Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Riassunto di "Elementi di diritto dell'Unione europea", Sintesi del corso di Diritto dell'Unione Europea

Riassunto completo del libro "Elementi di diritto dell'Unione Europea. Parte istituzionale. Ordinamento e struttura dell'Unione Europea" settima edizione (2022) per il corso di diritto dell'Unione europea con la professoressa Lang.

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

In vendita dal 02/06/2023

alice_moretti_
alice_moretti_ 🇮🇹

4.7

(26)

22 documenti

1 / 64

Toggle sidebar

Spesso scaricati insieme


Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica Riassunto di "Elementi di diritto dell'Unione europea" e più Sintesi del corso in PDF di Diritto dell'Unione Europea solo su Docsity! Elementi di diritto dell’Unione europea Capitolo 1: origini e sviluppo dell’integrazione europea 1. Le spinte europeistiche del secondo dopoguerra e la nascita della CECA L’Ue nasce in un primo momento dal bisogno di ricostituire le economie abbattute dalla guerra e proteggersi dall’imperialismo sovietico. Sotto il primo profilo, va ricordato che gli Stati Uniti avevano approvato nel 1947 il Piano Marshall, e lo avevano condizionato ad una gestione congiunta da parte degli altri Stati Europei. Tale gestione fu concretizzata attraverso l’istituzione della Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE), a cui presero parte 16 Stati europei → che poi diventò poi l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE). Sotto il secondo profilo, l’espansionismo sovietico mostrava in quegli anni tutta la sua pericolosità. Come risposta all’imperialismo comunista, fu istituita la NATO (Organizzazione del Patto dell’Atlantico del Nord), mentre dal 1947 un patto comune di difesa (essenzialmente però in funzione antitedesca) legava Francia e Regno Unito. Tale patto, fu poi esteso nel 1948 a Belgio, Olanda e Lussemburgo (Trattato di Bruxelles). Esso doveva poi divenire l’Unione dell’Europa occidentale (UEO) con l’adesione nel 1954 di Germania e Italia e successivamente altri Stati. Aldilà del campo economico e militare, nel 1949 veniva istituito il Consiglio d’Europa, un’organizzazione internazionale aperta a tutti gli Stati europei che si sentivano accomunati dagli ideali di democrazia e libertà. Vale la pena ricordare al riguardo la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata nel 1950. In risposta alle iniziative occidentali, il fronte orientale istituì il Consiglio di mutua assistenza economica ed il Patto di Varsavia (come risposta alla NATO), ma furono entrambe disciolte a seguito della caduta del muro di Berlino e del crollo dell’impero sovietico. Il limite di tutte queste forme di organizzazione internazionale era quello di essere improntate al metodo intergovernativo: ciò significa che i componenti degli Stati membri decidevano sulla base dell’unanimità e non potevano emettere atti vincolanti per gli Stati, né tantomeno per gli individui. Per fortuna, l’Europa poteva contare in quel periodo sui “Padri fondatori”: personalità di spicco e lungimiranti statisti come Schuman, Adenauer, De Gasperi, Spaak, ai quali apparve ben presto chiaro che era necessario creare delle strutture in grado di operare con il metodo comunitario; esso si caratterizza per l’adozione di decisioni prevalentemente a maggioranza e per la possibilità di emettere atti vincolanti non solo per gli Stati ma anche direttamente per gli individui. Il primo passo verso il raggiungimento di tale obiettivo fu il rimuovere una delle cause del secolare conflitto tra Francia e Germania: il controllo delle risorse carbosiderurgiche della Ruhr e dalle Saar. Il Piano Schuman del 1950 , a questo proposito sottopone il controllo della produzione carbosiderurgica ad un’Alta Autorità. La dichiarazione di Schuman chiariva che le decisioni dell’Alta autorità sarebbero state vincolanti per tutti gli stati membri (oltre che per Francia e Germania) e inoltre, si precisava che la proposta era intesa a gettare le basi dell’unificazione economica. I “Sei” (FR, DE, IT, BENELUX) firmarono quindi a Parigi il Trattato della CECA (Comunità europea del carbone e dell’acciaio) il 18 aprile 1951. Il trattato presentava dei caratteri di assoluta novità ed ebbe una durata di cinquanta anni, infatti ha cessato di esistere nel 2002 e le sue attività vennero trasferite alla Comunità europea. 2. Dalla CECA ai Trattati di Roma: nascita di CEE e CEEA Sull’onda del successo della CECA, venne negoziato e firmato anche il Trattato istitutivo della Comunità europea di difesa (CED), che si proponeva in sostanza la creazione di un esercito europeo. Tuttavia, il processo di ratifica del trattato subì un brusco arresto, in quanto l’Assemblea nazionale francese decise di non prendere parte alla discussione del Trattato. A seguito del fallimento della CED riprese vigore l’idea del funzionalismo economico, secondo cui era necessario procedere ad un’integrazione graduale delle economie per poter porre le basi di un’unione politica. Il rapporto Spaak, elaborava a questo proposito uno studio volto all’introduzione di un mercato comune generale nel cui ambito dovessero poter circolare liberamente merci, persone, servizi e capitali. I governi dei Sei approvarono il rapporto Spaak, così Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo e Olanda firmarono in forma solenne a Roma il 25 aprile 1957 sia il Trattato istitutivo della Comunità economica europea (CEE), che il trattato istitutivo della Comunità europea dell’energia atomica (CEEA). Si fa comunemente riferimento a questi trattati come Trattati di Roma. Anche in quest’occasione il Regno Unito rifiutò di partecipare ai negoziati. La vocazione atlantica del Regno Unito infatti, lo facevano propendere per soluzioni meno impegnative, inducendolo a preferire una zona di libero scambio ad un’unione doganale. In coerenza con queste premesse, il Regno Unito pochi anni dopo promuoveva la creazione di una zona di libero scambio, con la relativa istituzione della European Free Trade Association (EFTA). L’EFTA prevede la graduale soppressione tra gli stati membri delle barriere doganali, ma non era espressamente concepita in funzione anti-CEE; ma incarnava tuttavia la diversa concezione propugnata dal Regno Unito del livello di integrazione economica. Attualmente gli Stati membri dell’EFTA sono solo Norvegia, Islanda, Liechtenstein e Svizzera. Quanto ai Trattati di Roma, la prima Comunità ha visto il suo nome modificarsi in Comunità Europea (CE) e successivamente in Unione Europea (UE). Tali mutamenti del nome sono anche la conseguenza dell’allargamento delle competenze dell’organizzazione a campi diversi da quello strettamente economico. 3. Le norme relative alla revisione dei Trattati L’art. 48 TUE (Trattato sull’Unione Europea) prevede una procedura di revisione ordinaria e due procedure di revisione semplificate. ● La procedura di revisione ordinaria inizia con un progetto di modifica dei Trattati che può essere presentato dal governo di qualsiasi Stato membro, il quale lo trasmette al Consiglio europeo e lo notifica ai Parlamenti nazionali degli Stati membri. Il consiglio europeo, al ricevimento del progetto di modifica, decide a maggioranza semplice sull’opportunità di procedere all’esame delle modifiche proposte. Tale decisione deve essere adottata previa consultazione del Parlamento europeo e della Commissione (nonché della BCE in caso di modifiche istituzionali che riguardino il settore monetario). In caso di decisione favorevole del Consiglio europeo, il Presidente di quest’ultimo convoca una Convenzione composta da rappresentanti dei capi di Stato o di governo degli Stati membri. Il coinvolgimento della Convenzione permette che, almeno nella fase preparatoria, alla modifica dei Trattati contribuiscano forme di rappresentanza democratica dei cittadini. Va precisato però che il Consiglio europeo non è obbligato a convocare una Convenzione qualora non fosse necessario. La Convenzione adotta una raccomandazione rivolta ad una conferenza dei rappresentanti dei governi degli Stati membri (CIG, acronimo di conferenza intergovernativa), incaricata di stabilire “di comune accordo”, e dunque all’unanimità, le modifiche da apportare eventualmente ai Trattati. Le modifiche ai Trattati entrano in vigore dopo essere state ratificate da tutti gli Stati membri. La procedura di revisione ordinaria sembra poter riguardare qualsiasi norma degli stessi, in particolare possono essere tese “ad accrescere o ridurre le competenze”. ● L’art. 48 TUE prevede anche due procedure di revisione semplificate, caratterizzate dal fatto che non contemplano né la convocazione di una Convenzione, né di una CIG, e che il Consiglio Europeo (in cui sono presenti i capi di stato degli stati membri) vi svolge un ruolo preminente. ○ La prima di tali procedure può solo riguardare le norme relative alle politiche e alle azioni interne dell’UE (Parte Terza del TFUE). Le modifiche che possono essere sottoposte a questa procedura sono adottate (su proposta di qualsiasi stato membro) dal Consiglio europeo che delibera all’unanimità, previa consultazione di Parlamento, Commissione e nel caso Bce. La decisione del Consiglio entra però in vigore “previa approvazione degli Stati membri conformemente alle rispettive norme costituzionali”. ○ La seconda procedura di revisione semplificata prevede due casi distinti. Il primo caso riguarda la possibilità di sostituire il requisito dell’unanimità con quello della maggioranza qualificata per quanto riguarda le decisioni che il Consiglio può prendere solo relativamente all’azione esterna dell’UE e, in particolare, alla politica estera e di sicurezza comune. Il secondo caso riguarda la possibilità, laddove il TFUE prevede che il Consiglio adotti atti legislativi secondo una procedura legislativa speciale, di sostituire tale procedura con la procedura legislativa ordinaria. In entrambi i casi, la relativa modifica del TFUE può essere verificate in Germania e Repubblica Ceca. Il trattato è però entrato in vigore nel 2009. Il Trattato di Lisbona elimina ogni riferimento ad una Costituzione, né riformula in un testo unico i Trattati precedenti. Per il trattato CE la modifica riguarda anche il nome, che viene cambiato in TFUE (Trattato sul funzionamento dell’Unione europea). Scompare il termine “Comunità europea” e “comunitario”. L’impressione che ne risulta è quella di una diffidenza generalizzata nei confronti del processo di integrazione europea. 7. Le norme relative all’ammissione di nuovi stati e l’evoluzione della membership UE L’art. 49, co.1, TUE dispone che ogni Stato “europeo” può domandare di diventare membro dell’Unione a condizione che rispetti i valori di cui all’art.2 del TUE e si impegni a promuoverli: rispetto della dignità umana, della libertà, democrazia, uguaglianza, rispetto dei diritti umani... La domanda di ammissione è trasmessa dallo Stato richiedente al Consiglio, che, al riguardo si pronuncia all’unanimità. Quindi ciascuno degli stati membri deve essere d’accordo a che un nuovo Stato venga ammesso. Il TUE specifica che bisogna tener conto dei criteri di ammissibilità, con riferimento ai criteri politici, economici e giuridici (detti criteri di Copenaghen). - Il criterio politico riguarda il raggiungimento, da parte dello Stato candidato di una stabilità istituzionale che garantisca la democrazia, i diritti umani, il rispetto e la protezione delle minoranze.... - Il criterio economico riguarda l’esistenza di un’economia di mercato funzionante, nonché la capacità di rispondere alle forze di mercato all’interno dell’UE. - Il criterio giuridico riguarda la capacità di assumersi gli obblighi derivanti dall’appartenenza all’UE. La verifica del rispetto di tali criteri viene effettuata, per prassi, durante la fase di pre-adesione (fase interna). L’ingresso del nuovo Stato però può aver luogo solo dopo che sia stato concluso un accordo tra il nuovo Stato e gli Stati già membri (fase esterna). Il Parlamento europeo prevede che il progetto di accordo debba essere sottoposto alla sua approvazione prima della firma. La procedura è considerata, dal punto di vista tecnico, una procedura d’ammissione, in quanto prevede che gli Stati già membri si pronuncino in merito ad una richiesta da parte di uno Stato terzo; nonostante ciò nei test si fa uso, in modo improprio, del termine adesione. Fin dall’inizio il successo delle Comunità europee ha attratto nuove candidature. Lo stesso Regno Unito presentò richiesta di ammissione nel 1961; ma tale richiesta incontrò l’opposizione della Francia di De Gaulle, il quale, da una parte, vedeva nel Regno Unito un potenziale ostacolo alle mire francesi ad una leadership europea, dall’altra non si fidava dell’europeismo di quello Stato che vedeva come il cavallo di Troia attraverso il quale gli Stati Uniti avrebbero esteso la loro egemonia all’Europa. Per dieci anni il veto gollista tenne il Regno Unito fuori dalle Comunità europee. Nel 1967 il Regno Unito ripresentò la propria candidatura, seguita da quella danese, irlandese e norvegese. Un referendum norvegese bloccò però il processo di ratifica, per cui furono ammesse nel 1973 solo Regno Unito, Irlanda e Danimarca. Il decimo Stato ad entrare a far parte delle Comunità europee è stata la Grecia. Successivamente, con l’ingresso di Spagna e Portogallo, le Comunità raggiunsero il numero di dodici membri. Non è stato, invece, necessario procedere all’ammissione per la Repubblica democratica tedesca, in quanto nel 1990 si è riunificata con la Repubblica federale tedesca. I capi di Stati e di governo delle comunità hanno infatti riconosciuto l’ampliamento del territorio comunitario. Nel 1995 entrarono a fare parte dell’UE anche Austria, Finlandia e Svezia, mentre i cittadini norvegese, ancora una volta si sono pronunciati per il “no”. Il maggiore allargamento ha riguardato dieci Stati: Cipro, Estonia, Lituania, Lettonia, Malta, Polonia, Slovacchia, Slovenia, Repubblica Ceca e Ungheria. L’UE è poi passata 27 Stati con l’ammissione di Bulgaria e Romania e infine a 28 con la Croazia. Nello specifico, si prevede un periodo transitorio concesso ai nuovi Stati per adattarsi alla normativa preesistente. Attualmente, è riconosciuto lo status di Paesi candidati ad Albania, ex Repubblica jugoslava di Macedonia, Montenegro, Serbia e Turchia. In parallelo con le difficoltà sperimentate con il processo di integrazione, ci si è cominciati a porre il problema della effettiva capacità di assorbimento da parte dell’UE. 8. La disciplina del recesso dall’UE e la Brexit All’articolo che disciplina l’ammissione nell’UE di nuovi Stati membri il TUE ne fa seguire subito un altro che prevede l’ipotesi del recesso dall’UE di uno Stato già membro, e che rappresenta una delle più importanti novità introdotte dal Trattato di Lisbona. L’art.50 TUE riconosce espressamente il diritto di recesso di qualsiasi membro dell’UE, in qualsiasi momento, senza necessità di addurre particolari motivazioni e senza bisogno di assenso degli altri Stati membri. Le uniche formalità consistono nel requisito di una notifica al Consiglio europeo, cui fa seguito un negoziato tra l’UE e lo Stato, volto a raggiungere un accordo sulle modalità di recesso. Spetta al Consiglio europeo formulare gli orientamenti per tale negoziato, ovviamente senza che lo Stato recedente possa ovviamente partecipare. L’art. 50 TUE considera anche l’ipotesi che l’UE e lo stato recedente non riescano a concludere l’accordo di recesso. Esso infatti dispone che i Trattati cessino di applicarsi a tale Stato “due anni dopo la notifica” (termine prorogabile con decisione unanime del Consiglio europeo). La procedura prevista dall’art. 50 è stata adottata per la prima volta dal Regno Unito, che a seguito del referendum del 23 Giugno 2016, che ha visto prevalere i sostenitori della c.d. Brexit (circa 52%), ha notificato la propria intenzione di recedere dall’UE nel 2017. A seguito di tale notifica, il Consiglio europeo ha adottato gli orientamenti relativi ai negoziati dell’accordo di recesso. È stato poi il Consiglio a designare la Commissione come negoziatore dell’accordo da parte dell’UE. Nonostante una prima versione dell’accordo fosse già stato concordato prima della fine del 2018, il Consiglio europeo ha dovuto prorogare per ben tre volte il termine fissato per il recesso. L’Accordo sul recesso del Regno Unito dall’UE alla fine è stato firmato il 24 gennaio 2020 ed è entrato in vigore il 1° febbraio 2020. - Le principali questioni disciplinate attengono alla salvaguardia dei cittadini di ciascuna delle due parti, liquidazione degli impegni finanziari, confine tra Irlanda e Irlanda del Nord. - È stato previsto, fino al 31 dicembre 2020, un periodo transitorio per poter condurre ulteriori negoziati per regolare i futuri rapporti tra UK e UE → Accordo sugli scambi commerciali e la cooperazione, firmato il 30 dicembre 2020. Tra le diverse questioni non chiarite ha suscitato un ampio dibattito quella relativa alla possibilità di uno Stato membro di revocare la propria notifica di recesso. La Corte di giustizia ha ritenuto che il carattere sovrano del diritto di recesso deponga a favore dell’esistenza di un analogo diritto dello stato membro interessato di revocare unilateralmente la notifica di recesso, fintantoché non sia entrato in vigore l’accordo di recesso. 9. Le vicende successive a Lisbona e le prospettive future dell’integrazione europea La Brexit rappresenta solo uno dei fronti di crisi che hanno contrassegnato l’ultimo decennio di vita dell’UE. Gli anni successivi al Trattato di Lisbona sono stati caratterizzati dalla crisi finanziaria ed economica originatasi negli Stati Uniti già nel 2007-2008, mettendo in luce il carattere incompleto dell’unione economica e monetaria. A partire dal 2015 si è verificata anche la crisi migratoria, determinata da crescenti flussi di richiedenti asilo e di migranti economici provenienti dal Medio Oriente e dall’Africa. Più di recente l’UE ha dovuto fronteggiare la gravissima crisi sanitaria, economica e sociale determinata dalla pandemia Covid-19. Infine il 24 febbraio 2022 ha avuto inizio l’aggressione all'Ucraina da parte della Russia. ➔ Per far fronte alla crisi finanziaria, il Consiglio europeo ha adottato all’unanimità la decisione di aggiungere all’art.136 TFUE un nuovo paragrafo, che afferma che “gli Stati membri la cui moneta è l’euro possono istituire un meccanismo di stabilità da attivare ove indispensabile per salvaguardare la stabilità della zona euro...”