Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

RIASSUNTO di Etica e Infinito - Lévinas, Sintesi del corso di Etica Sociale

Riassunto del saggio introduttivo al dialogo tra Philippe Némo ed Emmanuel Lévinas di Etica e Infinito a cura del prof. Franco Riva, richiesto per l'esame di etica sociale, integrato con appunti delle lezioni.

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

Caricato il 14/01/2021

beatrice-camola
beatrice-camola 🇮🇹

4.5

(27)

10 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica RIASSUNTO di Etica e Infinito - Lévinas e più Sintesi del corso in PDF di Etica Sociale solo su Docsity! Etica e infinito (1982) – Emanuel Lévinas Alle spalle c’è una forte frequentazione della filosofia tedesca e francese e anche della letteratura inglese e russa, poiché Lévinas era lituano. Il motivo di fondo per cui si incontra la filosofia di Lévinas è una ricerca dell’approssimazione della scena originaria dell’umano, di questa approssimazione si sono trovate icone più o meno plausibili e veritiere (es. Circolo legge-libertà di Kant; Sartre; Kierkegaard). Lévinas è influenzato dalla filosofia dell’esistenza e dalla fenomenologia. Entrambe le correnti erano vicine all’autore e contestate per qualche motivo. Considerando Fuori dal soggetto di Lévinas, in cui è lo stesso autore a leggere, emerge che l’inizio e la conclusione del testo sono uguali e al loro interno emergono due nomi fondamentali per comprendere Lévinas: l’ebreo Martin Buber e Gabriel Marcel. Tutto ciò si riflette nello stile di Lévinas: egli è diretto, condanna il sistema e vuole ritornare sulla scena originaria non in modo formale come Kant, né con la fretta dell’assoluto di Kierkegaard, né dal punto di vista della lettura viziata radicalmente da Hegel e la sua lettura marxista, così come fa Sartre. Egli vuole riprendere in mano il quotidiano perché i giochi di Kierkegaard, le tensioni finito-infinito, tempo-eternità, necessità-libertà, non si danno in nessun altro spazio che nel quotidiano stesso e ciò implica una rilettura esistenziale e fenomenologica. Etica e Infinito è un testo breve, costruito dal testo di Lévinas ed un saggio introduttivo, in esso ogni capitolo si può ricondurre a una tematica principale trasversale. È costruito come un’intervista tra Lévinas e Philippe Nemo. Il testo di Lévinas è anche preceduto da un indice analitico in cui emergono dei temi di cui si vedono le ricorrenze sia dentro etica e infinito che al di fuori di quest’opera. Saggio di accompagnamento: La distrazione da sé – la prossimità e il sociale. (F. Riva) → è possibile distrarsi da sé? Se si rimane su questa domanda, uscire da sé stessi è impossibile perché si ripete il vizio dell’origine, ovvero che l’essere è uguale a sé stesso. Il dis-astro non è una catastrofe. E non è neppure soltanto l'interruzione di un progetto forse già fallito prima del suo stesso sorgere. Il dis-astro inaugura la possibilità che l'umano arrivi a se stesso attraverso l'altro uomo. Ma, se è possibile distrarsi da sé, se l’umano è possibile, il rapporto con l’altro, la prossimità, la socialità, tutto quel mondo che sfugge al dominio della necessità allora sono possibili. Il disastrarsi da sé è l'etica, è il sociale, è la stessa filosofia. Mostrare che la distrazione da sé è possibile è questione fenomenologica, perché si tratta di rileggere con attenzione le esperienze in apparenza più normali che intessono il quotidiano e che, per questo, di solito vengono o ricondotte alle necessità vitali di ciascuno, o interpretate in riferimento a se stessi, come se non contenessero nessuna profondità. Se ciò accade è possibile che l’essere (il mio essere) non sia più uguale a sé stesso, in questo stesso momento siamo liberi da noi stessi, il nostro essere non è più luogo di necessità e violenza. Se è possibile l’umanità dell’umano, quindi se è possibile contestare l’identità del proprio essere, la necessità, e la violenza con gli altri, se ciò avviene dunque avviene anche l’ingresso dell’infinito nel finito e nessuna distrazione da sé sarebbe possibile se tutto corrispondesse alla propria definizione. L’ingresso dell’infinito nell’esistenza è la socialità stessa. “Distrazione da sé” ha una radice tedesca → Maurice Blacheau evocò il tema del dis-astramento, ovvero il dis- astrarsi da sé e dall’idea di sé stessi come il sole a cui ruota intorno tutto il resto. → distrarsi è possibile, semplicemente accade nel quotidiano (es. Pensieri/preoccupazioni per altri), tuttavia questa distrazione non è ne voluta ne cercata, accade ma non per merito nostro. Il fatto che la distrazione da sé sia possibile, che qualcosa nella vita degli uomini possa essere diverso da come è, non appartiene in esclusiva né all'ordine della volontà, né a quello dell'intenzione: Per una volontà che vuole soltanto ciò che deve essere voluto, e per un pensiero che pensa solo ciò che deve essere pensato, la distrazione si riduce a un essere sbadati, quindi della distrazione si conosce solo il significato più negativo e pericoloso. La distrazione però ha poco a che vedere con l’essere sbadati. L'invito a non distrarsi implica infatti un'attenzione diversa, che impone di concentrarsi su quello che si sta facendo non solo come un prolungamento di sé, ma anche come un'attenzione di diverso genere che va agli altri, o anche a se stessi considerati come altri di cui si deve essere responsabili. Esiste quindi un distrarsi come caduta di tono della lucidità mentale, come disattenzione rispetto a ciò che si fa, come smemoratezza, e vi è un distrarsi che rimanda a un'attenzione diversa, che allontana da sé rimanendo presso di sé in altro modo. Vi è un "essere" distratti, e vi è un distrarsi da sé, il quale, per volgersi ad altro, inaugura l’apparizione di un mondo differente, il mondo dell’umano, dove qualcosa oltre a me e ai miei interessi è presente. La distrazione da sé accade all’umano: molti impegni quotidiani, infatti, appartengono all’ordine quasi impiegabile di una sollecitazione che parte da altri e si inquadrano quindi nella cornice del rispondere. Nel quotidiano ci si impegna in prima persona e ci si distrae da sé senza che sia sempre possibile distinguere chiaramente tra l'una e l'altra cosa. Talvolta alcune esperienze di distrazione da sé sono talmente frequenti da passare inosservate, come:  Esperienza di lettura (cap. 1) → esperienza quotidiana talmente generalizzata e banalizzata da essere poco consapevole, superficiale ed inavvertita. Essa è usata in modo strumentale, si rivolge solo a sé stessa, conferma ciò che deve essere confermato, e questo tipo di lettura non ci appartiene (es. Giornale, orari treni). Tuttavia, la vera lettura ha poco a che fare con qualcosa di esterno, ma è una modalità del nostro essere, e lo è solo se non è strumentale, solo se il lettore si immerge in essa e si immedesima, non vivendo la propria storia, ma quella che sta leggendo. In quanto modalità del nostro essere, la lettura fa apparire l’umano nella sua umanità e la distrazione da sé che ne deriva significa prossimità con altri. La lettura non dimostra, ma fa accadere la crisi della fiera indipendenza degli esseri, e si diventa umani non nell’esistenza dell’essere, ma nella sua rottura, la lettura sconvolge dalle fondamenta la presunzione di un mondo unico. Essa non è più uno strumento, ma un modo di esistere perché porta lontano da se stessi dal momento che si è soli con se stessi. La messa in discussione operata dalla lettura non si può interpretare come la sospensione del mondo per rintanarsi ogni tanto in qualche solipsistica interiorità. La lettura discute l'indipendenza degli esseri nella loro identità, mette in contatto: fa apparire cioè il volto dell'altro Tutti i libri che permettono la distrazione da sé fanno parte del grande libro dell’umanità (es. Dostoevskij, Tolstoj, Shakespeare), che annuncia una prossimità all’altro. Tuttavia, dall’altra parte, Lévinas avverte che ci sia un “libro dei libri”: la Bibbia ebraica, in cui Lévinas trova il primo chiaro annuncio di una responsabilità per gli altri. Esso non smentisce il grande libro dell’umanità, ma ne anticipa il compimento, la prossimità all’altro, che nella Bibbia trova espressione e parola. Il Libro dei libri è dunque tale sia perché conferma la convergenza tra l'essere veramente umani e la sensibilità per gli altri, sia perché propone questo motivo con una «eccellenza profetica», ossia in modo esplicito e consapevole. La Bibbia, infatti, è infinitamente più esplicita del grande libro dell’umanità per due motivi: perché emerge la parola e perché questa parola della responsabilità assume subito la tonalità di un comando, di un ordine, che non si consuma su sé stessi, ma sulla violenza fatta all’altro. Lévinas mette in chiaro che non utilizza la Bibbia in senso di un’autorevolezza estrinseca, non nega che sia sacro, ma non per una sacralità magica, né per la sua origine sovrannaturale (tavole comandamenti), ma lo è perché esprime in modo laico e consapevole la rottura di sé con sé stessi e, quindi, la responsabilità per l’altro. L’umanità non è identità con sé, ma la capacità di risposta ad altri. Pur senza essere in contraddizione rispetto al grande libro dell'umanità al quale appartengono tutti i libri, per il Libro dei libri rispuntano però dei problemi quando dal contenuto si passa a considerare la forma letteraria con cui esso si presenta. Il modo in cui la Bibbia dice le cose sembra infatti distante da quello costituita dal rispondere ad altri, dal farsi responsabili nei loro confronti. La prima parola in tal modo non è più una parola che si rivolge all'altro, ma una parola con la quale si risponde all'altro, si parla dal detto al dire, dal parlare all’essere in dialogo. Essa non contraddice le parole, ma contraddice tutte le parole che sono strumentali. La prima parola è quindi un comando (es. Tu non ucciderai → comandamenti), un ordine, un dovere etico, che mi viene rivolto e da cui ci si trova investiti. La prima parola comanda anche il pensiero del come della parola stessa: pensiero di far vivere nelle parole e nei discorsi ciò che sta al di là della cattura - pensiero stesso dell'infinito. Problema 2 (cap. 9) → dire e disdire. La parola del pensiero e della filosofia hanno anch’esse un detto (come le cose sono state dette) e un dire (perché determinate cose sono state dette). Da un lato non si può fare a meno di depositare il dire in un detto, di mettere a tema (tematizzare), da un altro lato però un dire consapevole e meditato (dire filosofico) entra nel detto sbriciolando come già detto: il dire filosofico è tale solo se è un continuo disdire. Il dire filosofico vive nella necessità di disdirsi sempre; rompendo sempre da capo le categorie del discorso, la filosofia imprime forse nel detto le tracce di questa rottura. La questione di un dire che è un disdire va però ben al di là del problema della parola filosofica. Riguarda infatti la questione stessa di restituire, nell'universo immenso delle parole, il senso dell'infinito che non può essere catturato in un detto o in sapere chiuso. Si tratta di pensare a come dire ciò che non può essere detto fino in fondo. La struttura di un dire che disdice di continuo è la struttura stessa dell’infinito: non solo limite invalicabile della conoscenza, ma anche testimonianza di una distrazione da sé sempre incombente. Nel dire che disdice, l’infinito non sta più fuori, ma dentro.  Esperienza dell’eros (cap. 5) → eros è incarnazione d’amore. Il termine è valutato nella sua precisione, è il luogo per eccellenza dell’alterità (lì dove sembra di conoscere tutto), è radicalmente non detto, perché nel suo essere detto non è ancora eros. La sessualità parte nel quotidiano, documenta quello che in apparenza sembra un ritorno continuo su di sé, ma che invece conduce fuori da se stessi. Eros è, in sostanza, sfuggenza, infatti nella sua presenza e necessità per la vita umana, contemporaneamente segna la presenza dell’infinito nel finito. Diversi segnali di comportamento fanno di Eros un essere concentrati su se stessi, un ritrovarsi incardinati nei propri desideri al punto che Eros e la sua liberazione diventano una bandiera della stessa libertà dell’umano. In esso si annuncia una trascendenza che non sta al di là dell'umano, ma ne costituisce il suo modo intimo di essere. L’esperienza che apre eros si può ricavare da un accenno di Lèvinas: la questione della mano e della carezza. La mano, come il corpo, è strumento per eccellenza, ma contemporaneamente con eros è infinitamente altro. Per Lévinas un’analisi fenomenologica della carezza è possibile. L'esperienza della carezza erotica si distingue dal puro toccare: il toccare e la carezza si contrappongono qui come il leggere strumentale e il leggere profondo, come il comunicare e il dire, come la società e il sociale. L’evidenza di questa consapevolezza è data dal fatto che la mano che accarezza e chi è accarezzato percepiscono chiaramente la differenza tra le due cose e questo sapere è immediato, è un sentire l’altro. Tutto il corpo è carezza, così come tutto il corpo è strumento e il rovesciamento tra le due cose è molto facile e veloce. La carezza è chiaramente diversa dal toccare, perché non sa quello che cerca, è diversa dal sapere, perché non vuole conoscere (in quel caso sarebbe toccare) e non risponde ad un agire ordinato secondo uno scopo preciso, inoltre è diversa anche dal possesso perché chi tocca per prendere è contrario alla carezza, Eros infatti si manifesta spesso nel velarsi, nel pudore e nel femminile. La carezza non sa quello che cerca, è un disordine fondamentale, dunque eros non si riconosce in un ordine e per eros bisogna disordinarsi. Inoltre, eros è un gioco (erotico), costituito da azioni in serie che non hanno uno scopo, esattamente come un rito, si trova in un orizzonte di azioni che non ha il suo fine al di fuori di sé. Qui entra la dimensione del tempo: il tempo di eros è dettato da eros stesso, è il tempo dell’altro, dell’attesa. Paradossalmente il tempo di eros non è mai presente, ma è futuro, un tempo a venire come un gioco continuo che si ripete ma che non è più una ripetizione. Il corpo non è trasformato in cosa, ma è inteso come sensazione, usata non per conoscere ma per sentire che c’è una profondità del corpo, data appunto dalla carezza, dal gioco erotico. Eros testimonia che l’alterità per un verso è già là prima di ogni scelta e di ogni preferenza, e che, l’alterità è sempre in qualche modo a venire. L’alterità erotica attraversa ciascuno, e chiama fuori da ciò che di fatto si è. Eros destabilizza ciò che si crede, o si vuole, stabile. Fenomenologia di eros → eros dimostra la falsità della centratura su di sé, non si vuole conoscere e sapere, poiché esso crea un disordine fondamentale. Peccato che noi ci muoviamo continuamente tra incertezze: da una parte rivendicare eros (sessualità → io sono il mio corpo, il mio corpo è mio → orgoglio e pregiudizio → differenza tra femminile e maschile a fine ‘800) e dall’altra la moralizzazione, un imporre regole all’infinito e una cattiva regola della morale come se fosse fonte di ordine, ma il vero problema è rispetto a che cosa si danno delle regole. Eros non è una regola, è la sua stessa regola, è l’altro di fronte a me. Infine, esso annuncia che l’altro è già lì prima che si decida di muoversi verso di lui, anzi è l’altro che invoglia a muoversi verso di lui, dunque l’io non è solo con sé stesso, ma è solo in riferimento a sé stesso. Nel quotidiano eros è più quotidiano del quotidiano stesso e con esso si ha un continuo dire e disdire. Eros sfugge alla conoscenza perché c’è una misteriosità di eros che permane perché se si conoscesse eros interamente, esso non esisterebbe. L’altro misteriosamente è presente a me, prima ancora che eros si manifesti, ma eros è presente già anche in quella attesa. Ma l’altro che è qui, come fa ad essere qui? Come faccio a desiderare di essere nel posto dell’altro o nel corpo dell’altro? → eros non supera le differenze, ma è possibile in virtù della differenza stessa. Per questo, maschile e femminile, in qualche misura sono condivisi, non sono puri generi di classificazione perché non si tratta più di mere differenze, ma c’è una partecipazione più profonda. Eros cioè è un fuori, è un’opacità intima diversa dal prendere, dalla conoscenza e dal fare comunicazione. La dove c’è eros c’è la differenza, dunque esso non va inteso come unione, ma è unione nella differenza. Eros non fa incontrare le differenze, non le confonde tra di loro: fa piuttosto vibrare la differenza come qualcosa che appartiene fin da subito alla propria identità. Più che di un prendere, in Eros si fa allora esperienza di un cedere, di un essere strappati a se stessi nel momento in cui tutto sembra ricondurre a sé. H. Hesse → l’ideale della vita non è diventare qualcosa o qualcuno, ma è stare come fiume gemello sulla terra e stare come stella doppia in cielo → eros non è unione, non è unità, non è identità, ma è la restituzione di differenza. Eros restituisce un’esperienza di spossessamento da sé: dal corpo, dalla differenza sessuale (non solo completamento fisiologico al fine della sopravvivenza della specie) e dagli affetti di eros (pudore, ritrosia, lacerazione interiore). Eros è il patetico dell’amore, ci sono pene e pianti d’amore e senza pathos, senza sentimento d’amore, eros non esiste. Lévinas si appunta alcune figure collegate ad eros:  Femminile → alterità radicale detta dal corpo. Il femminile appare come il corpo dell’altro che eroticamente non rientra nell’orizzonte della conoscenza; non è numero; non è natura; non è un oggetto neutro da conoscere e catalogare. Il femminile è altro oltre la sfera conoscitiva, funzionale e complementare, è lì per dimostrare a sé stessi la contestazione del proprio stare al centro, per suscitarsi ad altro rispetto a sé. Quindi il femminile non esiste per me come complementare, in tal caso sarebbe solo a mia disposizione, a mio uso; il femminile è infinitamente più di questo e essendo così è eros. Il femminile è un’esperienza diafana: si vede e non si vede contemporaneamente, è come luce che arretra e anche per questo eros è un gioco, perché, grazie al femminile, si ha un avanzare e arretrare continuamente. Il femminile è anche pudore. o Confronto con Nietzsche → per lui la donna resta un enigma, ma il tutto può avere una soluzione attraverso la gravidanza. Ha avuto però un approccio piuttosto maschilista, rimarcando gli aspetti della gravidanza come soluzione all’enigma e paragonando la donna ad un giocattolo. Nietzsche parlando di Zarathustra sdogana tematiche che non vengono dimenticate e il modo stesso in cui egli parla diventa inevitabilmente una fonte per diversi filosofi. Nel caso del femminile il confronto che si può istituire è quasi un confronto al contrario perché da un lato Lévinas prende qualcosa dal vocabolario di Nietzsche, dall’altra invece contesta la sua posizione troppo maschilista enunciata da Zarathustra. Lévinas risente del tema dell’enigmaticità della donna sostenuto da Nietzsche per parlare di eros e anche nella sua definizione della donna come giocattolo. Lévinas parla di gioco, non di giocattolo, perché il giocattolo suppone qualcuno che ci giochi, mentre il gioco erotico è quello della carezza, dei corpi. Le allusioni alla gravidanza sono molte anche trattando ciò che “ancora non esiste”. Da una parte i punti di unione tra Nietzsche e Lévinas sono molti, come l’esperienza diafana e il tema della carezza, dall’altra invece si ha un divario incolmabile nel trattare il femminile, infatti Lévinas afferma che esso è l’annuncio di un’alterità che però non è riducibile alla sua differenza, resta mistero. Se fosse riducibile alla sua differenza, il femminile sarebbe un semplice numero, un genere, oggettivabile, ma così non è.  Figlio → la figura del figlio è ancora più misteriosa, perché il femminile è incontrato, ma non è posto; il figlio invece è frutto dell’uomo e della donna dal punto di vista genetico, tuttavia non è un loro alterego, è altro. Non è possesso o proprietà dei genitori, è il proprio sangue e la propria carne, ma è altro oltre a tutto ciò, non è un avere e dunque non è neanche un essere dei genitori. In questo caso, l’altro è radicalmente altro pur essendo me in qualche modo. o Confronto con Nietzsche → Zarathustra parla dei figli e del matrimonio e si rivolge direttamente al genitore con “devi creare un corpo più nobile, un movimento originario, una ruota che gira da sé – devi creare un creatore. Matrimonio: così hanno chiamato la volontà di due, di creare quell’uno che è più dei due che l’hanno creato. Io chiamo matrimonio il profondo rispetto reciproco di coloro che manifestano tale volontà.” → Nietzsche incentra il suo pensiero sulla creazione, sull’autonomia del figlio e sul matrimonio come generazione di qualcosa che è altro e misterioso (il figlio appunto).  Paternità → qui emergono tutte le tensioni sia della figura del femminile che della figura del figlio, ma perché proprio la paternità? Innanzitutto, del femminile si è già parlato e chi parla (Lévinas) incontra l’alterità nel femminile, nel figlio e nel paterno ed è più facile parlare di ciò che si sperimenta in prima persona, dunque la paternità. Inoltre, Lévinas, pensatore ebraico, dava nella sua cultura moltissima importanza alla figura del padre. È grazie ad eros che la famiglia è possibile. → Il figlio non è un evento qualsiasi che mi capita, come ad esempio la mia tristezza, la mia prova o la mia sofferenza: è un io, è una persona. → il figlio distrae da sé, ma non capita solamente, come ad esempio il saluto → la paternità non è semplicemente un rinnovamento del padre nel figlio e la sua confusione con lui. Essa è anche l’esteriorità del padre rispetto al figlio. La paternità è un esistere pluralista → il rapporto tra genitori e figli non è di semplice rinnovamento o di confusione reciproca. Insieme alla paternità si ha quindi l’alterità del genitore rispetto al figlio, ciascuno continua ad essere ciò che è. Nell’etica di una famiglia, c’è l’etica della democrazia perché la paternità (o maternità) è un esistere pluralista e le entità non sono riducibili l’una all’altra; nella famiglia si impara ad esistere e a vivere in un contesto pluralista. accidenti, e dunque a qualcosa che è in fondo irrilevante, né al modo della sintesi hegeliana, che supera le differenze interumane annullandole in un'unità superiore. L’umanità dell’umano va pensata nel faccia a faccia, ossia nella pluralità essenziale: l’insieme dell’umano coincide con la sua stessa molteplicità. Per questo l'etica, vale a dire il pensiero della responsabilità per l'altro, non è secondaria rispetto alla riflessione generale sulle forme del sapere e sul modo di dare unità. La filosofia prima è un’etica formulata da Lévinas per ribadire quindi che la significazione morale è indipendente e preliminare. Il significato morale dell’esistenza pone di fronte al problema dell’unità dell’umano: unità di ciò che, di per sé, è incomparabile. Pensare questa unità non è quindi un fare sintesi, perché «non si tratta di pensare insieme me e l'altro: si tratta di essere di fronte. La vera unione o il vero insieme non è un insieme di sintesi, ma un insieme del faccia a faccia». L’insieme e il comune danno vita all’ennesima tensione, infatti: l’insieme porta con sé la pluralità insormontabile dell'umano, mentre il comune viene collocato sul lato della sintesi e della totalizzazione. Il vero insieme dell'umano porta nel proprio cuore il segreto della pluralità come quello della dignità stessa dell'umano, è l’insieme del faccia a faccia. Il rapporto interumano è il non sintetizzabile per eccellenza (quindi non comune, ma insieme). L’insieme dell’umano è il modo di uno scarto che non si colma: modo però di una vicinanza, e non di una distanza. Né totalitarismo, né liberalismo Dal rifiuto della sintesi deriva la critica ad ogni totalitarismo, ma anche la critica del liberalismo. la «critica della totalità» viene anche «dopo un'esperienza politica che non abbiamo ancora dimenticato»: quella, appunto, dei totalitarismi del Novecento. Il centro della critica della totalità e, insieme, del totalitarismo, è la perdita del «segreto» dell'esistenza. È questo segreto che impedisce la sintesi e che garantisce una società plurale: infatti, «il pluralismo della società è possibile soltanto prendendo il via da questo segreto». Una società basata sul totalitarismo, oggettivata ed ispirata a quell'idea di comune così diversa dall'insieme del faccia a faccia sarà dunque una degradazione dell'unità dell'umano. Il segreto è la riserva di senso, ineguagliabile, di ogni persona, l sua stessa libertà. Il tema del segreto permette di affrontare la critica al liberalismo. Criticando il totalitarismo, infatti, sembrerebbe normale appoggiare il liberalismo, tuttavia qualsiasi dubbio o qualsiasi critica nei suoi confronti vengono subito incriminati di essere un ritorno al totalitarismo stesso. Infatti, il liberalismo risponde al totalitarismo ricalcando lo stesso linguaggio: anziché sulla sintesi che accomuna tutti, l'accento qui si sposta sugli individui. Nel liberalismo si assiste a un capovolgimento perché non è la convivenza a basarsi sul segreto essenziale delle vite, ovvero libertà e responsabilità per gli altri, ma si fa dipendere la libertà da un certo tipo di organizzazione, da un sistema dell'efficienza. La libertà quindi si trova relativizzata all'interno dei giudizi sull’efficienza e sul funzionare. Un caso rilevante della necessità di ripensare il sociale riguarda la politica. Nella tradizione moderna la limitazione razionale della guerra di tutti contro tutti si traduce nel pensiero della regola della convivenza, che rimane in qualche modo al di là dell'insieme inteso come faccia a faccia, e dunque di una razionalità sociale che non sia più di stampo totalitario o addizionale. La politica viene definita una seconda forma di socialità che rende giustizia al segreto della vita perché esso non è una chiusura che tiene a distanza, ma la responsabilità per altri. La politica non mette in forma la distanza, ma la prossimità; non la separazione, ma la responsabilità per gli altri. Alla politica come forma di socialità si può collegare il discorso della paura. La politica come limitazione discende dalla paura egoistica per l'altro. Vi è però un'altra paura, che non è per sé stessi, ma per l’altro: timore di non lasciarlo solo, neppure di fronte all'inesorabilità della morte. E questo timore non più egoistico è “probabilmente il fondamento della socialità, dell’amore senza eros”. Il sociale, questo farsi carico d’altri, è il segreto di una vita. Volto e moderazione Il problema del modo in cui l'umano sta insieme, e il rifiuto della sintesi totalizzante, fissa due modelli alternativi di pensiero:  Modello dell’Uguale → fa cardine sul sapere dell'assoluto: odio, più o meno dichiarato, per la finitezza. Il pensiero dell’uguale non va quindi confuso con un principio di uguaglianza e con un’istanza di giustizia.  Modello dell’Ineguale → sorge dall'idea dell'Infinito: trascendere non significa negare la differenza a favore di un oltre, ma scorgere la trascendenza in ciò che attraversa l'umano, nel suo stesso differire. L’approdo al sociale è l’infinito nel finito. Cartesio → l'idea di infinito è l'unica idea che il pensiero non riesce a darsi; la trova piuttosto dentro di sé, ed è «infinitamente» più grande dell'atto mentale con cui la si pensa, al punto che diventa persino una prova dell'esistenza di Dio. L'infinito segnala una «sproporzione impensabile», che sopravviene quando non si fa coincidere tutto il senso della realtà con il pensiero che lo pensa. L'idea di infinito in Cartesio rimane tuttavia solo «teoretica», una forma di «sapere», quando invece «la relazione all'Infinito non è un sapere, ma un Desiderio»: il Desiderio è come «un pensiero» che «pensa più di quanto non pensi». Dall’alternativa tra uguale e ineguale, discendono due registri di riflessione:  Pensiero iconico → costruisce le proprie figure a partire dal rovesciamento del sapere dell'assoluto in un pensiero dell'infinito. Si impongono la critica della fenomenologia, l’approccio etico all’altro, la suprema dignità di ciò che è incomparabile, l'insostituibilità di ciascuno come «soggetto» all'altro, responsabile nei suoi confronti, caricato di oneri a cui deve rispondere senza attendersi reciprocità. L’insistenza sul oltrepassamento del sapere, il superamento della logica della relazione che continua a tenere l'io al centro del suo rapportarsi all'altro.  Tentativo di dire il sociale (che è poi la stessa etica) → Il bisogno di dire più da vicino la relazione sociale si avverte nell’esigenza di passare da un discorso più girato sul negativo, cioè su motivi della rottura e del capovolgimento, a un dire più positivo che costringe il discorso stesso a riproporsi diversamente. Lévinas avvisa che il sociale fatica a parlare soltanto il linguaggio iconico del volto dell'altro. Nel cuore del discorso sul volto irrompe la tematica del terzo, infatti: se io sono solo con l'altro, gli devo tutto; c'è il terzo però che introduce al motivo della giustizia. Il terzo è l’altro uomo con cui sono in un rapporto mediato attraverso il rapporto con chi ho di fronte, in esso avanza la necessità di moderare questo privilegio d’altri da cui la giustizia. La giustizia consiste in questo: la relazione interpersonale che stabilisco con altri devo stabilirla anche con gli altri uomini; la giustizia, esercitata dalle istituzioni, che sono inevitabili, deve sempre essere controllata dalla relazione interpersonale iniziale. Responsabilità, prossimità, giustizia Le nuove parole dell'etica - la responsabilità, la giustizia, la prossimità - paiono sorgere in un contesto morale a due, e di questo portano il marchio dell'icona del Volto, anche se tendono ad ampliarsi. E così, il Volto e le figure correlate, si possono leggere anche come la ricerca di altre parole più rispondenti alla socialità dell’umano. Tra queste parole, forse, la prossimità riesce a dire il sociale dell’etica perché fa ruotare la distrazione da sé sul lato più positivo e così compare una «prossimità sociale», resa equivalente in qualche caso con una «prossimità dialogale» o «fraterna». E infine perché la prossimità si trova nel cuore tanto della responsabilità quanto della giustizia. La prossimità si trova nel cuore della responsabilità e il legame con altri, infatti, si stringe soltanto come responsabilità, è indipendente da qualsiasi condizione previa. In virtù di questa responsabilità, l'io, il soggetto, si disastra in un essere soggetto ad altri. La responsabilità ridefinisce l'identità dell'io per condurla dapprima verso la deposizione di una sovranità usurpata, e quindi alla soggezione nei confronti del compito che incombe da parte dell'altro. Si può ritenere che questa deposizione e questa soggezione dell'io siano una dismissione della propria persona. Al contrario: la persona viene investita di ritorno dalla stessa dignità dell'unico che ha di fronte. Ognuno è definito dalle proprie responsabilità. Il soggetto non si ritrova nel fare di se stesso l’astro di riferimento dell'universo, ma nel disastrarsi assume il nome della diaconia che interrompe la sostituibilità degli umani, perché nessuno adesso è più sostituibile, cosa che invece non può accadere in un mondo sociale che si affida o all’accumulo o alla neutralità dell’efficienza. Al centro di una responsabilità così incombente si ritrova dunque la prossimità. La prossimità con altri assume la stessa potenza etica del volto: ordina. La vicinanza dei corpi indica la strada alla prossimità: l’altro non è semplicemente vicino a me nello spazio, o vicino come un parente, ma si avvicina a ne essenzialmente in quanto mi sento responsabile di lui. La prossimità si trova anche al centro della giustizia che si propone non solo con il pensiero del terzo ma anche nella responsabilità. La responsabilità totale, la giustizia che viene reclamata per i torti subiti dagli altri, e anche di quelli con cui non sembra di essere in rapporto, trova la sua plausibilità nella razionalità del sociale: nel fatto indiscutibile di essere prossimi. Nella prossimità, infatti, si è davvero responsabili non solo per la propria responsabilità ma anche per la responsabilità degli altri, per le loro colpe. Il sociale non è la società. Se c’è, quando c'è, il sociale è la responsabilità delle responsabilità, l'umanità stessa dell’umano: giustizia che sola rende giusta ogni giustizia. L'amore del prossimo equivale a una «vita veramente umana», che non «può rimanere vita "soddisfatta" nella sua uguaglianza all'essere, vita priva di inquietudine», senza che si «risvegli all'altro», senza «disubriacarsi», perché per l'umano «l'essere non è mai la sua propria ragion d’essere».
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved