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DA REVISIONARE - Riassunto di Linguistica italiana - Marazzini, Sintesi del corso di Linguistica

Riassunto dei capitoli dal 4 al 9 del Marazzini (inclusi), ovvero la storia della lingua italiana dalle origini al Cinquecento.

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 10/06/2019

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Scarica DA REVISIONARE - Riassunto di Linguistica italiana - Marazzini e più Sintesi del corso in PDF di Linguistica solo su Docsity! Linguistica italiana A – Marazzini IV – Situazioni della comunicazione Premessa: non esiste l’omogeneità linguistica assoluta, la lingua è per sua natura caratterizzata da varietà che si esprimono in base alle situazioni, ai parlanti, al tempo, al luogo, al mezzo espressivo. Bisogna differenziare, in primis, tra la lingua scritta e quella parlata: la prima è più strettamente codificata e cambia più lentamente – in parte anche perché coincise per molto tempo con la lingua letteraria – mentre la seconda è più varia, libera e soggetta ad evoluzioni. Benchè possano esserci casi in cui lingua scritta e lingua parlata si compenetrano – scritti che imitano il parlato, orazioni recitate in linguaggio formale – la distinzione è valida in maniera abbastanza universale. La lingua scritta è, però, più facilmente ricostruibile di quella parlata, perché gli strumenti di registrazione sono un fatto recente e anche nonostante le registrazioni, per quanto accurate, nella comunicazione tra due persone agiscono sempre più fattori: il rapporto tra chi parla e chi ascolta, i gesti, le omissioni, le pause, nel parlato la lingua s’intreccia con l’azione, mentre lo scritto è statico e soggetto a potenziali revisioni. Varietà diastratiche Con varietà diastratica s’intende quella gamma di cambiamenti che può interessare la lingua in base alla condizione sociale di chi parla – quindi, più in generale, in base al suo livello di cultura. Occorre infatti ricordare che la lingua non è propria solo dei colti, alla sua evoluzione contribuiscono anche i ceti popolari, visto che la lingua si evolve con l’uso. Bisogna dunque sempre chiedersi, di fronte a un testo scritto, a quale livello sociale appartenga lo scrivente. Prima che ci fosse una codificazione ufficiale della lingua colta (quindi con Bembo nel Cinquecento) la distinzione ricadeva nel più vasto ambito scritto/ parlato, capitava che anche i colti quando si trattava di, ad esempio, scrivere su un muro, fossero potenzialmente confondibili con un plebeo. A partire dalla codificazione ufficiale, però, chi si discostava da quel modello fu ufficialmente etichettato come semicolto o popolare e la distinzione si fece più netta – eccetto per alcuni momenti storici in cui, magari, l’istruzione era meno accessibile o di livello inferiore, per cui un colto parlava in maniera abbastanza simile a uno che non lo era. Tendenzialmente, però, tanto più emergono gli elementi vicini al dialetto, quanto più è basso il livello culturale del parlante. Varietà diatopiche S’iniziò a parlare di varietà diatopiche in riferimento all’italiano novecentesco, perché ci si rese conto che l’italiano – benchè ormai abbastanza codificato – era diverso di regione in regione non soltanto per lessico, ma anche per pronuncia e sintassi. La varietà diatopica si riconosce nel parlato e nelle scritture, anche se un parlante colto potè, a partire dal Cinquecento, “camuffare” i dialettalismi grazie all’istituzione di una lingua letteraria ufficiale. La grande battaglia dell’italiano fu l’eliminazione delle differenze locali, sentita fin dal De vulgari eloquentia di Dante. La lingua poetica registrò più in fretta e in maniera più completa questa “depurazione”, fondamentalmente perché aveva un uso esclusivamente letterario e dal cinquecento poteva contare su un codice ufficiale, quello bembiano. Per la prosa il discorso fu invece più complicato, perché nonostante esistessero delle regole per la letteratura, questa non era l’unico impiego della prosa, quindi i dialettalismi sopravvissero – anche perché nessuno li combatteva – in testi di tipo più pratico, familiare, informale. Questa tendenza iniziò ad essere contrastata solo da metà Ottocento, con la diffusione delle teorie linguistiche di Manzoni. Anche la Chiesa ebbe una sua influenza ed esercitò a suo modo una politica linguistica: serviva che le prediche fossero comprensibili ovunque, quindi capitava che i futuri preti passassero periodi a Firenze non tanto per copiare il fiorentino, quanto per prendere distanza dalla lingua esclusivamente letteraria che conoscevano (perché era quella dei loro studi) avvicinandosi invece a quella viva. Il mistilinguismo Molto spesso il parlante italiano non fiorentino s’è trovato ad avere a che fare con il contrasto inevitabile tra la sua lingua d’origine e quella “ufficiale”, contrasto che prende il nome di diglossia. La diglossia dà luogo al mistilinguismo, ovvero una lingua a grandi linee conforme a quella ufficiale ma contaminata in più punti da quella d’origine. Questo avvenne spesso involontariamente, ma anche volontariamente, nel caso di persone colte che ne facevano una questione di stile (v. Verga, Gadda o Pirandello). Varietà diafasiche Ad ogni contesto corrisponde un registro linguistico diverso, si va dall’aulico al basso- plebeo. Benchè il contenuto della comunicazione possa essere sostanzialmente identico, cambia la forma, ragion per cui uno storico della lingua deve sempre tener conto del livello a cui si svolge la comunicazione. Le tendenze innovative della lingua tendono a manifestarsi nelle fasce più basse, più colloquiali, perché partono sempre come “errori” e quindi sono tollerabili soltanto in quei contesti (ad esempio il che polivalente, o la dislocazione a sinistra di Carlo l’ho visto ieri anziché Ieri ho visto Carlo, o l’uso dell’imperfetto nell’ipotetica dell’irrealtà, se c’era bel tempo andavamo al mare). V – Origini e primi documenti dell’italiano L’italiano deriva, come tutte le lingue neolatine (o romanze) dal latino parlato. Il latino, dato che l’impero romano era molto ampio e soprattutto durò molto, non ebbe mai un’unità linguistica, agirono in maniera significativa tutte le differenze diatopiche e diacroniche e anche quelle dipendenti dal sostrato linguistico originario delle persone che avevano iniziato a parlarlo. Non si impose quindi ovunque allo stesso modo, anche perché l’atteggiamento dei romani era di sostanziale disinteresse, però agì il fattore del prestigio: quando un popolo ne conquista un altro, quello conquistato si sente (quasi sempre, nel caso dei greci ad esempio no) inferiore e tende a cercare di uniformarsi ai conquistatori, assumendone quindi in molti casi la lingua. Ci furono però influenze reciproche, tanto che alcune forme linguistiche straniere entrarono nel latino parlato. Il latino classico restò sostanzialmente sempre uguale perché circoscritto all’ambito letterario, mentre quello parlato subì tutte le varietà possibili essendo parlato da tutti i ceti in tutti i luoghi in tutte le epoche e fu da quello che nacquero le lingue romanze. Per ricostruire il latino parlato, uno dei principali mezzi è il metodo comparativo, ovvero paragonare diverse forme di una stessa parola nelle lingue romanze e ricostruire, in base alla comune radice, la parola latina originaria. Ovviamente non si può tener conto solo della derivazione latina, perché il latino volgare fu a sua volta influenzato dalle varianti regionali. Ci sono alcuni testi che possono darci delle informazioni sul latino parlato perché lo riproducevano, tipo il Satyricon di Petronio o le commedie di Plauto o alcuni carmi di Catullo, oltre alle iscrizioni murarie o a tutte quelle cose occasionali (lettere, etc) che non avevano pretese di letteratura. Da quelle sappiamo, per esempio, che il latino parlato anziché pulcher come il latino classico diceva bela, che è quello che è arrivato a noi. Abbiamo inoltre l’Appendix Probi (v. Patota) dalla quale sappiamo che molte tendenze considerate ai tempi errori sono quelle che poi noi abbiamo ereditato e soprattutto ci spinge a riflettere sul fatto che il concetto di errore sia, in linguistica, improprio: quelli che noi chiamiamo errori finiscono spesso per entrare nell’uso e diventare innovazioni. Le lingue romanze presentano delle differenze perché il latino, quando si diffuse, si impose su altre lingue che lasciarono una traccia, un sostrato: in Italia, per esempio, agì il sostrato osco/umbro (nei dialetti centro-meridionali, -nd- che si assimila in -nn- e -mb- che si assimila in -mm-), e quello celtico in quelli settentrionali. Al sostrato etrusco è invece stata attribuita la spirantizzazione delle occlusive sorde toscane (hasa anziché casa). Oltre al problema del sostrato c’è quello del superstrato, ovvero l’influenza delle lingue che con le invasioni barbariche si sovrapposero al latino, e infine quello dell’adstrato, l’azione esercitata da una lingua confinante. In Italia abbiamo, ad esempio, molte parole di origine longobarda, tipo guancia, nocca, palla, faida, o verbi “concreti” tipo russare, scherzare, Documenti pisani Venne scoperta a Philadelphia una carta contenente un elenco di spese navali, databile tra 1050 e 1150: la localizzazione toscana discende dal dittongamento ie di e breve tonica in sillaba libera o dall’esito in i del nesso latino -rj-. Propria dell’antico pisano nello specifico è la conservazione di -au- davanti a l (taula). VI - Il Duecento Bisogna ricordare che l’ingresso del volgare nella letteratura – benchè in una letteratura circoscritta, solo poesia – ha un’importanza nettamente maggiore della sua presenza già più datata in documenti pratici: l’elezione del volgare a lingua letteraria è spia del fatto che avesse ottenuto una maggior considerazione e dignità. La prima scuola poetica italiana è la scuola siciliana, nel ‘200, alla corte di Federico II. I siciliani imitarono le letterature in volgare già esistenti (quelle francesi in lingua d’oil ma soprattutto in lingua d’oc, ovvero provenzali) che conoscevano anche grazie al fatto che molti poeti provenzali avessero dovuto cercare rifugio in Italia a causa della crociata contro gli albigesi (1208). Va da sé che la poesia siciliana – che riprende gli stessi temi della provenzale, quindi l’amore, e lo stesso metro, la canzone, inventando poi il sonetto – sia ricca, anche dal punto di vista linguistico, di provenzalismi. La scelta del volgare siciliano fu dotata di valore formale, era un volgare illustre e tutti i letterati che scrivevano in quel volgare sapevano il latino. A un certo punto, col cadere di Federico II, si persero i testi originali dei poeti siciliani e sopravvissero soltanto le versioni copiate dai toscani, che furono quelle studiate da Dante e dai poeti che si sarebbero poi detti siculo – toscani. Dante e gli altri, non sapendo che stavano leggendo versioni toscanizzate e non gli originali, pensarono che i siciliani avessero scritto in un’ipotetica lingua sovraregionale che però aveva curiosamente tantissimi punti in comune con il toscano, va da sé che il toscano doveva essere il volgare migliore per la letteratura. In pratica, la dignità del toscano e quindi la progressiva toscanizzazione nacquero da questo fraintendimento. Il toscano si diffuse anche nel settentrione, grazie alle traduzioni delle laudi religiose, spesso di origine centrale. Nell’Italia del nord si era affermata una letteratura in volgare molto diversa da quella della corte di Federico II (Bonvesin de la Riva, Uguccione da Lodi…) ma ebbe molto meno successo della lirica siciliana toscanizzata e quindi non si diffuse. Siculo-toscani e Stilnovisti Le prime aree toscane in cui si diffuse la poesia siciliana furono Pisa e Lucca (seguite poi da Arezzo e Firenze). Il loro stile riflette quello dei siciliani ed è ricco di gallicismi. Quanto allo Stilnovo, nato col bolognese Guinizzelli, a cambiare sono più i temi che la lingua, che resta incentrata su sicilianismi, provenzalismi e gallicismi. Dante teorico del volgare Dante esprime le proprie idee sul volgare nel Convivio e nel De vulgari eloquentia. Nel Convivio celebrava il volgare come “nuovo sole” destinato a d imporsi sul latino, che ormai non si parlava più, mentre nel De vulgari eloquentia lo celebra in virtù del fatto che sia la lingua naturale. Il DVE fu riportato in auge da Trìssino durante il dibattito sulla questione della lingua e fu più volte insinuato che fosse falso: a Firenze, soprattutto, non faceva comodo che Dante condannasse tanto duramente il toscano e il fiorentino. Manzoni nell’Ottocento ne sminuì l’importanza (anche lui, d’altra parte, voleva che si imponesse il fiorentino) dicendo che il DVE riguardava solo la poesia. Nel DVE Dante esamina i vari volgari italiani alla ricerca di quello illustre, del migliore, che dev’essere appunto illustre, aulico, curiale e cardinale. Scarta i vari toscani, il fiorentino, il romano, il lombardo, il bergamasco, salva soltanto il siciliano e il bolognese ma esclusivamente nella loro versione illustre, quindi quella usata dai poeti, che ovviamente era ben diversa da quella parlata. Il Dante lirico (ovviamente prima della Divina Commedia) scrive in una lingua che inizialmente risente molto di gallicismi e sicilianismi ma che va poi progressivamente allontanandosene. La prosa Anche in virtù della maggior dignità attribuita alla poesia, abbiamo una scarsissima produzione di prosa duecentesca. L’unica opera che abbiamo è il Novellino, una raccolta di novelle. Il latino aveva ancora il primato assoluto nel campo della prosa. Erano però molto frequenti i volgarizzamenti. I volgarizzamenti sono traduzioni in volgare di testi scritti in altre lingue (generalmente latino, ma anche francese) e stabilizzano così le norme della prosa italiana, che risente quindi ovviamente tantissimo del latino e anche un po’ del francese, soprattutto per quanto riguarda il lessico. Ciononostante, mentre la poesia aveva iniziato ad eleggere una sua lingua unitaria, o comunque una gerarchia tra le lingue, la prosa no, quindi la prosa duecentesca è linguisticamente molto varia e presenta più regionalismi, visto che non esisteva ancora un modello a cui ispirarsi. VII – Il Trecento La “Commedia” di Dante A determinare definitivamente il successo letterario del fiorentino fu la Commedia, peraltro seguita dal Canzoniere e dal Decameron. Il fiorentino occupava, inoltre, una posizione geografica strategica perché molto centrale, ma questo è un discorso successivo. La Commedia richiede un’analisi linguistica a parte, non è scritta nella lingua che Dante teorizzava del DVE (o meglio, che avrebbe teorizzato se avesse finito il DVE) ma nemmeno in un volgare fiorentino a tutti gli effetti. Dato che la Commedia è un’opera universale, quindi abbraccia praticamente tutti i temi, il suo carattere di universalità si riflette nella lingua, che è logicamente molto varia. Il plurilinguismo della Commedia accoglie elementi di provenienza disparata (dal dialetto toscano ai latinismi ai termini bassi a quelli stranieri o di altre città) e tale varietà nelle scelte lessicali deriva dalla sostanziale varietà del tono, visto che le situazioni nella Commedia sono a loro volta le più disparate. Si passa dunque dal livello più basso al livello più alto. Benchè fortemente contaminato, però, il poema nel suo complesso si presenta come opera fiorentina. Possiamo parlare, oltre che di plurilinguismo, di polimorfia, ovvero l’alternanza di forme diverse della stessa parola (dittongate o non dittongate, come core/cuore, foco/fuoco). Questo polimorfismo rifletteva una tendenza generale della lingua italiana ad accogliere più varianti. La Divina Commedia è anche ricca di neologismi. Il linguaggio lirico di Petrarca Se Dante punta sul plurilinguismo, Petrarca fa l’esatto opposto: seleziona. Essendo quindi la selettività la caratteristica principale del suo linguaggio, Petrarca è un modello più facile da seguire e canonizzare, tant’è che Bembo lo preferì a Dante. Un’altra fondamentale differenza tra i due autori è che mentre Dante spingeva per l’affermazione del volgare, Petrarca no, Petrarca continuò a pensare che la lingua propria dell’intellettuale fosse il latino, infatti la sua produzione è prevalentemente in latino. Che per noi poi sia più importante il Canzoniere è un altro discorso, in ogni caso lui lo reputava un prodotto di scarso valore letterario, più un divertimento personale, carattere che si evince anche dal titolo originale (Rerum vulgarium fragmenta). Per noi è, dal punto di vista linguistico, molto importante il Codice degli Abbozzi (Vat. Lat. 3196) perché presenta le varianti delle poesie ed è utile per capire la logica che c’è dietro ogni scelta lessicale. Nel Canzoniere Petrarca adotta alcune soluzioni che saranno poi prese a modello: - Abolizione della rima siciliana, eccetto voi/altrui - Rima grafica anziché rima fonica (niente distinzione vocali aperte/chiuse) - Elimina alcuni gallicismi - Decide che il linguaggio lirico deve tendere al vago, al distante, a un’indefinita genericità, tendenza diametralmente opposta alla concretezza di Dante. Nonostante la selettività, anche in Petrarca c’è qualche polimorfismo (deo/dio, degno/digno, oro/auro). Sul piano sintattico, muta l’ordine delle parole, imitando quello latino. Sono d’altra parte presenti molti latinismi grafici, come le h etimologiche (humano, honore), le x (extremo), i nessi -tj- (pretioso). La prosa di Boccaccio L’importanza di Boccaccio è accentuata dal fatto che, a differenza della poesia, la prosa in Italia non fosse ancora stabilizzata. Benchè ci fossero comunque opere di valore (Vita Nova, Convivio, che però erano troppo strettamente legate alla poesia, o il Novellino, che però era di livello troppo basso) ne mancava una che potesse esercitare una funzione egemonica e rappresentare un modello. Arrivò col Decameron. Il Decameron presenta una pluralità di stili narrativi, dovuti sia al genere della novella che all’esigenza di realismo: il plurilinguismo è quindi lo strumento adottato per descrivere una realtà che si sposta da Siena a Venezia a Napoli a Firenze e che tocca tutte le classi sociali. Compaiono molti moduli del linguaggio parlato (che polivalente, anacoluti…) tuttavia lo stile che sarebbe poi stato identificato come “boccacciano” non è quello della narrazione delle novelle, bensì quello che l’autore adotta nella cornice: ipotassi (gran numero di subordinate), frasi costruite alla latina, gerundi, omoteleuti etc. La grafia di alcune parole è latina (come Petrarca, le x, ma anche i nessi -ct-, - dv- e le h etimologiche) e il sistema dei segni di interpunzione è lievemente più elaborato. Per la prosa minore toscana (ritenuta di valore a prescindere durante il Cinquecento perché toscana) ricordare Domenico Cavalca, Icopo Passavanti, Giovanni e Matteo Villani e Dino Compagni. Primi successi del toscano I letterati toscani iniziarono subito ad essere largamente imitati specialmente nell’aria settentrionale. Tale imitazione però non sempre riuscì, alcuni si lasciavano sfuggire tratti che tradivano la loro reale provenienza linguistica e altri arrivarono addirittura all’ipercorrettismo, al correggere forme giuste perché non gli sembravano abbastaza toscaneggianti (es. Nicolò de’ Rossi, in cui toscano e settentrionale convivono nonostante i suoi sforzi di toscanizzare tutto). La tradizione del volgarizzamento continua anche nel Trecento con, ad esempio, Le vite dei santi padri di Domenico Cavalca o la Cronica dell’Anonimo romano. In questo secondo caso, la lingua utilizzata è il romano arcaico, perché la prosa (oltre alla tendenza a mantenere il carattere regionale, come spiegato prima) aveva un intento spesso divulgativo. L’epistola napoletana di Boccaccio Paradossalmente, uno dei più antichi testi in volgare napoletano che abbiamo è una lettera di Boccaccio del 1399, che possiamo definire “letteratura dialettale riflessa”. Boccaccio usa apposta il dialetto, spesso esagerandolo, in un’imitazione del parlato. Il Quattrocento Latino e volgare Petrarca, riportando in auge il latino classico di Livio, Cicerone e Seneca, avviò una crisi del volgare nel Quattrocento. Questa crisi però si ripercosse solo sulla letteratura, il volgare continuò a farsi largamente strada nell’uso comune, fu semplicemente screditato agli occhi dei dotti. Il fatto che i dotti seguissero il petrarchismo portò molti di loro – Coluccio Salutati, Niccolò Niccoli, lo stesso Bembo – a rimproverare Dante per aver usato il volgare. Ci furono comunque significative eccezioni, come Leonardo Bruni, che apprezzò e celebrò Dante, o Leon Battista Alberti, che diede il via al cosiddetto “Umanesimo volgare fiorentino”. L’Umanesimo volgare fiorentino accoglieva le tesi di Bruni, secondo il quale ogni lingua ha dignità se lo scrittore che la usa sa farlo con eleganza. Fu comunque un atteggiamento minoritario, quello prevalente era il petrarchismo, con la conseguente squalificazione di tutto il non-latino. Continuava, infatti, a farsi strada l’idea che il volgare fosse una lingua instabile (sì, in parte lo era) mentre il latino, essendo codificato e fisso, non sarebbe passato di moda mai. Sicchè si scrivevano in volgare soltanto i testi non La prassi di koinè si sviluppò anche nell’ambito tecnico-scientifico, specialmente con Baldassarre Castiglione, che si spostava da una corte all’altra e si staccò quindi progressivamente dalla sua koinè di partenza, quella mantovana. Fortuna del toscano letterario Come abbiamo già detto, il volgare toscano acquisì prestigio crescente nella seconda metà del Trecento, grazie alle Tre corone. Le biblioteche dei signori potevano essere diverse, alcune contenevano prevalentemente testi volgari, altre erano umanistiche, quindi solo latini. Una svolta si ebbe con la stampa, i testi volgari iniziarono ad essere stampati nella Pianura padana e a Venezia e questo ne agevolò la circolazione. Toscanizzazione nel settentrione – la lirica di Boiardo Boiardo attuò una toscanizzazione volontaria del proprio volgare, avendo come punto di riferimento soprattutto Petrarca e non essendo, per ragioni cronologiche, ancora influenzato dall’Umanesimo. Il suo altro punto di riferimento era il latino, quindi son presenti latinismi che si riflettono sul vocalismo tonico (i ed u anziché e ed o, come simplice, firma, summo). Frequente anche la metafonesi, tipo nui e vui, che d’altra parte era sia settentrionale che siciliana, mentre nel consonantismo prevale la fonetica locale. Lirica nell’Italia meridionale Con la dinastia aragonese a Napoli (1422-1502) fiorì una poesia cortigiana che trova i suoi massimi esponenti in Galeota e Caracciolo. Come i lirici del nord, si distinguono un po’ dal toscano, oscillano tra forme anafonetiche e senza anafonesi, tra toa – soa e tua – sua, mantengono forme specificamente meridionali come iorno per giorno, iace per giace, gli articoli lo e lu, i futuri in -aio e -aggio. La generazione successiva di poeti meridionali, quella di Sannazaro, per intenderci, si distaccò molto di più dai localismi perché già pienamente umanista. IX – Il Cinquecento Italiano e latino Nel Cinquecento il volgare si affermò definitivamente come lingua con una dignità letteraria, iniziando un processo di erosione del latino che sarebbe stato irreversibile. Sono del Cinquecento autori come Ariosto, Tasso, Machiavelli, Guicciardini, e tra questo secolo e il successivo la storia della lingua italiana fu, in pratica, una serrata e vinta lotta contro il latino. Attenzione, questo non significa che nel Rinascimento i libri in latino abbiano smesso di essere pubblicati, anzi, la maggior parte erano ancora in latino, ma si avvertiva un clima nuovo tra gli intellettuali, che avevano universalmente accettato il volgare e iniziato a regolamentarlo. Un ruolo determinante ebbero, in questo senso, le Prose della volgar lingua di Bembo. Iniziarono a circolare grammatiche e dizionari e tramontarono tutte le varie lingue di koinè, relegate a tipi di scrittura meno colti. Attraverso questo processo di regolamentazione, l’italiano raggiunse finalmente lo status di lingua di cultura di dignità altissma. Bisogna sempre ricordare che il latino mantenne la sua importanza, non solo perché era la base, ma anche perché continuò ad essere usato nella pubblica amministrazione e nella giustizia, benchè non sempre. Mantenne una sua prevalenza nel settore del diritto, ma nelle pratiche di tutti i giorni il volgare guadagnò molto spazio. Abbiamo testimonianze di alcuni processi in cui gli inquisitori scrivevano i verbali in latino e registravano le risposte in italiano, come nel caso di alcuni processi veneti, o mescolavano, come in Calabria, latino e italiano in maniera meno sistematica. Il latino restò comunque prevalente in questo campo, ma le differenze regionali sono significative: alcuni stati erano più conservatori, e quindi più attaccati al latino, di altri, come la Repubblica di Genova e il vicereame di Sicilia. Ciononostante, elementi locali entravano comunque negli atti, come camallo per indicare i portuali genovesi o gli ispanismi nei posti sotto dominazione spagnola (Lombardia, meridione). In Sardegna l’amministrazione spagnola si mostrò particolarmente ostile all’ingresso del volgare italiano, e lo spagnolo restò nell’amministrazione sarda finchè l’isola non passò sotto il dominio sabaudo. Italiano e latino iniziarono a dividersi in base ai generi letterari: al latino rimasero filosofia, medicina e matematica, mentre il volgare veniva usato per opere con intento divulgativo o per le arti applicate, come i ricettari di medicina, l’architettura, insomma, tutto il non- accademico. Prevaleva infine il volgare nella letteratura e nella storiografia, specialmente con Machiavelli e Guicciardini. La questione della lingua Abbiamo già parlato di Bembo, non abbiamo però parlato della sua collaborazione con lo stampatore veneziano Aldo Manuzio, iniziata prima delle Prose della volgar lingua e fondamentale per l’evoluzione della teoria bembiana. Manuzio stampò nel 1501 due classici, Virgilio e Orazio, scegliendo un formato “tascabile” che si rivelò rivoluzionario, insieme al carattere corsivo da lui inventato e detto poi “aldino”. Nello stesso anno usciva, sempre per mano sua, il Petrarca volgare curato da Bembo, che portava come titolo “Le cose volgari di Messer Francesco Petrarca”, e non Le cose vulgari. Era un taglio netto con la tradizione latineggiante, ma non si fermava a questo: Bembo introdusse una serie di innovazioni, come l’apostrofo, e l’anno dopo curò anche la Commedia. Nel 1525 pubblicò Le prose della volgar lingua: sono divise in tre libri, il terzo dei quali contenente una vera e propria grammatica italiana che però non è particolarmente lineare, visto che l’intero trattato è sotto forma di dialogo. Il dialogo si colloca, idealmente, nel 1502, e partecipano quattro personaggi, ognuno dei quali sostenitore di una tesi diversa: Giuliano de’ Medici è per l’Umanesimo volgare, Federico Fregoso tratta la parte storica, Ercole Strozzi – umanista e poeta in latino – espone le tesi degli avversari del volgare e, infine, Carlo Bembo, fratello dell’autore, è portavoce delle idee di Pietro. Il trattato inizia con un’analisi storico-linguistica nella quale per prima cosa si prendono le distanze dalla tesi di Bruni a proposito dell’origine del volgare, ovvero che esistesse già nell’antica Roma come lingua popolare, per avvicinarsi invece a quella di Biondo Flavio, che ne attribuiva la nascita alla contaminazione dei barbari sul latino. Condivide inoltre con Alberti la convinzione che il volgare possa riscattarsi con la letteratura. Innanzitutto bisogna però ricordare che quando Bembo parla di volgare si riferisce al toscano e, nello specifico, al toscano letterario di Petrarca e Boccaccio e in parte di Dante. La lingua, secondo lui, non si acquisisce dal popolo, ma dalla letteratura, e in questo è pienamente in linea con l’Umanesimo: il parlato va, lo scritto resta, bisogna quindi distanziarsi da qualunque modello di scrittura che imitasse il parlato, come l’Inferno di Dante. Anche Boccaccio però faceva un largo uso di formule del parlato, ragion per cui Bembo specifica che quando parla di stile di Boccaccio si riferisce alla sintassi fortemente latineggiante dei prologhi o degli appunti, non alla lingua in cui son scritti, per esigenza di realismo, i dialoghi del Decameron. La conseguenza della teoria bembiana e del suo diffondersi fu una regolamentazione piuttosto stringente del volgare come l’aveva avuta il latino, ma era abbastanza quel che serviva e comunque Bembo non escludeva la possibilità che la lingua si potesse evolvere, semplicemente aveva cristallizzato i modelli nel trecento. La teoria cortigiana La teoria cortigiana, esposta da Bembo nelle Prose ma opinione di Calmeta, sosteneva che il volgare migliore fosse quello usato nelle corti italiane, specialmente in quella di Roma, più aperta e cosmopolita. A Roma la circolazione di genti diverse favoriva il diffondersi di una lingua di conversazione che fosse sovraregionale di qualità alta e base toscana. La fondamentale differenza con la tesi bembiana è che i sostenitori di questa teoria si basavano più sulla lingua dell’uso che su quella letteraria, sicchè finì per dare modelli meno precisi e definiti e quindi funzionare meno. La teoria “italiana” di Trissino Il letterato vicentino Gian Giorgio Trissino riscoprì e ripubblicò – in italiano anziché nel latino originale – il De vulgari eloquentia, e la sua intera teoria linguistica si basa sul trattato dantesco. In pratica, nega la fiorentinità dell’italiano rifacendosi alle pagine del DVE in cui Dante condanna il fiorentino – anche convinto che la Commedia fosse stata scritta secondo i dettami del DVE, quando in realtà era molto fiorentina. La sua tesi fu fortemente avversata da praticamente chiunque, ed è famosa la reazione espressa dal Discorso o Dialogo intorno alla nostra lingua attribuito a Machiavelli: in questo testo, Dante dialoga con Machiavelli e si scusa per gli errori commessi nel DVE. Viene inoltre ulteriormente rivendicato il primato di Firenze su tutto il resto dell’universo, ma il trattato fu pubblicato solo nel Settecento e quindi non influì sul dibattito cinquecentesco. Venne contestata negli stessi anni l’autenticità del DVE, che a detta di molti conteneva troppe sciocchezze e contraddizioni per essere dello stesso autore della Commedia. L’Hercolano di Varchi La cultura fiorentina, pur respingendo la posizione bembiana – che ne sviliva il valore di lingua viva, esaltando solo quella letteraria trecentesca – non riuscì a proporre alternative finchè Benedetto Varchi non pubblicò, nel 1570, l’Hercolano. Varchi aveva conosciuto Bembo di persona e nell’Hercolano diceva di riproporne le tesi, ma in realtà si prese un sacco di libertà, prima delle quali la valorizzazione del fiorentino parlato e della varietà linguistica, che servirono a far finalmente accettare la tesi bembiana a Firenze. In pratica, Firenze accettò una tesi bembiana largamente rivista e rielaborata ai suoi comodi, in cui al modello di lingua scritta se ne affiancava uno di lingua parlata. La stabilizzazione della norma linguistica Tutta questa teoria intorno alla lingua non avrebbe avuto senso senza una regolamentazione, quindi nel Cinquecento comparvero le prime grammatiche della lingua italiana. Bembo non fu però, con suo grandissimo disappunto, il primo: la prima grammatica italiana è infatti del 1516, l’ha scritta il friulano Giovan Francesco Fortunio e benchè poco sistematica non si distacca tantissimo dalle tesi di Bembo, prende gli stessi modelli, però non condanna Dante. Dopo le Prose della volgar lingua ovviamente le grammatiche si moltiplicarono e iniziarono ad apparire anche dei lessici, gli antenati dei vocabolari, che però contenevano termini ricavati esclusivamente dagli scrittori. A sancire la definitiva accettazione della teoria bembiana fu la terza edizione dell’Orlando Furioso, riscritta per adattarsi alla tesi di Bembo. Delle tre edizioni (ricordiamo: 1516, 1521, 1532) del Furioso, infatti, la prima benchè molto toscanizzata risente del padano illustre – oscillazioni nelle doppie, l’uso di c e z davanti a vocale (es. roncino anziché ronzino), giaccio per ghiaccio, latinismi lessicali –, la seconda presenta pochi ritocchi linguistici e la terza, infine, quella del 32, tiene decisamente conto del canone bembiano. Vengono attuate correzioni sistematiche, come l’articolo el che diventa il, le desinenze del pres. Ind. I p.p. in -iamo, la prima persona singolare dell’imperfetto in -a (andavo anziché andava). Questa operazione dà l’idea di quanto gli scrittori non toscani sentissero l’esigenza di regolamentazioni, mentre i fiorentini come Machiavelli preferivano usare la propria lingua viva anziché imitare le forme arcaiche delle Tre Corone. L’italiano come lingua popolare e pratica Al di fuori della letteratura, nel Cinquecento si assiste a una crescita sostanziale dell’impiego dell’italiano nel settori pratici: aumentarono le occasioni di scrivere, benchè l’analfabetismo restasse diffuso. Ovviamente le scritture popolari e semipopolari sono caratterizzate da regionalismi e dialettalismi, la teoria bembiana ebbe effetto solo sugli scriventi colti, sotto rimase un mondo di varianti di italiano non letterario o semicolto. La principale testimonianza di questo italiano regionale restano le lettere, a volte di livello molto basso, altre, specialmente se istituzionali, piene di ipercorrettismi, scempiamenti e dialettismi lessicali. Sono testimonianze importanti anche tutte le trattatistiche di tipo pratico, come i ricettari, i trattati di dietetica, igiene, alchimia, etc. Il ruolo delle accademie Abbiamo appena visto che l’italiano aveva una sua realtà “povera”, torniamo però al settore colto: i progressi decisivi per la crescita qualitativa del volgare avvennero nelle
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