il materiale di particolare rilevanza politica che intendeva sottoporre al parere del senato. 
 Più incerta e labile è la presenza, allora e anche negli imperatori immediatamente successivi, di quel tipo di consilium che già i magistrati repubblicani avevano avuto, fatto di amici scelti in base alle loro competenze e alla lealtà politica, di carattere affatto privato e pertanto utilizzato nella misura e nelle forme che al principe parevano opportune. 
Comunque già con Tiberio risulta l’esistenza di un organismo siffatto , seppure negli anni della sua presenza in Roma. In seguito , specie dopo Claudio, esso venne prendendo maggiore consistenza, sino alla svolta intervenuta, anche in questo caso, con la grande opera di riorganizzazione di Adriano. Allora se ne precisò la composizione con due fondamentali elementi : anzitutto gli esponenti autorevoli del vertice del sistema del governo imperiale, in secondo luogo i migliori giuristi dell’epoca. Anche in seguito esso non perse comunque la sua antica fisionomia di organo privato , composto a < amici > del princeps, benché assai più evidente il suo ruolo La morte di Augusto, nel 14 d.C. fu seguita da complesse e mutevoli vicende. 
Tra gli immediati suoi successori, appartenenti alla famiglia si stagliano da un lato Tiberio, dall’altro Claudio. Drammatica appare, nel complesso, la vicenda del primo, designato alla successione di Augusto solo tardivamente. Figlio della potente moglie del principe, Livia, e terzo marito della figlia, Tiberio, legato agli antichi valori repubblicani di quell’aristocrazia guerriera cui apparteneva per nascita ed educazione, sembra aver esitato ad accettare il potere imperiale. E tuttavia, malgrado la sua intenzione di ridare spazio alle logiche repubblicane, valorizzando anzitutto il ruolo del senato, il corso degli avvenimenti e la sua stessa condotta portò a esiti opposti. Sotto il suo regno si accentuarono infatti gli aspetti autoritari del nuovo sistema di governo. Bravo generale e attento amministratore, Tiberio contribuì a risanare la difficile situazione finanziaria dell’impero e a consolidare la strategia militare già delineata da Augusto, rafforzando le frontiere esterne, i limes, e disarmando le provincie ormai pacificate. Più innovativo appare invece il governo di Claudio, con cui non solo si ebbe una ripresa dell’espansionismo territoriale con la conquista della parte meridionale della Gran Bretagna, ma si realizzò anche il primo significativo potenziamento della macchina amministrativa imperiale, in cui iniziarono a essere coinvolti i giuristi romani. Il senato subì una diminuzione di ruoli politici da un lato e un ampliamento delle funzioni legislative; i senatoconsulti si sostituirono infatti alle antiche leges. L’attenzione di claudio verso il governo diede vita anche alla prima persecuzione dei cristiani. 3. Il principato dei Flavi L’ascesa al potere di Vespasiano, a seguito di Nerone, segnava a sua volta una rottura importante con la precedente tradizione. Con lui si imponevano ora i valori tradizionali del mondo da cui proveniva l’imperatore, sapienza contadina, abitudine al risparmio e al duro lavoro, cautela e tenacia, dando una nuova fisionomia al governo imperiale. Il suo accanimento nel risanare e potenziare le finanze pubbliche è attestato da una prolungata lotta per recuperare all’erario quelle parti di terre pubbliche restate indivise ma fruite dalle varie comunità o dai privati; questa azione produsse un rilevante risultato, dando luogo alla complessiva ridefinizione delle strutture territoriali dell’impero. Alla piena integrazione italica, con Vespasiano, si accompagnò un salto in avanti dei processi di assimilazione delle popolazioni extraitaliche che portò alla rapida romanizzazione delle elitè provinciali, tant’è che, con la fine della dinastia Flavia, al governo imperiale sarebbe asceso il primo imperatore d’origine provinciale: Traiano. A ciò si collegava poi uno spostamento di ricchezze a Roma e in Italia a causa degli obblighi dei senatori d’investire parte delle loro ricchezze in terre pubbliche. Si corresse poi un particolare, meccanismo della strategia difensiva dell’impero; essa si era fondata sulla persistenza di un insieme di piccoli stati dipendenti, ma autonomi, ad ammortizzare in parte la pressione dall’esterno. Questa politica fu ora abbandonata, sostituita dalla generalizzata estensione del sistema provinciale, che inglobò tali staterelli. L’ancor limitato aggravio di spesa che queste innovazioni strategiche comportarono fu agevolmente sostenuto dall’accorta politica finanziaria di Vespasiano. Il nuovo assetto difensivo era destinato a un duro e quasi immediato collaudo sotto il regno del figlio di Vespasiano, Domiziano impegnando quest’ultimo in una serie di campagne ininterrotte sulle frontiere germaniche e a difesa della Mesia. In quell’occasione il nuovo principe aveva mostrato grandi capacità militari, che si sommarono alle sue indubbie qualità di amministratore. La morte di Domiziano segnava l’estinzione dei Flavi e ridava spazio al senato. Con questi ultimi imperatori si era perseguita una scenografia destinata a sottolineare la semplicità della vita del principe, anche nelle sue relazioni sociali, ma il principio dinastico non divenne mai totalmente dominante a causa del persistente peso del senato, confermato ancora dall’ascesa dei Nerva. 4.Il governo dei migliori e la configurazione del potere imperiale La successione imperiale, in quasi tutto il secondo secolo, venne rappresentata dalla designazione dei più meritevoli, infatti nella linea successiva che va da Nerva, Traiano, Adriano, Antonino Pio fino a Marco Aurelio, non intervenne un rapporto di parentela se non con la finzione costituita dal meccanismo dell’adozione. Importante fu il principato di Traiano, per la rinnovata immagine di forza associata ai suoi successi militari; allora si ebbe infatti l’ultima stagione di conquiste con l’acquisizione della Dacia, ma neppure sotto costui i romani riuscirono a ottenere una vittoria contro i Parti. Il suo successore, Adriano, preferì tornare alla tradizionale politica di consolidamento dei limes romani, ripercorrendo tutte le province dell’impero e stimolandone lo sviluppo urbano e sociale (è opera sua la precisa definizione dei tipi di carriera e di retribuzioni dei vari funzionari). Sotto la guida di Antonino Pio e Marco Aurelio invece, il governo centrale, non avrebbe conosciuto grande innovazioni: si trattò dell’ultima fase alta dell’impero, prima che gravi difficoltà modificassero la condizione complessiva. In questo impero era ormai definitivo il bilinguismo, in cui il latino e il greco erano le lingue ufficiali. Negli ultimi anni di Marco Aurelio la sanguinosa ultima battaglia contro i Parti portò nell’impero romano una gravissima pestilenza che sterminò interi territori; la crisi demografica e i problemi derivanti da tale malattia contribuirono alla nascita di una grave crisi economica. Finita la dinastia di questo, terminò con lui il meccanismo di successione per adozione, poiché passo il potere al figlio Commodo, il quale durò molto poco a causa della sua incapacità governativa e del successivo assassinio. Ciò permise l’ascesa al potere di Settimio Severo, con cui si concluse il lungo percorso iniziato da Augusto per delineare la forma di quello che noi chiamiamo stato. Qui il diritto aveva plasmato integralmente la grande architettura imperiale, ma vi era ancora una mancata distinzione tra governo e amminstrazone che rallentava lo sviluppo di una vera burocrazia; l’altro ostacolo era costituito dall’architettura stessa di un impero basato proprio sull’autonomia delle città, che era in contrasto con il governo centralizzato per altri specifici settori. Uno degli aspetti innovativi che vanno associati al governo del principe, fu la sua laicità, la quale rese la comunità sociale artefice del proprio destino. CAPITOLO SEDICESIMO: UN IMPERO DI CITTÀ 1. Il sistema municipale Con il riassetto organizzativo del sistema imperiale romano avviato da Cesare e definito da Augusto, il territorio italiano era stato suddiviso in undici regioni, per fisi essenzialmente amministrativi. Per la prima parte del principato ci gu una certa tendenza del governo centrale a esercitare un capillare controllo sulle varie amministrazioni locali, ma dall’età degli antonini in poi venne lasciata alle varie province una vasta autonomia di gestione, che risultò vantaggiosa nel funzionamento del governo imperiale. Nelle varie province romane, anche dopo l’estensione della cittadinanza a tutti gli italici, restò la distinzione tra municipio e colonia, tra cui il primo ha maggiore superiorità. I cittadini delle colonie romane possedevano diritti civili e politici (ius italicum), mentre le colonie latine godevano solo dei diritti civili; i municipi erano invece città preesistenti con autonomia amministrativa ma obbligo di versare tributi e fornire contingenti militari a Roma. Le città provinciali denominate civitates foederatae non vennero modificate rispetto alla loro condizione precedente alla conquista, ma vennero da Roma legate con un trattato di sovranità tollerata (non del tutto politicamente indipendenti). Ad un livello meno elevato di prestigio di autonomia provinciale, si collocano le civitates liberae et immunes, a loro volta in migliore condizione delle liberae, in quanto esonerate da obblighi fiscali verso Roma. I nuovi governatori al loro insediamento emanavano un edictum contenente i criteri di governo della provincia, relativi all’attività amministrativa e giurisdizonale di propria competenza. 2. Diritto romano e diritti locali nel mondo provinciale Nel corso del principato il termine peregrinus aveva cessato di indicare una comunità estranea all’ordinamento romano, designandone piuttosto una componente periferica, come i sudditi provinciali. Di questi peregrini se ne trovavano diverse categorie: - sudditi non organizzati in forma di civitates e direttamente dipendenti dal governatore romano - abitanti delle civitas stipendiarie, soggette alla fiscalità romana ma possedenti una propria identità istituzionale e autonomia amministrativa - sudditi delle civitates foederatae e delle sine foedere liberae che vivevano secondo gli statuti cittadini – abitanti di città a cui era stata concessa la condizione di colonia o municipio Questi nuovi cittadini romani, nei rapporti con i romani avrebbero fruito del diritto romano e dei tribunali romani, mentre nei loro rapporti con i concittadini dovevano restare soggetti al diritto locale ed essere giudicati da tribunali locali. Il diritto romano con il passare del tempo e le varie conquiste continuava ad ampliarsi e completarsi, diventando sempre maggiormente difficile da conoscere in maniera totale. Perciò con Augusto nacque la figura del ius respondendi che assicurava una selezione delle opinioni più significative e vincolanti rispetto alle migliaia che si venivano ora a formare. 3. La naturale conclusione di una lunga vicenda Nel 212 d.C. nacque la Constitutio Antoniniana che prende il nome da Antonino Caracalla, l’imperatore che l’aveva promulgata; con essa si estendeva a tutti, o quasi, i sudditi dell’impero la cittadinanza romana, concludendo un processo in corso da tanto tempo. Il venir meno della separazione formale tra cittadini e non dovette rendere più permeabili le forme romane alle pratiche locali, ma ciò non attenuò le differenziazioni sociali, anzi, nel corso del II secolo era nata una rigida distinzione in due categorie dell’intera popolazione dell’impero: gli honestiores e gli humiliores. Il loro diverso rango comportava notevoli diversità sotto il profilo giuridico e in particolare in ambito processuale e nel sistema della repressione criminale, essendo i secondi, sottoponibili alla tortura. 4. La crisi del III secolo La crisi avviatasi con la pestilenza e la crisi economia nell’ultimo periodo di Marco Aurelio si aggravò nel cinquantennio che va dalla morte di Severo Alessandro (235 d.C.) all’ascesa di Diocleziano (284 d.C.), sia sotto il profilo politico che militare. Gli aspetti più vistosi furono le crescenti difficoltà di difesa delle frontiere imperiali e un pericoloso indebolimento del governo centrale per il susseguirsi di una serie di imperatori-soldati la cui caduta fu ancora più rapida della nomina. Un altro fattore di crisi a livello regionale fu l’insorgenza di fenomeni centrifughi che minacciavano l’unità dell’impero, causati dalla continua ribellione delle varie armate romane con l’acclamazione di nuovi imperatori; ciò dette luogo alla formazione di veri e propri regni separati, tali da comprendere interi raggruppamenti di province. In questa fase difficile della vita dell’impero inoltre, la persecuzione del nuovo culto cristiano, sotto i due imperatori Decio (250-251) e Valeriano (257-260) ebbe un sostanziale progresso. CAPITOLO DICIASSETTE: IL DIRITTO DEL PRINCIPE 1. Il “ius respondendi” e il nuovo ruolo della giurisprudenza Augusto conferì ad alcuni tra i più importanti giuristi del ordo senatorio un ius respondendi ex auctoritate principis (diritto di dare responsa in base all’autorità del principe). Il parere di uno di questi Uno dei più importanti di questi elementi di continuità fu sicuramente il diritto romano; dopo i Severi non è più ricordato nessun nome di giurista, e a causa di ciò la possibilità di riallacciarsi alle tradizioni della giurisprudenza dei secoli precedenti poneva problemi insuperabili. A rendere ancora più ardui i problemi che si delineavano nel sistema tardo imperiale, si ponevano anche gli sviluppi di tipo consuetudinario che la vita giuridica aveva conosciuto nelle varie parti dell’impero, con un impoverimento delle forme classiche. Questo spiega perché a partire dalla seconda metà del III secolo, si siano moltiplicate le raccolte e antologie di frammenti di giuristi antichi e soprattutto di epitomi (sintesi abbreviate e semplificate di testi classici). Il manuale istituzionale che ebbe la massima rilevanza fu quello delle Institutiones, redatte da Gaio, un giurista del II secolo; accanto a lui fu particolarmente sfruttato anche Papiniano, seguito da Paolo, Ulpiano e Modestino. Inoltre tra le prime opere importanti che si ricordano in questa nuova fase, emergono due raccolte private delle antiche costituzioni imperiali effettuate sotto Diocleziano: il Codice Gregoriano e il Codice Ermogeniano. I ridotti orizzonti della scienza del IV secolo costituirono la premessa per la formalizzazione definitiva di tale processo, rappresentata dalla cosiddetta legge delle citazioni. Essa consiste in una direttiva imperiale contenuta in una costituzione promulgata nel 246 d.C., in occidente, da Valentiniano III che vincolava avvocati e giudici a utilizzare le opere dei più importanti giuristi dell’epoca classica sopra citati. Tra la fine del 438 e gli inizi del 439 il nuovo Codice Teodosiano entrò in vigore per autorità di Teodosio II, nella parte orientale, e in occidente ad opera di Valentiniano III. Il codice è diviso in sedici libri e ogni libro è suddiviso in titoli che comprendono una pluralità di frammenti tratti dalle varie costituzioni imperiali. Questo codice non sostituiva ma integrava le vecchie raccolte costituite dai due precedenti codici Gregoriano e Ermogeniano, e in esso non erano contenute solo costituzioni relative al diritto privato ma anche all’organizzazione dell’apparato pubblico, al funzionamento dei vari uffici imperiali e al diritto criminale. 3. L’opera di Giustiniano Quando, nel 527, Giustiniano ascese in Costantinopoli al trono imperiale, la parte occidentale dell’impero si era già dissolta da tempo. Grazie ai suoi grandi generali, gli fu possibile strappare l’Italia al dominio dei Goti. Una delle opere principali di questo imperatore fu la ripresa della tradizione giuridica romana, infatti senza di lui quasi tutto il materiale prodotto da quest’ultima si sarebbe dissolto nel nulla. Giustiniano si riproponeva uno scopo pratico, quello di dare un quadro completo della legislazione imperiale ancora valida, modificando e completando le antiche costituzioni per adeguarli al tenore del diritto vigente dando vita ad un nuovo testo. In un arco di tempo assai breve l’opera fu compiuta, talchè il 15 dicembre 530 venne pubblicata la nuova costituzione Deo auctore; nel corso dei tre anni successivi venne completata da Giustiniano, il quale nel 533 pubblicò il Digesto. Questo consisteva in 50 libri, ciascuno di essi diviso poi in titoli che concernevano uno specifico argomento. A completare il progetto giustineaneo si colloca infine la redazione di un’opera didattica che introducesse allo studio del diritto nelle varie scuole giuridiche, sostituendosi alle antiche istituzioni di Gaio: le Istituzioni. Queste si compongono di 4 libri; il primo tratta del diritto delle persone, il secondo della proprietà e dei diritti reali, il terzo dei contratti e delle obbligazioni e il qaurto, oltre che delle obbligazioni per fatto illecito, delle procedure giudiziali. Appena terminati Digesto e Istituzioni l’imperatore invitò Triboniano e Doroteo ad aggiornare il codice, facendo sì che nacque il Corpus Iuris Civilis. Questo nuovo codex è suddiviso in dodici libri, ciascuno di essi suddiviso in titoli, ed era stata redatta in latino (lingua di Roma e dei giuristi nell’età del principato, anche se al momento della pubblicazione Roma non esisteva più). Il nuovo codice di Giustiniano venne tutta via dimenticato; in occidente la rifioritura del Corpus Iuris Civilis coincide con il periodo dell’alto medioevo, poiché venne studiato nelle nuove istituzioni del tempo, le università.
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