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Riassunto di "Il teatro e il suo doppio" - Artaud, Sintesi del corso di Storia del Teatro e dello Spettacolo

Riassunto dettagliato di "Il teatro e il suo doppio". Lo consiglio molto, soprattutto agli studenti di Roma Tre per l'esame di Raimondo Guarino "Teatro, spettacolo e performance" (mi ha fatto prendere 30 e lode lol).

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

Caricato il 23/09/2020

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Scarica Riassunto di "Il teatro e il suo doppio" - Artaud e più Sintesi del corso in PDF di Storia del Teatro e dello Spettacolo solo su Docsity! Il teatro e il suo doppio – Antonin Artaud Vita Scrittore, regista e attore francese (Marsiglia 1896 - Ivry-sur-Seine 1948); aderente al surrealismo, se ne allontanò per frequentare la scuola di Charles Dullin, esordendo come attore all'Atelier. Nel 1926 impostò un'attività teatrale autonoma con la fondazione del teatro Alfred Jarry (dove esordì come regista mettendo in scena una sua pochade commedia dai toni farseschi) e con la elaborazione di alcuni manifesti teorici sul coinvolgimento dello spettatore. Per Artaud compito del teatro sarebbe scuotere e sconvolgere lo spettatore: il suo teatro della crudeltà intendeva appunto proporre uno spettacolo totale in cui fossero impiegati tutti i mezzi d'azione (luci, suoni, gesti, vicende, ecc.) atti a suscitare la partecipazione incondizionata dello spettatore. Una malattia mentale lo costrinse a vivere lontano dalla vita teatrale, ma scrisse ancora qualche saggio (tra cui il volume Van Gogh, le suicidé de la société, 1947). Tra le sue opere fondamentale per il teatro Le théâtre et son double, 1938. Introduzione Antonin Artaud è stato, assieme a Stanislavskij e Brecht, il più autorevole teorico del teatro del ‘900, non tanto per i risultati ottenuti (in quanto il suo teatro non fu mai all’altezza dei “manifesti” pubblicati) quanto per l’originalità dei sui scritti e dei suoi trattati. Per Artaud, come per Brecht, il dramma è uno strumento di rivoluzione, capace di riordinare l’esistenza umana. Artaud si preoccupò di separare il teatro come doveva essere (“il compimento dei più puri desideri umani”) dal teatro come era allora (“superficiale e posticcio, di consumo momentaneo”). Tuttavia, l’obiettivo di Artaud – a differenza di altri registi pedagoghi del ‘900 – non era quello di trasformare l’uomo socialmente, ma psicologicamente, liberando tutte quelle forze oscure e nascoste che fanno parte di ogni individuo. Così Artaud e Brecht si trovano in due posizioni diametralmente opposte: Brecht voleva affermare un teatro che stimolasse lo spettatore, inducendolo al ragionamento e all’analisi, m e n t r e Artaud voleva un teatro senza alcuna riflessione razionale che ostacolasse il risveglio dello spirito interiore dell’uomo. Artaud porta le teorie simboliste e surrealiste al loro limite più estremo. Secondo Artaud, il teatro dovrebbe “rituffarsi nella vita”, ma non alla maniera dei naturalisti, bensì ad un livello mistico, metafisico; compito degli scenografi e degli attori è rivelare la vita segreta dei grandi drammi, creando un teatro dove il pubblico non venga per osservare, ma per partecipare emotivamente. Queste idee sono tutte sviluppate da Artaud nei suoi manifesti scritti fra il 1926 ed il 1929 a sostegno della sua organizzazione teatrale, il teatro Alfred Jarry. Artaud prometteva un teatro che avrebbe mostrato allo spettatore le angosce e le inquietudini della vita reale, in cui sarebbero entrati in gioco molti fattori: “lo spirito, ma anche i sensi e la carne”. Si sarebbe dovuto avere un teatro “di magia”, rivolto non allo sguardo o alla mente, bensì “agli aspetti più segreti del cuore”. Nel saggio Il teatro Alfred Jarry, Artaud respinge le neonate accuse alle proprie idee dicendo che il suo teatro era uno spettacolo “libero” (come la poesia, la musica e la pittura), ma anche un “teatro totale” di pura esperienza; l’obiettivo di Artaud era extra-teatrale, cioè una reintegrazione della vita stessa secondo una visione quasi allucinatoria della realtà umana. Durante i primi anni ’30, Artaud scrive una serie di saggi che formano la sua opera più importante, Il teatro ed il suo “doppio” (1938); il saggio, contenuto nell’opera, dedicato agli attori balinesi segna un evento assolutamente importante: la visione dei danzatori balinesi, da parte di Artaud, contribuì ad una svolta nel suo pensiero. Infatti, fino al 1926, Artaud aveva affermato che la recitazione e la messinscena avrebbero dovuto essere considerate come i segni visibili di un linguaggio che invece è “invisibile e segreto”; tuttavia, il modello per questi segni non gli fu molto chiaro fino a che non vide i danzatori balinesi: divenne quindi concreta l’idea di un teatro puro, dove tutto diviene oggettivo solo nel momento stesso in cui si trova sulla scena. Le parole erano eliminate: gli attori diventavano “geroglifici animati”, le cui grida ed i cui gesti risvegliavano nel pubblico una risposta emotiva, non traducibile in un linguaggio logico e discorsivo. Fin dall’inizio della sua carriera di poeta e di attore (con Charles Dullin), Artaud era ossessionato dall’incapacità delle parole ad esprimere il mondo interiore di ogni individuo; i danzatori balinesi gli dimostrarono come era possibile utilizzare un sistema di segni spirituali capace di sostituire la parola. Il teatro, per Artaud, doveva essere liberato dalla sua sottomissione al testo, così come il corpo dell’attore doveva essere liberato dalla sua subordinazione alla mente. Il linguaggio da usare, quindi, non doveva più essere umanistico e realistico, bensì un linguaggio della magia. Il termine “crudeltà” fu scelto da Artaud per definire il suo nuovo teatro, nel 1932, dopo aver scartato termini come “assoluto”, “metafisico”, “alchimistico”; pubblicò ben due manifesti de Il teatro della crudeltà, nel 1932 e nel 1933. Sin dall’inizio, Artaud precisò che non si trattava di un’interpretazione morale e fisica della crudeltà: lo spargimento di sangue e di carne martoriata costituivano un aspetto secondario della questione (ma comunque presente), lasciando posto ad una crudeltà intesa come forza ed Non vuole Artaud sfruttare l' inconscio per se stesso, ma riservargli un carattere oggettivo solo in misura della sua funzione nella vita di tutti i giorni. E' allora proprio a questo punto che il teatro con Artaud non è più un rapporto limitato nell'ambito ristretto del palcoscenico ma si apre prepotentemente alla realtà vitale, rimettendo in discussione ogni sera i valori della messa in scena, dei contenuti e della recitazione. La vita non è fatta di atti ripetitivi e il linguaggio della scena, nell'accezione artaudiana, non è ripetizione, ma poesia in azione per cui la scenografia nel suo teatro della Crudeltà (momento successivo alla prima esperienza del Teatro Alfred Jarry) non è data come un fatto decorativo giacché la sua immobilità non risponderebbe ad un codice legato alla metamorfosi, al flusso continuo dello spirito. Là dove esiste una forma stabilita vi è un blocco del pensiero e una regressione: fino a quando i due protagonisti della scena teatrale, attore e spettatore restano chiusi in una individualità finita, non possono riprendere la propria posizione tra i sogni e gli avvenimenti. Non si tratta più di riportare tramite la poesia scenica il mondo così com'è, pertanto è necessario lasciarsi smuovere dal linguaggio dei simboli attraverso un nuovo codice interpretativo, cioè il teatro inteso come spettacolo totale, contenente elementi fisici e oggettivi in grado di essere percepiti da tutti. Con questo linguaggio reso al limite della fisicità gli oggetti comuni e anche il corpo umano diventano segni, come caratteri geroglifici facilmente riconoscibili; le intonazioni della voce, le espressioni del viso colte in forma di maschera, i gesti simbolici, gli atteggiamenti emotivi vengono raddoppiati da una serie di altri gesti e atteggiamenti riflessi, quelli che di solito non vengono manifestati, tutti i lapsus dello spirito e della lingua tramite i quali si esprimono le cosiddette «impotenze della parola». La musica è concepita in senso concreto e i suoni agiscono come veri e propri personaggi; gli strumenti, adoperati come oggetti di scena, per produrre suoni acuti e insopportabili devono necessariamente non rientrare nell'uso comune; la luce, per potersi adattare ai movimenti dello spirito, deve essere tenue, densa, opaca, per stimolare sensazioni fisiche di caldo, di freddo, d'ira di timore. La scena è soppressa perché l'azione deve occupare tutti i punti della sala e gli spettatori seguire l'avvicendarsi dei fatti ruotando su sedie girevoli; proprio perché l'azione si di spiega in tutte le direzioni ogni scena viene illuminata ed illumina a sua volta il pubblico e i personaggi dovranno sostenere tutti gli assalti delle situazioni; inoltre al centro rimarrà un'area che, pur non essendo una vera e propria scena, darà modo al nodo centrale dell'azione di raccogliersi quando occorre. Questo tipo di teatro vuole coinvolgere l'esistenza intera dell’individuo, scuotendolo dalle sue angosce, dalle sue preoccupazioni, con un'azione aggressiva che lo stimoli a scoprire le sue contraddizioni interiori  “Il Sogno” di August Strindberg: Artaud la considera come un’opera tipo che corona la carriera di un regista. Vi sono rappresentati i più alti problemi, evocati in una forma concreta e misteriosa. Il teatro Jarry vuole riportare nel teatro il senso non della vita, ma di una verità che giace nelle profondità dello spirito. La realtà teatrale che il teatro Jarry si propone di resuscitare è quella fra la vita reale e la vita del sogno  la definizione di teatro è scomparsa dai cervelli umani, ma esiste a metà strada tra realtà e sogno  finché tale definizione non sarà stata riscoperta nella sua più assoluta integrità, il teatro continuerà a trovarsi in una posizione precaria. La messa in scena de “Il Sogno” obbedisce alla necessità di proporre al pubblico qualcosa che possa essere utilizzato immediatamente e così com’è dagli attori. Una pantomima: un soggetto per la scena La pietra filosofale In un angolo della casa c'è il laboratorio degli esperimenti del dottore Pale. Arlecchino che da molto tempo ha notato Isabella, la desidera. Isabella è la moglie del dottor Pale; è una piccola provinciale annoiata; i suoi desideri si esprimono in vaghi sospiri, lamenti e gemiti. Arlecchino si introduce nella casa col pretesto di prestarsi ad un esperimento del dottore: costui è alla ricerca della pietra filosofale, contenuta dentro Arlecchino stesso. Arlecchino è un personaggio doppio: da una parte una specie di mostro sbilenco, gobbo e strabico che cammina tremante; dall’altra un bel ragazzo che si mette in posa impettito quando il dottore non lo guarda. Non c’è più firmamento Luci incandescenti e sfumate si trasformano lentamente nelle luci di un comune incrocio stradale e su di un enorme muro bianco appare un gruppo di ombre di passanti in movimento il Teatro della Crudeltà abolisce tutto ciò che non ha ombra, tutto ciò che è incorporeo la Crudeltà è la dolorosa venuta al mondo di colui che prende coscienza della propria forma e consistenza, per poi decidere di mettere in scena le sue ombre. Fra i gesti e le grida delle ombre subito incalza il lucido isterismo della Crudeltà, l’atto violento che rompe con tutto: “ah soffoco” si sente urlare; e voce. Il vecchio non è caratterizzato come il solito vecchio di teatro (tremolante e con una vocetta stridente), ma ha un tono molto netto, segno della sua grande sicurezza di se. La recitazione deve dare l’impressione di essere al rallentatore come al cinema. Nell’ultimo atto gli attori quasi non si muoveranno. Solo alla fine per lanciare l’invocazione alla morte l’attore Questa opera è moderna per la particolare accentuazione data ai personaggi e alla loro psicologia e perché propone un certo numero di problemi di attualità (borghesia, rivoluzione, partito preso). Ci sono tre tipi di illuminazioni che si unificheranno alla fine, quando il chiarore temporalesco della strada dominerà tutto. Vi è un rumore di fondo che manifesta la continua presenza della vita di fuori (rumori della strada e rumori della casa). Gli attori reciteranno con verità, senza nessuna intenzione prestabilita ne dalla dizione ne dalla pantomima. Viene evitata voci diverse si sovrappongono e si alternano  attori e spettatori sono gli stessi, perché il teatro della crudeltà è integrale, interattivo e lo spazio scenico è fruito e interpretato da tutti i presenti. Nel movimento II la scena si riempie di gente che corre, protesta, litiga e indica il cielo con il dito  si apre un’eclissi  tutto si rivolge verso il divino, lo stupore elevato al cielo. Nel movimento III vi è rumore di schiaffi, donne urtate, nella confusione appaiono teste contuse, deformate, allungate. Entra in scena il grande annusatore che la folla segue e ascolta è il trascinatore di una strana rivoluzione. Alla fine, un gruppo di scienziati pensa a come trarre vantaggio da tutto ciò: la società viene rivelata per ciò che è, mentre questi inspiegabili eventi astrali generano caos e violenza la violenza è quella dell’uomo diventato cosciente di essere nelle mani di strani sistemi governativi e al tempo stesso in balia del caso, della natura. Due progetti di messa in scena Progetto: La sonata degli spettri di Strindberg Dramma borghese in tre atti dall'omonima opera di Strindberg. La messa in scena si ispira ad una specie di doppia corrente tra una realtà immaginaria e ciò che ha preso contatto a un certo momento con la vita, per staccarsene poi quasi subito scivolamento del reale (reale e irreale si mescolano, come un uomo che si trova in dormiveglia). Un’ossessiva figura di vecchio domina questa fantasmagoria è simbolo di ogni specie di idee incoscienti o coscienti di vendetta, di odio, di disperazione, di amore, di rimpianto  lo scopo del vecchio non è noto, ma avvolge cose e persone  i personaggi sembrano sempre sul punto di sparire per cedere il posto ai loro simboli. Una casa trasparente serve da centro di attrazione al dramma. Questa casa aperta ci permette di vedere fin dentro i suoi segreti. Un salotto rotondo messo in primo piano vi assume un senso magico. Diversi personaggi girano attorno alla casa come dei morti attirati dalle loro spoglie. Casa vista dall'interno, un salotto, un armadio, dei manichini, una grande tenda. I muri sono aperti, perforati, trasparenti: lasciano vedere il cielo, l'aria, la luce esterna. La recitazione degli attori segue le oscillazioni del dramma  il dislivello dal reale all’irreale porta i personaggi a cambiare improvvisamente tono, diapason ritroverà la sua forza, la sua consistenza, una voce bene in carne. Progetto: Le coup de Trafalgar di Roger Vitrac Dramma borghese solo per i personaggi che vi appaiono: per le loro idee, i loro appetiti meschini, la cornice…. I personaggi vanno fino in fondo ai loro impulsi, ai loro pensieri, raggiungendo così la verità generale che è lo scopo stesso del teatro. Il linguaggio è diretto, violento, sincero si preoccupa di non tralasciare nulla della verità più segreta e nascosta. libertà, diserzione in tempo di guerra…) tutte idee sollevate dalla società giunta al colmo della sua decomposizione e del suo disorientamento l’autore non si pronuncia in merito (senza ogni stilizzazione. L’Atelier di Charles Dullin Con la creazione dell’Atelier, Charles Dullin affronta i gravi problemi del risanamento e della generazione morale e intellettuale del teatro francese non c’è niente che si possa chiamare conosciamo come realtà. Solo in questo modo, conclude Artaud, si può ambire ad una concezione di vita rinnovata, dove l’uomo diviene signore di ciò che ancora non esiste e che dunque egli fa nascere. Il teatro e la peste Si tratta di uno dei saggi più originali di Artaud. Egli parte da una lunga considerazione sulla “peste” (intesa come virus) per allacciarsi ad una metafora riguardante il teatro: quando in una città si verifica la peste, le forme di vita normale crollano; la situazione dell’appestato che muore senza distruzione materiale, con tutte le stimmate di un male assoluto e quasi astratto, è identica a quella dell’attore, che viene penetrato interamente dai propri sentimenti, e da questi sconvolto, senza alcun beneficio per la realtà. Nell’aspetto fisico dell’attore, come in quello dell’appestato, tutto testimonia che la vita ha reagito fino al culmine, e che nonostante ciò non è avvenuto nulla. Fra l’appestato che corre urlando dietro alle proprie allucinazioni e l’attore che si lancia alla ricerca della propria “sensibilità, fra l’uomo che si inventa personaggi ai quali non ha mai pensato e l’attore che li raffigura in mezzo ad un pubblico consenziente, esistono anche altre analogie che pongono il teatro alla stregua della pestilenza: entrambe sono un’autentica epidemia. Eppure Artaud individua una sostanziale differenza: mentre le immagini della peste, essendo in rapporto con uno stato di degradazione fisica, sono come gli ultimi sprazzi di una forza spirituale che si va esaurendo, le immagini della poesia a teatro sono una forza spirituale che parte dal sensibile per fare a meno della realtà. La forza dell’attore non si esaurisce, non va morendo, non si degrada: l’attore è confinato in un cerchio puro e completo. Bisogna però ammettere, ancora una volta, che la rappresentazione teatrale, come la peste, è un delirio ed è comunicativa: tuttavia, per far nascere dallo spirito uno spettacolo vero e proprio, si devono riscoprire determinati procedimenti. E non è semplicemente questione di arte. Infatti il teatro è come la peste, c’è in esso qualcosa di vittorioso ed insieme di vendicativo; e come la peste, anche il teatro stabilisce un legame tra ciò che è e ciò che non è, fra realtà materiale e realtà virtualmente possibile. Ritrova così il concetto di simbolo e di archetipo, creando dinanzi agli occhi dello spettatore un universo di simboli e, come tale, impossibile, indecifrabile, inaccessibile. Da questo presupposto di realtà possibile nasce la poesia, che sulla scena alimenta questi simboli. Una vera opera teatrale, secondo Artaud – e ciò è confermato dai suoi Manifesti -, scuote il riposo dei sensi, libera l’inconscio, spinge ad una specie di rivolta spirituale: impone alla collettività radunata un atteggiamento eroico e difficile. Come la peste, dunque, il teatro diviene formidabile veicolo di forze che riportano lo spirito all’origine dei suoi conflitti. Il teatro è essenziale come la peste, non perché contagioso, ma perché come la peste è rivelazione. Come la peste è il momento del Male, il trionfo delle forze oscure; in esso c’è una specie di strano Sole, una luce anomala, dove nulla si accende in modo normale. Si può dire che ogni vera libertà è nera e si identifica immancabilmente con la libertà sessuale: da un pezzo l’Eros platonico – in senso genetico – la libertà di vita, sono scomparsi sotto i freni della Libido, nella quale si identifica tutto ciò che è sporco, infamante e abbietto. Tutti i grandi Miti sono neri, e fuori da una atmosfera di strage, torture, sangue versato non si possono immaginare le splendide favole che raccontano alle folle (forse tutte le favole hanno il male alla base). Il teatro, come la peste, è modellato su questo massacro, sul fatto che scioglie conflitti, sprigiona forze, libera le possibilità; e se queste forze sono nere, non è colpa del teatro né della peste, bensì della vita . Ad Artaud non sembra affatto che la vita, così com’è, possa essere fonte di esaltazione. Dal punto di vista umano, l’azione del teatro, come quella della peste, è benefica: essa, spingendo gli uomini a vedersi come sono, fa cadere la maschera, mette a nudo la menzogna, porta a galla la verità, spinge ad atti di eroismo e di consapevolezza. La messa in scena e la metafisica Artaud analizza un quadro custodito al Louvre: Le figlie di Loth, dipinto che secondo il regista rende inutili gli altri 4 o 5 secoli di storia della pittura che lo hanno seguito. Tale dipinto ha la caratteristica fondamentale di “scatenare” qualcosa nell’osservatore, di colpire tanto l’orecchio quanto l’occhio: infatti, esso raccoglie in sé un grande dramma intellettuale. Sembra, dice Artaud, che il pittore sia a conoscenza dei mezzi per agire sul cervello umano. Ma il quadro non sprigiona idee chiare: le idee che esso raccoglie sono tutte metafisiche. Anzi, Artaud aggiunge che la grandezza poetica di queste idee deriva proprio dal fatto di essere metafisiche. L’idea stessa di “caos” presente nel quadro si aggiunge al Meraviglioso e all’Equilibrio: e secondo Artaud questo dipinto è ciò che dovrebbe essere il Teatro . Ma per farlo, il teatro dovrebbe saper parlare il linguaggio che gli è proprio: invece, dice Artaud, la situazione è ben diversa. E pone una domanda: perché in Occidente tutto ciò che è specificamente teatrale (cioè tutto ciò che non è contenuto nel dialogo) rimane in secondo piano, quasi non fosse poi così importante? Il dialogo non appartiene specificamente alla scena, appartiene al libro; la scena è un luogo fisico e concreto che dev’essere “riempito” e che pretende di parlare un suo linguaggio concreto. Questo linguaggio, per Artaud, deve innanzitutto soddisfare i sensi, poiché esiste una poesia per i sensi come ne esiste una per il linguaggio, ed è un linguaggio puramente teatrale poiché i pensieri che esprime sfuggono al linguaggio articolato. Il linguaggio fisico, materiale e solido, del teatro è nettamente differente dalla parola: esso consiste in tutto ciò che occupa la scena, in tutto ciò che può manifestarsi ed esprimersi materialmente sulla scena, e che si rivolge innanzitutto ai sensi. E’ un linguaggio fatto per soddisfare i sensi. Si può così sostituire alla poesia del linguaggio una poesia dello spazio, che si svilupperà in un campo non appartenente alla parola. Questa poesia utilizza tutti i mezzi di espressione utilizzabili su un palcoscenico – musica, danza, plastica, pantomima, mimica, intonazione, architettura, illuminazione, scenografia ecc. – ed ognuno di questi mezzi ha una propria arte o poesia intrinseca che, fondendosi con gli altri mezzi espressivi, crea una successione di reazioni e di momenti di poesia. Una forma di questa poesia linguaggio fisico basato sui segni e non sulle parole. Gli attori sembrano geroglifici animati. Anche i costumi contribuiscono a restituire un contenuto simbolico, adattandosi allo stato di “trance” dell’attore. I segni spirituali hanno un preciso significato: esso viene comunicato solamente al nostro intuito, ma con una violenza tale da impedire ogni trascrizione in un linguaggio logico e discorsivo. E, per quanto riguarda il “realismo”, le continue allusioni e metafore non impediscono al “doppio” di recitare in modo realistico, terrorizzato dalle apparizioni dell’aldilà. I Balinesi hanno un’intera gamma di gesti e di posizioni mimiche per ogni circostanza della vita e restituiscono alla convenzione teatrale il suo più alto valore; uno dei motivi per cui restiamo affascinati da questi spettacoli sta appunto nell’uso di una partitura precisa da parte degli attori, senza nessuna sbavatura. Ma è anche lo studio profondo e particolareggiato effettuato per raggiungere questi risultati. Qui non esiste improvvisazione (intesa come “spontaneità”): ogni movimento, gesto o stato d’animo non risponde a necessità psicologiche bensì ad una sorta di esigenza spirituale. Ogni gesto ripetuto alla perfezione dà l’idea di freschezza e di libertà, di spontaneità ed immediatezza. Il nostro teatro occidentale, invece, non ha mai avuto niente di tutto ciò. E’ un teatro esclusivamente verbale che ignora tutti gli altri elementi che costituiscono il teatro vero e proprio, il teatro puro (movimenti, forme, colori, vibrazioni, atteggiamenti, grida). Questi spettacoli del teatro balinese si avvalgono di un linguaggio di cui noi occidentali abbiamo perso la chiave: con il termine linguaggio, Artaud allude a quel particolare linguaggio teatrale che è estraneo a qualsiasi lingua parlata. I nostri spettacoli, fatti puramente di dialogo verbale, non possono essere paragonati al trionfo della spiritualità e della perfezione del teatro balinese. Anzi, nonostante non siano spettacoli incentrati sul tessuto verbale, l’aspetto più impressionante per noi occidentali è proprio l’intellettualità che si percepisce nella sottile trama dei gesti e nelle modulazioni della voce, nell’uso dello spazio scenico e nell’intreccio dei suoni. Ogni cosa in questo teatro balinese è calcolata con minuzia matematica. Nulla è lasciato al caso o all’improvvisazione personale. Ed è proprio questa sensazione di vita superiore e perfetta a colpire maggiormente lo spettatore occidentale, che assiste a qualcosa di molto simile ad un Rito piuttosto che ad una rappresentazione. Tuttavia, Artaud arriva anche a fare un’analisi della differenza fra il nostro teatro e quello balinese che prescinde dalla perfezione di quest’ultimo: secondo lui, ciò che più impressione del teatro balinese è comunque l’aspetto rivelatore della materia; essa pare disperdersi in gesti e segni capaci di insegnarci l’identità metafisica del concreto e astratto, e di insegnarcela in gesti fatti per durare. Questo teatro utilizza la parola prima della parola (impulso psichico segreto). Il teatro balinese è un teatro che elimina l’autore a favore di quello che noi occidentali chiamiamo “regista”: ma il regista diviene una sorta di mago, un maestro di cerimonie sacre. E la materia su cui lavora e i temi che propone vengono forniti dalla natura più primitiva. Per questo in tali spettacoli c’è un qualcosa che supera il “divertimento”, cioè il passatempo inutile ed artificioso: lo spettacolo è un Rito, un momenti di purgazione, di esorcismo. Teatro orientale e teatro occidentale Per noi occidentali la parola è tutto in teatro, e non esiste possibilità di espressione al di fuori di essa; quindi il teatro è una sorta di ramo della letteratura, o comunque ad essa è legato, trasformandosi in una semplice applicazione sonora del linguaggio. Quindi non assistiamo al teatro bensì alla rappresentazione di un testo. Questa idea di supremazia della parola nel teatro è talmente radicata in noi che, secondo Artaud, il teatro ci appare un semplice riflesso materiale del testo, mentre tutto ciò che va oltre il testo ci sembra appartenere al campo della regia, considerata come qualcosa di inferiore al testo. Quindi, vista questa sudditanza del teatro alla parola, ci viene da chiederci se il teatro abbia o no un linguaggio proprio (come ha il cinema), se è insomma un’arte indipendente ed autonoma come la musica, la pittura o la danza. Secondo Artaud, questo linguaggio, ammesso che esista, si identifica necessariamente con lo spettacolo, inteso come: 1) materializzazione visuale e plastica della parola; 2) il linguaggio di tutto ciò che si può rappresentare indipendentemente dalla parola. Considerando questo linguaggio dello spettacolo il linguaggio teatrale puro, si tratta poi di scoprire se esso può raggiungere gli stessi obiettivi della parola, cioè verificare se esso è in grado non di precisare pensieri ma di far pensare (cioè indurre lo spirito ad assumere atteggiamenti profondi). In una parola, dice Artaud, porre il problema dell’efficacia intellettuale di un linguaggio che utilizzi solamente forme, rumori, gesti; quindi il problema dell’efficacia intellettuale dell’arte. E’ solo una povertà della nostra cultura occidentale confondere arte ed estetismo, cioè credere che possa versi una pittura che si esaurisca nel dipingere, una danza che si esaurisca nel danzare e, quindi, un teatro che si esaurisca nel visualizzare un testo scritto. L’obiettivo reale del teatro, e questo ce lo insegna proprio il teatro orientale, non è quello di risolvere conflitti sociali o psicologici, bensì esprimere in modo obiettivo verità segrete, di mettere in luce con gesti attivi le verità nascoste. Fare del teatro un’arte capace di esprimere attraverso l’intera drammaturgia della forma equivale a restituirgli la sua dimensione originaria, metafisica e religiosa. Basta con i capolavori Per Artaud bisogna farla finita con l’idea malsana che i capolavori siano riservati ad una élite di pubblico e non adatti alla folla; ovvero, che i testi del passato sono oggi comprensibili solo a pochi. I capolavori del passato vanno bene per il passato, ma non per noi . Il teatro odierno ha il diritto di dire ciò che è stato o ciò che è stato detto in una forma che sia propria, immediata, diretta, legata ad un linguaggio che tutti indistintamente sappiano comprendere. E’ sciocco rimproverare le masse di non saper cogliere il sublime, poiché esso viene sempre portato in scena in modo formale ed oltretutto è sempre una manifestazione morta. Bisogna invece entrare nell’ottica che una folla abituata a terremoti, pestilenze, catastrofi e guerre può avvicinarsi a questi concetti e al sublime, anzi non chiede di meglio che prenderne coscienza: a condizione però che si parli nel suo linguaggio, e che la nozione di queste cose nel le pervenga tramite costumi e discorsi sofisticati, appartenenti ad epoche morte e destinate a non tornare più. Oggi, come un tempo, la folla è avida di misteri e vuole venire a conoscenza delle leggi attraverso le quali il destino si manifesta. Se la folla non accorre ai capolavori letterari, ciò accade perché questi capolavori sono letterari, cioè congelati nel tempo; e congelati in forme che non rispondono più alle esigenze del nostro tempo. Non si può confondere il sublime con le forme che esso ha assunto nel tempo. E se la gente si è stufata del teatro, è perché il teatro da 400 anni – cioè dal Rinascimento in poi – ci ha abituati ad un teatro puramente descrittivo e narrativo, che racconta soltanto psicologia. Ed Artaud è convinto che gli uomini del teatro dovrebbero farla finita con la psicologia. Le storie di denaro, di amori finiti, di arrivismo sociale, di sessualità senza mistero, sono forse psicologia ma non sono teatro. L’idea di un’arte fine a se stessa che serva a dare svago alla gente è un’idea assurda che dimostra l’incapacità degli occidentali di pensare il teatro per come esso è nato e vissuto prima della sua istituzione. Per questo motivo, Artaud propone un teatro della crudeltà: ma per “crudeltà” non si deve subito intendere “sangue e massacri”. Artaud spiega che l’espressione “teatro della crudeltà” indica un teatro difficile e crudele anzitutto per se stesso . Attraverso il suo teatro, il teorico francese auspica un ritorno alle origini, cioè un recupero del concetto di poesia (con mezzi moderni) che sta alla base dei Miti raccontati dai grandi tragici antichi; un recupero dell’idea religiosa di teatro, dell’idea magica per cui il teatro provoca una sorta di trance che risvegli lo spirito dell’uomo e lo inizi alla poesia. Il teatro è per Artaud l’ultimo mezzo al mondo capace di toccare direttamente l’organismo e la sensibilità umana: per questo lo spettatore è al centro e lo spettacolo gli sta intorno. Il teatro della crudeltà Secondo Artaud, la cosa più preoccupante è che si è persa un’idea del teatro. Infatti il teatro si limita a farci penetrare nell’intimità di qualche fantoccio o a trasformare lo spettatore in un voyeur. Per questo la gente non va più a teatro ed è normale che cerchi nuove emozioni nel cinema, nel circo o nella rivista. Il fatto è che c’è un bisogno urgente di un teatro che ci svegli, che ci colpisca ai nervi e al cuore. La storia del teatro psicologico, da Racine in poi, ci hanno abituato ad un tipo di azione che dovrebbe essere propria del teatro; a sua volta il cinema ci bombarda di immagini riflesse che non possono raggiungere la nostra sensibilità in quanto filtrate da una macchina. L’abitudine agli spettacoli di pura evasione ci ha fatto dimenticare l’idea di un teatro serio che, sconvolgendo tutti i nostri preconcetti, ci trasmetta emozioni inaspettate ed agisca su di noi come una terapia spirituale. Tutto ciò che agisce è crudeltà. Pertanto, a partire da questa idea, il teatro deve rinnovarsi: il teatro della crudeltà vuole lo spettacolo di massa, vuole ricreare quella poesia che esiste nelle feste e nelle folle, quando la gente si riversa nelle strade. Artaud è convinto, in altre parole, che nella cosiddetta poesia esistano forze vive, e che l’immagine di un delitto presentata in condizioni teatrali sia per lo spirito infinitamente più atroce della realizzazione di quello stesso delitto. Si vuole fare del teatro una realtà alla quale si possa credere e che dia una scossa al cuore ed ai sensi. Il pubblico crederà ai sogni del teatro a patto che li
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