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Riassunto di "La società di antico regime (XVI-XVIII secolo)", Sintesi del corso di Storia Moderna

Riassunto del manuale "La società di antico regime (XVI-XVIII secolo). Temi e problemi storiografici" di Gian Paolo Romagnani.

Tipologia: Sintesi del corso

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Scarica Riassunto di "La società di antico regime (XVI-XVIII secolo)" e più Sintesi del corso in PDF di Storia Moderna solo su Docsity! Riassunto di “La società di antico regime (XVI-XVIII secolo)” 1. Il lavoro dello storico 1.1 Storia e storiografia Nella lingua italiana la parola “storia” ha diversi significati: a) il concreto svolgersi degli eventi nel tempo, ossia una realtà oggettiva; b) la storia narrata ed interpretata dagli uomini, ossia un prodotto soggettivo; c) un racconto, non importa se reale o di fantasia. Per gli storici sono importanti le prime due accezioni: la storia intesa come evento (storia) e la storia intesa come narrazione (storiografia). I due più grandi storici del mondo greco; Erodoto e Tucidide, hanno intitolato le loro opere rispettivamente Historie, traducibile come “Le ricerche” e Tà Érga, traducibile come “I fatti”. Due modelli di storiografia diversa: il primo, dimenticato fino al Novecento, fatto di osservazione, indagine e ricerca, mette in correlazione anche la geografia e l’antropologia, studiando i mutamenti profondi; il secondo segue una narrazione di fatti per lo più politici e militari, tipico della storiografia romana, rinascimentale e moderna che si basa su una storia evenemenziale. Qualsiasi approccio alla storia è necessariamente legato alla storiografia e quindi al filtro di storici del passato. La storiografia si sviluppa, in qualsiasi epoca, per la necessità di trovare un’identità, di ricordare e rappresentare la memoria di una comunità (famiglia, gens, tribù, Stato). Secondo Marc Bloch, lo storico è colui che se fiuta carne umana, sa che troverà la sua preda. In pratica sostiene che l’interesse dello storico non si concentri sui libri o sugli archivi, che ritiene mezzi, ma sull’umanità e sulle sue relazioni, quindi sulle società e sulle loro trasformazioni nel corso del tempo. 1.2 Storia e memoria Una persona che perde la memoria, perde la sua identità e ha bisogno di qualcuno che gli racconti chi è, narrandogli il suo passato. Il compito iniziale dello storico era di fare da testimone e fornire una lettura del passato che però non poteva che essere soggettiva e suscettibile di smentita. La memoria umana, infatti, è sempre selettiva, che sia individuale o di gruppo. Inizialmente la storia non era altro che la memoria messa per iscritto, ma lo storico, oggi non è e non deve essere un testimone dei fatti, ma un loro interprete critico. Contrapporre la memoria/testimonianza alla storia/analisi è sbagliato: sono due cose diverse che, poste su due piani differenti e con sguardo critico, vanno considerate entrambe, soprattutto con la storia contemporanea, dove tendono a sovrapporsi a causa della vicinanza degli eventi e spesso del vissuto in prima persona. 1.3 Scrivere di storia Nel 1975, lo storico francese François Furet iniziò a sostenere che la storia evenemenziale fosse tramontata e che lo studio storico devesse avvicinarsi sempre di più ad un approccio scientifico, concentrandosi, più che sui singoli avvenimenti (poco significativi) sulle strutture di lungo periodo e su modelli multidimensionali. La sua visione si contrapponeva a quella di chi, come lo storico inglese Lawrence Stone, sonsteneva che la storia “narrativa” e non scientifica fosse ineliminabile. La differenza tra storia e favola sta nella contrapposizione tra ciò che è accaduto realmente e cio che non lo è. Anche nel formato del libro si trova questa diversità: il libro di storia presenta delle note (dichiarano le fonti che rappresentano le prove) e delle immagini che fungono da documenti iconografici, il libro di narrativa non ha note e le immagini sono semplici illustrazioni. Il discorso storico si svolge, generalmente, su due piani distinti: a) la descrizione, nel quale lo storico espone i fatti e le relative fonti; b) l’analisi o interpretazione, nel quale lo storico espone le proprie considerazioni sui fatti descritti. Spesso per distinguere questi due aspetti, che possono anche essere mescolati, si usano tempi verbali diversi (passato per la descrizione e presente per l’interpretazione) e per rendere il tutto più fruibile, è necessario che lo storico conosca le tecniche narrative. Il suo obbiettivo ultimo però resta la veridicità che viene provata da documenti e fonti e certificata da spiegazioni razionali che siano in grado di convincere il destinatario. 1.4 Le fonti Conoscere le società di di antico regime significa conoscere: a) le fonti che gli storici hanno utilizzato per il quadro interpretativo; b) la storiografia, ossia le principali opere storiografiche che le riguardano; c) le categorie storiografiche, ossia, i concetti, gli schemi di periodizzazione e le parole chiave; d) i grandi dibattiti che hanno visto contrapporsi gli storici. I due termini “fonte” e “documento” sono spesso usati come sinonimi ma sono due cose diverse: il documento è ciò che giunge dal passato; la fonte è la conoscenza che lo storico vuole ricavare dal documento. Le fonti possono essere primarie (testimonianze dirette) o secondarie (testimonianze indirette), manoscritte (reperibili per lo più negli archivi) o a stampa, ma possono essere anche oggetti (opere d’arte, manufatti, oggetti 1 d’uso quotidiano), tracce sul territorio (campi, fossati, muri, strade, case, palazzi, chiese ecc.), nella lingua, nelle tradizioni, nelle leggende, norme o istituzioni. La bibliografia è tutto ciò che è stato scritto sul problema di cui lo storico si occupa: è lo strumento principale della ricerca. Si può dividere in bibliografia primaria (libri frutto di ricerca diretta sui documenti) e bibliografia secondaria (libri scritti basandosi su altri libri). Per svolgere bene il suo lavoro, uno storico dovrebbe inoltre conoscere le discipline che venivano definite “ausiliarie alla storia”: la filologia (ricostruzione critica di un manoscritto); la codicologia (studio dei codici antichi); la paleografia (studio delle antiche scritture); la diplomatica (studio di antichi documenti istituzionali); la grafologia (studio delle forme di scrittura); l’epigrafia (studio delle epigrafi su pietra o marmo); la sfragistica (studio dei sigilli); la numismatica (studio delle monete antiche); l’araldica (studio di stemmi ed emblemi). L’archivio è la memoria organizzata di un’istituzione e quindi rappresenta l’istituzione che l’ha generata: non è quasi mai diviso per argomenti come una biblioteca ma per funzioni, come era probabilmente organizzato originariamente. Negli archivi di stato si può trovare tutto ciò che ha a che fare con la pubblica amministrazione e il governo del territorio: documenti politici, diplomatici, militari, economici e fiscali, giudiziari, catastali, mappe, atti dei magistrati e dei funzionari. Altrettanto importanti sono gli archivi ecclesiastici, privati ma quasi sempre aperti al pubblico, che rappresentano una fonte di documenti su: attività vescovili, atti delle visite pastorali, atti di tribunali ecclesiastici e dell’inquisizione. 1.5 Le interpretazioni Il dibattito storiografico e le differenti visioni degli storici hanno dato vita a diverse interpretazioni ancora oggi controverse:  Rinascimento, autunno del medioevo o alba della modernità? Tra la seconda metà dell’Ottocento e gli inizi del Novecento si formarono due schieramenti: chi, come lo svizzero Jakob Burckhardt, riteneva l’Umanesimo e il Rinascimento un tale rinnovamento della civiltà rispetto al passato da considerarli l’inizio dell’età moderna e chi, come il prussiano Konrad Burdach, sottolineando l’aspetto mistico-religioso di quest’epoca, li considerava antimoderni.  Riforma, Controriforma e Riforma cattolica Una grande controversia nacque quando, nell’Ottocento, si iniziò a domandarsi se quello che avvenne dopo fu una Controriforma o una Riforma cattolica: in generale chi era a favore del protestantesimo tendeva a bollarla come Controriforma (termine dispregiativo) che tentava di reprimere le novità riformatrici, mentre chi aveva una visione più cattolica sosteneva che fosse una Riforma cattolica iniziata prima della riforma luterana e culminata con le innovazioni del Concilio di Trento.  La crisi generale del Seicento La controversia storiografica, ormai superata, verteva su: a) la natura della crisi; b) il carattere di crisi generale; c) il ruolo della rivoluzione inglese; d) il ruolo degli spazi italiani nel quadro della crisi. Una prima divisione era tra storici marxisti, che sostenevano che la crisi fosse dovuta al passaggio dal “modo di produzione feudale” all’emergente economia capitalistica, e storici di pensiero liberale convinti invece che la causa fosse la rottura tra società e Stato. Una seconda divisione era tra chi considerava, guardando l’Europa centro-meridionale cattolica, il Seicento come un secolo di crisi totale e chi invece, osservando l’Europa settentrionale protestante, individuava anche elementi di sviluppo sociale ed economico. Tuttavia, gli studi di storici di differenti schieramenti hanno dimostrato come il Seicento sia stato un secolo di crisi che sullo sfondo della guerra dei Trent’anni vide numerosissime rivolte  Il Settecento è davvero il “secolo dei Lumi”? Si tende a considerare il Settecento come il secolo dell’Illuminismo e dei Lumi ma questi due fenomeni erano una minoranza: la popolazione era profondamente superstiziosa, si tenevano ancora processi per stregoneria ed era diffusissimo il culto dei santi. Si cerca di rompere la dicotomia tra Illuminismo e rivoluzione perchè non si può pensare che siano un processo di causa ed effetto. L’età dei Lumi è sicuramente caratterizzante del Settecento ma non è l’unico aspetto rivoluzionario di questo secolo. 2. Le molte dimensioni della modernità 2.1 La periodizzazione storica La necessità di periodizzare la storia ha portato alla creazione di categorie storiche non oggettive, ma nemmeno arbitrarie, bensì dei prodotti storici e storiografici. Per costruire una periodizzazione seria è necessario: a) definire dei punti di partenza (ab quo/ad quem); b) impiegare unità di misura temporali comparabili (giorni, anni, secoli); c) individuare epoche carartterizzate da un segno comune; d) costruire categorie storiografiche sulle quali fondare ipotesi interpretative. 2.2 Definire l’età moderna: un problema europeo 2 In questo periodo viene a mancare il sistema di vassallaggio tipico del Medioevo e il legame con il sovrano diventa di tipo economico o giuridico. Si creano due aree feudali: quella dell’Europa centro-settentrionale slegata dal sistema dei vassalli e quella dell’Europa orientale e meridionale dove il feudalesimo è più legato ai vecchi schemi. 4. La città e il mondo del lavoro 4.1 Lo spazio urbano in età preindustriale Le città preindustriali si trovavano entro una cinta muraria e si potevano distinguere quasi sempre per: a) un centro amministrativo con palazzo municipale; b) un centro commerciale con piazza del mercato ed eventuale palazzo dei mercanti; c) un centro religioso con chiesa cattedrale e palazzo vescovile. Le chiese ed i conventi erano sparsi in tutta la città, così come le Confraternite delle Arti (corporazioni di arti e mestieri), le dimore aristocratiche e borghesi e le botteghe artigiane. Ciò che qualificava un centro urbano come città era la presenza o meno di privilegi di carattere giuridico e fiscale concessi dal sovrano e sanciti nello statuto, carta fondamentale che riconosceva la città come autorità amministrativa. Il più importante di questi era il diritto all’autoamministrazione, ossia il potere di eleggere i propri organi di governo (che dovevano rispondere al sovrano, ma che potevano esercitare molte funzioni in autonomia). 4.2 La comunità urbana e le sue istituzioni In antico regime solo il 15% della popolazione viveva in città e si può distinguere una gerarchia sociale delle zone urbane: al primo livello si trovavano il principe e la nobiltà cortigiana (solo nelle capitali), il vescovo e i canonici della cattedrale (nel aso di sedi di diocesi), i signori feudali inurbati, gli esponenti del patriziato urbano, gli alti funzionari dello Stato e gli esponenti dell’alto clero; ad un livello inferiore c’erano i giuristi, i prelati, gli ecclesiastici di ogni livello, i prfessionisti (medici, avvocati, notai), i mercanti e i negozianti; ad un livello ancora inferiore si collocavano i segretari e gli impiegati della pubblica amministrazione o di quella ecclesiastica, i segretari, gli scrivani e i contabili dei grandi mercanti, i maestri artigiani e i bottegai; al gradino più basso si trovavano i servi, i lavoratori delle botteghe, i lavoratori stagionali e giornalieri e i piccoli venditori ambulanti; al di sotto di questo livello c’era la massa dei poveri e dei vagabondi. In quest’epoca non tutti gli abitanti di una città erano cittadini. La cittadinanza era infatti un privilegio attestato da un documento rilasciato dalle autorità municipali Il principale organo amministrativo cittadino era il Consiglio comunale (con diversi nomi come Senato, Scabinato, Consolato, Capitolato), del quale fanno parte le famiglie più eminenti della città. All’interno del Consiglio, oltre agli esponenti del patriziato urbano, erano rappresentati anche gli esponenti del ceto borghese tramite le Corporazioni di mestiere e i Collegi delle arti. 4.3 Il mondo del lavoro e il sistema corporativo In epoca medievale e moderna le Corporazioni erano associazioni di persone che praticavano lo stesso mestiere o professione, dotate di autonomia giuridica e quindi di diritti, poteri e obblighi. La corporazione poteva quindi agire nei confronti delle istituzioni (era interlocutore in nome del notevole peso nella vita cittadina) in nome dei suoi appartenenti e imponeva loro regole comuni. Inoltre si occupava di garantire uno standard di qualità della produzione artigianale. Avevano anche un ruolo sociale: costruivano ospedali, scuole e casse di mutuo soccorso per i soci, tutelavano i loro diritti e garantivano loro l’accesso alle materie prime. Divennero così importanti che se non si era iscritti a una corporazione non si poteva esercitare la professione corrispondente. Quando si formarono le potenze regionali e nazionali, per bloccare il controllo delle Corporazioni, limitarono i loro poteri politici e di governo e in alcuni casi arrivarono ad abolirle. 4.4 Arti e gerarchie sociali Tra la fine del Medioevo e l’inizio dell’etá moderna le Corporazioni controllavano la vita politica delle città e solo chi era iscritto ad una di queste era considerato cittadino, mentre la nobiltà feudale inurbata era orgogliosa di tenersi lontana dal governo cittadino. Fra Quattrocento e Cinquecento, con l’interessamento del patriziato urbano alla vita politica, si iniziò a considerare il lavoro, soprattutto quello manuale, come qualcosa di basso e sporco e si creò una distinzione fra mercanti (maggiori) e artigiani (minori). 4.5 Dentro la bottega. Le regole delle arti e dei mestieri Le gerarchie interne alle Corporazioni erano così suddivise: alla base stavano i garzoni, per lo più adolescenti non salariati ma ospitati dal maestro; poi i lavoranti (grado al quale si accedeva dopo un triennio di garzonato), salariati e con una loro dimora; infine i maestri, capi e titolari delle botteghe artigiane, unici ad avere accesso alle cariche corporative e alle magistrature cittadine. 5 I contratti di apprendistato erano a carico della famiglia dell’apprendista perché la bottega era considerata una scuola e i nuovi lavoratori erano vincolati da un giuramento che serviva ad impedire la concorrenza sleale tra botteghe. Tutti questi ambienti erano riservati quasi esclusivamente agli uomini e preclusi alle donne. 5. I ceti borghesi e le origini del capitalismo 5.1 Chi sono i “borghesi” di antico regime? Un tentativo di definizione Mentre oggi si usa il termine “borghese” con l’accezione data da Karl Marx, durante il medioevo, con borghesia, si indicavano gli abitanti dei borghi o delle città per distinguerli dai contadini. Successivamente questa qualifica è stata attribuita ai soli abitanti di una città dotati di privilegi, di pieni diritti di cittadinanza, residenti da più generazioni, titolari di un’attività, proprietari di una casa, ossia tenuti a pagare le tasse. Erano di poco al di sotto del patriziato urbano ed erano un ceto formato dagli esponenti delle famiglie mercantili o facenti parte delle Corporazioni più importanti, ma erano disprezzati dalla nobiltà. Nel Settecento si indicava con borghese chiunque appartenesse al terzo stato (non appartiene né alla nobiltà né al clero), ma considerata l’ampiezza di questa categoria, che andava dal ricco banchiere al contadino, il termine perdeva di significato. 5.2 Fra economia naturale ed economia monetaria Per molti anni si è cercato di individuare il momento di passaggio tra un’economia naturale e un’economia monetaria, ma questo dilemma è superato in quanto si è ampiamente dimostrato che questi due tipi di economia hanno convissuto per molto tempo. In uno stesso periodo esisteva sia il baratto e l’autoconsumo che l’utilizzo della moneta e il commercio. Proprio la moneta era usata per certe operazioni (tasse e tributi) ma non per altre (acquisto di beni). 5.3 Le basi dell’economia monetaria Ogni territorio aveva la propria personale moneta che non aveva un valore facciale (valore scritto sulla faccia): il valore ufficiale era stabilito dal sovrano, ma il valore reale dipendeva dal valore del peso dei metalli utilizzati per coniarla. In antico regime la moneta era utilizzata parallelamente al pagamento in natura (prodotti agricoli e/o generi alimentari), soprattutto nelle realtà rurali. Il capitalismo si fa risalire alla nascita dei sistemi bancari italiani di fine medioevo: i mercanti e i finanzieri prestavano somme di denaro che si facevano restituire con alti interessi. In questo periodo nacquero le lettere di cambio che servivano per traferire crediti e debiti a distanza senza dover necessariamente spostare beni materiali. La fortuna dei banchieri si fece quando anche i sovrani iniziarono a rivolgersi a loro per ottenere del denaro. Questi debiti da parte di principi e imperatori raramente venivano ripagati ma erano compensati dalla concessione di terre, titoli, appalti e privilegi di ogni tipo. 5.4 Telai e altiforni. Manifattura e protoindustria Stabilire con precisione la nascita delle fabbriche come le intendiamo oggi è molto difficile: esistevano le case di lavoro e i lavoratori a domicilio, ma le strutture che più si avvicinavano erano i cantieri navali dell’Arsenale di Venezia o quelli del porto di Siviglia. La “rivoluzione industriale” iniziata con il telaio meccanico e passata per la macchina a vapore brevettata da James Watt nel 1769 è stata rivista negli ultimi anni perché, contrariamente a quanto si pensi, non si passo in poco tempo dalle botteghe al lavoro di fabbrica, ma fu un processo lento che vide convivere per molto tempo queste due realtà fino ai giorni nostri. In poche parole, più che una grande rivoluzione industriale furono tante piccole protorivoluzioni sparse in tutt’Europa che portarono al fenomeno inglese. 5.5 La rivoluzione dei consumi Il Settecento fu il secolo in cui si nacque il concetto di consumo di massa, molti beni si resero più disponibili per tutti e questo portò ad una minore disuguaglianza, se non altro nelle apparenze, tra i ceti più ricchi e quello più poveri. Sempre nel corso di questo secolo si verificò una “rivoluzione dell’igiene” portata dalla disponibilità dell’acqua corrente nelle case. In questo periodo infatti nacque l’abitudine di lavarsi il corpo più volte a settimana e quella di indossare biancheria di cotone prodotto a basso costo, migliorando così anche la condizioni sanitarie. Nacque anche l’illuminazione artificiale, che consentiva di muoversi e lavorare anche la sera, e il riscaldamento si diffuse tramite stufe in ghisa e ceramica che sostituirono focolari e camini. 6 Infine, l’abbigliamento usato fino a quel momento venne sostituito dal cotone, più leggero ed economico, che permise un maggior ricambio degli abiti (le camicie anche tutti i giorni) e anche la nascita di una nuova moda seguita da quasi tutta la popolazione urbana. Le parrucche, già ampiamente diffuse nella nobiltà, si ridussero di dimensioni e si affermarono anche tra la borghesia e il ceto medio. 6. Le nobiltà europee 6.1 “Nobiltà”: la genesi di un concetto Nel mondo greco gli aristocratici erano coloro che si distinguevano per il valore e non per il sangue. In quello romano, invece, il patriziato poteva vantare l’appartenenza ad una delle famiglie originarie della città e quindi diritti basati sulla discendenza. Nel mondo tardo antico e medievale, con il termine nobile si indicava colui che per nascita, o per titolo concesso dal sovrano, godeva di un privilegio. I tre elementi costitutivi della nobiltà antica erano: la nobilitas, ossia le nobili origini; la virtus, ossia la virtù ed il coraggio militare; la certa habitatio, ossia il possesso di una signoria fondiaria. Quello della nobiltà era un ceto, ossia un gruppo distinto per la sua posizione all’interno della gerarchia sociale, e non una classe che, secondo la definizione di Marx, si individuava per la posizione economica all’interno del ciclo produttivo. Il concetto di “ordine” o “stato”, invece, identificava un gruppo sociale per la sua posizione giuridica (ad esempio clero, nobiltà, terzo stato ecc.). Il sistema che tripartiva la società era tipico dell’antico regime e distingueva tre funzioni fondamentali: la sovranità, la forza e la fecondità, prerogative rispettivamente degli oratores, dei bellatores e dei laboratores. I primi (sovrani e sacerdoti) erano impegnati nel governo e nella preghiera; i secondi (guerrieri) si occupavano della guerra e della difesa dal nemico; i terzi (lavoratori) dovevano occuparsi delle attività quotidiane e della riproduzione della comunità. 6.2 L’enigma delle nobiltà I principali titoli della nobiltà imperiale europea sono quelli dei duchi, marchesi, conti, visconti, visdomini e baroni. I duchi erano i grandi feudatari cui spettava il governo ereditario delle varie provincie o ducati per conto del sovreno. I marchesi (o margravi) erano i governatori delle marche, ossia delle province di confine o di importanza strategica. I conti erano i più fedeli collaboratori del sovrano e governavano una contea, circoscrizioni territoriali in cui era suddiviso il regno. I visconti erano i sostituti dei conti, quindi con titolo ereditario di livello inferiore. I visdomini erano feudatari laici al quale il vescovo delegava la propria autorità temporale. I baroni erano feudatari minori. La nobiltà non era statica: pochissime famiglie nobiliari del medioevo perdurarono nell’età moderna e la maggior parte della nobiltà di antico regime era di nuova acquisizione. I tipi di nobiltà europea si possono dividere in cinque: 1) La nobiltà terriera di antica origine feudale; 2) I patriziati urbani o nobiltà cittadina di origine comunale; 3) La nobiltà di toga, di origine più recente, acquisita in seguito all’esercizio di alte cariche giudiziarie; 4) La nobiltà di servizio, acquisita o confermata in seguito a servigi resi al sovrano; 5) La nobiltà di fatto, non titolata ma riconosciuta “per consuetudine”. La nobiltà si poteva anche perdere se i comportamenti non rispondevano a quelli richiesti dal proprio ceto o se si scoprivano delle discendenze non nobili (per esempio discendenze ebraiche o musulmane in Spagna). 6.3 Nobiltà e ricchezza Non tutti i nobili di antico regime erano ricchi e la ricchezza non fu mai l’elemento decisivo per connotare un nobile. La maggior parte della piccola e media nobiltà non era più ricca di molti borghesi e proprietari terrieri non nobili. Esisteva poi una parte di nobiltà povera o addirittura in miseria Nel corso del Settecento, contrariamente a quanto si pensi, la nobiltà non subì un declino in favore della borghesia, ma, considerato che i borghesi aspiravano al titolo nobiliare, molti nobili iniziarono a comportarsi in modo borghese, affinando il senso degli affari e intraprendendo attività bancarie e di prestito (anche se giudicate illecite) oltre alle rendite delle riscossioni fiscali sul territorio. Infine i nobili dovevano sostenere grandi spese in quanto la nobiltà non doveva preoccuparsi delle finanze famigliari. Questo comportava la contrazione di ingenti debiti che però non erano visti come cattiva amministrazione, ma come simbolo di potere. 6.4 Nobiltà e potere In molti territori europei i nobili esercitavano il potere giudiziario in sede locale, direttamente o indirettamente (con giudici nominati da loro). In altri casi la nobiltà possedeva giurisdizione di polizia e anche diritti esclusivi (quote sulle transazioni, sugli atti notarili, su mulini, forni, produzione del vino, caccia, pesca). Nelle grandi monarchie europee, l’antica nobiltà manteneva il controllo dei comandi militari e degli incarichi diplomatici, ma lasciava ad altri ceti le cariche amministrative e finanziarie. 7 Gli ufficiali venivano reclutati in tre modi: a) dalla piccola nobiltà, desiderosa di distinguersi agli occhi del sovrano; b) dai giuristi non nobili, scelti per competenza e se necessario concedendogli un titolo nobiliare; c) concedendo l’ufficio in beneficio o vendendolo al miglior offerente che lo avrebbe trasmesso agli eredi. 8. Giustizia e fiscalità in antico regime 8.1 La giustizia in età moderna: verso il monopolio della giurisdizione L’esercizio della giurisdizione sul territorio era uno dei principali attributi del sovrano e significava in particolare due cose: a) l’esercizio del diritto di punire; b) la capacità di imporre tributi. Quindi monopolio della giustizia e del fisco. La giustizia non era “terza”, ma anzi era diversa a seconda del tipo di tribunale al quale si ricorreva (feudale, ecclesiastico, militare, mercantile) o di chi vi ricorreva. Per molti secoli si distinse in giustizia regia, giustizia signorile e giustizia ecclesiastica e la maggior parte dei giudici era nominata dai signori feudali che amministravano un determinato territorio. Solo nei casi più gravi o per quelli che coinvolgevano la nobiltà si ricorreva alla giustizia regia, che comunque manteneva un carattere di eccezionalità. Infine, nelle zone rurali, esisteva l’arbitraggio, ossia una forma extragiudiziaria di concordato tra privati che regolava un contenzioso. 8.2 La fiscalità in età moderna: verso il monopolio del prelievo Con il termine fisco, in età moderna, si indicava quel sistema di prelievo esercitato sui sudditi di tutto il territorio. Mentre oggi è solo lo Stato ad avere il monopolio del prelievo, in antico regime i soggetti che esercitavano il prelievo erano diversi: oltre al sovrano, anche i feudatari, i signori territoriali, la Chiesa, le città, le Corporazioni, le comunità locali ecc. Inizialmente i sudditi dovevano versare tributi a diversi enti, tutti legittimati a richiederli, ma con l’affermazione dello Stato moderno ci fu un progressivo accentramento del potere di riscossione fiscale da parte di quest’ultimo. Fin dal medioevo, la maggiore o minore autonomia di una comunità si poteva misurare con l’estimo, ossia la capacità di l’entità dei prelievi da imporre ai propri cittadini, o estimati. In antico regime esistevano diversi modi di attuare il prelievo: la meno diffusa era la tassazione diretta mediante tributi e tasse; seguivano le più diffuse imposizioni sui consumi, come le imposte su grano, pane, vino, sale, tabacco ecc. pagate da tutti in maniera uguale; infine c’erano i dazi, i pedaggi e le gabelle, ossia tributi imposti su beni importati, esportati o trasportati su un determinato territorio. 8.3 Fermes e appalti Con l’aumento dei costi dell’apparato statale e militare, i sovrani iniziarono a stipulare contratti di prestito (fermes in francese, asientos in spagnolo) con ricchi mercanti internazionali o nobili facoltosi in cambio della concessione di privilegi (diritto di riscossione delle tasse, diritto allo sfruttamento di miniere e foreste del sovrano, concessione di monopoli ecc.), sapendo che difficilmente la somma sarebbe stata restituita. Gran parte delle rivolte di metà Seicento furono determinate dall’aumento della pressione fiscale e contro gli esattori colpevoli, secondo la popolazione, a differenza del re che aveva appaltato loro il compito. 8.4 Fisco e conflitti sociali In questo sistema di prelievi, dove nobiltà e clero non pagavano e i poveri non potevano essere tassati più di tanto, il ceto medio (proprietari terrieri, artigiani, commercianti, imprenditori, banchieri ecc.) era quello che più degli altri era gravato dal peso del fisco. L’ondata di rivolte di metà Seicento (Portogallo, Catalogna, Palermo, Napoli, Irlanda, Inghilterra, Francia) erano causate da una crescente insofferenza della popolazione nei confronti dei governi degli Asburgo, degli Stuart e dei Borbone, accusati di voler tartassare il ceto borghese e affamare il popolo con le tasse. Esaurite le rivolte, nella seconda metà del Seicento, gli stati iniziarono ad elaborare progetti di riforma fiscale volti ad eliminare le peggiori storture e a razionalizzare un sistema fortemente iniquo. 8.5 Le riforme fiscali e i catasti Il cardine delle riforme fiscali fu il catasto, un sistema di schedatura più completo possibile dei beni immobili posseduti dai contribuenti e finalizzato alla ripartizione del carico fiscale. Un catasto era in genere costituito: a) da una serie di mappe dello Stato, con indicati i confini e l’estensione delle singole proprietà immobiliari, le colture presenti, la redditività dei terreni; b) da una parallela serie di registri con i nomi dei proprietari di ogni lotto, i passaggi di proprietà e le variazioni di colture. 9. La guerra e gli eserciti 10 9.1 Dalle milizie feudali agli eserciti permanenti Per comprendere quella che è stata definita “rivoluzione militare” si sono individuati sette fattori chiave di trasformazione: 1. il passaggio da piccoli eserciti temporanei a eserciti più grandi e permanenti; 2. l’affermazione della fanteria con armi da fuoco a scapito della cavalleria; 3. i mutamenti strategici necessari a spostare, alimentare e retribuire masse crescenti di uomini; 4. la crescita dell’importanza degli eserciti in rapporto allo Stato e alla finanza; 5. la tecnologia applicata alla guerra; 6. l’architettura militare che ridisegnò le città fortificate; 7. il ruolo della marina militare nell’espansione coloniale. Nei decenni tra XV e il XVI secolo, la maggior parte degli eserciti mutò la propria natura passando da una piccola massa di uomini reclutati occasionalmente per brevi periodi e tenuti insieme da legami di fedeltà tipici del feudalesimo a un corpo disciplinato, organizzato gerarchicamente con competenze professionali precise. Già dal Quattrocento vennero reclutati picchieri che sostituirono la fanteria leggera e i soldati mercenari, veri professionisti della guerra, si sostituirono alle milizie cittadine volontarie. Il modello dell’esercito interarmi, composto da diversi corpi specializzati (cavalleria, fanteria, picchieri, bombardieri, balestrieri ecc.), si confermò il più efficace, anche se il più costoso. Infatti i professionisti dovevano essere retribuiti, diversamente dai cavalieri feudali e dai volontari, ma garantivano un miglior successo e la sicura conclusione della guerra. Importanti, infine, erano le flotte, che con l’introduzione delle armi da fuoco, passarono dalla tecnica dell’arrembaggio al conflitto a distanza con moschetti e cannoni. 9.2 Dall’arma bianca alle “bocche da fuoco” Il passaggio dalle armi bianche alle armi da fuoco ha rappresentato una rivoluzione in grado di stravolgere il modo di combattere le guerre. Per secoli la cavalleria aveva rappresentato il cuore degli eserciti militari, ma con l’introduzione delle armi da fuoco, divenne essenziale il ruolo dell’artiglieria, sia pesante che leggera: la prima affidata alle tecniche di fabbri e artificieri; la seconda affidata all’abilità di fucilieri, archibugieri e moschettieri. A causa dell’introduzione dell’artiglieria, le città vennero ridisegnate: le alte mura sottili tipiche del medioevo vennero sostituite da bastioni molto più bassi e spessi in grado di resistere ai colpi di cannone. La guerra passa da attacchi rapidi con l’obbiettivo di entrare nella città a lunghe guerre d’assedio, spesso risolte con la diplomazia. 9.3 Guerre e fiscalità L’affermazione di eserciti permanenti sempre più grandi e l’introduzione di armi da fuoco comportò un importante aumento dei costi da parte dello Stato. Per sostenere le spese militari, la pressione fiscale aumentò e i prelievi furono spesso effettuati sotto la minaccia dell’esercito stesso. 9.4 Vita di truppa Molti dei soldati degli eserciti di antico regime, mal pagati, mal equipaggiati e per niente motivati, erano semplici cittadini che, nel tentativo di sfuggire ad una vita di povertà nelle zone meno sviluppate (Sud Italia, Irlanda, zone montuose di Svizzera, Germania e Tirolo), si arruolavano volontariamente. I sovrani europei che volevano garantirsi un grande esercito avevano altri due metodi, oltre al reclutamento di volontari e mercenari stranieri: a) l’arruolamento forzato di poveri, delinquenti e sbandati; b) l’arruolamento, a guerra iniziata, dei prigionieri di guerra o dei soldati sconfitti dell’esercito nemico. Insieme agli eserciti viaggiavano cuochi, cucinieri, vivandieri, infermieri, sarti e prostitute oltre alle mogli dei soldati e alle donne con le quali stringevano relazioni durante gli spostamenti Inizialmente gli eserciti requisivano case e palazzi per alloggiare i soldati, ma con il tempo si iniziarono a costruire caserme che ospitavano le truppe sia in tempo di pace che durante le guerre, ma anche interi quartieri nei pressi dei quali sorgeva ogni tipo di attività illegale e di contrabbando. 9.5 Guerre e paci nell’Europa moderna Nel corso del Cinque e Seicento la densità dei conflitti fu particolarmente elevata: guerre d’Italia (1494-1530), guerre franco-asburgiche (1521-1559), guerre di religione in Germania (1521-1547), guerra tra Spagna e Paesi Bassi (1566-1648), guerre di religione in Francia (1559-1598), guerra dei trent’anni (1618-1648), guerra durante il regno di Luigi XIV (1665-1713). La svolta si ebbe nel Settecento, quando le guerre diventarono guerre di posizione, fatte di assedi e da pochi scontri in campo aperto. Tanto più le guerre diventarono micidiali, tanto meno divennero distruttive per la popolazione civile e si concludevano quasi sempre con delicate trattative diplomatiche. 9.6 Una proposta di periodizzazione Tra il 1450 e il 1520 si può collocare una prima fase di trasformazione, con l’introduzione delle armi da fuoco, il declino della cavalleria e l’introduzione dei picchieri. 11 Tra il 1530 e il 1560 si colloca l’aumento della grandezza degli eserciti, la nascita dell’architettura bastionata e l’inizio delle guerre d’assedio. Tra il 1620 e il 1650 si affermano gli eserciti professionali e l’artiglieria leggera con diverse linee parallele di fucilieri. Tra il 1672 e il 1710 c’è un ulteriore aumento della grandezza degli eserciti e la reintroduzione della cavalleria, questa volta leggera. Tra il 1792 e il 1814, infine, si afferma il modello di esercito di popolo, imposto dalla Rivoluzione francese con la levée en masse, in grado di sconvolgere la tattica militare in atto fino a quel momento. Con Napoleone Bonaparte si ha una un esercito di oltre 800.000 uomini, fortemente gerarchizzato e basato sulla meritocrazia degli ufficiali e sulla totale fedeltà verso il capo supremo. 10.Povertà, criminalità e controllo sociale 10.1 Il pauperismo Con il termine “pauperismo” gli storici indicano un fenomeno che, a partire dal Cinquecento, vide lo spostamento di grandi masse di poveri, disoccupati e vagabondi, dalle campagne verso le maggiori città europee. Questa piaga sociale, che vedeva moltissimi poveri ammassarsi nei sobborghi e a ridosso delle mura cittadine, era connesso e quasi sempre causato da una serie di fattori: a) aumento della popolazione, anche nelle zone rurali dove le risorse non bastano; b) aumento dei prezzi causato dall’arrivo di metalli preziosi dall’America e della conseguente inflazione; c) eccesso della manodopera dovuta all’aumento demografico; d) trasformazione in senso capitalistico dell’economia agraria. La povertà di antico regime poteva essere differenziata in povertà strutturale e povertà congiunturale: i poveri strutturali erano quelli che erano impossibilitati ad uscire dalla loro condizione di povertà perché non in grado di lavorare (anziani, malati, vedove ecc.); i poveri congiunturali erano quelli che per qualche motivo erano in un periodo di povertà ma che nei momenti di benessere potevano risollevarsi, vivendo sempre in bilico al limite della sussistenza (lavoratori a giornata, operai senza lavoro, servitori licenziati, artigiani e commercianti indebitati ecc.). Lo storico Brian Pullan ha stimato che in questo periodo la popolazione povera fosse tra il 75 e il 90% e che potesse essere suddivisa in un 70% di poveri non indigenti (artigiani, piccoli impiegati, rivenditori ambulanti ecc.), in un 20% di poveri occasionali (lavoratori salariati, disoccupati, lavoratori occasionali ecc.) e in 4-8% di poveri strutturali (anziani, malati, disabili, vedove ecc.) 10.2 Uomini senza padrone Uomini senza padrone è il titolo di un celebre saggio dove, con questo termine, si indicavano coloro i quali riuscivano a sopravvivere ingegnandosi, senza rientrare mai in una categoria sociale più ampia. Senza legami fissi e senza obbedienze, gli “uomini senza padrone” (marginali, vagabondi, artisti girovaghi, lavoratori saltuari, zingari) potevano godere di ampia libertà, scontando però una precarietà che li esponeva alle incertezze della vita. Si possono individuare diverse forme di emarginazione: a) a livello economico, considerando chi non partecipa al processo produttivo o ne viene espulso; b) a livello sociale, considerando chi non rispetta le regole o chi non condivide i doveri o privilegi del proprio ceto; c) a livello spaziale, considerando chi non partecipa alle regole della società organizzata; d) a livello culturale, considerando chi non condivide i valori o i comportamenti universalmente accettati. Il marchio di “marginale” era infamante e veniva attribuito a quelle persone che mostravano una “devianza” rispetto alla norma (ebrei, prostitute, vagabondi, figli illegittimi, ciarlatani), ma anche a molti mestieri legati al sangue (conciapelle, macellai, barbieri e cerusici, boia e carnefici). A loro si attribuivano capacità di contatto con forze infernali o propensione ad avere rapporti sessuali con animali e per questo erano visti con diffidenza. 10.3 Il povero: da “immagine di Cristo” a delinquente potenziale Fino alla fine del Quattrocento, per la dottrina cristiana il povero era “immagine di Cristo sofferente” e per questo doveva essere aiutato dai ricchi, tramite la carità, che così potevano farsi perdonare i loro peccati. A partire dal Cinquecento però la figura del povero perde la sua immagine religiose e inizia ad essere visto come ozioso e potenzialmente pericoloso. Per ovviare alla sempre minore carità dei ricchi, nacquero gli istituti religiosi di beneficenza che si occupavano di raccogliere le somme e di usarle per aiutare i poveri. In questo clima, soprattutto nelle zone protestanti, ma anche in quelle cattoliche, la mendicità venne bandita o fortemente limitata. Si iniziò a distinguere tra poveri bisognosi e poveri oziosi, tra “veri” e “falsi” e a costruire ricoveri in quanto si pensava che l’unica soluzione al problema fosse la reclusione. 10.4 Le istituzioni per i poveri: assistere e recludere Nel corso dell’età moderna si assistette a diverse ondate migratorie dalle campagne alle città dovute alle svariate crisi agricole. Inizialmente le autorità cittadine respinsero i forestieri, ma con il tempo, i poveri vennero regolamentati e rinchiusi negli ex lazzaretti. 12 Prevedevano un numero limitato di soci ordinari, per lo più stipendiati, e un numero variabile di soci corrispondenti che comunicavano le loro scoperte pubblicandone i risultati sulle “Memorie” o sugli “Atti”. Annessi alle principali accademie si trovavano anche laboratori, giardini botanici, osservatori astronomici ed alcune grandi biblioteche aperte agli studiosi e destinate a raccogliere i testi più importanti che si pubblicavano in Europa. Fino a quel momento le uniche raccolte di libri erano di proprietà degli enti ecclesiali o dei nobili privati. 12.3 La stampa e l’editoria Con l’invenzione della stampa a Magonza nel 1454, la diffusione del sapere divenne più facile grazie ai minori costi di produzione di un libro, la sua più semplice riproduzione e la nascita di un’industria editoriale. Questo comportò anche la nascita di nuovi mestieri (compositori, impaginatori, correttori di bozze) e la trasformazione di altri più antichi (scribi, miniaturisti, incisori, cartolai) in nuovi (copisti, illustratori, librai, rilegatori) al servizio di un mercato in espansione. In questo clima si formò la figura del tipografo, un’élite alfabetizzata e mediamente acculturata, al quale erano richieste conoscenze specifiche per lavorare. Inizialmente, nei libri si possono notare due cose: a) il grande rilievo dato alla dedica, con la quale l’autore si poneva sotto la protezione di un uomo potente o autorevole; b) l’assenza o la poca importanza data al nome dell’autore. Solo nel tardo Cinquecento, con la privativa, si affermò il diritto d’autore e la giusta retribuzione in base alle copie effettivamente vendute che culminò con il copyright nel 1710 in Inghilterra. Tuttavia la diffusione dei libri avvenne solo all’interno di una piccola cerchia, per lo più urbana, mentre nelle campagne circolavano pochi volumi e soprattutto almanacchi, lunari, catechismi e qualche libro illustrato. Con l’introduzione della stampa, si rese necessario uno strumento, da parte dei poteri, per controllarla. Nacque così la censura, che non prevedeva solo il divieto di stampa, ma anche di diffondere e possedere libri non autorizzati. Con il Concilio di Trento, la Chiesa istituì l’Indice dei libri proibiti e successivamente la Congregazione dell’Indice che si occupava di aggiornarlo con le opere contrarie all’ortodossia religiosa. 12.4 La circolazione delle idee Con l’invenzione della stampa e il progressivo miglioramento delle vie di comunicazione la circolazione di idee si fece più intensa. Le idee si propagarono attraverso uomini che se ne fecero portatori, ma anche con pagine di libri, periodici e fogli volanti. La diffusione delle idee riformiste di Lutero, nel Cinquecento, non avrebbe avuto lo stesso effetto senza la stampa che consentì di raggiungere anche la popolazione e non solo le élites e, nel Settecento, la laicizzazione della cultura permise l’affermazione del pensiero illuminista. In questo periodo nacque anche una “comunità scientifica” europea grazie alla rete di abbonati che si iscrissero ai periodici nati tra Sei e Settecento. 13.Educazione e istruzione 13.1 Leggere, scrivere, far di conto La società di antico regime era dominata dall’analfabetismo, l’oralità prevaricava sulla scrittura a tutti i livelli, ma la comunicazione era fatta anche di immagini, simboli ed emblemi. Scrivere, leggere e far di conto non erano abilità che si imparavano insieme o nello stesso momento, spesso le persone imparavano le basi della lettura di semplici testi ma magari non sapevano scrivere ed era comune che sapessero solo firmare con il loro nome. La capacità di contare era un’abilità che non veniva insegnata ma che si imparava “sul campo”, nelle piccole botteghe artigiane durante l’apprendistato. All’interno della piccola minoranza alfabetizzata la lettura non era come oggi, ma collettiva e ad alta voce. Solo nel Settecento, con l’enciclopedismo e la stampa periodica iniziò ad affermarsi un tipo di lettura individuale e silenziosa, più superficiale ma anche più vasta. 13.2 Alunni e insegnanti In antico regime le scuole erano presenti soprattutto in città, mentre in campagna e nei villaggi erano poco diffuse perché considerate un furto di tempo dedicato al lavoro nei campi. Nei villaggi c’era la figura del maestro, pagato dal Comune, ma più spesso dalle famiglie degli studenti, che si occupava di impartire lezioni di base ed era quasi sempre il parroco, una delle poche personalità ad avere un’istruzione. 13.3 Collegi e università Fino al Cinquecento, tra i ceti più elevati, l’istruzione era impartita esclusivamente tramite precettori privati. Verso la fine del sedicesimo secolo, i figli del ceto più elevato iniziarono a frequentare i collegi gesuitici, aperti in tutte le città più importanti d’Europa e che definivano un articolato programma di studi codificato nella Ratio studiorum uguale in tutti gli istituti di questo tipo. 15 Se le scuole di villaggio si diffusero nel Settecento e i collegi nel Cinquecento, le università erano anche più antiche e nacquero solo in alcune città (Bologna, Padova, Oxford, Parigi ecc.). Si dividevano in tre facoltà: teologia, giurisprudenza, medicina e fra Sei e Settecento venne aggiunto il Magistero delle Arti, destinato a formare gli insegnanti. Le facoltà universitarie erano gestite dai Collegi dei dottori che selezionavano e nominavano i docenti, presiedevano gli esami di laurea e percepivano le sportule (tasse) per gli esami e le lauree. Le lezioni, tenute a casa del docente o nei locali dell’università, prevedevano: a) dettatura di testi in latino; b) commento dei testi degli autori; c) ripetizione e apprendimento mnemonico dei testi; d) nelle facoltà mediche, dimostrazioni pratiche (teatro anatomico e teatro chimico); e) dispute fra docenti e studenti. Il momento conclusivo era la dissertazione finale, ossia la prova che permetteva di verificare l’apprendimento dello studente. Con il Settecento, la prova mutò parzialmente e si affermò la prassi della dissertazione scritta su un tema (tesi) che doveva essere confutato da un controrelatore. Se lo studente riusciva a mantenere la sua idea saldamente poteva essere dichiarato dottore. 13.4 Il latino Il latino fu per molti secoli la lingua comune alla maggior parte delle élites d’Europa e fino al Settecento non fu solo la lingua della Chiesa e del diritto, ma anche della diplomazia, dell’arte e dell’architettura, della scuola, della filosofia, della medicina e della scienza. Milioni di persone, senza aver mai studiato il latino e comprendendone poche parole, continuarono ad usarlo in alcune azione della vita quotidiana corrompendolo con la lingua volgare e formando un misto tra le due. La conoscenza corretta del latino era inoltre un modo per le élites di distinguersi dal popolo. 16
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