. Il meccanismo in questione è stato creato dagli Stati membri della zona euro mediante il Trattato che istituisce il meccanismo europeo di stabilità (MES) firmato il 2 febbraio 2012 ed entrato in vigore a novembre. Il MES è un’istituzione finanziaria internazionale con sede a Lussemburgo, il cui obiettivo è quello di “mobilizzare risorse finanziarie e fornire un sostegno alla stabilità”. Inoltre, 25 degli allora 27 Stati membri hanno firmato il Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance dell’unione economica e monetaria (noto anche come Fiscal Compact), entrato in vigore il 1° gennaio 2013. Questo trattato obbliga le parti contraenti a introdurre nel proprio ordinamento il principio del pareggio di bilancio. ➔ Per far fronte alla crisi migratoria è stata adottata, non dall’UE ma dagli stati membri, la Dichiarazione UE-Turchia del 2016. Per altro verso, le decisioni di ricollocazione di un certo numero di richiedenti asilo, a beneficio di Italia e Grecia, hanno ricevuto limitata applicazione, manifestando così la difficoltà di dare effettiva attuazione a quel principio di solidarietà tra gli Stati membri in materia di asilo e immigrazione. ➔ La risposta alla pandemia di Covid-19 è stata sicuramente improntata a uno spirito di maggior solidarietà → approvazione del piano di sostegno economico Next Generation UE (detto anche Recovery Fund), che ammonta complessivamente a 750 miliardi di euro. Le risorse vengono indirizzate agli Stati membri sotto forma di sovvenzioni o prestiti, soprattutto attraverso il dispositivo per la ripresa e la resilienza → il cui accesso è subordinato all’approvazione del PNRR presentato da ciascuno stato membro. ➔ L’impatto di Next Generation UE rischia però di essere attenuato dalle gravi implicazioni della guerra in corso in Ucraina. A fronte di queste vicende, bisogna ammettere che l'UE si trova oggi di fronte a un bivio: una prima opzione è il mantenimento dello status quo, ovvero di una politica perseguita facendo bene attenzione a che nessuna mossa implichi sostanziali rinunce di sovranità da parte degli Stati membri. In questo caso, l’UE procederà con fatica e, molto probabilmente, si rafforzerà la propensione ad agire attraverso il metodo intergovernativo anziché quello comunitario, in sintonia con la riaffermazione degli interessi nazionali percepiti come prioritari rispetto all’interesse comune. Se questa sarà l’alternativa scelta, l’UE non potrà far fronte efficacemente alle sfide sul versante economico e migratorio. Il salto qualitativo consisterebbe infatti nel passaggio al metodo federale, da intendersi come passaggio a un ente centrale di alcune competenze. Occorre però riconoscere che una federazione europea può avere qualche speranza di realizzazione solo in un ambito ristretto di Stati, un “nocciolo duro” che si restringe ai sei Stati che hanno iniziato il processo di integrazione europea. Capitolo 2: Caratteristiche generali dell’UE e sue competenze 1. La natura giuridica dell’UE Come abbiamo già accennato, l’UE si fonda oggi sul TUE e sul TFUE, secondo l’espresso disposto dall’art.1, co.3, TUE. Questa norma sancisce anche che l’UE “sostituisce e succede alla Comunità europea”. Il significato è chiaro: si supera la coesistenza tra Unione europea e Comunità europea, quindi è ormai nell’ambito della sola UE che si racchiude e definisce tutta la cooperazione tra gli Stati membri nei vari campi prima oggetto dei tre pilastri. Nella fase attuale dell’integrazione europea la natura giuridica dell’UE è quella di una organizzazione internazionale, seppure dotata di caratteristiche del tutto peculiari. Ad essa gli Stati membri hanno attribuito competenze “per conseguire i loro obiettivi comuni”, cioè gli obiettivi degli Stati stessi che questi ultimi hanno ritenuto preferibile perseguire attraverso un’organizzazione internazionale da essi creata, piuttosto che individualmente e separatamente. L’UE è fondata su atti conclusi in forma di accordi internazionali e ha, pertanto, natura internazionalistica. Al riguardo, l’art.4 del TUE si preoccupa di ribadire che l’UE rispetta l’ identità nazionale degli Stati membri insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale, escludendo quindi qualsiasi evoluzione in senso federale. Nonostante questi dati testuali, vi è stato chi si è applicato a ricercare un tertium genus tra ente internazionalistico ed ente costituzionale in cui collocare l’UE. Per definire tale tertium genus si è fatto a volte riferimento al termine “ente sovranazionale”, che però non sembra aver mai acquisito una precisa connotazione giuridica. È certamente vero che l’ambito delle competenze che gli Stati membri hanno delegato all’UE è quantitativamente molto più esteso e articolato rispetto a qualsiasi altra organizzazione internazionale. Ma è pur sempre la volontà degli Stati membri che ha consentito tutto ciò. Essi infatti rimangono i “ padroni dei assicurare un esercizio efficace di tale competenza. Tali poteri quindi, rifiutano per loro stessa natura di farsi esplicitare in una norma. Il sostanziale ampliamento delle competenze dell’UE introdotto nella varie revisioni dei Trattati rende oggi meno frequente il ricorso alla clausola di flessibilità 4. Le competenze dell’UE: esclusive, concorrenti e di sostegno, coordinamento o completamento dell’azione degli Stati membri Le competenze dell’UE possono essere di tre tipi: - esclusive rispetto a quelle degli Stati membri, - concorrenti con le medesime, - di sostegno, coordinamento o completamento dell’azione degli Stati membri. L’identificazione di queste categorie rappresenta una delle principali innovazioni introdotte dal T. di Lisbona. ● Nei settori nei quali l’UE ha competenza esclusiva , solo l’UE può adottare atti giuridicamente vincolanti. Gli stati membri possono farlo solo se autorizzati dall’UE o per dare attuazione ad atti dell’UE. Non è possibile per gli Stati membri riappropriarsi delle competenze in questi settori. I settori nei quali l’UE ha competenza esclusiva sono cinque: unione doganale, definizione delle regole di concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno, politica monetaria degli Stati membri, conservazione delle risorse biologiche del mare, politica commerciale comune. A tali competenze esclusive si aggiunge quella di concludere accordi internazionali. ● Nei settori nei quali l’UE ha competenza concorrente con quella degli Stati membri, sia l’UE che gli Stati membri possono adottare atti giuridicamente vincolanti. Gli Stati membri, però, non possono più esercitare le loro competenze a partire dal momento in cui l’UE abbia esercitato le proprie attraverso la posizione di norme comuni → effetto di pre-emption. Ai sensi del Protocollo n.25, quando l’UE agisce in un settore di competenza concorrente “ il campo di applicazione di questo esercizio di competenza copre unicamente gli elementi disciplinati dall’atto dell’Unione in questione e non copre pertanto l’intero settore”. Il TFUE precisa anche che gli Stati membri possono riappropriarsi delle loro competenze qualora l’UE abbia cessato di esercitare le proprie. Ad ogni modo, quando gli Stati concorrenti esercitano competenze concorrenti, essi sono sempre tenuti a rispettare l’obbligo di leale cooperazione loro incombente ai sensi dell’art.4 TUE, il quale implica rispetto e assistenza reciproca tra gli Stati membri e l’UE nell’adempimento dei rispettivi compiti. Ricadono nelle competenze concorrenti: mercato interno, politica sociale, coesione economica, sociale e territoriale, agricoltura, ambiente, protezione dei consumatori, trasporti... ● Nei settori nei quali l’UE esercita solo una competenza di sostegno, coordinamento o completamento dell’azione degli Stati membri, essa non si sostituisce alla competenza degli Stati e non può procedere a disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri. Quest’attività deve riguardare la “finalità europea” dei settori che comprende e non, quindi, la loro dimensione solo nazionale. I settori individuati per tale azione sono: tutela e miglioramento della salute umana, industria, cultura, turismo, istruzione e formazione professionale, protezione civile, sport, cooperazione amministrativa. Vi sono, infine, alcune materie che si sottraggono alla suddetta classificazione, come le politiche economiche e occupazionali che restano di competenza degli Stati membri. In secondo luogo, presenta caratteristiche peculiari improntate al metodo intergovernativo, la politica estera e di sicurezza comune. 5. L’esercizio delle competenze dell’UE: i principi di sussidiarietà e proporzionalità L’esercizio delle competenze dell’UE è sottoposto a due principi regolatori: sussidiarietà e proporzionalità. Il principio di sussidiarietà ha radici nella scienza economica, politica e sociale e può avere una duplice valenza: orizzontale, per quanto riguarda i rapporti tra autorità pubblica e sfera privata, e verticale, per quanto riguarda i rapporti tra i diversi livelli del potere pubblico. È in quest'ultima eccezione che tale principio viene in rilievo nell’ambito dell’UE, dove esso serve essenzialmente a stabilire quando la sua azione si giustifica in alternativa ad un’azione da parte degli Stati membri. Il principio di sussidiarietà, pertanto, si applica solo all’azione dell’UE nei settori che non sono di sua competenza esclusiva. Nei suddetti settori, tale principio opera nel senso che “ l’Unione interviene soltanto se e quando gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere conseguiti in misura sufficiente dagli Stati membri...”. Di conseguenza, l’intervento dell’UE può aver luogo solo se vi sia la presunzione dell’insufficienza dell’azione degli Stati membri a conseguire uno specifico obiettivo, e l’intervento dell’UE sia necessario per un migliore conseguimento dello stesso. In altre parole, nel caso di competenze concorrenti, la regola generale è che l’intervento compete agli Stati membri, mentre quello dell’UE è l’eccezione. Secondo il principio di proporzionalità, originariamente ricostruito dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, è oggi formulato come segue: “il contenuto e la forma dell’azione dell’Unione si limitano a quanto necessario per il conseguimento degli obiettivi dei trattati”. Più nello specifico, “il principio di proporzionalità esige che gli atti delle istituzioni dell’Unione siano idonei a realizzare i legittimi obiettivi e non eccedano i limiti di quanto è necessario”. Tale principio è quindi volto ad assicurare che vi sia corrispondenza tra i mezzi adoperati e il fine da raggiungere. Una delle possibili applicazioni del principio comporta che le istituzioni dell’UE, qualora la base giuridica lasci loro la scelta circa il tipo di atto da utilizzare, dovrebbero preferire gli atti che comportano minori sacrifici per la sovranità degli Stati membri. Venendo al Protocollo, esso stabilisce le modalità di applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità, contemplando soprattutto un articolato intervento dei Parlamenti nazionali ai fini di controllo preventivo del rispetto del principio di sussidiarietà. Anzitutto, il Protocollo dispone che ogni progetto di atto legislativo dell’UE debba essere trasmesso ai Parlamenti nazionali. Tale progetto deve essere dettagliatamente motivato sotto il profilo del rispetto dei principi di sussidiarietà e proporzionalità. Il semplice difetto di motivazione riguardo i principi, può senz’altro condurre all’impugnazione dell’atto dell’UE dinanzi alla Corte di giustizia per violazione delle forme sostanziali. Entro otto settimane dalla suddetta trasmissione del progetto, ciascun Parlamento nazionale può inviare ai presidenti del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione un “parere motivato” nel quale espone le ragioni per cui ritiene che il progetto in questione non sia conforme al principio di sussidiarietà. L’impatto di tali pareri motivati è destinato a crescere a seconda del loro numero. - Nel caso in cui i pareri motivati rappresentino almeno ⅓ dell’insieme dei voti attribuiti ai Parlamenti nazionali, l’autore è tenuto a riesaminarlo, potendo decidere di mantenere, modificare o ritirare il progetto, ma dovendo comunque motivare la propria decisione (procedura c.d. del “cartellino giallo”). - Se però, i pareri motivati rappresentano almeno la maggioranza semplice dei voti attribuiti ai Parlamenti nazionali, e l’atto deve essere adottato secondo la procedura legislativa ordinaria, qualora la Commissione decida di mantenere la proposta deve spiegare le ragioni per le quali la ritiene conforme al principio di sussidiarietà in un parere motivato, che viene sottoposto al Parlamento europeo e al Consiglio, affinché tali istituzioni esaminino la compatibilità della proposta con il principio di sussidiarietà. Questo esame ha per effetto che, se il Consiglio o il Parlamento, a maggioranza dei voti espressi, ritengono che la proposta non sia compatibile con il principio di sussidiarietà, questa non forma oggetto di ulteriore esame (procedura c.d. del “cartellino arancione”). Il raggiungimento delle soglie richieste per tali procedure è tutt’altro che agevole e solo in tre casi si è arrivati alla procedura del cartellino giallo (mai a quella del cartellino arancione). In secondo luogo, il Protocollo dispone che anche il Comitato delle regioni può fare ricorso alla Corte di giustizia per violazione del diritto di sussidiarietà, anche se unicamente con riguardo ad atti legislativi per la cui adozione sia richiesta la sua consultazione. Resta da osservare che, nella definizione e nell’attuazione delle sue politiche e azioni, l’UE deve tenere conto di alcune esigenze, tra cui l’eliminazione delle ineguaglianze, la promozione di un elevato livello di occupazione e di istruzione, la lotta alle discriminazioni... 6. Le norme di diritto sostanziale dell’UE che realizzano i suoi obiettivi In relazione a ciascuno degli obiettivi dell’UE, i Trattati prevedono una serie di norme materiali. Quanto all’obiettivo relativo allo spazio di libertà, sicurezza e giustizia (competenza concorrente UE - Stati membri), trova ora la sua realizzazione esclusivamente nelle norme di cui al Titolo V della Parte Terza del TFUE. Queste norme hanno ad oggetto: - le politiche relative i controlli delle frontiere, all’asilo e all’immigrazione, - la cooperazione giudiziaria in materia civile, - la cooperazione giudiziaria in materia penale, - la cooperazione di polizia. Inoltre, viene notevolmente ampliato il controllo giurisdizionale che può effettuare in materia la Corte di giustizia; tuttavia, alcune decisioni importanti in materia richiedono ancora l’unanimità da parte del Consiglio. La disciplina prevede anche un significativo coinvolgimento dei Parlamenti nazionali, a livello di semplice informazione, di controllo e, persino, di veto. Quanto all’obiettivo del mercato interno, esso comporta uno spazio senza frontiere interne, nel quale è assicurata la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali. Vale la pena richiamare il processo che ha portato il mercato comune, originariamente previsto dal Trattato di Roma, ad evolversi nel 1992 in mercato interno, a seguito delle modifiche introdotte dall’Atto unico europeo. - Per comprendere cosa aggiunge il mercato interno al mercato comune, occorre ricordare che le quattro libertà di circolazione previste dal Trattato di Roma per la realizzazione dell’allora mercato comune erano state fondamentalmente intese come obbligo per ciascuno Stato membro di ammettere alla libera circolazione al proprio interno merci, persone, servizi e capitali provenienti da altri Stati membri alle stesse condizioni valevoli per merci e persone dello Stato in questione. L’integrazione così realizzata avveniva secondo le regole del Paese di destinazione, nel senso che a persone, merci che volessero uscire dal proprio Paese di origine, veniva garantita parità di trattamento con persone, merci del Paese di destinazione, in linea con il divieto di discriminazioni basate sulla nazionalità. Questa soluzione apparve presto inadeguata, in quanto si possono celare delle situazioni profondamente discriminatorie. Per ovviare a questi inconvenienti la Corte di giustizia ha cominciato a introdurre, sin dalla fine degli anni ’70, il principio secondo cui i prodotti legalmente fabbricati e venduti in uno Stato membro devono poter liberamente circolare negli altri stati membri, così come le persone legittimamente abilitate all’esercizio di una professione in uno Stato membro devono poterla esercitare anche negli altri Stati membri. Le uniche restrizioni che lo Stato può imporre devono essere giustificate da motivi attinenti alla salute pubblica, alla correttezza del commercio, alla tutela dei consumatori, e simili. In altre parole, con queste sentenze la Corte di giustizia a sostituito al principio del Paese di destinazione il principio del Paese di origine, secondo cui non è possibile per lo Stato di destinazione imporre condizioni più onerose di quelle richieste dallo Stato di origine, con la sola eccezione delle misure che possono essere giustificate da esigenze imperative di interesse generale. La conseguenza dell’applicazione di tale principio potrebbe, però essere quella del verificarsi di discriminazioni alla rovescia. Infatti, i cittadini di uno Stato in cui sono in vigore determinate restrizioni non potrebbero esercitare professioni nel proprio Stato, mentre, in virtù del principio del mutuo riconoscimento, potrebbero invece farlo i cittadini degli altri Stati membri (che tali restrizioni eventualmente non prevedano). La realizzazione del mercato interno è inserita nel quadro del più generale obiettivo dello sviluppo sostenibile dell’Europa, al quale contribuiscono diverse altre politiche dell’UE, in particolare la politica sociale e la politica ambientale. Quanto all’obiettivo dell’unione economica e monetaria, esso trova la sua realizzazione nelle norme di cui al Titolo VIII della Parte Terza del TFUE. Ricordiamo che le politiche economiche restano di competenza degli Stati membri, che assumono semplicemente l’obbligo di coordinarle nell’ambito del Consiglio. L’UE, invece, ha una competenza esclusiva relativamente alla politica monetaria degli Stati membri la cui moneta è l’euro. Questa asimmetria nel trattamento rappresenta però un elemento di criticità, che spiega le difficoltà che l’unione economica e monetaria ha incontrato. Come insegna la scienza economica infatti, la politica monetaria è strettamente collegata alla politica economica: la stabilità della moneta è influenzata dalla politica economica, dato che quanto più sana è la politica economica, tanto più forte è la moneta. Nell’ambito dell’UE si è realizzata una moneta unica, mentre non si è realizzata una politica economica comune, dato che questa realizzazione avrebbe inciso troppo pesantemente sulla sovranità degli Stati. In assenza di una politica economica comune, si è semplicemente prevista una procedura per evitare disavanzi eccessivi attraverso le relative norme del TFUE. Ciò comporta una duplice conseguenza: allorché In riferimento poi, al fatto che ciascun membro del Consiglio europeo o del Consiglio risponde politicamente dinanzi al rispettivo Parlamento nazionale, è un’ovvia considerazione che non vale, tuttavia, a conferire una legittimità democratica a tali istituzioni a livello dell’UE. Esse, infatti, restano espressione degli esecutivi dei rispettivi Stati e i loro membri sono responsabili politicamente in relazione al perseguimento degli interessi nazionali, non di quelli generali dell’UE. Infine, quanto al ruolo dei partiti politici a livello europeo, dobbiamo osservare che questo è ancora per molti versi embrionale. I partiti si aggregano là dove esiste un potere politico da conquistare o da mantenere. Il ruolo dei partiti politici nel Parlamento europeo, privo di un esclusivo potere legislativo, non è assimilabile a quello dei partiti politici nazionali. Un’importante novità al riguardo è stata però introdotta dal Trattato di Lisbona, laddove questo ha disposto che il Consiglio europeo, quando propone al Parlamento europeo un candidato per la carica di Presidente della Commissione, deve tenere conto delle elezioni del Parlamento Europeo. Ciò ha indotto i principali partiti politici europei a indicare ciascuno un proprio candidato alla presidenza della Commissione, riuscendo poi a ottenere che il Consiglio europeo proponesse al Parlamento europeo proprio il candidato indicato. Questo c.d. sistema degli Spitzenkandidaten, ossia dei capilista, aggiunge innegabilmente un elemento di democraticità nell’impianto istituzionale dell’UE, valorizzando le elezioni del Parlamento europeo. - In occasione delle elezioni del Parlamento europeo del 2019, però, il Consiglio europeo ha candidato alla presidenza della Commissione Ursula von der Leyen che, pur appartenendo al partito che aveva ottenuto la maggioranza nelle elezioni parlamentari, era tuttavia diversa dallo Spitzenkandidat indicato da quello stesso partito. In definitiva, dunque, permangono dei limiti a una completa affermazione della democrazia rappresentativa nel quadro dell’UE. Solo una svolta in senso federale potrebbe determinare il superamento di tali limiti. Consapevoli di ciò, i redattori del Trattato di Lisbona hanno cercato di valorizzare anche ulteriori apporti alla democraticità dell’UE, e in particolare quelli che possono derivare dalla messa in atto di strumenti di democrazia partecipativa. A questo proposito, l’art. 10 TUE sancisce il diritto di ogni cittadino di partecipare alla vita democratica dell’UE. Secondo l’art. 11 TUE, invece, le istituzioni dell’UE si impegnano, da un lato, a dare ai cittadini e alle loro associazioni rappresentative la possibilità di far conoscere e di scambiare pubblicamente le loro opinioni, e dall’altro a mantenere “un dialogo aperto, trasparente e regolare” con tali associazioni e con la società civile in generale. In secondo luogo, la norma obbliga la Commissione a procedere ad ampie consultazioni delle parti interessate. Una novità è invece la c.d. iniziativa dei cittadini europei, prevista dall’art.11 TUE → consente ad almeno un milione di cittadini dell’UE, che abbiano la cittadinanza di “un numero significativo” di Stati membri, di invitare la Commissione a presentare, nell’esercizio del proprio potere d’iniziativa, una proposta appropriata su materie in merito alle quali tali cittadini ritengono necessario un atto giuridico dell’UE. Il regolamento che disciplina le procedure necessarie per la presentazione di un’iniziativa dei cittadini, fissa a un quarto del totale (attualmente pari a 7) il numero minimo degli Stati membri da cui devono partire i firmatari di un’iniziativa dei cittadini. Prima di iniziare a raccogliere le firme a favore di un’iniziativa, i promotori ne devono chiedere la registrazione alla Commissione, che vi procede dopo aver verificato che siano rispettate alcune condizioni di ammissibilità. Qualora sia raggiunto il numero minimo di firme, la Commissione è tenuta a esaminare nel merito l’iniziativa e ad esporre le proprie conclusioni giuridiche e politiche. La Commissione non è dunque obbligata a presentare la proposta oggetto dell’iniziativa dei cittadini. Fino ad oggi, solo sei iniziative dei cittadini, su un totale di circa cinquanta, hanno superato il milione di firmatari, e in nessuno di questi casi la Commissione ha presentato le proposte sollecitate dai cittadini. 10. L’evoluzione del ruolo dei Parlamenti nazionali Le disposizioni relative ai principi democratici si completano con l’art.12 TUE, che riassume le prerogative riconosciute ai Parlamenti nazionali da una serie di norme, rinvenibili nello stesso TUE, nel TFUE e nel Protocollo n.1 (sul ruolo dei Parlamenti nazionali nell’UE). Anzitutto l’art.12 TUE prevede in via generale che i Parlamenti nazionali vengano informati dalle istituzioni dell’UE. Tale obbligo prevede la trasmissione ai Parlamenti nazionali: - di tutti i documenti di consultazione che la Commissione produce; - di tutti i progetti di atti legislativi inoltrati al Parlamento europeo. La ratio di queste previsioni è, anzitutto, quella di incoraggiare una partecipazione “indiretta” dei Parlamenti nazionali alle attività dell’UE attraverso l’esercizio di poteri di indirizzo e di controllo nei confronti dei rispettivi governi. Tuttavia, il Trattato di Lisbona ha previsto anche delle ipotesi di diretto coinvolgimento dei Parlamenti nazionali a livello dell’UE, la cui principale manifestazione è rappresentata dal loro intervento nelle procedure legislative dell’UE, con lo specifico fine di vigilare sul rispetto del principio di sussidiarietà. Ulteriori prerogative riconosciute ai Parlamenti nazionali dal Trattato di Lisbona attengono allo spazio di libertà, sicurezza e giustizia. Nell’ambito di tali formule sono comprese varie forme di intervento, ma anche in questo settore, i Parlamenti vigilano sull’applicazione del diritto di sussidiarietà. L’art. 12 TUE aggiunge alle prerogative dei Parlamenti nazionali la partecipazione alle procedure di revisione dei Trattati. Si tratta, in particolare, di una delle due procedure di revisione semplificate previste da tale norma, e in particolare di quella che riguarda la possibilità di sostituire il requisito dell’unanimità con quello della maggioranza qualificata per alcune decisioni del Consiglio o di sostituire una procedura legislativa speciale con la procedura legislativa ordinaria. Infine, l’art. 12 TUE dispone che i Parlamenti nazionali partecipino, insieme al Parlamento europeo, a una cooperazione interparlamentare. Anche se le norme appena esaminate danno ai Parlamenti nazionali solo alcuni diritti di informazione e di controllo, presentano aspetti positivi sotto il profilo della democratizzazione del funzionamento dell’UE. Tuttavia, secondo una lettura meno positiva, è il potenziamento del Parlamento europeo, non dei Parlamenti nazionali, la modalità di democratizzazione dell’UE più coerente con le caratteristiche del sistema. 11. L’integrazione differenziata e le cooperazioni rafforzate A partire dal Trattato di Amsterdam, si è cominciata a prevedere nei Trattati la possibilità di cooperazioni rafforzate tra alcuni soltanto degli Stati membri, per consentire a questi ultimi di realizzare forme di integrazione più avanzata. Prima di esaminare nei dettagli l’attuale disciplina di questo istituto, occorre però inquadrarlo in una più ampia tendenza a realizzare forme di c.d. integrazione differenziata tra gli Stati membri dell’UE. ➔ Nel diritto positivo, una prima forma di integrazione differenziata era stata realizzata già con i c.d. Accordi di Schengen, ossia l’Accordo sulla soppressione graduale dei controlli alla frontiere comuni del 1985. Alla relativa Convenzione di applicazione avevano aderito inizialmente solo Francia, Germania e i tre Paesi del Benelux. Questi accordi tuttavia, si collocavano al di fuori del quadro giuridico e istituzionale dell’UE. Tale cooperazione rafforzata coinvolge oggi tutti gli Stati membri, ad esclusione dell’Irlanda, nonché alcuni Stati terzi. Anche più di recente si sono formate forme di integrazione differenziata: Fiscal Compact e il Trattato MES. ➔ A partire dal Trattato di Maastricht poi, ha cominciato a manifestarsi una seconda forma di interazione differenziata, rappresentata dalle c.d. clausole di opting out, le quali esentano taluni Stati membri dal rispetto di specifiche parti del diritto dell’UE. Citiamo al riguardo, tra i Protocolli attualmente in vigore, il Protocollo n. 21, in virtù del quale la disciplina dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia non si applica , entro certi limiti, all’Irlanda, o il Protocollo n. 30, che pone dei limiti all’applicazione della Carta dei diritti fondamentali dell’UE alla Polonia. Questa forma di integrazione differenziata ha quindi una valenza negativa, nel senso che determina una retroguardia di Stati membri, sottratti all’obbligo di rispettare quelle parti della disciplina comune che non sono disposte ad accettare per ragioni di carattere politico o giuridico. L’istituto della cooperazione rafforzata risponde, invece, all'obiettivo di favorire la formazione di avanguardie di Stati membri, che approfondiscano la loro integrazione in alcuni specifici ambiti. ● Numero dei partecipanti: l’art. 20 TUE prevede che una cooperazione rafforzata possa instaurarsi tra almeno nove Stati membri, ma comunque, la Commissione e gli Stati membri si debbono adoperare perché vi partecipi il maggior numero possibile di Stati. Pertanto, la cooperazione rafforzata deve essere aperta in qualsiasi momento a tutti gli Stati membri. ● Oggetto: le cooperazioni rafforzate possono riguardare solo settori in cui l’UE abbia una competenza non esclusiva, e devono in ogni caso essere volte a “rafforzare il suo processo di integrazione”. Inoltre è previsto che le cooperazioni rafforzate debbano rispettare i Trattati e il diritto dell’UE e , in particolare, non debbano recare pregiudizio al mercato interno, né alla coesione economica, sociale e territoriale. Esse devono anche rispettare diritti e obblighi degli Stati membri che non vi partecipano, mentre questi ultimi, in base al principio della leale cooperazione, non possono ostacolarne l’attuazione da parte degli Stati partecipanti. ● Procedura: la richiesta di istituire una cooperazione rafforzata va presentata dagli Stati membri interessati alla Commissione, la quale può presentare al Consiglio una proposta al riguardo. Nel caso di presentazione della proposta al Consiglio, questo decide a maggioranza qualificata, previa approvazione del Parlamento europeo. È importante osservare che, ai sensi dell’art. 20 TUE, la decisione del Consiglio che autorizza una cooperazione rafforzata può essere adottata solo “ in ultima istanza” (cioè qualora esso stabilisca che gli obiettivi ricercati da detta cooperazione non possano essere conseguiti dall’Unione nel suo insieme). Gli atti adottati nell’ambito di una cooperazione rafforzata sono obbligatori solo per gli Stati partecipanti e, se del caso, si applicano direttamente solo all’interno di questi ultimi. Le varie condizioni sostanziali e procedurali per l’instaurazione di una cooperazione rafforzata, se da un lato rispondono all’esigenza di garantire la complessiva coerenza del quadro giuridico dell’UE, dall’altro non favoriscono il ricorso all’istituto in esame. E solo dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona che si sono registrate le prime applicazioni dell’istituto. Queste hanno interessato il settore della cooperazione giudiziaria civile e il settore dell’istituzione di una tutela brevettuale unitaria. Più di recente, altre cooperazioni rafforzate sono state realizzate in due ambiti di grande rilievo, ossia l’ambito della cooperazione giudiziaria in materia penale e quello della difesa. - Quanto al primo di questi settori, dopo un lungo e travagliato negoziato, è stata istituita a titolo di cooperazione rafforzata tra venti Stati membri la Procura europea, competente a individuare, perseguire e rinviare a giudizio gli autori di reati che ledono gli interessi finanziari dell’UE. - Quanto al settore della difesa, l’art.42 TUE prevede una cooperazione strutturata permanente tra alcuni soltanto degli Stati membri, provvisti di più elevate capacità militari e disposti ad assumersi maggiori impegni per le missioni militari dell’UE. Da ultimo, sottolineiamo che non costituisce, in senso stretto, un caso di cooperazione rafforzata, ma piuttosto di un’ulteriore forma di integrazione differenziata sui generis, l’unione monetaria, che ha portato all’adozione dell’euro da parte di alcuni soltanto degli Stati membri. Tra i rimanenti Stati membri, la Danimarca beneficia di un vero e proprio opting out. Capitolo 3: Il quadro istituzionale dell’UE 1. Le istituzioni dell’UE e i principi che ne regolano i rapporti Gli organi dell’UE sono molteplici, ma l’art.13 TUE eleva al rango di istituzioni il Parlamento europeo, il Consiglio europeo, il Consiglio, la Commissione, la Corte di Giustizia dell’Unione europea, la Banca centrale europea e la Corte dei conti. A tali organi si applicano le norme dei Trattati che si riferiscono alle istituzioni, ma non è detto che non si applichino anche ad altri organi dell’UE, che non siano qualificato come istituzioni. Non esistono tra l’altro, criteri specifici che distinguano le istituzioni dagli organi. Le relazioni tra le istituzioni dell’UE sono improntate al rispetto di due principi che la Corte di giustizia ha messo a punto: - il principio dell’equilibrio istituzionale → comporta che ogni istituzione eserciti le sue competenze nel rispetto di quelle delle altre istituzioni e nei limiti delle attribuzioni conferite dai Trattati. - il principio della leale cooperazione → implica a sua volta il dovere reciproco di agevolare e non ostacolare l’esercizio delle competenze di ciascuna istituzione. L’UE, alla stregua di ogni altra organizzazione internazionale, non è invece strutturata secondo il principio della separazione dei poteri → vi è l’esigenza di creare al centro una struttura sufficientemente forte da poter rappresentare gli interessi degli Stati membri uti universi, aldilà dei loro interessi uti singuli. Pertanto, le organizzazioni internazionali si strutturano in modo da avere organi capaci di rappresentare il momento unitario degli Stati membri. 2. Il Parlamento europeo (art. 14 TUE) Il Parlamento europeo è composto, come recita l’art. 14 TUE, dai “rappresentanti dei cittadini dell’Unione”. Tale rappresentanza dei cittadini risponde ai principi democratici cui l’UE ispira il suo esercitare un mandato nazionale. Il Consiglio europeo può porre fine al mandato del suo Presidente per impedimento o colpa grave. Il Presidente del Consiglio europeo non è gerarchicamente superiore rispetto agli altri membri, ma è piuttosto chiamato a svolgere delle funzioni, che sono essenzialmente di carattere procedurale o strumentale: a. convoca, presiede e anima le riunioni del Consiglio, b. assicura la preparazione e la continuità dei suoi lavori, c. si adopera per facilitare il raggiungimento del consenso al suo interno, d. presenta al Parlamento europeo una relazione dopo ciascuna delle sue riunioni. e. assicura la rappresentanza esterna dell’UE nell’ambito della politica estera e di sicurezza comune. Nel complesso, dunque, il Presidente del Consiglio europeo è concepito come una figura chiamata ad agevolare i lavori dell’istituzione e a mediare tra i capi di Stato o di governo. Il Consiglio europeo si riunisce due volte a semestre, su convocazione del Presidente, ma vi possono essere riunioni straordinarie se la situazione lo richiede. Il regolamento interno del Consiglio europeo dispone che le riunioni abbiano luogo a Bruxelles, salvo circostanze eccezionali. Le delibere del Consiglio europeo sono adottate secondo il metodo del consenso, in virtù del quale una delibera si considera approvata, senza procedere a una formale votazione, se nessuno dei membri solleva obiezioni. In effetti, i Trattati prevedono molti casi in cui il Consiglio europeo procede, invece, a votazione → a cui non partecipano né il Presidente del Consiglio europeo, né il Presidente della Commissione. È lecito affermare che, quando procede a votazione, il Consiglio europeo è a pieno titolo un organo collegiale di Stati, nel senso che l’individuo che esercita il diritto di voto non lo fa a titolo individuale, ma in rappresentanza dello Stato di appartenenza. ➔ Quanto all’unanimità, essa è richiesta per delibere di particolare importanza, come, per esempio, per la constatazione di una grave e persistente violazione dei valori di cui all’art.2 TUE, per la decisione sulla composizione del Parlamento europeo, nell’ambito dell’azione esterna dell’UE… ➔ Vi sono poi casi in cui è previsto che il Consiglio europeo decida a maggioranza qualificata, ad esempio, per l’elezione del suo Presidente, per le decisioni sulle formazioni del Consiglio e sulla loro presidenza. ➔ In altri casi, infine, il Consiglio europeo delibera a maggioranza semplice, come per la decisione relativa all’esame delle proposte di modifica dei Trattati o le decisioni su questioni procedurali, inclusa l’adozione del proprio regolamento interno. Quando il Consiglio europeo procede a votazione, ogni membro può ricevere delega da uno solo degli altri membri. Inoltre, l’astensione di membri presenti o rappresentati non osta al raggiungimento dell’unanimità, ove richiesta, mentre è da ritenersi che l’assenza di uno degli stessi sia, invece, di ostacolo a tale raggiungimento. La natura del Consiglio europeo sfugge a una definizione unitaria, in quanto i suoi compiti non sono omogenei. Indubbiamente, esso svolge anzitutto la funzione di indirizzo politico (che gli è assegnata dall’art.15 TUE). A volte però, il Consiglio europeo è chiamato a integrare o attuare disposizioni dei Trattati, come quando decide sulle formazioni del Consiglio o sulla composizione del Parlamento europeo, o ancora, come quando nomina il proprio Presidente e l’Alto rappresentante per gli Affari esteri e la politica di sicurezza. Talvolta, poi, esso potrebbe apparire come una riunione di organi degli Stati membri, al pari di una conferenza intergovernativa. Altre volte, infine, il Consiglio europeo agisce come un organo di seconda istanza rispetto al Consiglio, o in qualche modo sovraordinato rispetto allo stesso. 4. Consiglio (art. 16 TUE) Il Consiglio ha il compito primario di esercitare, congiuntamente al Parlamento europeo, la funzione legislativa e la funzione di bilancio. In via molto generale, il loro esercizio congiunto implica che occorra l’accordo di due istituzioni, una (il Consiglio) che rappresenta gli Stati membri nei loro interessi particolare, l’altra (il Parlamento europeo) che rappresenta i cittadini europei → la conseguenza è che il mancato accordo tra le due istituzioni paralizza l’azione dell’UE. Altro compito attribuito al Consiglio è quello di esercitare competenze di esecuzione, e ha anche il potere generale di emanare raccomandazioni. Il Consiglio è composto da un rappresentante di ciascuno Stato membro a livello ministeriale, quindi i suoi membri sono di un livello inferiore rispetto a quelli del Consiglio europeo. La rappresentanza a livello ministeriale implica la partecipazione alle riunioni di Ministri, Sottosegretari, o di qualsiasi altra persona avente rango ministeriale. Il Consiglio è un organo collegiale di Stati, nel senso che abbiamo indicato per il Consiglio europeo e, assieme a quest’ultimo, costituisce la massima espressione del momento intergovernativo nell’equilibrio istituzionale dell’UE. In Consiglio si riunisce in varie formazioni in corrispondenza dei settori di attività dell’UE. Come già accennato, spetta al Consiglio europeo stabilire l’elenco di tali formazioni. Tale elenco deve comunque comprendere una formazione “Affari generali”, la quale elabora l’azione esterna dell’UE secondo le linee strategiche definite dal Consiglio europeo e assicura la coerenza dell’azione dell’UE nel settore. Attualmente, le formazioni del Consiglio sono quelle definite dal Consiglio “Affari generali”, per un totale di dieci formazioni che coprono, nel complesso, tutti i settori di attività dell’UE. La presidenza del Consiglio è esercitata dai suoi membri secondo un sistema di rotazione paritaria, con la sola eccezione della presidenza della formazione “Affari esteri”, che spetta di diritto all’Alto rappresentante dell’unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza. Anche in questo caso è demandato al Consiglio europeo il compito di stabilire il suddetto sistema di rotazione prioritaria. La decisione del 1° Dicembre prevede che la presidenza del Consiglio e delle sue formazioni venga esercitata da gruppi predeterminati di tre Stati membri per un periodo di diciotto mesi, nell’arco del quale ciascuno di tali Stati esercita a turno la presidenza per sei mesi e gli altri due lo assistono in tale compito sulla base di un programma stabilito in comune. I gruppi di tre Stati membri vengono determinati sulla base di un sistema di rotazione paritaria degli Stati membri, tenendo conto della loro diversità e degli equilibri geografici dell’Unione. Il Consiglio, nelle sue varie formazioni, si riunisce su convocazione del suo Presidente → non è un organo permanente. Per ovviare agli inconvenienti creati dalla crescente frequenza delle riunioni, si è sviluppata la prassi della procedura scritta, secondo cui il testo di una determinata risoluzione viene inviato ai vari Stati membri, che manifestano per iscritto il loro dissenso o assenso. Altro sviluppo introdotto dalla prassi è quello dei Consigli informali, i quali hanno luogo quando gli Stati membri desiderano discutere una materia relativamente alla quale non intendono adottare nessuno specifico provvedimento, ma semplicemente scambiarsi i rispettivi punti di vista. Carattere informale ha anche l’Eurogruppo, che riunisce i Ministri economico-finanziari degli Stati membri la cui moneta è l’euro. Il Consiglio è assistito da un Segretario generale, che svolge le stesse funzioni di assistenza anche nei confronti del Consiglio europeo, e dal Comitato dei rappresentanti permanenti dei governi degli Stati membri, o COREPER. Il COREPER è composto dai rappresentanti diplomatici che ciascuno Stato membro accredita presso l’UE ed è responsabile della preparazione dei lavori del Consiglio e dell’esecuzione dei compiti che questo gli assegna. A differenza del Consiglio, il COREPER è un organo permanente e, quindi, in grado di svolgere senza soluzione di continuità il suo ruolo. In pratica, filtra le proposte della Commissione, con la conseguenza che tali proposte vengono poi sottoposte al Consiglio per la sola ratifica formale (c.d. “punti A” dell’ordine del giorno), oppure inoltrando al Consiglio per la discussione quelle più problematiche (c.d. “punti B”) e, infine, bloccando le proposte che gli Stati membri non sono nemmeno preparati a discutere. L’art. 16 TUE stabilisce che, quando i Trattati non dispongano diversamente, il Consiglio delibera a maggioranza qualificata. Il sistema di voto a maggioranza qualificata comporta la necessità di una doppia maggioranza: il consenso di almeno il 55% dei membri del Consiglio con un minimo di 15 Stati, i quali rappresentino Stati membri che totalizzano almeno il 65% della popolazione dell’UE. Si tiene, così, conto sia degli Stati individualmente considerati, che della importanza relativa degli stessi sulla base della loro popolazione. Secondo queste regole, la “minoranza di blocco”, cioè il numero di Stati in grado di bloccare, con il loro dissenso, il raggiungimento della suddetta maggioranza, sarebbe pari a 13 Stati, o, in alternativa, a un numero di Stati che abbiano una popolazione superiore al 35% del totale. L’art.16 TUE precisa però, che la minoranza di blocco relativa alla popolazione deve comprendere almeno 4 Stati. ● Regole lievemente diverse valgono per il caso in cui il Consiglio non deliberi su proposta della Commissione o dell’Alto rappresentante dell’Unione, ma di sua iniziativa o su proposta proveniente da altri soggetti. In tali casi, in cui manca la garanzia di una proposta proveniente da un organo preposto alla tutela dell’interesse dell’UE, la maggioranza richiesta per il numero degli Stati membri passa dal 55% al 72%, mentre la maggioranza richiesta per la popolazione resta al 65%. ○ L’introduzione del nuovo sistema di calcolo della maggioranza qualificata (2014) è stata accompagnata da ulteriori cautele. La relativa decisione prevede norme particolari tutte volte a rendere più difficile l’adozione di decisioni a maggioranza qualificata e a favorire gli Stati dissenzienti. La decisione prevede che, se un numero di membri del Consiglio che rappresenta a) almeno il 55% della popolazione necessaria per costituire una minoranza di blocco o b) almeno il 55% degli Stati membri necessari per costituire una minoranza di blocco, manifesta l’intenzione di opporsi all’adozione di un atto a maggioranza qualificata, il Consiglio prosegue la discussione per un periodo di tempo ragionevole, con l’obiettivo di pervenire a una situazione soddisfacente per gli Stati dissenzienti, anche se minoritari. Due osservazioni conclusive si impongono al riguardo: l’importanza vitale che gli Stati membri attribuiscono alla materia, dimostrato da tutti i loro sforzi per ritardare o rendere più difficile l’applicazione di nuove regole; e in secondo luogo, pur se la decisione in questione è il simbolo dell’attaccamento degli Stati membri alla tutela dei loro interessi particolari, nel suo preambolo essa viene giustificata dall’esigenza di “rafforzare la legittimità democratica delle deliberazioni prese a maggioranza qualificata”. ● Venendo ora ai casi in cui il Consiglio decide all’unanimità, bisogna sottolineare come, con il progressivo aumento degli Stati membri, questa regola abbia via via reso più difficile il cammino dell’integrazione europea. Ci si attendeva che il Trattato di Lisbona riducesse drasticamente i casi di decisioni all’unanimità. Tale riduzione si è in parte verificata, ma non nella maniera auspicata, in quanto, sono ancora circa 70 le disposizioni che ancora prevedono che il Consiglio deliberi all’unanimità nelle più svariate materie. Questa situazione conferma l’attaccamento da sempre dimostrato dagli Stati membri alla regola dell’unanimità. Ricordiamo infatti, che, quasi a compensare l’ancora diffusa previsione del criterio dell’unanimità, la sua sostituzione con il voto a maggioranza qualificata nell’ambito del TFUE può avvenire secondo una procedura di revisione semplificata. Accanto a tale clausola “orizzontale”, inoltre, vi sono casi di “passerelle settoriali”, intese ad agevolare il passaggio dall’unanimità alla maggioranza qualificata in specifiche materie. Per dare attuazione a tali clausole occorre sempre, però, l’unanimità degli Stati membri. ● Il Consiglio può anche, in alcuni casi, deliberare a maggioranza semplice dei membri che lo compongono. La maggioranza semplice è utilizzata solo per provvedimenti interorganici o adempimenti procedurali del Consiglio. Come per il Consiglio europeo, anche il Consiglio, in caso di votazione, ciascun membro può ricevere delega da uno solo degli altri membri. Inoltre, le astensioni di uno o più dei membri presenti o rappresentati non ostacolano l’adozione di decisioni unanimi. Una particolare forma di astensione nel settore della politica estera e di sicurezza comune è l’“astensione costruttiva”, in quanto intende rappresentare per gli Stati dissenzienti un’alternativa al voto contrario, la quale comporta che la decisione del Consiglio non si applichi agli Stati membri che abbiano dichiarato la propria astensione con un’apposita dichiarazione formale. L’assenza di uno o più Stati membri non consente, invece, l’adozione di una delibera all’unanimità. Il Consiglio ha sede a Bruxelles. Il Consiglio si riunisce in seduta pubblica quando delibera e vota su un progetto di atto legislativo. modifica, prevedendo che questa possa avvenire secondo la procedura legislativa ordinaria, su richiesta della Corte di giustizia e previa consultazione della Commissione, o viceversa. Il quadro nominativo è poi integrato dai regolamenti di procedura della Corte di giustizia e del Tribunale, che vengono stabiliti da ciascuno dei due organi. La Corte di giustizia è composta da “un giudice per Stato membro” ed è assistita da avvocati generali, il cui numero, che era pari ad 8 al momento dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, è stato aumentato a 11. La Corte si riunisce in seduta plenaria solo in casi di eccezionale importanza, mentre, normalmente, le varie cause vengono affidate a sezioni composte da 3 o 5 giudici, o alla grande sezione, composta da 15 giudici. ➢ L’avvocato generale è membro della Corte, il cui ufficio è quello di presentare pubblicamente, con assoluta imparzialità e in piena indipendenza, conclusioni motivate sulle cause che richiedono il suo intervento. Il suo non è quindi un intervento obbligatorio, e la Corte non è vincolata all’accoglimento delle conclusioni dell’avvocato generale. Il Tribunale, ai sensi dell’art.19 TUE, deve essere composto da “almeno un giudice per Stato membro”; ma dal 1° settembre 2019 diventa formato da due giudici per Stato membro. Il Tribunale non comprende, invece, avvocati generali. Il Tribunali si riunisce normalmente in sezioni da 3 o 5 giudici, anche se, in determinati casi disciplinati dal regolamento di procedura, è disposto che esso si riunisca in grande sezione, composta da 15 giudici, o in seduta plenaria, o statuisca nella persona di un giudice unico. ● Il Tribunale funge in alcuni casi da organo giurisdizionale di primo grado rispetto alla Corte di giustizia, in quanto è competente a conoscere in prima istanza dei ricorsi per annullamento di atti delle istituzioni, dei ricorsi in materia di responsabilità extracontrattuale dell’UE, ecc... Restano esclusi dalla competenza del Tribunale, in particolare, i ricorsi relativi agli adempimenti degli Stati membri e le controversie tra gli Stati membri. Le sentenze del tribunale possono essere impugnate dinanzi alla Corte di giustizia solo per motivi di diritto, e più precisamente per motivi relativi all’incompetenza del Tribunale, mentre non può essere chiesto alla Corte di riesaminare la valutazione dei fatti operata dal Tribunale. ● Il Tribunale è invece concepito come organo giurisdizionale di secondo grado relativamente ai ricorsi presentati contro le decisioni dei tribunali specializzati, che però attualmente non esistono. Nell’eventualità che tali Tribunali specializzati vengano istituiti, le decisioni di questi ultimi potranno essere oggetto di impugnazione davanti al tribunale per i soli motivi di diritto o, qualora il regolamento istitutivo lo preveda, anche per motivi di fatto. ● Infine, l’art.256 TFUE prevede anche che il Tribunale eserciti la competenza pregiudiziale, sia pure solamente in determinate materie da specificarsi nello Statuto. I giudici e gli avvocati generali della Corte di giustizia e i giudici del Tribunale sono “ nominati di comune accordo dai governi degli Stati membri”, e non devono necessariamente essere cittadini degli Stati membri. Per gli avvocati generali dello Corte di giustizia, invece, è prevista un’alternanza di individui designati dai vari Stati membri, restando fermo, però, che, per prassi, i cinque Stati maggiori (Germania, Francia, Italia, Regno Unito e Spagna) dispongono in permanenza di un avvocato generale - così che il sistema di rotazione riguarda attualmente gli 11 Stati previsti -. I giudici e gli avvocati generali della Corte di giustizia vanno scelti tra “personalità che offrono tutte le garanzie di indipendenza e che riuniscano le condizioni richieste per l’esercizio delle più alte funzioni giurisdizionali”. Vi è inoltre un comitato che ha il compito di fornire un parere agli Stati membri, circa l’adeguatezza dei candidati come giudici della Corte di giustizia e del tribunale; composto da 7 personalità scelte tra ex membri della Corte di giustizia e del tribunale. I giudici e gli avvocati della Corte di giustizia e del Tribunale durano in carica 6 anni, ma non decadono tutti nello stesso momento: ogni 3 anni, infatti, si procede a un loro rinnovo parziale, e i loro mandati sono rinnovabili. Sia i giudici della Corte di giustizia che quelli del Tribunale eleggono al loro interno un Presidente e un Vicepresidente. Ciascuno dei due organi nomina inoltre il proprio cancelliere. Il Titolo I dello Statuto specifica che i giudici e gli avvocati generali devono giurare di esercitare le loro funzioni “In piena imparzialità e secondo coscienza”, godono dell’ immunità dalla giurisdizione, non possono esercitare alcuna funzione politica e possono essere rimossi dalle loro funzioni solo qualora non siano più in possesso dei requisiti richiesti. I ricorsi alla Corte di giustizia dell’UE non hanno in genere effetti sospensivi. Le sue sentenze, costituiscono, nei vari Stati membri, titolo esecutivo, al pari delle decisioni del Consiglio, della Commissione e della Banca Centrale europea. La formula esecutiva è apposta nei singoli Stati dall’autorità competente. 7. Bce e Corte dei conti Le ultime due istituzioni menzionate nell’art.13 TUE sono la Banca centrale europea e la Corte dei conti. La BCE e le banche centrali nazionali di tutti gli Stati membri costituiscono il Sistema europeo delle banche centrali (SEBC) . La disciplina della BCE e del SEBC si rinviene, oltre che nei Trattati, anche nel loro Statuto. Nonostante ciò, alcune sue norme possono essere modificate, anziché secondo la procedura ordinaria di revisione dei Trattati, su raccomandazione della BCE e previa consultazione della Commissione oppure su proposta della Commissione e previa consultazione della BCE. Al SEBC o, più precisamente, all’Eurosistema, è affidata la gestione della politica monetaria. L’obiettivo principale di tale politica è la stabilità dei prezzi, che la stessa BCE ha quantificato in un livello di inflazione inferiore, ma prossimo, al 2% nel medio termine. Fatto salvo tale obiettivo, la SEBC sostiene le politiche economiche generali dell’UE al fine di contribuire alla realizzazione degli obiettivi definiti all’art. 3 TUE. L’art. 282 TFUE attribuisce alla BCE una personalità giuridica distinta rispetto a quella dell’UE e dispone che essa sia indipendente, nell’esercizio dei suoi poteri e nella gestione delle sue finanze, da istituzioni, organi e organismi dell’UE, nonché dai governi degli Stati membri. L’art. 340 TFUE in tema di responsabilità extracontrattuale dell’UE, dispone una responsabilità della BCE separata da quella dell’UE, per i danni cagionati da “essa stessa” → ciò non vale, secondo la Corte di giustizia, a distaccare la BCE dall’UE. Per quanto attiene al suo funzionamento interno, la BCE si compone di tre organi. 1. Il comitato esecutivo comprende il Presidente, il Vicepresidente e altri quattro membri → nominati dal Consiglio europeo, tra persone di riconosciuta esperienza nel settore monetario e con la cittadinanza di uno Stato membro. Il loro mandato ha una durata di 8 anni e non è rinnovabile, il comitato esecutivo è responsabile della gestione degli affari correnti della BCE. 2. Il consiglio direttivo comprende i membri del comitato esecutivo nonché i governatori delle banche centrali nazionali degli Stati membri la cui moneta è l’euro. Formula la politica monetaria dell’UE. 3. Il consiglio generale comprende invece il Presidente e il Vicepresidente della BCE e i governatori delle banche centrali nazionali di tutti gli Stati membri, inclusi quelli che non hanno ancora adottato la moneta unica. Tra i suoi compiti rientrano quello di favorire il coordinamento tra l’Eurosistema e le banche centrali degli Stati no euro, nonché la raccolta di informazioni statistiche. L’art 130 TFUE afferma solennemente il principio dell’indipendenza della BCE e delle banche centrali nazionali. Tale principio si esplicita sotto diversi profili: - indipendenza istituzionale → la BCE e le banche centrali nazionali non possono ricevere ordini né istruzioni dalle altre istituzioni dell’UE; - indipendenza personale → gli individui che compongono i loro organi non possono subire influenze; - indipendenza funzionale → BCE dispone di tutti i poteri necessari per l’esercizio delle sue funzioni; - indipendenza finanziaria → dispone di proprie risorse finanziarie e di un proprio bilancio. La forte indipendenza di cui gode la BCE ha lo scopo di mettere al riparo la politica monetaria da indebite pressioni dei governi, potenzialmente desiderosi di misure efficaci sulla crescita a breve termine. Tale indipendenza comporta però che la BCE sia anche sottratta a un effettivo controllo politico da parte del Parlamento europeo. A ciò si cerca di ovviare con un rafforzamento dei meccanismi volti a garantire la trasparenza della sua azione: la BCE pubblica tutte le informazioni rilevanti sulla politica monetaria. Sul piano giuridico, invece, rimane ferma la giurisdizione della Corte di giustizia sugli atti della BCE. La sede della BCE è a Francoforte. La Corte dei conti assicura il controllo dei conti dell’UE . In particolare, essa controlla la legittimità e la regolarità delle entrate e delle spese dell’UE e ne accerta la sana gestione finanziaria. Il suo controllo è esterno, in quanto effettuato sulle entrate e sulle uscite di altri organi, organismi e istituzioni dell’UE. Esercita in alcuni casi una funzione consultiva, e può essa stessa ricorrere alla Corte di giustizia per salvaguardare le proprie prerogative. La Corte dei conti è composta da un cittadino di ciascuno Stato membro ed esercita le sue funzioni in piena indipendenza, nell’interesse generale dell’UE. Ad essi, sono sostanzialmente richieste le stesse garanzie di indipendenza, incompatibilità ed immunità dei giudici della Corte di giustizia. La Corte dei Conti è quindi un organo collegiale di individui. L’elenco dei membri è adottato dal Consiglio a maggioranza qualificata e su previa consultazione del Parlamento europeo. La sede della Corte dei conti è a Lussemburgo. Comitato economico e sociale, Comitato delle regioni e agenzie europee ● Il Comitato economico e sociale è composto da rappresentanti delle organizzazioni di datori di lavoro, di lavoratori dipendenti e di altri attori rappresentativi della società civile. Il Comitato economico e sociale è, quindi, la sede di rappresentanza della società civile ed organizzata. ● Il Comitato delle regioni è composto da rappresentanti delle collettività regionali e locali, i quali devono essere titolari di un mandato elettorale nell’ambito di una di tali collettività o comunque responsabili politicamente verso un’assemblea eletta. L’introduzione di questo comitato testimonia l’accresciuta presa di coscienza della realtà regionale da parte dell’UE. Tuttavia, non vi è alcun rapporto tra il numero dei membri attribuiti ai vari Stati e le ripartizioni interne di questi ultimi. Sono molti i tratti comuni tra Comitato economico e sociale e Comitato delle regioni. Anzitutto, entrambi sono organi collegiali di individui, in quanto i loro membri non sono vincolati da alcun mandato imperativo ed esercitano le loro funzioni consultive in piena indipendenza. Il numero dei loro componenti, che non può essere superiore a 350, e la sua ripartizione tra gli Stati membri sono fissati con decisione che il Consiglio deve adottare all’unanimità su proposta della Commissione. Ciascuno dei due comitati è attualmente composto da 329 membri; all’Italia sono attribuiti 24 membri. L’elenco dei componenti dei due comitati, che restano in carica 5 anni, è adottato dal Consiglio, previa consultazione della Commissione. I pareri emessi dai due Comitati nell’ambito della loro funzione consultiva, e indirizzati al Parlamento europeo, al Consiglio e alla Commissione, possono essere: obbligatori, facoltativi e infine, possono essere formulati di propria iniziativa da entrambi i Comitati. Inoltre, il Comitato delle regioni può proporre ricorso alla Corte di giustizia per violazione del principio di sussidiarietà relativamente ad atti legislativi per la cui adozione sia richiesta la sua consultazione. Infine, va ricordata la tendenza, sviluppatasi soprattutto a partire dagli anni novanta, a creare agenzie europee, ossia organismi dotati di personalità giuridica e di una certa autonomia organizzativa e finanziaria, anche se non di indipendenza. Tali organismi sono presenti pressoché in tutti gli ambiti d’azione dell’UE (Autorità europea per la sicurezza alimentare, Ufficio dell’Unione europea per la proprietà intellettuale, Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati...). 8. Banca europea per gli investimenti La Banca europea per gli investimenti è disciplinata dagli artt. 308 e 309 TFUE, nonché dal suo Statuto. Quest’ultimo può essere modificato dal Consiglio, su richiesta della stessa BEI o su proposta della Commissione. La BEI è dotata di autonoma personalità giuridica, distinta rispetto a quella dell’UE. Inoltre, possiede una propria struttura abbastanza articolata, essendo, infatti, amministrata e gestita da un consiglio di governatori, un consiglio di amministrazione e un comitato direttivo. Queste caratteristiche ripropongono l’interrogativo che ci siamo posti per la BCE, ovvero se BEI faccia parte a pieno titolo della peraltro circoscritto questo potere, affermando che la Commissione deve adeguatamente motivare il ritiro e che questo deve essere suffragato da “elementi convincenti”. Prima di effettuare il ritiro, essa deve però prendere in considerazione, nello spirito di leale cooperazione che deve contrassegnare le relazioni tra le istituzioni, le preoccupazioni del Parlamento e del Consiglio all’origine della loro volontà di emendare la proposta. Va inoltre ricordato che ogni proposta di atto legislativo dell’UE, da chiunque provenga , deve essere trasmessa ai Parlamenti nazionali e deve essere adeguatamente motivata sotto il profilo dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità. La procedura legislativa ordinaria La procedura legislativa ordinaria consiste “nell’adozione congiunta di un regolamento, di una direttiva o di una decisione da parte del Parlamento europeo e del Consiglio su proposta della Commissione”. Essa corrisponde in larga misura a quella che, prima del Trattato di Lisbona, era chiamata procedura di codecisione. La procedura legislativa ordinaria costituisce la modalità più diffusa di adozione degli atti legislativi, essendo prevista da più di 80 basi giuridiche. Il suo campo di applicazione si estende, per effetto del Trattato di Lisbona, a settori come lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia, le politiche agricole e della pesca.... L’art. 294 TFUE stabilisce i dettagli di questa procedura, che si caratterizza per i seguenti elementi fondamentali: - i provvedimenti sottoposti a tale procedura possono essere adottati solo con il consenso di entrambe le istituzioni, Consiglio e Parlamento europeo, a ciascuna delle quali compete, quindi, un diritto di veto; - in caso di dissenso tra Parlamento europeo e Consiglio, si convoca un comitato di conciliazione paritetico, con il compito di raggiungere un accordo; - se vi è l’accordo del Parlamento europeo, nelle ultime fasi della procedura il Consiglio può adottare anche a maggioranza qualificata un atto che contenga emendamenti alla proposta della Commissione; - la Commissione svolge il ruolo di mediatore tra Consiglio e Parlamento europeo, nel quadro di una cooperazione tra le tre istituzioni che è l’indispensabile presupposto di questa procedura (“Legiferare meglio”: accordo interistituzionale sulle procedure di codecisione). Venendo ai dettagli, la procedura legislativa ordinaria inizia con la presentazione di una proposta, da parte della Commissione, congiuntamente al Consiglio e al Parlamento europeo. Su tale proposta il Parlamento europeo inoltra al Consiglio la sua posizione. Se il Consiglio approva tale posizione, l’atto è adottato e la procedura si conclude. Se, invece, il Consiglio non è d’accordo sulla posizione del Parlamento, esso formalizza la propria posizione e la trasmette al Parlamento europeo. Questa fase è chiamata “ prima lettura”. Se il Parlamento europeo, entro tre mesi dalla trasmissione di tale posizione del Consiglio, la approva o non si pronuncia, l’atto si considera adottato e la procedura si conclude. Se, invece, respinge, a maggioranza dei membri che lo compongono, la posizione del Consiglio, l’atto si considera non adottato e la procedura ugualmente si conclude, anche se con un insuccesso. Il Parlamento europeo può, infine, proporre emendamenti alla posizione del Consiglio, sui quali la Commissione deve formulare un parere. A sua volta il Consiglio, entro ulteriori 3 mesi dalla comunicazione di tale emendamenti, può: a) approvare tutti gli emendamenti, così che l’atto è adottato e la procedura si conclude; b) non approvare tutti gli emendamenti, con la conseguente convocazione di un comitato di conciliazione. Per la delibera del Consiglio è richiesta di regola la maggioranza qualificata, ma è necessaria l’unanimità per l’approvazione di emendamenti sui quali la Commissione ha dato parere negativo. Questa fase è chiamata “seconda lettura”. Alla seconda lettura segue la fase della “conciliazione”. Il comitato di conciliazione, composto dai membri del Consiglio e da un numero uguale di membri del Parlamento europeo, ha il compito di raggiungere un accordo su un progetto comune, che deve essere approvato, rispettivamente, a maggioranza qualificata dei membri del Consiglio e a maggioranza dei rappresentanti del Parlamento europeo. La Commissione partecipa ai lavori del comitato, prendendo ogni iniziativa necessaria per favorire un riavvicinamento tra le due istituzioni. Se entro 6 settimane dalla convocazione il comitato di conciliazione non raggiunge un accordo, l’atto si considera non adottato e la procedura si conclude con un insuccesso. Se, invece, il comitato di conciliazione raggiunge un accordo su un progetto comune, si apre la fase della “terza lettura”. Parlamento europeo e Consiglio hanno entrambi un termine di 6 settimane per adottare l’atto, deliberando, rispettivamente, a maggioranza dei voti espressi e a maggioranza qualificata. Se lo fanno, l’atto è adottato e la procedura si conclude con successo; in caso contrario, l’atto si considera non adottato e la procedura si conclude con un insuccesso. Nonostante i miglioramenti apportati con le varie revisioni dei Trattati, la procedura legislativa ordinaria resta articolata e laboriosa. Nella prassi, si cerca di ovviare a queste difficoltà attraverso i c.d. “ triloghi ”, ovvero contatti informali tra rappresentanti del Consiglio, del Parlamento europeo e della Commissione , mediante i quali si mira a trovare un accordo prima della prima lettura , così che l’atto possa poi essere adottato già in questa prima fase. Tale prassi, se da un lato agevola la procedura legislativa, dall’altro ha però l’effetto di ridurre la trasparenza del processo legislativo. È dunque importante la recente sentenza in cui il Tribunale dell’UE ha affermato il diritto di accesso del pubblico ai documenti dei triloghi. Le procedure legislative speciali La procedura legislativa speciale non è una specifica procedura definita dai Trattati (dato che, tutte le volte che i Trattati prevedono procedure legislative diverse da quella ordinaria, sono da considerarsi speciali. Il loro tratto comune è quello di consistere nella “adozione di un regolamento, di una direttiva o di una decisione da parte del Parlamento europeo con la partecipazione del consiglio...” o viceversa. L’apparente simmetria della disposizione non deve trarre in inganno. In effetti, sono solo tre i casi in cui è il Parlamento a decidere, con la partecipazione del Consiglio. Tutti e tre questi casi sono marginali e, in ogni modo, il Consiglio deve approvare preventivamente l‘atto del Parlamento europeo. Si tratta dell’adozione dello statuto dei membri del Parlamento europeo, della definizione delle modalità per l’esercizio del diritto di inchiesta del Parlamento europeo e dell’adozione dello statuto del Mediatore europeo. Per converso, l’adozione di un atto legislativo da parte del Consiglio con la partecipazione del Parlamento europeo ricorre molto più di frequente. Nella maggior parte di questi casi, il Consiglio decide all’unanimità; solo in quattro casi, piuttosto marginali, decide invece a maggioranza qualificata. Quanto al coinvolgimento del Parlamento europeo in queste decisioni del Consiglio, esso può consistere nella semplice consultazione dello stesso o nella necessità della sua approvazione dell’atto. Va ricordato, in via generale, che la partecipazione del Parlamento europeo al processo decisionale dell’UE attraverso la sua consultazione da parte del Consiglio costituiva la regola nei Trattati originari. I poteri del Parlamento europeo relativamente a tale processo si son venuti, poi, man mano accrescendo, ma il suo ruolo è rimasto semplicemente consultivo ancora in diversi casi. La consultazione del Parlamento europeo, quando richiesta dai Trattati nell’ambito delle procedure legislative speciali o in altri casi, dà luogo all’emissione da parte di questa istituzione di un atto formale, il parere → che è obbligatorio, nel senso che la sua mancanza renderebbe l’atto del Consiglio illegittimo per violazione delle forme sostanziali. La conseguenza è che, se pure il parere del Parlamento europeo non è vincolante per il Consiglio, sul piano pratico il Parlamento, in presenza di una situazione politica che renda improbabile l’accoglimento da parte del Consiglio del suo parere, potrebbe, semplicemente non formulandolo, essere tentato di almeno ritardare la decisione del Consiglio. Il limite a tale eventuale tattica del Parlamento europeo è duplice: da una parte, esso si deve conformare al dovere di tale cooperazione; dall’altra parte, vi è la possibilità per il Consiglio di adire la Corte di giustizia con un ricorso in carenza contro il Parlamento. Qualora, invece, la proposta della Commissione su cui il Parlamento ha già fornito il suo parere venisse sostanzialmente modificata, dalla stessa Commissione o dal Consiglio, il Parlamento dovrà essere nuovamente consultato sulla proposta così modificata. Molto più incisivo è l’intervento del Parlamento europeo quando, per l’adozione di un atto legislativo da parte del Consiglio, è prevista la sua previa approvazione, la quale, quindi, gli dà in sostanza un diritto di veto. La differenza rispetto alla procedura legislativa ordinaria è che, nel caso dell’approvazione, il Parlamento europeo si pronuncia su un testo alla determinazione del cui contenuto esso non ha contribuito. La necessità della previa approvazione del Parlamento europeo nel quadro di una procedura legislativa speciale è prevista, per esempio, in tema di misure per combattere le discriminazioni, di estensione dei diritti legati alla cittadinanza dell’UE, di procedura elettorale uniforma per le elezioni del Parlamento, di utilizzo della clausola di flessibilità. Al di fuori delle procedure legislative, la previa approvazione del Parlamento è altresì richiesta, per la conclusione di diversi accordi internazionali tra l’UE e Stati terzi. Si osservi, che tale procedura prevede sempre il necessario accordo tra il Parlamento europeo e il Consiglio, e dunque non consente all’istituzione che rappresenta i cittadini dell’UE di indirizzare l’azione di questa unicamente secondo il proprio volere. 2. La funzione normativa delegata Oltre all’emanazione di atti legislativi, nell’UE è prevista anche quella di atti normativi delegati e di atti di esecuzione, che comporta in entrambi i casi l’attribuzione di poteri decisionali alla Commissione. La distinzione tra atti delegati e atti di esecuzione è stata introdotta solo dal Trattato di Lisbona. La ratio sottostante alla previsione di atti delegati è quella di evitare un eccesso di dettagli nella produzione normativa soggetta alle complesse procedure legislative, limitando agli elementi essenziali il contenuto degli atti adottati secondo tali procedure. L’art. 290 TFUE prevede pertanto che un atto legislativo può delegare alla Commissione il potere di emanare atti, definiti non legislativi di portata generale, che integrano o modificano elementi non essenziali dello stesso atto legislativo. Tali atti così delegati alla Commissione sono quindi dei veri e propri atti normativi, di un rango inferiore rispetto agli atti legislativi. Infatti, l’atto legislativo che contiene la delega alla Commissione deve esplicitamente delimitare “gli obiettivi, il contenuto, la portata e la durata della delega di potere”. Inoltre, tale atto legislativo di delega deve fissare le condizioni cui è soggetta la delega stessa. Tali condizioni possono essere di due tipi: - l’atto legislativo può attribuire al Parlamento europeo e al Consiglio il potere di revocare (anche disgiuntamente) la delega. - l’atto legislativo può disporre che l’atto delegato possa entrare in vigore solo se, entro un termine fissato, né il Parlamento europeo né il Consiglio hanno sollevato obiezioni → potere di controllo sugli atti delegati di Parlamento europeo e Consiglio. Qualche difficoltà può sorgere nel definire quali sono gli elementi essenziali di un atto legislativo, su cui non può vertere un atto delegato della Commissione, e quali non lo sono. Sul punto, la Corte di giustizia ha recentemente affermato che “un elemento ha carattere essenziale, in particolare, se la sua adozione richiede scelte politiche rientranti nelle responsabilità proprie del legislatore dell’Unione, ... o se permette ingerenze talmente incisive nei diritti fondamentali delle persone coinvolte da rendere necessario l’intervento del legislatore dell’Unione.” Per agevolare l’esercizio della funzione normativa delegata, Parlamento europeo, Consiglio e Commissione hanno concluso una “convenzione d’intesa sugli atti delegati”, che comprende una serie di formule standard utilizzabili negli atti legislativi di base. 3. La funzione esecutiva amministrazione anche di propria iniziativa e che gli organi sia dell’UE che degli Stati membri sono tenuti a fornirgli le informazioni necessarie. 5. La funzione di bilancio Come ogni bilancio contabile, anche il bilancio dell’UE è costituito da entrate e da uscite. Le entrate derivano dal sistema di finanziamento dell’UE; le uscite sono costituite dalle spese per il funzionamento dell’UE e per l’esplicazione delle sue attività. Per esplicita previsione dell’art. 310 TFUE, entrate e spese devono risultare in pareggio. Esaminiamo le principali “disposizioni finanziarie” contenute nel Titolo II della Parte Sesta del TFUE. Il sistema di finanziamento dell’UE Cominciando dal versante delle entrate, occorre premettere qualche considerazione generale sul finanziamento delle organizzazioni internazionali. È evidente che il grado di indipendenza delle organizzazioni internazionali dai singoli Stati membri deriva in misura significativa dalla loro capacità di autofinanziarsi. La storia, anche recente, dell'ONU e di alcuni dei suoi istituti specializzati conferma ciò. È per questo motivo che era stata considerata estremamente innovativa la soluzione introdotta dall’art. 49 del Trattato istitutivo della CECA, la quale si finanziava attraverso vere e proprie imposte a carico delle imprese carbosiderurgiche. Il grado di indipendenza dagli Stati membri, raggiunto in questo modo dalla CECA, è rimasto ineguagliato. Gli Stati membri, dal loro canto, abdicavano per la prima volta all’esclusività del potere impositivo sul proprio territorio. Nel sistema dell’UE, non poteva certo ripetersi l‘esperienza della CECA. La redazione originaria del Trattato CEE prevedeva, pertanto, contributi finanziari a carico degli Stati membri. Fin dagli anni ‘70, tuttavia, i contributi diretti da parte degli Stati membri sono stati sostituiti da c.d. “risorse proprie”. Attualmente, l’art. 311 TFUE recita come segue : “Il bilancio, fatte salve le altre entrate, è finanziato integralmente tramite risorse proprie”. Il Trattato non specifica quali siano le risorse proprie, ma detta la procedura per l’adozione di una decisione al riguardo. Ai sensi dell’art. 311 TFUE, questa procedura si articola in due fasi: 1. la decisione è adottata dal Consiglio secondo una procedura legislativa speciale, con voto unanime e previa consultazione del Parlamento europeo; 2. tale decisione deve essere approvata da tutti gli Stati membri. Tale decisione individua tre categorie di risorse proprie: le risorse proprie tradizionali, la risorsa IVA e la risorsa calcolata sulla base del reddito nazionale lordo (RNL) degli Stati membri. ● La categorie delle risorse proprie tradizionali riunisce quelle che originariamente erano due distinte categorie, ossia i c.d. prelievi agricoli (insieme eterogeneo di entrate, derivanti dagli scambi con Paesi terzi nella politica comune) e i dazi doganali derivanti dall’applicazione della tariffa doganale comune. Queste risorse sono riscosse dagli Stati membri secondo modalità definite nei rispettivi ordinamenti. Gli stati membri trattengono, a copertura delle spese di esazione, una percentuale degli importi riscossi, attualmente fissa al 2%. ● La risorsa IVA deriva dall’applicazione di un’aliquota uniforme, attualmente pari allo 0,30%, agli imponibili IVA armonizzati degli Stati membri. Per ciascuno Stato membro, l’imponibile da prendere in considerazione non può però superare il 50% dell’RNL, al fine di evitare che gli Stati meno prosperi, debbano versare un importo sproporzionato rispetto alla loro capacità contributiva. ● Mentre le risorse proprie fin qui menzionate erano previste già nella prima decisione in materia, la risorsa RNL è stata introdotta nel 1988. Essa deriva dall’applicazione di un’aliquota uniforme all’RNL di ciascuno Stato membro → che viene fissata ogni anno nel corso dell’adozione del bilancio, tenendo conto del totale di tutte le altre entrate, in modo che il bilancio risulti in pareggio. Questa risorsa è di fatto divenuta la più importante, rappresentando ormai circa i tre quarti del totale delle entrate dell’UE. ● La decisione 2020/2053 ha introdotto una nuova risorsa propria, che consiste in un contributo nazionale basato sul peso dei rifiuti di imballaggio di plastica non riciclati generati in ciascuno Stato membro. La stessa decisione disciplina altri due aspetti fondamentali del sistema. In primo luogo, essa stabilisce il tetto massimo annuale delle risorse proprie, che viene fissato all’1,40% della somma degli RNL degli Stati membri. In secondo luogo, la decisione prevede una serie di correzioni a favore di Austria, Danimarca, Germania, Paesi Bassi e Svezia → hanno fatto valere la loro posizione di “contribuenti netti”, al fine di ottenere una riduzione dell’aliquota di prelievo della risorsa IVA o riduzioni lorde del proprio contributo annuo basato sull’RNL. Quanto alle “altre entrate” menzionate, esse hanno un peso assolutamente marginale e si concretano, essenzialmente, nelle trattenute sugli stipendi dei funzionari dell’UE e nelle ammende e somme forfettarie. Inoltre la decisione 2020/2053, per consentire la realizzazione del Next Generation UE, conferisce alla Commissione il potere “eccezionale e temporaneo” di contrarre prestiti sui mercati di capitali per conto dell’UE. Il quadro finanziario pluriennale e procedure di approvazione, esecuzione e controllo bilancio dell’UE A partire dalla seconda metà degli anni ottanta, le decisioni sulle risorse proprie sono state adottate nel quadro di più ampi negoziati aventi ad oggetto anche le prospettive finanziarie. Il Trattato di Lisbona ha infine preso atto di questa prassi, dedicando l’art. 312 TFUE al quadro finanziario pluriennale. Ai sensi di questa disposizione, il quadro finanziario pluriennale persegue l’obiettivo di assicurare l’ordinato andamento delle spese dell’UE entro i limiti delle sue risorse proprie. A questo fine, esso fissa il tetto degli stanziamenti annuali per grandi categorie di spesa, corrispondenti ai grandi settori di attività dell’UE. La norma prevede, inoltre, che il quadro finanziario pluriennale abbia una durata almeno quinquennale e ne impone il rispetto da parte dei vari bilanci annuali. Sotto il profilo procedurale, l’art. 312 TFUE dispone che il quadro finanziario pluriennale sia stabilito mediante un regolamento adottato secondo una procedura legislativa speciale, nel cui ambito il Consiglio delibera all’unanimità previa approvazione del Parlamento europeo (la norma contempla anche che una “passerella”, ai sensi della quali il Consiglio europeo è abilitato a prendere, all’unanimità, una decisione che consenta al Consiglio di deliberare a maggioranza qualificata quando adotta il suddetto regolamento). Il quadro finanziario pluriennale attualmente in vigore, relativo al periodo 2021-2027, è contenuto nel regolamento del Consiglio 2020/2093. I c.d. stanziamenti di impegno previsti da tale quadro ammontano complessivamente a quasi 1100 miliardi di euro. La maggior parte di questi stanziamenti è destinata alle due politiche tradizionalmente di maggior peso nel bilancio dell’ UE, cioè la politica di coesione economica, sociale e territoriale e la politica agricola comune. Stanziamenti di minore entità riguardano il mercato unico, l’innovazione e l’agenda digitale, sicurezza interna e difesa, …. Contestualmente all’adozione del citato regolamento, Parlamento europeo, Consiglio e Commissione hanno anche concluso un accordo interistituzionale sulla disciplina di bilancio e sulla sana gestione finanziaria. Passiamo ora a esaminare la procedura di approvazione del bilancio annuale dell’UE, che viene stabilito congiuntamente dal Parlamento europeo e da Consiglio secondo una particolare procedura legislativa descritta nell’art. 314 TFUE. - Tale procedura comporta, innanzitutto, che entro il 1° luglio di ciascun anno ogni istituzione dell’UE prepari una previsione delle proprie spese per l’esercizio finanziario successivo, che corrisponde all’anno solare. - La Commissione prepara e sottopone al Parlamento europeo e al Consiglio, entro il 1° settembre, un progetto preliminare di bilancio. - Il Consiglio adotta la sua posizione sul progetto di bilancio a maggioranza qualificata e la comunica al Parlamento europeo entro il 1° ottobre. - Se, entro un termine di 42 giorni da tale comunicazione, il Parlamento approva la posizione del Consiglio o non delibera al riguardo (silenzio-assenso), il bilancio si considera definitivamente adottato. Se, invece, entro il termine suddetto, il Parlamento adotta, a maggioranza dei membri che lo compongono, degli emendamenti, il progetto di bilancio così emendato è trasmesso al Consiglio e alla Commissione (fase di “prima lettura”). - A questo punto si apre tra Parlamento europeo e Consiglio la fase della “conciliazione”, con modalità simili a quelle previste per la procedura legislativa ordinaria. Se il comitato paritetico di conciliazione non raggiunge, entro 21 giorni dalla convocazione, un accordo su un progetto comune di bilancio, la Commissione dovrà sottoporre un nuovo progetto di bilancio. Se, invece, il comitato di conciliazione raggiunge un accordo su tale progetto comune, si apre la fase di “ seconda lettura”, nel corso della quale Parlamento europeo e Consiglio hanno ulteriori 14 giorni per approvare il progetto comune, rispettivamente a maggioranza dei voti espressi e a maggioranza qualificata. In quest’ultima fase, il bilancio si considera effettivamente adottato se entrambe le istituzioni approvano il progetto comune o non riescono a deliberare, oppure se una delle due approva mentre l’altra non riesce a deliberare. Se, invece, il Parlamento europeo o entrambe le istituzioni respingono il progetto comune, la Commissione dovrà presentare un nuovo progetto di bilancio. Quindi, in materia di approvazione del bilancio annuale, Consiglio e Parlamento europeo sono su un piede di assoluta parità. La procedura, qualora abbia avuto esito positivo, si chiude con la formale constatazione, da parte del Presidente del Parlamento europeo, che il bilancio è definitivamente adottato. Come precisato dalla Corte di giustizia, questo atto conferisce forza obbligatoria al bilancio. Ricapitolando sulla reale portata dei poteri del Parlamento europeo in materia di bilancio, occorre ricordare che, in uno Stato democratico, compete al Parlamento, in rappresentanza del popolo, legiferare in materie di entrate e approvare il bilancio dello Stato, in base al principio “no taxation without representation.” Ricordiamo, infine, che, senza un bilancio approvato, si applica il regime c.d. “dei dodicesimi”, previsto dall’art. 315 TFUE, in base al quale l’UE in ciascun mese non può spendere, per ciascun capitolo di spesa, più di un dodicesimo di quanto era disponibile nel bilancio dell’esercizio precedente. Venendo all’esecuzione del bilancio e al relativo sistema di controlli, va anzitutto detto che il compito di dare esecuzione al bilancio spetta alla Commissione, in cooperazione con gli Stati membri e in conformità al principio della buona gestione finanziaria. Le modalità attraverso le quali ciò avviene sono specificate nel c.d. regolamento finanziario. Questo, in particolare, prevede che la Commissione possa eseguire il bilancio non solo mediante i suoi servizi, ma anche delegando i compiti di esecuzione agli Stati membri o ad altri soggetti. Tra queste possibili modalità di esecuzione del bilancio, la c.d. gestione concorrente con gli Stati membri è quella di gran lunga prevalente nella prassi. L’esecuzione del bilancio si svolge sotto il controllo della Corte dei conti, del Parlamento europeo e del Consiglio. La Commissione sottopone ogni anno al Parlamento europeo e al Consiglio i conti dell’esercizio trascorso. È il Parlamento europeo che, su raccomandazione del Consiglio, dà atto alla Commissione dell’esecuzione del bilancio. Prima di compiere quest’atto, che è chiamato “decisione di scarico” e che, in pratica, equivale al riconoscimento che la Commissione si è attenuta al principio della buona gestione finanziaria, il Parlamento europeo esamina, tra l’altro, la relazione annua della Corte dei conti. La Corte dei conti “assicura il controllo dei conti” → controlla la legittimità e la regolarità delle entrate e delle spese e presenta al Consiglio e al Parlamento europeo una dichiarazione in cui attesta l’affidabilità dei conti. Si tratta di un controllo essenzialmente di legittimità, in cui la Corte deve anche accettare la sana gestione finanziaria. Il controllo è, in genere, successivo agli avvenuti versamenti delle entrate e pagamenti delle spese, ma può essere effettuato anche “prima della chiusura dei conti...”. La Corte dei conti non si limita a controllare i documenti contabili che le vengono sottoposti, ma può effettuare controlli direttamente presso le altre istituzioni dell’UE, nonché all’interno degli Stati membri. La Corte, infine, presenta alle altre istituzioni una relazione annuale sui conti dopo la chiusura di ciascun ➔ Il principio di non discriminazione vieta, in primo luogo, ogni discriminazione basata sulla nazionalità, secondo un concetto che fin dalla nascita della CEE ha ispirato la creazione del mercato comune e la realizzazione delle connesse libertà di circolazione. Sono altresì vietate le discriminazioni fondate sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica e sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua... L’art. 19 TFUE abilita il Consiglio ad adottare all’unanimità, secondo una procedura legislativa speciale e previa approvazione del Parlamento europeo, tutti i provvedimenti opportuni a combattere le suddette discriminazioni. Anche gli Stati membri devono contribuire a combattere tali discriminazioni e, al riguardo, il Parlamento europeo e il Consiglio deliberando questa volta secondo la procedura legislativa ordinaria, possono adottare i principi di base delle misure di incentivazione da parte dell’UE volte ad appoggiare l’azione degli Stati membri in questo senso. Il principio di non discriminazione di cui all’art. 19 TFUE ha portata generale. Tuttavia, altre norme dei Trattati lo specificano con riferimento alla parità tra i sessi, sia in generale, sia in particolare nel campo del lavoro subordinato. Al riguardo, l’art. 157 TFUE obbliga innanzitutto gli Stati membri ad assicurare l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra i lavoratori dei due sessi e, in secondo luogo, abilita il Parlamento europeo e il Consiglio ad adottare le misure che assicurino l’applicazione del “ principio delle pari opportunità e della parità di trattamento tra uomini e donne in materia di occupazione e impiego...”. In deroga al principio della parità di trattamento, l’art. 157 TFUE legittima le c.d. affirmative actions da parte degli Stati membri, volte all’adozione di misure che prevedano vantaggi specifici tesi a facilitare l’accesso ad un’attività professionale da parte del sesso sottorappresentato. Ad altri principi generali enunciati dai Trattati sono ricollegate specifiche conseguenze. Ci riferiamo ai principi di attribuzione, di sussidiarietà, prossimità e proporzionalità, di leale cooperazione, ai principi democratici, di buona gestione finanziaria, di un’economia di mercati aperta e in libera concorrenza. Quest’ultimo principio implica il rispetto di alcuni “principi direttivi”, quali prezzi stabili, finanze pubbliche e condizioni monetarie sane. La protezione dei diritti fondamentali nell’ordinamento dell’UE Il rango di fonti primarie dell’ordinamento dell’UE spetta a pieno titolo alle norme volte alla tutela dei diritti umani fondamentali. I progressi realizzati a questo riguardo si possono apprezzare tenendo conto innanzitutto del fatto che all’inizio dell’esperienza comunitaria i Trattati istitutivi delle Comunità europee non menzionavano i diritti dell’uomo. Il progredire del processo di integrazione ha però negli anni reso sempre più impellente la necessità di dare rilevanza ai diritti fondamentali nell’ordinamento comunitario. L’ambito di attività della CEE si era progressivamente ampliato al di là della sfera commerciale, con un impatto sempre maggiore in materie inerenti alla vita delle persone. In risposta a queste esigenze, l’importanza dei diritti fondamentali nell’ordinamento dell’UE ha trovato riscontri sempre maggiori sia nella giurisprudenza della Corte di giustizia, sia infine in modifiche dei Trattati che hanno sancito l’introduzione di diverse previsioni relativi ai diritti fondamentali. Ricordiamo che oggi i diritti dell’uomo sono ricompresi tra i valori fondanti dell’UE, la cui violazione è prevista come possibile oggetto di specifiche sanzioni, e il cui rispetto è necessario per poter essere ammessi come nuovi membri nell’UE. Si può ben dire che la protezione dei diritti fondamentali è oggi uno dei più importanti elementi identitari dell’UE. L’affermazione giurisprudenziale dei principi generali di diritto UE della protezione dei diritti umani Si deve alla Corte di giustizia l’avvio dell’evoluzione sopra ricordata, con una serie di pronunce in cui essa ha affermato che i diritti fondamentali costituiscono principi generali facenti parte dell’ordinamento comunitario. La ricostruzione dei diritti da proteggere è stata operata dalla Corte, a partire dagli anni ‘70, richiamando le convenzioni internazionali in materia di diritti dell’uomo, e in particolare la CEDU, oltre alle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri. Alle affermazioni della Corte di giustizia ha fatto poi seguito il riconoscimento dei diritti fondamentali come principi generali con il TUE nel 1992: “i diritti fondamentali... fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali”. La qualifica dei diritti fondamentali garantiti dalla CEDU come principi generali dell’ordinamento dell’UE implica l’obbligo di conformarsi ai principi suddetti nell’emanazione, attuazione, esecuzione e interpretazione delle norme di diritto dell’UE. In caso di violazione di tale obbligo, i singoli hanno a loro disposizione i rimedi offerti dall’ordinamento UE e il ricorso di legittimità alla Corte di giustizia. È opportuno ricordare altre forme con cui l’UE tende ad evitare casi di contrasto tra disposizione di diritto dell’UE e i diritti fondamentali. Da un lato entra in considerazione lo sforzo della Commissione europea di garantire il rispetto dei diritti fondamentali nelle varie politiche e negli atti dell’UE. D’altro lato va menzionata l’Agenzia per i diritti fondamentali dell’Unione europea, con due compiti: raccogliere informazioni e dati in ordine alle conseguenze pratiche dei provvedimenti dell’UE; offrire una funzione consultiva, da esplicarsi attraverso la formulazione di conclusioni e pareri su specifici aspetti. La Carta dei diritti fondamentali dell’UE L’UE, oltre a riconoscere le norme della CEDU, ha deciso di dotarsi di un proprio catalogo di diritti fondamentali. Tale catalogo è contenuto nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea “proclamata” a Nizza il 7 dicembre 2000 da Parlamento europeo, Consiglio e Commissione. Il testo della Carta attualmente in vigore è quello ri-proclamato a Strasburgo il 12 dicembre 2007. Tale Carta era stata elaborata da un’apposita commissione mista, denominata “convenzione” formata anche da membri dei Parlamenti nazionali degli Stati membri. Una delle novità più rilevanti del Trattato di Lisbona: l’art.6 TUE sancisce infatti che la Carta “ha lo stesso valore giuridico dei trattati”. Questa previsione ha una portata che si può definire “doppia”: essa accorda efficacia giuridicamente vincolante alla Carta; in secondo luogo la norma attribuisce alla Carta un rango parificato a quello del TUE e del TFUE (fonte primaria). La Carta contempla un catalogo molto ampio di diritti fondamentali: norme corrispondenti a disposizione della CEDU, diritti economici, sociali e culturali, disposizioni del TUE. Le varie disposizioni sono raggruppate in sei capi: dignità; libertà; uguaglianza; solidarietà; cittadinanza; giustizia. Nel caso di disposizioni della Carta sostanzialmente riproduttive di disposizioni della CEDU, la loro interpretazione deve conformarsi a quella elaborata in ordine a queste ultime disposizioni. I limiti entro i quali opera la Carta vanno tenuti ben presente. La disposizione più importante con riguardo all’ambito di applicazione è indubbiamente l’art. 51, che precisa da un lato che le norme della Carta si applicano direttamente alle istituzioni, organi e organismi dell’UE, e quindi sottintende che l’UE è tenuta a rispettare la Carta, tramite i suoi organi, in ogni sua attività. La norma specifica invece che la Carta si applica agli Stati membri “esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione”. Le norme dell’UE sui diritti fondamentali quindi pongono dei vincoli in capo all’UE in generale, e in capo agli Stati membri solo nell’ambito suddetto. In altri termini, la Carta non può essere invocata con riferimento a qualunque atto o provvedimento di diritto interno dei singoli Stati membri. La Corte di giustizia ha interpretato in modo estensivo questa disposizione, chiarendo che l’obbligo di rispettare i diritti garantiti dalla Carta sussiste ogniqualvolta gli Stati membri agiscano “nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione”. Dallo stesso articolo TUE traspare l’intento di delimitare la portata della Carta, nella parte in cui sancisce che le sue disposizioni non estendono in alcun modo le competenze dell’UE come definite nei Trattati. Sul piano sostanziale, in relazione alla rilevanza dei singoli diritti fondamentali, la disposizione più importante è la c.d. “clausola generale di limitazione”, ai sensi della quale l’UE e gli Stati membri possono porre della restrizioni ai diritti e alle libertà riconosciuti dalla Carta, purché le restrizioni siano previste dalla legge, non comportino una limitazione tale da violare il contenuto essenziale dei diritti e delle libertà in questione, e rispettino il principio di proporzionalità. La norma stessa specifica che in concreto ai diritti e alle libertà previsti dalla Carta “possono essere apportate limitazioni solo laddove siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale...”. Sul giudizio di proporzionalità sono imperniate diverse sentenza in cui la Corte di giustizia si è pronunciata. In concreto, quest’ultimo giudizio si risolve nella ponderazione tra i vari diritti e interessi in gioco nelle fattispecie concrete. In altri casi il giudizio della Corte ha portato a verificare che la compressione dei diritti fondamentali determinata da una normativa dell’UE non fosse proporzionata rispetto all’interesse perseguito, e ha tratto quindi un giudizio di invalidità dell’atto normativo in questione. Un esempio molto chiaro è offerto dalla nota sentenza Digital Rights Ireland: i giudici appuravano in primo luogo che l’obbligo di conservare i dati relativi alle comunicazioni elettroniche dell’UE corrispondeva all’interesse generale dell’UE alla lotta al terrorismo e alla criminalità organizzata; verificavano quindi, come secondo passaggio, l’idoneità della misura in questione a contribuire alla lotta alla criminalità e al terrorismo; consideravano, invece, che la misura controversa non fosse necessaria e indispensabili al perseguimento di tale obiettivo. Su questa base la Corte dichiarava l’invalidità totale della Direttiva stessa. La rilevanza della Carta nella giurisprudenza della Corte di giustizia La Corte ha impiegato ampiamente nelle sue decisioni lo strumento della Carta, in ragione dei caratteri di vincolatività e superiorità gerarchica sanciti dall’art. 6 TUE. Merita di essere sottolineato a questo riguardo che, i giudici dell’UE impiegano la Carta come principale parametro di riferimento per valutare la validità e stabilire la corretta interpretazione degli atti dell’UE. Si tratta di un mutamento giurisprudenziale evidente rispetto al periodo in cui la Carta non aveva valore formalmente vincolante: prima del Trattato di Lisbona, infatti, la Corte impiegava la Carta come strumento che concorreva alla ricostruzione e all’interpretazione di principi generali di diritto dell’UE. Nell’attuale giurisprudenza della Corte in materia di diritti fondamentali, viceversa, giudizi della Corte tendono ad essere incentrati sulla Carta. Non mancano comunque talora riferimenti ai principi generali, nonché alla CEDU come fonte di ricognizione dei medesimi principi generali, o come ausilio per l’interpretazione delle norme della Carta. Il rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 TFUE è stato il principale strumento tramite il quale la Carta ha assunto rilevanza nella giurisprudenza dell’UE. In ragione dell’attribuzione alla Carta del carattere di diritto primario all’interno dell’ordinamento dell’UE, la Carta può fungere da parametro diretto di legittimità rispetto alle fonti secondarie. Chiaramente, il rispetto della Carta non riguarda solo gli atti normativi dell’UE, ma va assicurato da tutte le istituzioni dell’UE. Dato che, come si è visto, l’obbligo di assicurare adeguate tutele ai diritti contemplati nella Carta vale anche per gli Stati membri quando diano attuazione a norme di diritto dell’UE, anche i giudici nazionali hanno l’obbligo di disapplicare, all’occorrenza, eventuali normative degli Stati membri che si pongano in contrasto con singole disposizioni della Carta. La valutazione della compatibilità di atti nazionali con la Carta può essere operata dalla Corte sulla base di quesiti pregiudiziali di interpretazione. Come parametro interpretativo, la Carta è comunemente utilizzata dalla Corte per determinare il significato delle disposizioni contenute in atti delle istituzioni che formano oggetto di questioni pregiudiziali. In concreto, orientare nettamente l’interpretazione degli atti nel senso della tutela dei diritti enunciati dalla Carta ha portato a soluzioni anche di grande impatto. Ci si limita qui a menzionare a titolo di esempio le decisioni con cui la Corte: ha escluso che uno Stato membro, nell’allontanare una persona verso un altro Stato membro, possa presumere senza accertamenti che in quest’ultimo Stato la persona non rischia di incorrere in trattamenti inumani; ha specificato la portata del c.d. “diritto all’oblio” nei confronti dei gestori dei motori di ricerca su internet, interpretando in modo evolutivo la direttiva sulla privacy... La Corte ha spesso sottolineato l’obbligo di adottare l’interpretazione più conforme alla Carta degli atti emanati dall’UE, in ragione del suo valore prevalente rispetto alle fonti secondarie. Nel caso in cui il tenore soggetti terzi con i quali l’UE abbia concluso un accordo internazionale che sia giudicato in violazione dei Trattati. Con le altre parti contraenti l’UE dovrebbe ricercare una soluzione amichevole attraverso una rinegoziazione. La richiesta di parere preventivo alla Corte di giustizia sui progetti di accordi internazionali è senz’altro un sistema adeguato a prevenire tali contrasti. Una volta che l’accordo sia stato concluso, la Corte di giustizia è competente a pronunciarsi in via pregiudiziale in merito all’interpretazione delle norme pattizie. Le norme contenute in tali accordi possono essere idonee a produrre effetti diretti in capo ai singoli. Sull’incidenza delle norme di diritto internazionale generale in ordine agli Accordi internazionali conclusi dall’UE si rimanda a quanto detto in precedenza. Ricordiamo che, ai sensi dell’art. 275 TFUE la Corte di giustizia non ha competenze per quanto riguarda le disposizioni relative alla politica estera e di sicurezza comune e, quindi, nemmeno relativamente agli accordi internazionali conclusi nell’ambito della stessa politica. Per quanto riguarda gli accordi nell’ambito dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia, vi sono alcuni limiti posti alla competenza pregiudiziale della Corte, con riferimento a Regno Unito e Danimarca. 5. Le fonti secondarie Le fonti secondarie sono rappresentate da atti emanati dalle istituzioni dell’UE e costituiscono il c.d. diritto derivato dell’UE, comprensivo sia degli atti tipici che di vari esempi di atti atipici. L’art. 288 TFUE rappresenta la principale norma a questo riguardo; non a caso essa si apre con un richiamo implicito al principio di attribuzione. Agli atti indicati in tale articolo ci si riferisce come “atti tipici”. Le istituzioni dell’UE emanano, inoltre, altri atti, definiti atipici, che in genere si sono affermati nella prassi dell’UE. I Trattati indicano quali atti possono essere adottati dalle istituzioni dell’UE in diversi casi, a volte lasciando discrezionalità nella scelta tra atti diversi. L’art. 296 TFUE specifica che, quando i Trattati non prevedono il tipo di atto da adottare, le istituzioni dell’UE lo decidono di volta in volta. In base al principio di attribuzione, le istituzioni dell’UE possono emanare un atto avente valore normativo “minore” di quello previsto dai Trattati, ma non uno avente valore normativo “maggiore”. I regolamenti L’art. 288 TFUE individua tre caratteristiche generali dei regolamenti: essi hanno portata generale, sono obbligatori in tutti i loro elementi e sono direttamente applicabili in ciascuno degli Stati membri. ● Il requisito della portata generale implica che i destinatari dei regolamenti debbano essere una o più categorie di soggetti. La qualifica di destinatari del regolamento deve dipendere da circostanze obiettive e la norma regolamentare deve avere il carattere dell’astrattezza, e quindi deve prescindere da singoli casi concreti. Per fare un esempio, è stato affermato che un provvedimento che fissi il prezzo dello zucchero in un determinato periodo rimane un regolamento anche se in quel determinato periodo i produttori di zucchero siano singolarmente individuabili. Se, invece, i destinatari di un atto dell’UE, oltre che individuabili, sono tali in virtù di una loro specifica situazione soggettiva e, quindi, il provvedimento li concerne direttamente e individualmente, il procedimento stesso è in effetti una decisione aventi una molteplicità di destinatari individuali. Questo “smascheramento” è rilevante in concreto, in quanto può consentire ad una persona fisica o giuridica di dimostrare di essere dotata di legittimazione attiva ad impugnare il regolamento stesso con un ricorso di legittimità. ● La seconda caratteristica dei regolamenti è che sono obbligatori in tutti i loro elementi. Gli Stati membri non possono quindi applicare un regolamento in modo incompleto o selettivo, o porre condizioni alla sua applicazione o introdurre limitazioni alla portata delle sue norme. ● Terza caratteristica dei regolamenti: diretta applicabilità in ciascuno degli Stati membri la quale consente ad atti propri dell’ordinamento dell’UE di esplicare i loro effetti nell’ambito di ordinamenti diversi, quali sono quelli degli Stati membri. Ciò è possibile perchè gli Stati membri hanno introdotto al loro interno un meccanismo di adattamento automatico del loro ordinamento a quello dell’UE , senza la possibilità di modificarne in alcun modo o precetti, ma anche senza bisogno di un atto di esecuzione ad hoc per ogni singolo regolamento. Dal momento della loro entrata in vigore, che avviene con identici effetti e in modo simultaneo per tutti gli Stati membri, i regolamenti vincolano tutti i soggetti che si trovano o che si possono trovare nelle situazioni astrattamente descritte. Il che è ben diverso da quel che accade con le direttive, rispetto alle quali i soggetti di diritto interno sono tenuti a rispettare i provvedimenti nazionali di recepimento e attuazione, e quindi ad applicare le norme dettate dall’autorità nazionale. L’emanazione di un atto interno riproduttivo di un regolamento, anche se fosse una trascrizione fedele delle norme dell’UE in una legge nazionale, rappresenterebbe una violazione dell’art. 288 TFUE: da un lato determinerebbe in sostanza una sostituzione della legge al regolamento; d’altro lato, si sottrarrebbero tali norme alla possibilità di un rinvio di interpretazione o di validità alla Corte di giustizia. Un altro aspetto dell’applicabilità diretta dei regolamenti concerne la loro attitudine a produrre effetti diretti in capo ai singoli. Può ben darsi, tuttavia, che i precetti sanciti da un regolamento in qualche misura richiedono l’emanazione di provvedimenti integrativi, che ne specifichino alcuni aspetti, sia da parte degli Stati membri che delle istituzioni dell’UE. All’emanazione di tali provvedimenti, ove necessari, gli Stati membri sono tenuti in base al loro obbligo di leale cooperazione. Per quanto riguarda i provvedimenti integrativi da parte delle istituzioni, l’esempio più chiaro è offerto dagli atti delegati o di esecuzione della Commissione. La necessità di misure di attuazione o integrative non impedisce, in genere, l’immediata vincolatività del regolamento. L’applicabilità diretta, inoltre, non esclude la possibilità che un regolamento si applichi soltanto nel territorio di alcuni Stati membri e, perfino, in determinate zone di un solo Stato membro (ciò avviene, per esempio, per regolamenti in materia agricola). Circa la competenza di emanare regolamenti, richiamiamo quanto detto in merito alla funzione legislativa ed esecutiva dell’UE. I regolamenti sono atti legislativi se adottati con procedura legislativa ordinaria o speciale. Se invece sono adottati dalla Commissione nell’ambito della sua funzione normativa delegata, essi prendono la denominazione di “ regolamenti delegati ”, o quella di “ regolamenti di esecuzione” . Le direttive La direttiva, ai sensi dell’art. 288 TFUE, vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali per quanto riguarda la forma e i mezzi necessari a tale scopo. Nell’ordinamento dell’UE la direttiva è un atto meno invasivo nella sovranità degli Stati membri rispetto al regolamento, ed è maggiormente in linea con i principi di sussidiarietà e proporzionalità. Essa, infatti, permette l’esplicazione del momento normativo a livello dell’UE per la parte che più conta, vale a dire l’identificazione del risultato da raggiungere, con il minor sacrificio possibile della sovranità degli Stati, che restano liberi di determinare la forma e i mezzi necessari. Vengono così salvaguardate alcune differenze tra i sistemi giuridici degli Stati membri. Non si deve però pensare che la direttiva sia un atto parzialmente vincolante, non è così, in quando la direttiva è atto, al pari del regolamento, completamente vincolante per quanto riguarda il suo contenuto, solo che quest’ultimo ha carattere programmatico perché la direttiva deve formare oggetto di un atto nazionale di recepimento. La differenza tra i due atti, può tendere a sfumare in concreto qualora ci si trovi di fronte ad una direttiva particolarmente dettagliata. Le direttive sono indirizzate agli Stati membri, a tutti o solo ad alcuni di essi. Il termine di attuazione è un elemento fondamentale della direttiva. Entro la scadenza, gli Stati membri sono obbligati a comunicare alla Commissione sia le proposte di provvedimenti interni di attuazione, sia i provvedimenti stessi una volta adottati. Quest’obbligo di notifica è stato anch’esso desunto dall’obbligo di leale cooperazione. Dal momento della scadenza del termine per il recepimento, in caso di mancata o inesatta attuazione si verifica una violazione da parte dello Stato dell’obbligo di recepimento, che come vedremo può portare ad un ricorso per infrazione contro lo Stato inadempiente. È solo dalla scadenza di tale termine, inoltre, che può porsi il problema di valutare l’idoneità di alcune norme della direttiva ad avere effetti diretti. All’obbligo di attuazione gli Stati membri non possono sottrarsi adducendo l’inadempimento da parte di altri Stati, o l’assenza di effetti negativi sul funzionamento del mercato comune, ovvero richiamandosi al proprio diritto interno. L’omissione delle misure di attuazione delle direttive espone gli Stati inadempienti al ricorso alla Corte di giustizia da parte della Commissione o da parte di un altro Stato membro. L’art. 260 TFUE prevede, specificamente e solo per l’ipotesi in cui uno Stato membro non comunichi le misure di attuazione di una direttiva legislativa, la possibilità che la Corte di giustizia gli infligga una sanzione pecuniaria sin dalla prima sentenza che accerti l’infrazione. Inoltre, proprio a partire da un caso di mancata attuazione di una direttiva la Corte ha elaborato il diritto dei singoli a richiedere il risarcimento dei danni agli Stati membri inadempienti. La Corte di giustizia ha insistito sulla necessità che l’attuazione delle direttive avvenga nel rispetto delle esigenze della chiarezza e della certezza giuridica. Nel caso in cui tutti gli Stati membri abbiano compiutamente adempiuto all’obbligo di attuazione di una direttiva, trovano applicazione nei rispettivi ordinamenti interni le 27 leggi nazionali di recepimento. La direttiva attuata però non si estingue al raggiungimento di questo risultato; essa resta in vigore e può essere utilizzata a fini interpretativi dall’operatore giuridico chiamato ad applicare la normativa nazionale di attuazione. Le direttive, come i regolamenti, sono atti “legislativi” se adottate con procedura legislativa ordinaria o speciale. Esse prendono la denominazione di “direttive delegate” se adottate dalla Commissione nell’ambito della sua funzione normativa delegata, o di “direttive di esecuzione” se adottate dalla Commissione stessa nell’ambito della sua competenza esecutiva. Nel periodo tra l’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam, e di quello di Lisbona, l’UE ha adottato delle decisioni quadro in materia di cooperazione di polizia e di cooperazione giudiziaria in materia penale, ossia degli atti con caratteristiche fortemente simili alle direttive ma che non possono avere effetti diretti. Sebbene si tratti di atti di cui non è più prevista l’emanazione da parte dell’UE, tuttavia è necessario ricordarne l’esistenza: l’esempio più noto è il mandato di arresto europeo, disciplinato dalla decisione quadro 2002/588/GAI. Le decisioni La decisione, ai sensi dell’art.288 TFUE, è caratterizzata dalla obbligatorietà in tutti i suoi elementi. Se essa designa i destinatari e ha, quindi, portata individuale, è obbligatoria soltanto nei confronti di questi ultimi. Tradizionalmente le decisioni comunitarie si caratterizzavano proprio per essere atti a portata individuale, il che valeva a distinguerle dai regolamenti. Nella prassi, però, si è affermato l’uso di denominare genericamente come “decisioni” determinate delibere di istituzioni dell’UE, giuridicamente vincolanti, che non hanno portata individuale e sono prive dell’indicazione di precisi destinatari. La dottrina talora indicava questi atti come “decisioni sui generis” per distinguerle dalle decisioni individuali. Con il Trattato di Lisbona la formulazione dell’art 288 TFUE è stata cambiata in modo da ricomprendere anche le decisioni a portata generale, indicando che le decisioni possono anche non designare il loro destinatario. Per quanto riguarda le decisioni a portata individuale, queste possono essere dirette a uno o più Stati membri o a uno o più individui, e hanno sostanzialmente natura di atti amministrativi e non normativi. Le decisioni individuali rivolte a Stati membri si differenziano dalle direttive in quanto esprimono un precetto completo, cui lo Stato destinatario si deve semplicemente adeguare. Le decisioni rivolte ad individui determinati sono normalmente emesse dalla Commissione nell’ambito del suo potere di vigilanza sull’applicazione dei Trattati. Assumono particolare rilievo, quelle relative all’applicazione delle regole di concorrenza, le quali possono comportare a carico dei destinatari obblighi coinvolte. Limitatamente agli atti legislativi, ricordiamo che essi devono essere dettagliatamente motivati sotto il profilo del rispetto dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità. ● In conformità al principio di certezza del diritto, la possibilità di avere conoscenza delle norme stabilite negli atti di diritto derivato dell’UE è un requisito fondamentale a garanzia dei destinatari. In questa prospettiva, l’art. 297 TFUE stabilisce l’obbligo di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea, per gli atti legislativi e non legislativi, che assumono a forma di regolamenti o direttive rivolti a tutti gli Stati membri; le raccomandazioni e i pareri non sono soggetti a tale pubblicazione. Gli atti soggetti a pubblicazione sulla Gazzetta entrano in vigore, cioè iniziano a produrre i loro effetti giuridici, alla data da essi stabilita, o, in mancanza, dopo una vacatio legis di venti giorni dalla pubblicazione. Gli atti dell’UE non sono soggetti a pubblicazione, cioè le direttive volte a specifici Stati membri e le decisioni di portata individuale, vanno invece notificati ai destinatari. È escluso che un atto dell’UE possa avere un effetto retroattivo. Le deroghe al principio della irretroattività degli atti dell’UE sono state ammesse solo in via eccezionale e in situazioni in cui l’atto non avrebbe potuto altrimenti raggiungere il suo scopo. Quanto alla firma, gli atti adottati secondo la procedura legislativa ordinaria vanno firmati sia dal Presidente del Parlamento europeo che dal Presidente del Consiglio; quelli adottati secondo la procedura speciale e quelli non legislativi (adottati sotto forma di regolamenti, direttive e decisioni) vanno firmati generalmente del Presidente del Consiglio. Infine, va ricordato che gli atti dell’UE sono redatti nelle 24 lingue ufficiali. ● Collegato in qualche modo agli aspetti formali degli atti dell’UE è il principio di trasparenza del processo decisionale. Per garantire tale trasparenza, l’art. 15 TFUE specifica, anzitutto, che ciascuna istituzione, organo e organismo dell’UE garantisce la trasparenza dei propri lavori e definisce le condizioni riguardanti l’accesso del pubblico ai propri documenti. Il Parlamento europeo e il Consiglio si riuniscono in sedute pubbliche. Inoltre, qualsiasi soggetto, cittadino dell’UE ha il diritto di accesso ai documenti delle istituzioni, organi e organismi dell’UE entro i termini stabiliti. Capitolo 6: Caratteri ed effetti del diritto dell’UE 1. L’efficacia diretta per i singoli del diritto dell’UE La rilevanza che il diritto dell’UE ha progressivamente assunto è dovuta a: l’efficacia diretta per i singoli di molte sue norme (sentenza Van Gend & Loos) e il primato sugli ordinamenti nazionali degli stati membri (sentenza Costa c. ENEL). Le norme dell’unione possono produrre diritti e obblighi, nonché modificarne o eliminarne alcuni. Gli organi degli stati membri devono garantire il rispetto di questi diritti ed obblighi. Riconoscere effetti per i singoli al diritto dell’UE significa in concreto che le norme possono essere fatte valere nei rapporti tra il titolare di un diritto e il soggetto obbligato ai sensi delle norme stesse; se non rispettate, le norme possono essere invocate dinanzi ai giudici nazionali. I giudici nazionali devono assicurare una tutela effettiva del diritto UE ed equivalente al diritto interno. Accanto ai giudici nazionali, pure le pubbliche amministrazioni devono garantire il pieno rispetto delle norme dell’UE nei confronti dei privati interessati. L’efficacia diretta vale soprattutto per i singoli e la corte ha affermato che le norme che hanno come destinatari gli Stati stabiliscono degli obblighi di cui i singoli possono pretendere rispetto. La valutazione che la Corte compie, è svolta norma per norma, per stabilire se la singola disposizione normativa abbia le caratteristiche necessarie per il riconoscimento della diretta efficacia. Questo esame, definito nella dottrina del “direct effect test”, consiste nella valutazione da un lato del carattere chiaro e preciso della norma di diritto dell’UE in questione, dall’altro del suo carattere incondizionato. Le norme devono possedere: ● chiarezza e precisione del precetto contenuto nella norma, tali da consentire al giudice nazionale di applicare la norma stessa al caso concreto. ● carattere non condizionato, che consiste nella circostanza che l’esecuzione della norma non richieda l’adozione di altri atti o ulteriori scelte normative da parte delle istituzioni dell’UE. Solo con queste caratteristiche la norma è applicabile direttamente (anche detta self-executing). È bene ricordare che l’efficacia diretta di una norma UE e il suo primato non giustificano che uno Stato lasci in vigore delle norme interne contrastanti, limitandosi a disapplicarle. L’efficacia diretta delle norme di diritto primario Una norma del Trattato, come può porre degli obblighi a carico dei privati, così può attribuire loro dei diritti. E questa può verificarsi anche quando la norma di per sé stabilisca solo degli obblighi a carico dello Stato, che hanno come “contropartita” dei corrispondenti diritti dei singoli. Si richiede però la presenza nelle norme invocate dei necessari requisiti di chiarezza e precisione, e il loro carattere incondizionato. La Corte ha spesso richiamato il principio dell’effetto utile → senza un’efficacia diretta le norme non sarebbero state in grado di raggiungere il proprio scopo. L'efficacia diretta per i singoli è verticale perché conferisce al singolo la possibilità di far valere i diritti nascenti dalle norme nei confronti della pubblica autorità. In alcuni casi è stata riconosciuta anche un’efficacia diretta orizzontale perché il singolo può far valere la norma anche nei rapporti con altri privati. Un’analoga attitudine a produrre effetti diretti negli ordinamenti statali è stata riconosciuta dalla Corte anche ai principi generali di diritto dell’UE. Sempre restando nell'ambito del diritto primario, la Corte di Giustizia ha avuto modo negli ultimi anni di esaminare la questione dell'attitudine delle norme della Carta a essere invocate in giudizio dei singoli. La Corte ha riconosciuto l'attitudine a produrre effetti diretti per i singoli a norme della carta che enunciano diritti, e non principi. L'invocabilità è stata ammessa nei rapporti verticali nei confronti degli Stati membri, per alcune disposizioni della carta sono state riconosciute idonee a produrre effetti diretti nei rapporti giuridici da privati (piano orizzontale). L’efficacia diretta delle norme dei regolamenti Un discorso analogo a quello fatto per l’efficacia diretta per i singoli delle norme dei Trattati vale anche per i regolamenti, sul piano verticale e orizzontale. L’applicabilità diretta dei regolamenti implica la loro attitudine a costituire situazioni giuridiche soggettive in capo ai soggetti degli ordinamenti interni, senza un atto di esecuzione da parte dei legislatori nazionali. Ciò si verifica in particolare con riguardo alle norme che contengono precetti completi e non richiedono misure attuative o integrative, ma devono comunque avere i requisiti di chiarezza, precisione e incondizionatezza (sentenza Leonesio). Le norme dei regolamenti possono essere invocate in un giudizio interno non solo da un privato nei confronti di un stato ( rapporti giuridici verticali ascendenti) ma anche nelle relazioni tra privati (rapporti giuridici orizzontali). L’efficacia diretta delle norme delle direttive e i suoi limiti Prima non era prevista l'applicabilità diretta per le direttive ma poi la Corte, con una serie di sentenze ha finito per affermare l’attitudine a produrre effetti diretti per i singoli. La premessa generale da cui è partita è stata l’applicazione del principio dell’effetto utile, ai sensi del quale un atto deve essere interpretato in modo da poter raggiungere il suo scopo. Occorre precisare che l'emanazione delle disposizioni di attuazione resta pur sempre un obbligo per gli Stati, per questo sarebbe poco corretto parlare di diretta applicabilità per le direttive. Oltre alle caratteristiche della chiarezza, precisione e incondizionatezza si aggiunge un altro requisito: la previa scadenza del termine previsto per il recepimento delle direttive, senza che lo Stato abbia adottato i provvedimenti necessari. In questa prospettiva la Corte ha concretamente riconosciuto ai singoli e la possibilità di far valere i precetti di una direttiva non attuata dagli Stati destinatari. Ciò è concretamente avvenuto principalmente nel caso in cui la direttiva imponga agli Stati membri obblighi stabiliti in precetti completi, che le autorità statali possono applicare senza la necessità di ulteriori specificazioni da parte degli Stati membri. Un secondo caso riguarda le direttive che impongono agli stati membri obblighi di non facere → obblighi che richiedono agli stati di astenersi da determinati comportamenti. L'efficacia diretta riconosciuta alle direttive va intesa come una garanzia per i singoli e, in sostanza, come una sanzione indiretta all'inadempimento dell'obbligo di recepimento degli Stati membri. Siccome le direttive hanno come destinatari solo gli Stati membri allora si possono applicare solo nei rapporti verticali → ai singoli accordata la possibilità di far valere solo nei confronti delle autorità statali una preintesa fondata su di una norma posta da una direttiva non attuata. La Corte nega la possibilità di far valere la direttiva in senso orizzontale e anche da parte di un'autorità statale contro un privato (efficacia verticale discendente). L’efficacia diretta delle decisioni Per quanto riguarda le decisioni, bisogna distinguere a seconda che i destinatari siano individui o stati. ● Le decisioni rivolte a singoli soggetti sono idonee a produrre effetti diretti, purché siano presenti i caratteri di chiarezza, precisione e incondizionatezza. ● Le decisioni rivolte a Stati possono essere fatte valere direttamente dai singoli di fronte ai giudici nazionali, quando l’obbligo imposto è dotato dei requisiti dell’efficacia diretta. La Corte di giustizia ha precisato che possono essere invocate dai privati nei confronti degli stati (piano verticale), ma non nei rapporti -orizzontali- tra privati. Importanti sono le decisioni di recupero con cui la Commissione ordina ad uno Stato membro di recuperare determinati aiuti erogati in violazione delle norme dell’Ue. Lo Stato è tenuto a farsi restituire l’aiuto dalle imprese beneficiarie secondo procedure previste dal diritto nazionale → ci si trova di fronte a un caso concreto in cui lo Stato fa valere nei confronti di un privato una decisione formalmente a lui destinata, con una sorta di effetto verticale discendente. L’efficacia diretta delle disposizione degli accordi internazionali dell’UE L'efficacia diretta per i singoli è stata riconosciuta anche in accordi internazionali conclusi dall’UE con Paesi terzi, sempre a condizione che tali norme fossero sufficientemente precise e incondizionate. Oltre a questi requisiti, la Corte ha tenuto in considerazione anche la struttura, la natura e lo spirito dell’accordo. La Corte ha affermato che l’accordo non è destinato a conferire diritti ai singoli e comunque che vi fosse una flessibilità negli impegni pattizi tale da rendere le disposizioni dell’accordo non invocabili in giudizio. Queste valutazioni della Corte hanno avuto l’effetto di rendere meno rigidi i vincoli nascenti per l’UE da alcuni accordi in questione. L’approccio della Corte non sembra immune da una tendenza a riservare alle autorità un margine di discrezionalità nelle scelte relative all’esecuzione degli impegni internazionali. L’efficacia diretta, se riconosciuta nell’UE, può però creare uno squilibrio rispetto agli Stati terzi contraenti, nei casi in cui questi ultimi non ammettano un analogo controllo giudiziale interno sul rispetto degli impegni pattizi. Questa logica di reciprocità pervade la giurisprudenza dell’UE in merito specificatamente agli accordi internazionali che regolano il commercio su scala globale. (riguarda dal libro) 2. Il primato del diritto dell’UE sui diritti interni degli Stati membri Le norme dell’ordinamento dell’UE sono suscettibili di entrare in conflitto con i diritti interni, nelle situazioni in cui si riscontri l’incompatibilità tra le rispettive discipline normative. Questi potenziali conflitti sono stati risolti sulla base dell’affermazione del primato del diritto dell’Ue, riconoscimento ad opera della giurisprudenza della Corte di giustizia. ➔ É stato per la prima volta affermato dalla corte nella sentenza Costa c. Enel del ‘64 → l’avvocato italiano Flaminio Costa ritenendo che la legge italiana con cui veniva nazionalizzata l’energia elettrica fosse contraria ad alcune norme dell'allora trattato Cee, si rifiutò di pagare una fattura dell’Enel con instaurazione di un contenzioso davanti al giudice. Il governo italiano disse che la legge istitutiva dell’Enel era posteriore alla legge di esecuzione del trattato ma la Corte colse occasione per affermare il primato del diritto comunitario su leggi interne anche posteriori. Il primato è indispensabile per garantire l’efficacia diretta del diritto dell’Ue. ➔ Alcuni anni dopo, la Corte mise a punto la sua posizione in occasione del caso Simmenthal → ha affermato che i giudici sono obbligati a tutelare i diritti che il diritto dell’Ue attribuiva ai singoli disapplicando qualsiasi disposizione contrastante senza doverne chiedere la previa rimozione in via legislativa. Il primato non può essere condizionato da alcun provvedimento legislativo o giudiziario nazionale → determina quindi l’immediata inapplicabilità delle norme interne contrastanti con una norma di diritto UE, purché questa sia dotata di efficacia diretta. La Corte ha affermato che bisogna disapplicare le norme interne che impediscano una piena realizzazione di quelle dell’Unione e un primo passo può essere la sostituzione della disciplina nazionale con la disciplina dettata dalla norma UE. Se però la norma dell’unione non spiega effetti diretti e non si può quindi disapplicare quella interna, la prima via da intraprendere è di ricercare se alla norma interna possa essere dato un significato compatibile con la norma dell'Ue, così da risolvere il contrasto in via interpretativa. Se non sia possibile la rilevazione del contrasto viene sottoposta alla Corte costituzionale, che accerterà l’illegittimità costituzionale. Non basta disapplicarle ma bisogna anche eliminarle. Se lo stato non lo fa contro di lui si può presentare un ricorso per inadempimento. Qualora, al termine del procedimento, la Corte consideri fondato il ricorso, emette una sentenza dichiarativa e non di condanna, con la quale riconosce l'esistenza dell’infrazione. Lo Stato in questione è tenuto a prendere i provvedimenti richiesti (anche eliminando l’infrazione con effetto retroattivo) e i giudici nazionali a disapplicare le norme in contrasto col diritto dell’UE. In caso di mancato rispetto della sentenza della corte → un altro stato o la commissione (senza dover prima emettere parere) potranno adire nuovamente la Corte, per un secondo ricorso. La Commissione può precisare l’importo di una somma forfettaria o di una penalità di mora al cui pagamento può essere condannato lo Stato. La Corte con la sentenza di doppia condanna può combinare allo Stato inadempiente la sanzione pecuniaria in questione, anche per un importo superiore. La corte, in realtà, anche senza aspettare la doppia condanna, quindi a fronte del primo ricorso, può condannare lo stato al pagamento di una somma → nel caso in cui non si è adempiuto all’obbligo di comunicare le misure di recepimento della direttiva. Forma di inadempimento più comune da parte degli stati membri consiste nella mancata attuazione di direttive UE entro il termine di recepimento. I singoli non possono adire direttamente la corte contro le infrazioni statali, però spesso presentano denunce alla commissione sollecitandola ad avviare una procedura per infrazione. Limiti di applicazione della procedura per inadempimento - Prevista la possibilità di un ricorso per infrazione, la quale è però limitata dall’art 267 TFUE - Gli art 258, 259 e 260 non sono applicabili per la violazione delle norme relative ai disavanzi pubblici eccessivi né in materia di politica estera e di sicurezza comune - Prevista la possibilità di forme di sanzione politica che possono essere adottate sul piano istituzionale 3. Controllo di legittimità su atti delle istituzioni UE e il ricorso in carenza La funzione di controllo giudiziario si esercita anche nei confronti degli atti delle istituzioni dell’Ue. Ai sensi dell’art. 256 TFUE, è il Tribunale ad avere la competenza a conoscere in prima istanza dei ricorsi per annullamento di atti delle istituzioni o in carenza, e le sue decisioni sono impugnabili dinanzi alla Corte. La competenza ad annullare gli atti è riservata alla Corte (intesa come istituzione) e impedita ai giudici nazionali, i quali non hanno potere di accertare la legittimità di un atto dell’UE che sono chiamati ad applicare poiché eventuali divergenze nelle decisioni dei vari giudici comprometterebbero l’unità dell’ordinamento giuridico dell’UE e la certezza del diritto. ● Oggetto del controllo di legittimità: si esercita sugli atti legislativi, atti del consiglio, della commissione, del parlamento, del consiglio europeo e della Bce. Gli atti diversi da quelli legislativi sono soggetti al ricorso della Corte solo se produttivi di effetti giuridici nei confronti dei terzi; sono inoltre impugnabili gli atti di conclusione o applicazione di accordi internazionali. Sono esclusi dall’impugnazione: raccomandazioni, pareri, regolamenti interni perché non producono effetti vincolanti e anche atti in ambito PESC. ● I motivi per cui gli atti possono essere impugnati davanti alla corte sono anzitutto i tre classici vizi di legittimità caratteristici dei ricorsi amministrativi di diritto interno: ○ incompetenza → quando un atto è emanato da un organo che non è competente a farlo; ○ violazione delle forme sostanziali → quando un atto è emanato senza rispetto di garanzie procedurali o forme previste come indispensabili per la validità dell’atto stesso; ○ sviamento di potere → quando un organo esercita i poteri per fini diversi a quelli conferiti. A questi tre se ne aggiunge un quarto: violazione dei trattati o di qualsiasi regola di diritto relativa alla loro applicazione. Il controllo della Corte è un controllo di legittimità e non di merito, nel senso che esso non riguarda l’opportunità dell’atto alla luce delle situazioni di fatto sottostanti, ma solo l’assenza dei vizi appena descritti. Nel caso in cui l’atto impugnato comporti valutazioni tecnico- economiche di particolare complessità la Corte tende a limitare il proprio sindacato solo alla verifica che l’atto non sia viziato da inesattezze nella ricostruzione dei fatti, o da errore. ● I soggetti legittimati a proporre il ricorso sono: ○ Stati membri, Parlamento, Consiglio e Commissione → ricorrenti privilegiati in quanto il loro ricorso non è soggetto ad alcun limite, se non l'inammissibilità di ricorso contro atti propri ○ Corte dei Conti, Bce e Comitato delle regioni → ricorrenti semi-privilegiati perché possono proporre ricorsi solo per salvaguardare le proprie prerogative ○ persona fisica o giuridica → ricorrenti non privilegiati. Il ricorso è ammesso contro atti adottati (regolamenti o direttive) nei loro confronti o che li riguardano direttamente e individualmente. È possibile il ricorso anche contro atti regolamentari che li riguardano direttamente, ovvero qualsiasi atto a portata generale tranne atti legislativi. ● Il termine entro cui vanno proposti i ricorsi è di due mesi dalla pubblicazione dell’atto. Nei casi, però di atti a portata generale adottati da un’istituzione o organo dell’UE, i ricorrenti sono rimessi in termini per eccepire il vizio di legittimità se allo scadere dei due mesi ci sia una controversia che mette in causa l'atto stesso (eccezione di invalidità). ● La presentazione del ricorso alla Corte non ha effetto sospensivo dell’atto impugnato; è facoltà della Corte, tuttavia, ordinare la sospensione dell’esecuzione di tale atto, nonché disporre provvedimenti provvisori, allorchè vi sia il pericolo di danni gravi e irreparabili per il ricorrente. All’esito di tutto il procedimento di merito, la Corte, se ritiene fondati i motivi del ricorso, dichiara l’atto nullo e non avvenuto fin dall'emanazione. La sua decisione ha quindi effetti erga omnes. La sentenza può avere anche ad oggetto alcune specifiche disposizioni giudicate illegittime e quindi comportarne l’annullamento parziale. Collegato al ricorso di legittimità è il ricorso in carenza → espressione del potere della Corte di controllare il comportamento delle istituzioni e organi dell’UE, sanzionandone l’inattività, quando i trattati prevedono un obbligo a loro carico di emanare determinati provvedimenti. Non ci sono limiti al ricorso in carenza. La legittimazione attiva per la presentazione del ricorso alla Corte spetta agli Stati membri, alle altre istituzioni dell’UE e ai singoli (per la mancata emanazione nei loro confronti di un atto che non sia una raccomandazione o un parere). Il ricorso dev’essere preceduto da una messa in mora, una formale richiesta di agire. Il ricorso in carenza può essere presentato alla corte solo trascorsi due mesi dalla richiesta. Per entrambi i tipi di ricorso, la Corte non può sostituirsi all’istituzione interessata emanando essa stessa un atto diverso da quello nullo. È invece l’istituzione che è tenuta a prendere i provvedimenti che l'esecuzione della sentenza comporta. 4. La competenza in via pregiudiziale I Trattati affidano alla Corte (intesa come organo) la competenza esclusiva a risolvere le questioni di interpretazione del diritto dell’Ue (no nella PESC). I giudici nazionali possono rinviare alla Corte e possono rivolgersi di propria iniziativa o su richiesta di una delle parti del procedimento pendente. La competenza pregiudiziale spetta esclusivamente alla Corte di giustizia come unico giudice; anche il Tribunale potrebbe avere in futuro la competenza pregiudiziale pur se solo in determinate materie da specificarsi nello Statuto della Corte. ● L’oggetto del rinvio può essere una questione relativa all’interpretazione dei Trattati o di un atto compiuto dalle istituzioni e organi dell'Ue, o di un trattato internazionale concluso dall’UE. L’interpretazione della Corte non può essere richiesta in via astratta, ma solo con riferimento ad un giudizio pendente davanti ad una giurisdizione nazionale e deve avere un’adeguata rilevanza della questione stessa. Prima di effettuare il rinvio pregiudiziale alla Corte, il giudice a quo deve valutare l’esistenza di dubbi interpretativi rilevanti in merito all’interpretazione di norme di diritto UE da applicare per la soluzione della causa su cui è chiamato a decidere. ● Benché il rinvio di interpretazione debba avere ad oggetto questioni relative a norme di diritto UE, in concreto i giudici nazionali lo impiegano molto di frequente per sottoporre alla Corte quesiti relativi alla conformità o meno al diritto dell’UE di una norma statale. La Corte però si astiene dal fornire un’interpretazione perché non rientra fra le sue competenze. ● L’oggetto del rinvio può anche essere una questione relativa alla validità di un atto dell’UE, qualora sia ritenuta rilevante dal giudice a quo per la risoluzione della controversia in corso. Le questioni pregiudiziali di validità non possono riguardare i Trattati: la competenza stessa della Corte deriva da quando stabilito nei Trattati e un giudice non può sindacare la validità dell’atto che costituisce il fondamento stesso del suo potere di giudicare. Il rinvio pregiudiziale di validità opera nel caso in cui il giudice interno si ponga il problema dell’eventuale presenza di vizi di legittimità nell’atto UE che è chiamato ad applicare → sotto questo profilo costituisce un rimedio aggiuntivo a disposizioni dei singoli nel caso non sia stato possibile impugnare concretamente un atto entro il termine di due mesi. L’importanza del rinvio pregiudiziale di validità si coglie considerando ad esempio che l’affermazione dell’importanza dei diritti fondamentali della persona nell’ordinamento dell’UE si è avuta proprio con le soluzioni date dalla Corte a questioni di validità. ● Le giurisdizioni nazionali sono legittimate a rivolgersi alla corte con qualsiasi tipo di giurisdizione: civile o penale, amministrativa o costituzionale, ordinaria o speciale. Caratteristica fondamentale per la Corte è che il procedimento nazionale pendente sia destinato a risolversi con una pronuncia a carattere giurisdizionale. In genere i giudici nazionali possono rivolgersi alla Corte di giustizia sia di propria iniziativa, che su richiesta di una delle parti del procedimento pendente dinanzi ad essi. Le giurisdizioni nazionali di ultima istanza (corte costituzionale, corte cassazione) sono obbligate a sottoporre alla Corte le questioni relative all’interpretazione del diritto dell’UE; mentre le altre giurisdizioni hanno la facoltà di effettuare il rinvio per interpretazione, ma non vi sono obbligate. Per le questioni sulla validità di un atto dell’UE, ogni giudice nazionale può respingere gli argomenti dedotti dalle parti della controversia e considerare valido l’atto. Se, però, il giudice nazionale (anche se non di ultima istanza) dubita sulla validità dell’atto UE, esso non può dichiararlo invalido ma deve effettuare un rinvio pregiudiziale alla Corte. All’atto del rinvio pregiudiziale il giudice nazionale deve formulare il quesito su cui desidera che la Corte si pronunci. ● Quanto al procedimento dinanzi alla Corte di giustizia, va detto che il provvedimento con cui il giudice nazionale sospende la procedura interna e si rivolge alla Corte è notificato dal cancelliere agli stati membri, alla commissione e all’istituzione che ha adottato l’atto. La notifica è disposta per dar loro la possibilità di depositare, entro il termine di due mesi, memorie o osservazioni scritte. La sottoposizione del quesito alla Corte non determina l’estinzione, ma solo la sospensione del procedimento dinanzi al giudice nazionale. La sentenza richiede tempo ma nel caso in cui la Corte debba decidere su questioni che riguardano una persona in stato di detenzione, allora è previsto un restringimento dei tempi con il procedimento pregiudiziale d’urgenza. ● Gli effetti della sentenze della Corte non sono erga omnes, ma operano solo con riferimento al procedimento pendente dinanzi al giudice a quo. Per quanto riguarda le sentenze con cui viene accertata l’invalidità di un atto si verificano due conseguenze: tutti i giudici nazionali sono tenuti a disapplicare l’atto e l’istituzione da cui deriva l’atto deve modificarlo, eliminando le cause di illegittimità. Per quanto riguarda le sentenze interpretative, l’efficacia inter partes è formalmente la regola. Tuttavia la Corte ha affermato che il giudice nazionale, dinanzi al quale venga sollevata una questione interpretativa materialmente identica ad una sulla quale la Corte abbia già fornito un’interpretazione, può non sollevare la questione pregiudiziale e attenersi a quest'ultima interpretazione. Per la PESC la corte non si può esprimere. 5. Le controversie in materia di responsabilità dell’UE La Corte (intesa come istituzione) è competente a giudicare delle controversie relative alla responsabilità extracontrattuale dell’UE → essa deve risarcire i danni causati dalle sue istituzioni o dai suoi agenti nell’esercizio delle loro funzioni. Si tratta di una competenza esclusiva, ma anche di piena giurisdizione: la Corte ha ampia discrezionalità quanto alla determinazione della responsabilità delle istituzioni. La corte non deve cercare la legge applicabile ma usare i principi generali comuni ai diritti degli stati membri, dai quali può ricostruire la legge applicabile. ● Per quanto riguarda gli atti delle istituzioni da cui può discendere la responsabilità dell’UE, bisogna dire che il termine “istituzioni” è restrittivo visto che può riferirsi anche alla BEI, al Mediatore, ma anche agli altri organi. L’azione può essere promossa da qualsiasi Stato membro o da una persona fisica o giuridica, ma non dalle istituzioni perché sennò l’Ue agirebbe contro sé stessa. La responsabilità sorge in genere come conseguenza dell’emanazione di atti dichiarati illegittimi. ● Per quanto riguarda la responsabilità dell’UE per gli atti dei suoi agenti, ricordiamo anzitutto che solo gli atti compiuti nell'esercizio delle loro funzioni possono venire in considerazione per norme esistenti in materia di termini di prescrizione comportava per gli imputati l’impossibilità di avvalersi dell’avvenuta scadenza di tali termini. Si trattava di un caso di applicazione retroattiva di regole che incidevano sulla punibilità delle persone, in contrasto con il principio di legalità (art. 25 costituzione). La Corte scelse di non emanare una sentenza nella quale avrebbe potuto accertare l'esistenza di un contrasto con un principio fondamentale della Costituzione, così decise di rimettere la questione alla Corte di giustizia. Quest’ultima ha affermato che l’obbligo di disapplicazione delle norme vincolano il giudice italiano solo a condizione che questo non rilevi un contrasto tra la disapplicazione e il principio di legalità. A tale proposito si ricorda una recente sentenza, in cui la Corte di Giustizia ha affermato l'obbligo per le corti costituzionali degli Stati membri di dare avvio al dialogo pregiudiziale quando si ravvisi un potenziale conflitto tra il diritto dell'Unione e questioni attinente l'identità nazionale. 4. L’attuazione del diritto dell’UE nell’ordinamento italiano Le norme degli atti dell’Ue che hanno un contenuto programmatico o generico necessitano di misure interne di attuazione. Ciò si può verificare non solo per le direttive, ma anche per alcuni regolamenti e decisioni, a seconda del loro contenuto. Inoltre, il legislatore nazionale è chiamato ad intervenire anche per rimuovere norme interne che la Corte di giustizia abbia dichiarato contrarie ad obblighi assunti dall’Italia nell’ambito dell’UE. Per porre rimedio a questa situazione si è giunti alla legge 9 marzo 1989 (La Pergola), poi sostituita dalla l. 4 febbraio 2005 (Buttiglione), e oggi dalla legge 24 dicembre 2012, n. 234. La “legge europea” e la “legge di delegazione europea” Il sistema di attuazione introdotto nell'ordinamento italiano con la legge La Pergola era rappresentato da un meccanismo annuale per l'attuazione del diritto dell'UE, con l'emanazione ogni anno di un'apposita legge contenente tutte le disposizioni necessarie per dare attuazioni agli obblighi. La materia come si è detto è oggi regolata dalla legge 24 dicembre 2012 n. 234: mantiene il meccanismo incentrato sull'emanazione della legge annuale (“legge di delegazione europea”), ma vi colloca accanto un'altra categoria di legge con finalità analoga (“legge europea”) ● La legge di delegazione europea contiene disposizioni per conferire deleghe al Governo perché provveda all’emanazione di decreti legislativi volti al recepimento di direttive. Le deleghe al Governo possono riguardare anche l’emanazione di decreti legislativi diretti a modificare o abrogare disposizioni legislative in vigore, per rendere l’ordinamento italiano conforme al diritto Ue. ● La legge europea contiene disposizioni attraverso le quali il parlamento italiano provvede direttamente all’attuazione di obblighi nascenti dal diritto Ue, senza delegare il Governo. Ciò si può realizzare attraverso la modifica o l’abrogazione di norme interne in vigore incompatibili. La legge 234/2012 è volta anche a garantire un maggior coinvolgimento del Parlamento italiano nella fase ascendente del diritto dell'UE, ossia nel processo di formazione delle norme UE→ le due Camere sono chiamate a esprimere un parere motivato sulle proposte di atti legislativi che la Commissione Europea invia ai Parlamenti nazionali. Inoltre esse devono essere informate dal Governo in merito alle posizioni che intende assumere nel Consiglio Europeo e nel Consiglio. Il ruolo delle Regioni italiane nell’attuazione del diritto dell’UE Quanto alla partecipazione delle Regioni alla “fase ascendente”, l’art. 117 stabilisce che le Regioni “nelle materie di loro competenza, partecipano alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi comunitari”. Quando i progetti riguardino materie di competenza delle Regioni, queste possono comunicare, entro 20 gg, delle osservazioni sul progetto di atto dell’UE. Il Governo convocherà una conferenza stato-regioni con il fine di raggiungere un’intesa sul progetto. L'articolo 117 stabilisce anche che spetta alle Regioni l’attuazione e l’esecuzione degli atti dell'Unione nelle materie di loro competenza. Infatti provvedono al recepimento delle direttive dell’unione nelle materie di loro competenza. Lo stato, in caso di inadempimento, si sostituisce alle regioni. Capitolo 9: L’azione esterna dell’UE 1. Aspetti generali dell’azione esterna dell’UE Uno degli obiettivi dell’Ue è quello di intrattenere una rete di relazioni esterne con il resto del mondo con la quale promuovere i propri valori e interessi. Le competenze attribuite all'UE per perseguire questo obiettivo si trovano nel titolo V del TFUE e TUE, sotto il nome di “azione esterna dell’UE”. Il titolo V del TUE contiene anche norme specifiche in materia di politica estera e sicurezza comune (PESC), mentre il TFUE di politica commerciale comune; cooperazione allo sviluppo; cooperazione economica, finanziaria e tecnica e aiuto umanitario. L’art. 24 TUE afferma che la PESC “è soggetta a norme e procedure specifiche” improntate al metodo intergovernativo, mentre le politiche disciplinate nella Parte Quinta del TFUE sono regolate con il metodo comunitario. Rientra nell’azione esterna dell’UE anche la politica di vicinato che Ue intende sviluppare con i Paesi limitrofi stabilendo relazioni tramite la conclusione di accordi. L'elemento unificante è rappresentato dalle disposizioni generali e la prima di tali norme indica come fondamento dell’azione esterna “i principi che ne hanno informato la creazione, lo sviluppo e l'allargamento che essa si prefigge di promuovere nel mondo: democrazia, Stato di diritto, rispetto della dignità umana, uguaglianza e solidarietà, …”. Inoltre l'unione rispetta i principi, mentre consiglio e commissione insieme all’alto rappresentante garantiscono la coerenza tra i settori dell’Ue. Tutta l’azione esterna dell’UE è poi subordinata all’art. 22 TUE alla previa individuazione di interessi e obiettivi strategici, che vengono stabiliti mediante decisioni del Consiglio europeo all’unanimità. 2. La soggettività internazionale dell’UE L'UE possiede una soggettività internazionale nel senso che possiede una personalità giuridica internazionale e viene riconosciuta dagli altri soggetti di diritto internazionale → carattere funzionale, cioè limitatamente all’esercizio delle funzioni assegnate dagli Stati membri. Il principio di effettività determina la soggettività, non il suo statuto: al massimo può porre in essere rapporti giuridici inter partes, ma non erga omnes. Infatti le norme contenute nei trattati di un’organizzazione si riferiscono solamente alla personalità di diritto interno nell’ambito degli Stati membri, non a quella di diritto internazionale - art. 335 TFUE - mentre il 47 TUE “l’Unione ha personalità giuridica” la si considera riferita alla personalità di diritto internazionale. 3. Gli accordi internazionali dell’UE La più importante manifestazione della soggettività internazionale è la capacità di concludere accordi con stati terzi o altre organizzazioni. Le questioni della portata e della natura della competenza UE a concludere accordi internazionali I due problemi che hanno occupato la dottrina sono quelli che riguardano la portata e la natura della competenza dell’unione a concludere accordi internazionali. Per quanto riguarda la prima, la questione è se esista una competenza dell’Ue a concludere accordi internazionali anche in materie non attribuite dai trattati. Per la seconda è se questa competenza abbia carattere esclusivo o meno rispetto alla corrispondente competenza degli stati. Per quanto riguarda la prima troviamo risposta nell’art 216 TFUE che afferma che questa competenza è prevista non solo se espressa nei trattati ma “qualora la conclusione di un accordo sia necessaria per realizzare uno degli obiettivi fissati dai trattati, o sia prevista in un atto giuridico vincolante dell’Unione, oppure possa incidere su norme comuni o alterarne la portata”. Mentre per la seconda si fa riferimento all’art 3 TFUE che recita: “l’Unione ha competenza esclusiva per la conclusione di accordi internazionali allorché tale conclusione è prevista in un atto legislativo dell’UE o è necessaria per consentirle di esercitare le sue competenze a livello interno o nella misura in cui può incidere su norme comuni o modificarne la portata” La giurisprudenza della Corte di giustizia ha enunciato il c.d. principio del parallelismo tra competenze interne e competenze esterne → doppia funzione di estendere le competenze dell’UE a concludere accordi al di là delle ipotesi previste dai trattati, e anche di definire la natura di tale competenza. ➢ Sentenza AETS (marzo 1971, Commissione c. Consiglio) relativa alla questione della competenza della CEE a stipulare un accordo europeo relativo ai trasporti su strada. La Corte ebbe modo di affermare che la competenza CEE a concludere accordi internazionali non doveva essere espressamente prevista dal suo Trattato istitutivo, ma si poteva desumere in via implicita da altre disposizioni e da atti di diritto derivato. ○ Se la CEE aveva già emanato un regolamento nella materia oggetto dell’accordo in questione, spettava ad essa, e non agli stati membri, la competenza a negoziare e concludere tale accordo. ➢ Parere 1/76 dell’aprile 1977 → la Corte di giustizia riconobbe una competenza implicita della CEE a concludere un accordo internazionale in un caso in cui i relativi poteri interni non erano stati ancora esercitati e dunque non vi erano norme comuni sulle quali l’accordo in questione potesse incidere. Anche in caso del genere, la CEE aveva la competenza (implicita) a concludere un accordo internazionale se necessaria alla realizzazione di un suo obiettivo. La Corte lasciava intendere, in quel caso, che la competenza della CEE avrebbe dovuto considerarsi come concorrente con quella degli Stati membri. ➢ In altre sentenze, dovendo chiarire a quali condizioni un accordo internazionale possa incidere su norme comuni o alterarne la portata, la Corte ha affermato che ciò si verifica “quando gli accordi internazionali rientrano nell’ambito di applicazione delle norme comuni”. L’incidenza di un accordo internazionale sulle norme comuni si verifica anche in assenza di contraddizioni tra i rispettivi testi. ➢ Criterio di “necessità” = inteso nel senso di “indissolubile legame” tra il perseguimento degli obiettivi dell’UE e l’esercizio di una competenza esterna. A conclusione di questa analisi, nel caso in cui un accordo internazionale venga stipulato da uno Stato membro in un’area di competenza esclusiva dell’UE e senza esplicita autorizzazione di quest’ultima → l’accordo costituisce un’infrazione del diritto UE ed è sanzionabile. Tuttavia resta valido nei confronti degli Stati terzi. Accordi internazionali degli Stati membri e accordi dell’UE: accordi degli Stati membri anteriori ai Trattati, accordi multilaterali e accordi misti Abbiamo visto che gli stati membri, titolari esclusivi della capacità di concludere accordi internazionali nelle materie oggetto dei Trattati, hanno in alcuni casi perso tale capacità a favore di una competenza esclusiva dell'Unione. Vi è poi da rilevare che molti accordi internazionali multilaterali comprendono, dopo l'entrata in vigore dei trattati, sia materie rientranti nel campo di attività dell'Unione sia materie che non vi rientrano. Tutto ciò ci conduce a qualche considerazione relativamente alla sorte degli accordi conclusi dagli Stati membri con stati terzi prima dell'entrata in vigore dei trattati, alla partecipazione dell’UE ad accordi multilaterali, e più in generale ai c.d. accordi misti. Ai sensi dell’art. 351 TFUE, gli accordi conclusi dagli stati con paesi terzi in questi settori, prima della loro inclusione nel diritto comunitario, restano in vigore. In alcuni casi si può verificare una sorta di successione da parte dell’UE nei diritti ed obblighi derivanti per gli Stati membri dagli accordi da essi conclusi con Stati terzi anteriormente all'entrata in vigore dei Trattati e aventi ad oggetto materie rientranti nelle competenze dell’UE. - Ad esempio, nel caso della Carta dell’ONU, l’UE deve essere considerata vincolata agli obblighi che ne derivano alla stessa stregua dei suoi stati membri. - Altro caso parzialmente analogo è quello del GATT (General Agreement on Tariffs and Trades), avente ad oggetto materie successivamente entrate a far parte della politica commerciale comune dell’unione. Anche in altri casi, il fatto che alcune competenze degli stati sono state trasferite all’Ue ha portato all’adesione di questa ai relativi accordi internazionali multilaterali accanto agli stati membri. - per esempio, essendo di competenza UE i settori agricolo, della pesca e dell’ambiente, essa è divenuta membro della FAO. Possiamo parlare anche di accordi misti: accordi dei quali sono parte sia Ue e sia Stati membri, per il fatto che le materie oggetto di questi accordi ricadono in parte nelle competenze dell’Unione e in parte nelle competenze statali. Per questo tipo di accordi, la Corte di giustizia ha affermato che occorre garantire una
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved