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Riassunto di Psicologia delle Organizzazioni, Sintesi del corso di Psicologia Delle Organizzazioni

Riassunto del libro di Psicologia delle Organizzazioni di Argentero Cortese

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

In vendita dal 07/03/2022

Psico_Sapienza
Psico_Sapienza 🇮🇹

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Scarica Riassunto di Psicologia delle Organizzazioni e più Sintesi del corso in PDF di Psicologia Delle Organizzazioni solo su Docsity! Psicologia delle Organizzazioni - Argentero, Cortese CAPITOLO 1: Psicologia delle organizzazioni: sviluppo della disciplina Nascita e definizione della disciplina La parola organizzazione fa parte del nostro background fin dal principio; come umani, nella nostra quotidianità ci riferiamo alle organizzazioni e alle loro forme di funzionamento per molti dei nostri problemi quotidiani. Il vissuto dell’organizzazione è però per noi antropologicamente nascosto. La psicologia collabora con le discipline “limitrofe” (quali, per esempio, la sociologia, l’economia, le scienze giuridiche e quelle politiche) al fine di considerare la dinamica relazionale come cardine della dimensione organizzativa, arrivando quindi all’analisi dei contesti sociali. Trattando i processi organizzativi in una dimensione scientifica e verificabile, la psicologia non può, quindi, dimenticare la dimensione concreta e parziale dell’attore sociale e proprio in questa tensione tra la visione di insieme e il comportamento dei singoli attori sembra consistere il contributo più significativo della psicologia applicata alle organizzazioni.  Processi organizzativi = dimensione scientifica e verificabile;  Attore sociale = dimensione concreta e parziale. Dinamica relazionale cardine dimensione organizzativa  Analisi dei contesti sociali! La parola organizzazione contempla significati multipli e a volte ambigui; comunemente usiamo questo termine per descrivere: - Sia le forme di attività processuale con cui frequentemente ci confrontiamo (“l’organizzazione del seminario universitario non era adeguata”); - Sia i contesti che si caratterizzano a priori come produttori di tali forme di attività (“l’università italiana è un’organizzazione storicamente poco aperta al confronto con il mondo del lavoro”). Da cosa dipende questo doppio significato? Che cosa può significare il fatto che l’organizzazione sia, in un senso, il contesto che contiene ed esprime certe attività più o meno complesse e, nell’altro, le forme delle stesse attività riferibili a un dato contesto? 1. Nella prima accezione, il termine organizzazione denota il modo in cui le varie parti o componenti di un ente sono dinamicamente connesse e coordinate tra loro. Il termine organizzazioni viene usato in tutte le scienze sociali; 2. Nella seconda accezione, il termine organizzazione viene usato per denotare una determinata categoria di enti sociali fondati sulla divisione del lavoro e delle competenze. In questa accezione le organizzazioni sono oggetto di discipline specifiche. La psicologia dell’organizzazione definisce un campo disciplinare relativamente recente, infatti KATZ e KAHNdefiniscono come luogo privilegiato di indagine dei fenomeni nel contesto strutturale e organizzativo, contesti organizzativi che si sono definiti nella loro attuale struttura con la Rivoluzione industriale del XIX secolo (le attività di fornitura dei servizi nella scuola, negli ospedali, le attività del terziario e quelle socioassistenziali).  Nella seconda metà nel Novecento è stata loro rivolta un’attenzione selettiva per gli aspetti psicologici, quelli che riguardano le persone con le loro caratteristiche peculiari, le loro motivazioni, i loro vincoli, le condizioni particolari del loro essere protagoniste prime del processo produttivo. La psicologia dell’organizzazione intreccia una duplice prospettiva: - quella dell’indagine psicologica sull’attività di lavoro, individuale o di gruppo (psicotecnica, psicologia applicata al contesto di lavoro, psicologia differenziale delle performance individuali e di gruppo); - quella orientata alla comprensione del lavoro delle persone nelle nuove condizioni dell’industrializzazione moderna (psicologia industriale). La psicologia dell’organizzazione nasce dall’esigenza di alcune forme di psicologia scientifica (con lo scopo ad esempio di indagare sulle prestazioni cognitive e di intelligenza individuale), e dall’esigenza pratico-gestionale di conoscere rapidamente le caratteristiche individuali di un numero rilevante di persone. Lo studio dell’intelligenza ha inizio all’interno dell’organizzazione scolastica francese con BINET e SIMON, i quali ebbero il compito di costruire una prova di predittività del comportamento scolastico degli allievi (Scala Binet-Simon, 1905), con l’obiettivo di migliorare la didattica.  Successivamente, fu approntato un primo testing di massa per i soldati alfabetizzati (Army Alpha) e analfabeti (Army Beta). Questi strumenti trovarono successivamente ampia diffusione, anche grazie a CATTELL, nel contesto industriale e nell’organizzazione stessa del lavoro nelle grandi fabbriche, questo perché erano coinvolte nelle attività di lavoro decine o centinaia di persone, le quali venivano considerate come variabili di un sistema produttivo complesso, il cui buon funzionamento non può prescindere da loro e dal loro risposte comportamentali. Cento anni dopo: l'evoluzione della cultura psicologica impiegata nelle organizzazioni può essere descritta attraverso le forme con cui è stata considerata la variabile della condotta individuale all’interno dei più complessi processi del sistema produttivo. - Passando da una visione altamente meccanica del processo produttivo sostenuta da TAYLOR, si è arrivati a riconoscere la centralità strategica della motivazione e della realizzazione individuale delle persone, protagoniste prime del processo manageriale, proponendo teorie atte a descrivere i bisogni di stima e realizzazione dei singoli e la risposta che l’organizzazione può dare. Si è così passati dalle teorie classiche/razionali alle teorie sistemiche; dalla prospettiva classica a quella modernista e poi simbolico-interpretativa e infine post-moderna. - Elemento comune delle diverse classificazioni è posto l’accento sul passaggio dalla meccanicità astratta della descrizione del sistema produttivo – in cui le persone sono appiattite alla loro dimensione economica – alla variabilità propria delle condotte individuali (condotte che devono comunque orientarsi uno scopo comune per essere efficaci e ottenere risultati di eccellenza). Attualmente si può parlare di un orientamento teso a caratterizzare e descrivere l’effettiva presenza organizzativa dei singoli soggetti, riuscendo ad ottenere il loro coinvolgimento nel processo di cambiamento auspicato, secondo una prospettiva che ha alla base la metodologia della ricerca-intervento. Lo scenario contemporaneo Negli ultimi anni, in Europa e in Italia è stata registrata un’imponente crescita dell’atipicità contrattuale; - Per contratti atipici si intendono quei contratti non espressamente disciplinati dal diritto civile ma creati ad hoc dalle parti, in base alle loro specifiche esigenze di negoziazione. Quindi in questo tipo di contratti le parti del contratto possono agire liberamente, scegliendo tutti i termini che devono regolare il contratto senza restrizioni. I contratti atipici, pur essendo stati introdotti con l’obiettivo di ridurre il tasso di disoccupazione, non sempre garantiscono livelli adeguati di sicurezza lavorativa. Un altro termine comunemente utilizzato è la parola “precarietà”: il lavoratore è “oggettivamente precario” per la durata temporale che egli impiega a passare da una condizione lavorativa non standard a-tipica a quella standard tipica, ma “soggettivamente precario” fin dal momento in cui percepisce il proprio lavoro come temporaneo e instabile. Il senso di precarietà, pur emergendo in ambito lavorativo, pervade ben presto la sfera personale e familiare degli individui, tanto che si può parlare di “precarietà di vita”. Quest’ultima è tipica proprio dei lavoratori atipici poiché, se percepiscono la propria condizione come temporanea e instabile, possono avere difficoltà a progettare la propria vita con conseguenze emotive che influenzano negativamente l’agire quotidiano. Tale sindrome è composta da tre dimensioni: 1. Il disinteresse per il lavoro attuale; 2. La sfiducia nel futuro professionale; 3. Le conseguenze emotive nella vita quotidiana. [Il lavoratore atipico prova un senso di precarietà di vita se è demotivato e nutre scarso interesse per il lavoro che svolge se ritiene di avere scarse possibilità di trovare un lavoro stabile e adatto alle proprie esigenze e se tali condizioni influenzano negativamente a livello emotivo la vita quotidiana]. Alcune ricerche hanno indagato la relazione tra la precarietà di vita sia con:  Variabili organizzative: I risultati hanno evidenziato che le tre dimensioni della precarietà di vita correlano positivamente con la job insecurity e con le strategie di copingorientate all’emozione e all’evitamento, e negativamente con la soddisfazione lavorativa. - [I lavoratori atipici che temono di perdere il proprio posto di lavoro e che di fronte a un problema reagiscono emotivamente o mettono in atto strategie evitanti tendono ad avere alti livelli di precarietà di vita e bassa soddisfazione]. dare. Poiché la comunicazione crea/istituisce un processo, il disegno organizzativo (cioèil modo in cui viene rappresentato l’insieme delle attività e delle relazioni proprie di un’organizzazione) diviene un aspetto fondamentale per la comunicazione. Secondo la struttura gerarchica, la comunicazione può avvenire in due modi: 1) Top down, dal capo ai sottoposti/dipendenti;2)Bottom up, dai sottoposti/dipendenti al capo. Ma questo fornisce una comunicazione come conseguenza del processo e non come elemento che crea e istituisce il processo. Attraverso la comunicazione, possiamo capire come gli individui interpretano la gerarchia, ordinando il processo secondo il loro punto di vista, tenendo sempre conto di quale sia il disegno organizzativo. Processo  Esistono elementi comuni a qualsiasi organizzazione: 1) ogni processo volto a mettere in essere un prodotto , un bene o servizio, si declina nel tempo; 2) gli attori che vi partecipano hanno una collaborazione variabile rispetto ai suoi contorni; 3)I modi e le diverse fasi e i diversi aspetti del processo stesso si influenzano reciprocamente. Comunicare comporta sempre una relazione con qualcuno, spesso esiste un rapporto tra comunicazione e agire strumentale che assume forme assai diverse. Vi sono diverse chiavi di lettura del comunicare nelle organizzazioni: 1) i partecipanti, si può comunicare o tra singoli individui in prima persona o da ente che si rivolge ad altri enti o ai singoli/ collettività in terza persona; 2) le finalità, la comunicazione può essere intesa ad influenzare le azioni in maniera esplicita, diretta o intesa a modificare alcuni atteggiamenti dell’ente, quindi può cambiare corso d’azione; 3) gli strumenti, possono diversificare le comunicazioni e sono diretti (basati sul rapporto interpersonale)oppure indiretti (basati su mezzi e tecnologie che permettono di moltiplicare i contatti di un messaggio, rendendolo disponibile anche in diversi luoghi). Circuiti fondamentali della comunicazione A seconda della prospettiva dei partecipanti, si possono individuare diversi circuiti di comunicazione. Tali circuiti derivano dalla diversa tipologia dei partecipanti e delle categorie che coinvolgono un organizzazione: singole persone, enti interni (un servizio, un dipartimento, un settore dell’azienda),enti esterni (pubbliche amministrazioni, altre aziende, sindacati, associazioni) e pubblici esterni (collettività, comunità professionali, clienti, cittadini). Combinandoli fra loro avremo determinati emittenti e riceventi. Tali circuiti sono qualificati in base al flusso comunicativo e ai differenti strumenti che li caratterizzano. -Il circuito A  Riguarda la comunicazione interpersonale o i prima persona, è sempre bidirezionale, ed utilizza le tecnologie uno ad uno. -Il circuito B  Riguarda la comunicazione da uno a molti (i convegni, le convention). E’ moderatamente bidirezionale, non usa media particolari (salvo e-mail con internet) e vi si possono avere i blog cioè i circuiti molti a molti. -Il circuito C  Riguarda la comunicazione attraverso messaggi rivolti da un ente interno a singole persone attraverso tecniche di marketing personalizzato, gestione di relazioni con i clienti note soprattutto come CRM (customer related management). E’ bidirezionale e usa tecnologie come il telefono, posta elettronica ed internet. -Il circuito D  È la comunicazione interna: monodirezionale, attrezzato con le più svariate tecnologie. -Il circuito E Riguarda la comunicazione che connette gli enti interni con quelli esterni, può essere bidirezionale e si serve di una vasta gamma di media. -Il circuito F  pubblicità, promozione, marketing. --Il circuito G  Riguarda la comunicazione d’accesso a seguito della riforma dei pubblici servizi, dà voce ai pubblici servizi , dando vita alle lamentele, la soddisfazione del cliente nota come customer satisfaction ecc. Comunicare in un’organizzazione. Jackobson afferma che si deve sempre considerare il contesto ove opera la comunicazione, cioè il complesso di conoscenze e significati che emittente e ricevente hanno in comune. Quindi, a volte, il comunicare e l’organizzare possono coincidere e di contro si nota come l’organizzazione non si dissolva mai nella comunicazione. Comunicare in un organizzazione, significa non solo usare la stessa lingua e gli stessi segni, ma soprattutto condividere una cornice di significati, che può contribuire a costruire il processo organizzativo. Si conclude che senza comunicazione non vi è organizzazione e viceversa, senza organizzazione non esisterebbe la comunicazione. Il circuito “C” e la comunicazione di raccordo Nei processi, i partecipanti possono avere posizioni variabili poiché le aziende che stanno erogando un servizio spesso collocano gli individui ai confini del processo o in entrata (studente che si iscrive all’Università) o in uscita (studente che si laurea),tutto attraverso la comunicazione. Riguardo la comunicazione di raccordo in ingresso, si evidenziano 3 aspetti che adempiono ad una funzione di contenimento,di accoglienza o contrattuale. Funzione di contenimento: Il ricevente si trova in un momento di grande incertezza con gli schemi che orientano il suo agire ancora da definire. L’emittente quindi deve chiarire i significati trasmessi e rapportarli nella relazione. Si avrà una risposta di contenimento, cioè di favorire l’adesione alle regole, alle procedure, alla cultura del servizio. Spesso però si ricevono risposte evasive, burocratiche, lacunose, che generano l’arrangiamento e a volte il trasgredire. Comunicare, quindi significa essere capaci di costruire in maniera preventiva i significati che orientano un campo d’azione. Bisogna prefigurare, spesso anche anticipare le richieste, le attese, renderli disponibili secondo le esigenze dell’utenza, anche di fronte ai più svariati imprevisti che possono accadere. Funzione di accoglienza: Quando il cliente entra fisicamente in rapporto con l’unità operativa per la fruizione di una prestazione. Si parla quindi di accoglienza, perché l’utente deve essere ricevuto, riconosciuto come persona, oltre che dal punto di vista amministrativo (prenotazone). Funzione contrattuale: Il rapporto si chiude con la stipulazione di un patto o contratto dove tempi, orari, modi e condizioni di servizio vengono esitati di fronte ad esborsi pecuniari, rischi e sofferenze. La funzione contrattuale oggi deve essere condotta con chiarezza, trasparenza ed equità, esplicita, ponendola non come un elargizione ma bensì come un diritto che include la massima qualità del servizio . A ciò vengono associati atteggiamenti comportamentali quali il sorridere, il salutare, il c hiamare per nome, il rispondere ecc. La sfida più ambiziosa è costituita dalla costruzione dell’ambiente che comunica, attraverso gli spazi, gli arredi e i dispositivi che servono ad informare, ad avere un contatto con i clienti, utile per il passaggio delle informazioni, ordinati secondo la funzione del processo di servizio. Altro aspetto riguarda l’informazione, il sapere individuare gli elementi necessari ed essenziali da ricevere e da trasmettere, archiviandoli, per averli a disposizione quanto servono (esempio ne sono i computer e gli altri supporti informatici). La comunicazione di raccordo, persegue quindi l’obiettivo di garantire la fidelizzazione della clientela attraverso l’informazione, il monitoraggio e il sempre maggiore controllo della clientela. Il circuito “D” e la comunicazione interna Il circuito focalizza la distanza tra singoli attori del processo all’interno dell’organizzazione; la comunicazione interna è di centrale importanza perché guida l’agire degli attori e li motiva. Il rapporto tra gli individui con la molteplicità dei simboli e dei significati, può essere visto sotto diversi significati. Attenzione, interesse, voglia di fare, dipendono da quanto l’attore desidera appropriarsene. Ove vi sia un senso minimo, l’attore cercherà altrove delle opportunità di coinvolgimento. Si svolge all’interno dell’organizzazione, definita meglio come comunicazione interna, che viene spiegata secondo 4 livelli. Appartenere alla organizzazione è come far parte della grande famiglia; se la famiglia cresce, bisogna sempre cercare e scoprire nuove forme e nuovi riti. Come i grandi appuntamenti familiari in occasione delle festività, l’organizzazione ricorre ai media, a una migliore qualità grafica, di stampa, garantendo sempre una grande coesione interna. Se l’organizzazione entra in crisi, è conseguenza del logoramento del patto di fedeltà, della difficoltà dei vertici, dovuta non solo alle dimensioni ma soprattutto alla mancanza di colloquio interno con i dipendenti. Manager e dirigenti rappresentano il veicolo della comunicazione interna, oltre a rappresentare il potere. I media, hanno un valore simbolico, che si legge chiaramente nella gerarchia. Chi nella foto immaginaria sta vicino al padrone, partecipa al potere, fa parte della coalizione dominante. Dall’altro lato, i canali di comunicazione, permettono ai dirigenti di sentirsi maggiormente coalizione dominante. L’innovazione tecnologica, conferisce al lavoro maggior contenuto di conoscenza, emergono i manager di 2° livello, inoltre si vede come costruire qualità dal basso, conferisce responsabilità per il raggiungimento del risultato finale. I Media utilizzati per tali percorsi, sono da quelli tradizionali, quali giornali, corsi di aggiornamento, ecc. a quelli più innovativi come posta elettronica. La particolarità dei media interni sta nel fatto che sono diretti a un pubblico minore e selezionato, cioè i dipendenti, che perseguono i medesimi obiettivi. Il contenuto della comunicazione, si adatta a modelli di linguaggio propri, sempre in funzione delle esigenze del personale. Il circuito “F” e la comunicazione esternaE’ la principale attività comunicativa aziendale. Viene identificata nella promozione sul mercato di beni e servizi per sostenere l’attività. È quindi un attività comunicativa rivolta principalmente al cliente, centrata sul prodotto e veicolata dai mass-media. Oggetto principale della comunicazione sono i prodotti dell’azienda, presentati in funzione della sua specificità. Ciò avviene attraverso il canale della comunicazione pubblicitaria, orientata sempre al consumatore finale. È sull’immagine che si focalizza la pubblicità, sul cosiddetto brand, cioè la rappresentazione affettiva del prodotto. Cosa significa comunicare all’esterno per un organizzazione? Comunicazione (all’esterno)= marketing. Essa è il risultato di un complesso processo che prevede un insieme di operazioni preliminari e successive all’atto di comunicazione in se stesso . Tali operazioni si riferiscono alle attività per acquisire conoscenze sui destinatari e pecisare al meglio gli obiettivi che si vogliono perseguire, la messa a punto di messaggi, sia nella forma che nei contenuti e la corretta realizzazione della comunicazione verificando i risultati raggiunti, e di canali e metodi di diffusione. Accanto alle strategie abbiamo anche la comunicazione deduttiva, in cui convivono una forte esposizione dell’emittente e una pesante pressione del ricevente, cioè si cerca di indurre il destinatario a mettere in atto un determinato comportamento, con un contratto di forte impatto ed efficacia . La seduzione dipende dalla capacità dell’emittente di esprimere un forte valore. Per raggiungerlo, è necessario operare un contratto efficace, attraverso una identificazione di valori. Tramite l’attività comunicativa, l’azienda costruisce la sua identità e promuove la sua immagine, rendendosi riconoscibile al suo pubblico. Il circuito “G” e la comunicazione d’accesso Il circuito G raccoglie informazioni, attraverso la parola ai cittadini o utenti o consumatori sui prodotti stessi. Diviene l’organizzazione dalla parte dell’ascolto, nei confronti di un messaggio prodotto dal pubblico. Ciò contribuisce alla stabilità della relazione o al suo cambiamento. La comunicazione di accesso configura un circuito di retroazione che può contribuire alla stabilità della relazione o dello stato di cose (omeostasi) o al suo cambiamento; come tale risulta un circuito bidirezionale. Le parti sono invertite, dal punto di vista della comunicazione organizzativa: ora è l’organizzazione a porsi in ascolto (ricevente) nei confronti di un messaggio prodotto dal pubblico (emittente). Quindi, l’organizzazione pone attenzione a ciò che l’utente o il cittadino vuole, per migliorare, confermare o modificare i prodotti che mette a disposizione. Per concretizzare questa comunicazione vi sono 2 forme fondamentali: nella prima forma cittadino / utente si rivolge all’organizzazione per esprimere un giudizio, avanzare un reclamo, un problema o una richiesta. La seconda forma sono le indagini campionarie, in cui si raccolgono le opinioni degli utenti, attraverso giudizi di soddisfazione o insoddisfazione. Però sono state mosse diverse critiche ai questionari in quanto non sempre confermano ciò che effettivamente è, perché non sempre vengono fornite informazioni corrette. Il comunicare serva al processo, contribuendo a istituirlo. Ciò quindi permette di poter costruire le organizzazione a misura degli uomini che le abitano. Ogni giorni quindi domandiamo a noi stessi e agli altri come abbiamo comunicato. Dalla valutazione sincera dell’autocritica, potremmo trarre insegnamento perfezionando i nostri metodi, le strategie, rendendo i nostri messaggi sempre più utili ed efficaci allo sviluppo e crescita dell’organizzazione CAPITOLO 3: L’organizzazione come cultura Le organizzazioni possiedono o sono culture? Che cosa si intende per cultura organizzativa? All’interno di un’organizzazione coesistono più culture? L’approccio culturale: le origini “Cultura organizzativa” è un'espressione rappresentativa di un insieme di idee che si sono poste all'attenzione degli studiosi delle organizzazioni tra la fine degli anni ‘70 e l'inizio degli anni ’80.  Fine anni ’70: le organizzazioni venivano lette come organismi; la visione sistemica implicava che le organizzazioni fossero interpretate come sistemi sociotecnici, intenzionalmente razionalmente progettati per il raggiungimento di fini prestabiliti e capaci di adattarsi ai mutamenti provenienti dall'ambiente esterno;  Inizio anni '80: l'approccio culturale ha proposto uno sguardo nuovo sulle organizzazioni. In tale prospettiva, le organizzazioni sono lette come forme espressive, ossia insieme di significati condivisi e socialmente costruiti all’interno dei quali sistemi strutturali di simboli condizionano comportamenti, pensieri, emozioni azioni dei soggetti e più in generale la vita organizzativa. Le cause che contribuirono all’irrompere dell’approccio culturale e al successo della prospettiva furono: 1. La frustrazione dei numerosi studiosi nei confronti di un paradigma neopositivista che implicava l'utilizzo di metodi quantitativi tesi a misurare i fenomeni oggettivi e a scoprire correlazioni improbabili tra variabili indipendenti e dipendenti  la visione simbolico-interpretativa rispose offrendo la possibilità di impiegare ed esplorare nuove metodologie volte alla comprensione e l'interpretazione dei contesti organizzativi secondo modelli descrittivi olistici (tesi cioè a decifrare la ricchezza e la complessità dei comportamenti degli attori); 2. La crisi delle aziende occidentali che si confrontavano con l’irrompere sui mercati internazionali della potenza e concorrenza giapponese. L'emergere di questa nazione ha portato gli studiosi delle organizzazioni ad interrogarsi in merito alle loro capacità di comprenderle e spiegarle.  L'idea che la potenza giapponese avesse costruito il suo successo facendo leva sulla cultura organizzativa venne proposta in alcuni testi diventati poi i best seller manageriali del  Ciò che li accomuna: l'importanza dei processi di socializzazione dei nuovi membri e l'idea di organizzazione come artefatto culturale, frutto di negoziazioni e costruzione di significati.  Ciò che li differenzia: gli studiosi delle culture organizzative focus su una singola organizzazione e sui prodotti culturali che ne delimitano i confini; nella comunità di pratica importanza alle attività “pratiche”, a quelle lavorative, il cui significato è stato anch'esso negoziato e condiviso. Un ulteriore differenza è che la cultura organizzativa contiene al suo interno più comunità di pratica. Non tutti gli studiosi interpretano la cultura in termini monolitici[SCHEIN]; alcuni ritengono che all’interno della medesima organizzazione possono convivere più culture, sottoculture. Perché si formano le sottoculture?  Tendenza di uomini e donne ad accostarsi a persone simili (per età, occupazione, genere e identità sessuale). Allora i “semi” delle sottoculture si riscontrano quando gli individui: esercitano la medesima professione o svolgono le stesse attività o appartengono a un uguale livello gerarchico; lavora negli stessi spazi, frequentano lo stesso gruppo,ecc. Sul piano teorico sono state distinte: a) Le sottoculture di sostegno rispetto alla cultura generale dominante (vertice aziendale definitacorporate culture); b) Le sottoculture che si oppongonoalla cultura generale, le controculture, che alimentano valori e credenze opposti alla corporate culture; c) Le sottoculture ortogonali a quella generale che semplicemente convivono con essa. Fra gli studiosi che interpretano la cultura in modo “multiprospettico”: MARTIN: tre paradigmi interpretativi con cui ha letto la stessa organizzazione la OC company (OZCO), nome di fantasia per un'azienda operante su scala mondiale. 1. Integrazionedescrive la cultura come un insieme di valori comuni (uguaglianza, innovazione e benessere, che si manifesta nell’abitudine a darsi del tu e a pranzare insieme), coerenti e reciprocamente rinforzantisi, che generano armonia, consenso diffuso e assenza di conflitti; 2. Differenziazione: mancanza di consenso, ed è abitata da sottoculture (se non da controculture) che traggono origine dalla diversa distribuzione del potere e dagli interessi in gioco intrecciati ai processi organizzativi. (ex. anche se la mensa è la stessa, al suo interno le divisioni su base gerarchica o professionale sono ben marcate); 3. Frammentazione: mettere in dubbio la stessa esistenza della cultura, concentrandosi sugli aspetti di ambiguità, incoerenza e disordine della vita organizzativa. È quest'ultima visione una prospettiva che vuole sottolineare le ambiguità della vita organizzativa L'organizzazione è una giungla dove il consenso e il dissenso, l'ordine e il disordine coesistono e dove una stessa manifestazione può avere una miriade di interpretazioni in continua evoluzione. GEERTZ: La cultura è una “rete di significati in tessuti dall'uomo”. Visione costruttivista della realtà il mondo sociale, come quello organizzativo,è costruito in virtù delle interpretazioni condivise che gli attori attribuiscono alle loro esperienze comuni e la cultura è un insieme di simboli che veicolano codici di significati condivisi. La realtà (e quindi l'organizzazione) non è oggettiva, ma oggettivata, ossia socialmente costruita in modo tale da sembrare oggettiva, così che essa non è reale in sé, ma lo è nelle sue conseguenze. Gli studiosi impegnati nell’analisi delle culture organizzative realizzano etnografie(comporta osservare, descrivere e interpretare i processi organizzativi) che interpretano i significati attribuiti dagli attori alla loro vita organizzativa.  È una prospettiva di stampo interpretativo per lo studio delle organizzazioni. Se si adotta una prospettiva costruttivista allora le organizzazioni non esistono: sono un artefatto sociale, un'invenzione delle persone e degli studiosi che le raccontano. Queste creazioni sono rese vive dal linguaggio, dai simboli, dai riti e dai cerimoniali, dalle modalità di controllo, dalle tecnologie e dalle prassi operative che caratterizzano i processi organizzativi; è corretto parlare di attività o processi organizzativi in continua evoluzione anziché di “organizzazione”. La cultura organizzativa: categorie analitiche e forme espressive  Logos:insieme di credenze che indicano le interpretazioni adottate dai soggetti nei confronti di quanto accade. Le credenze sono codici attinenti la sfera cognitiva, inerenti a ciò che è vero e ciò che è falso;  Ethos:i valori che corrispondono ai giudizi di preferibilità e rispondono alle domande in merito a ciò che è giusto e ciò che è sbagliato;  Pathos:modo particolare di percepire, sentire la realtà attraverso tutti i sensi. La conoscenza organizzativa comprende anche l'esperienza percettiva soggettiva;  Aisthesis:è una specificazione della dimensione precedente.Si riferisce alle percezioni di ciò che belle ciò che è brutto; ogni cultura tende a definire ciò che piace e ciò che disgusta;  Genus:il campo simbolico organizzativo è“sessuato”, cioè leggibile in termini di genere: le regole di comportamento professionale possono infatti essere diversamente ordinate per gli uomini e per le donne (abbigliamento, carriera, postura, tempi di lavoro);  Polis:si riferisce alla dinamica di potere; si esplicita anche chi sono i nemici e gli amici, gli alleati esterni o viceversa coloro dai quali occorre difendersi;  Methodos:sapere che cosa e come fare, così come che cosa non fare all’interno dell'organizzazione. Le espressioni simboliche indicative dei contenuti culturali: linguaggio, miti, storie e saghe, riti e artefatti. Sono simboli, ossia forme astratte o tangibili, o costrutti linguistici, ma anche azioni. COHEN: esprimono una molteplicità di significati tali da suscitare emozioni e spingere l'uomo all’azione. Linguaggio:segni vocali che caratterizzano e stabilizzano l'esperienza umana. il linguaggio non è solamente una sequenza di parole, esso comunica un tessuto sociale e ha il potere di condizionare i processi di azione, oltre che percettivi e di pensiero. Ogni cultura organizzativa tenderà a sviluppare un linguaggio idiosincratico (etichette, espressioni tipiche, proverbi); Miti: narrazione in forma drammatizzata di vicende passate più o meno reali, che hanno la funzione di legittimare sia le azioni raccontate sia le idee che ispirano. Rappresentano degli antecedenti che giustificano comportamenti; Storie e saghe: le storie sono collezioni di aneddoti che caratterizzano la quotidianità della vita organizzativa; offrono risposte ad alcuni dilemmi organizzativi (ex. dualismo tra sicurezza e insicurezza o tra uguaglianza e differenza). Storie e miti danno origine alle saghe organizzative, che raccontano la vicenda di nascita, sviluppo ed evoluzione di un’organizzazione. Ciò che distingue la saga da un semplice racconto è la sua forte connotazione evocativa e affettiva; Riti e cerimonie: i riti sono azioni che necessitano di un consumo di risorse; sono attività con un certo grado di progettazione ed elaborazione formale, realizzate tramite interazioni sociali e con conseguenze sociali di rilievo.  Insieme compositi diriti danno origine alle cerimonie. I più frequenti riti nella vita organizzativa sono: - riti di passaggio(transito a ruolo e status nuovi); - riti di esaltazione(motivano i membri a comportarsi come coloro che sono stati premiati); - riti di degradazione(ridefiniscono l'identità e il potere); - riti di ricomposizionee contenimento dei conflitti(riducono il rischio di conflitti, ma non risolvono i problemi); - riti di integrazione(avvicinano le distanze tra i ruoli); - riti di rinnovamento (avviano programmi di cambiamento). Si differenziano dai rituali che sono invece attività routinarie e stilizzate. Artefatti: prodotti tangibili concreti e palpabili della vita organizzativa. Gli studiosi riflettono sui prodotti materiali del setting fisico forma degli edifici, decorazioni interne, fotografie, ritratti e quadri, uniformi e modo di vestire, colori, logistica, design, strumenti di lavoro. L'ipotesi è che quanto più credenze, valori e ideologie sono radicati e sentiti dai membri di un'organizzazione, tanto più saranno reificati e troveranno un rispecchiamento nella fisicità dell’organizzazione per confermare e richiamare i soggetti alla loro identità nonché per tramandare la cultura alle generazioni successive. GAGLIARDI: Gli artefatti organizzativi sono: a) Sentieri per l'azione: condizionare guidare il comportamento dei soggetti; b) Tracce della vita organizzativa: testimoniano le dinamiche culturali e sociali di un’organizzazione. Conclusioni L'approccio estetico: gli studiosi di questo filone di ricerca che si muovono all’interno del simbolismo interpretativo e della prospettiva postmodernista, pongono l'attenzione su ciò che gli attori provano nella loro esperienza organizzativa. Viene sottolineata la conoscenza umana in quanto azione attraverso i sensi, che avviene cioè attraverso facoltà percettivo sensoriali.Le culture sono mappe sensoriali, costruite attraverso le risposte estetiche dei soggetti al loro setting fisico e culturale e devono essere studiate in relazione ai valori e al pathos, ossia a come la vita organizzativa è sentita e provata.  In sintesi, la approccio estetico: a) Riporta in primo piano la sensazione e i sentimenti degli attori. Le organizzazioni sono arene emotive dove gli individui possono provare sentimenti di repulsione o attrazione, possono anche essere fieri di lavorare in un luogo che per loro rappresenta l'idea astratta di bellezza; b) Costringe il ricercatore a lasciare spazio a ciò che sente e prova, perché chi scrive etnografie necessita di essere immerso emozionalmente e sensorialmente, al fine di comprendere appieno se stesso e ciò che lo circonda. In tal senso l’approccio estetico trova nell'autoetnografia la forma espressiva più consona; c) Sembra far cogliere aspetti trascurati negli studi organizzativi a causa dell’eccessiva sottolineatura delle dimensioni cognitive o formali e razionali, che hanno portato gli studiosi a interrogarsi più sul “dover essere dell'organizzazione” che a coglierne in pieno le variegate sfumature. CAPITOLO 4: CONOSCERE E APPRENDERE NELLE ORGANIZZAZZIONI Introduzione Il tema della conoscenza organizzativa richiede il confronto con una variegata costellazione di riferimenti e approcci. Una molteplicità di autori e discipline hanno generato negli ultimi anni un vero e proprio arcipelago articolato di ancoraggi teorico-concettuali e operativi connessi all’apprendere, al produrre, al condividere, al gestire e al far circolare conoscenza nei contesti organizzativi. L’intento è di evidenziare per ognuna delle dimensioni di sapere accennate alcune fra le più rilevanti acquisizioni, assumendo come criterio di presa in considerazione e trama connettiva l’interesse per quegli aspetti di soggettività, relazionalità, attribuzione di senso e significato che costituiscono lo specifico contributo di una psicologia del lavoro e delle organizzazioni. Il punto di vista adottato L’approccio da cui muoviamo concepisce le organizzazioni come contesti sociali in cui l’efficacia e l’efficienza dei processi produttivi sono strettamente connesse alla soggettività degli attori presenti e alla concretezza ed affidabilità delle loro azioni, alle culture di cui sono portatori e alla capacità di attribuire significato agli eventi e alle problematicità incontrate. L’accento viene posto non solo sugli aspetti strutturali, ma anche e soprattutto sulla realtà organizzativa come artefatto socialmente costruito. Di qui il passaggio dall’organizzazione all’organizzare. Esistono diversi modi di pensare e fare psicologia del lavoro e delle organizzazioni: quello adottato rilancia un’autentica anima applicativa, in grado di cogliere ma anche alimentare le dimensioni di complessità che caratterizzano gli attuali scenari, attraverso una spiccata sensibilità per le dimensioni contestuali e una decisa vocazione al sostegno dei processi di trasformazione e cambiamento. La psicologia del lavoro e delle organizzazioni cerca di descrivere e comprendere il rapporto tra attori organizzativi e pressioni interne ed esterne storicamente presenti e come da esso derivino interpretazioni e corsi di azione, prese di decisione e trasformazioni dei contesti operativi di appartenenza. L’ancoraggio di un tale approccio può essere rintracciato nella “teoria della pratica” , centrata sullo studio delle pratiche lavorative, della produzione e riproduzione di concreti sistemi di attività e dei significati che le persone attribuiscono alla loro esperienza lavorativa e organizzativa. La visione performativa dell’organizzazione mette in evidenza i processi intersoggettivi attraverso i quali i diversi interlocutori organizzativi si scambiano conoscenze e affrontano compiti, paradossi e contraddizioni, confrontandosi - All’ActivityTheory che enfatizza gli aspetti sociali, materiali, simbolici per mezzo dei quali prende forma e si espande un sistema di attività, per cui, attraverso un procedere tra ordine e disordine, i corsi di azione costruiscono e ricostruiscono i propri oggetti e il significato a essi attribuito. - All’Actor-NetworkTheory centrata sulla configurazione di ecologie relazionali che danno vita a processi di traslazione e traduzione in pratica del reciproco rapporto tra conoscenza e azione - Alla Teoria dell’apprendimento situatoe del connesso costrutto di comunità di pratica  come campo di traiettorie possibili in cui si apprende attraverso i processi del conoscere in azione, partecipando alla circolazione e allo scambio di repertori condivisi e all’attraversamento delle zone di confine, attribuendo senso e significato a eventi e situazioni, costruendo mondi possibili riconosciuti come sufficientemente legittimati e comprensibili - Ai workplacestudies in cui lavoro e azione sono socialmente organizzati a partire dall’interazione tra soggetti, oggetti e tecnologie, generando pratiche di lavoro in quanto “attività sociali”, cognitivamente distribuite e mediate dall’uso di artefatti - All’approccioculturale ed estetico che valorizza non solo le dimensioni simboliche e di significato connesse e incorporate negli oggetti e nelle pratiche, ma anche la sensorialità del nostro conoscere l’organizzazione attraverso un sentire che coinvolge la nostra corporeità e la nostra peculiare attribuzione soggettiva di senso Emerge un’idea di pratica come “modalità, relativamente stabile e socialmente riconosciuta dell’ordinare elementi eterogenei quali persone, conoscenza, artefatti e tecnologie in un senso coerente”. La natura processuale di tali conoscenze prodotte, deve peraltro coniugarsi con gli aspetti di riproducibilità delle pratiche stesse. Esse devono da un lato poter essere osservabili e “rendicontabili”, dall’altro riconoscibili, trasferibili, comunicabili, attraverso processi che consentano nuove attivazioni e rinnovate connessioni. Il passaggio è in questo caso dal conoscere in pratica al conoscere una pratica; l’immagine conseguente è quella di una conoscenza organizzativa come tessitura dell’apprendere nei luoghi di lavoro, divenendo le pratiche occasione e spunto per l’intreccio delle molteplici forme dell’organizzare, dell’apprendere, del conoscere in azione. Gherardi riferendosi in particolare agli studi di tre autori sul concetto di pratica, identifica tre caratteristiche delle pratiche situate che i soggetti impiegano per conferire significato al loro sistema di azione: 1. La prima si riferisce alla dimensione “indessicale”, che in linguistica corrisponde alle espressioni che risultano comprensibili a partire dal concreto contesto in cui sono prodotte e usate. Ciò equivale a cogliere i significati impliciti che sostengono la reciproca comprensione dei soggetti all’interno dei loro contesti di azione e le modalità delle negoziazioni che su tali significati sono costantemente attivate. 2. La seconda è quella dell’accountability, inerente alla capacità dei partecipanti alle pratiche situate di offrire spiegazioni, di rendere le loro pratiche osservabili e comunicabili, esprimendo ciò che nel contesto è dato per scontato. Questo rinforza la concezione di una conoscenza organizzativa come “processo attivo che avviene entro pratiche sociali che coinvolgono tanto la mente delle persone (cognizione) quanto il corpo (sentire), quanto la società (relazioni), quanto la materialità del mondo (tecnologie). 3. La terza caratteristica è la reflexivity, da intendere come processo che interroga i modi attraverso i quali i soggetti conferiscono significato alla realtà e lo rendono accessibile ad altri, contribuendo in tal modo a costruire il proprio ambiente organizzativo, relazionandosi con gli altri e dando forma al loro modo di operare e di essere nel mondo. È proprio su queste dimensioni di tessitura sociale che si fonda l’emergente prospettiva del gestire le conoscenze e dell’apprendere nei contesti organizzativi e di lavoro, connessa all’attivazione di opportuni momenti di azione riflessiva. L’enfasi sul costrutto di knowing in practice evidenzia la necessità di fare riferimento alle dimensioni di conoscenza tacita e alle modalità della sua produzione e circolazione; una tale conoscenza richiede un approccio e una disposizione più simili a un orientamento mistery-driven, capace di lasciarsi andare all’ascolto e di sentire in situazione, piuttosto che problem-driven, secondo la logica diffusa della strumentalità e del controllo delle informazioni. Ciò da un lato rinvia a una concezione del rapporto tra conoscenza e pratiche situate a partire da una triplice possibile relazione: - Quella che considera la conoscenza come contenuta all’interno di definite e contestuali pratiche, l’una e le altre riconoscibili in quanto entità intersoggettive - Quella secondo cui knowing e practicing costituiscono due processi che si producono reciprocamente - Quella dell’identificazione del praticare come conoscere in pratica, per cui si nega alla conoscenza una sorta di statuto di priorità antecedente all’azione, in quanto è dall’azione che la conoscenza è generata e attraverso essa prende la sua forma A fronte di una concezione delle organizzazioni come campi di pratiche, si configura un’idea di apprendimento locale, funzionale alla promozione dell’attitudine dei soggetti ad apprendere a partire dalla riflessione sulle pratiche concrete della loro vita lavorativa. Un apprendere che vede uno spostamento di enfasi dalla prospettiva cognitiva a quella sociale, in quanto mobilita non solamente processi mentali di trattamento ed elaborazione di dati e informazioni, ma sollecita il coinvolgimento e l’attivazione di condizioni di contesto. La rottura di rappresentazioni diffuse e convenzionali dell’apprendimento come prevalente passaggio di conoscenza, implica il superamento della separazione tra luoghi e momenti deputati all’apprendimento e quelli connessi ad altre attività, così come della connessa visione dell’apprendimento come attività principalmente individuale. Di qui la rilevanza assegnata in tale concezione ai temi delle modalità di acquisizione di conoscenza in azione, ai processi del conoscere nelle organizzazioni e allo strutturale rapporto tra processi di apprendimento, pratiche situate e sapere pratico. La frequenza e la varietà degli ambiti all’interno dei quali tale concetto è stato e viene dichiarato ne hanno decretato la condizione di moda, con gli inevitabili rischi connessi a modalità superficiali. Gherardi a tal proposito suggerisce un ribaltamento del concetto che ne recuperi il legame originario con le pratiche situate di riferimento. Sul versante dell’apprendere vengono ad assumere rilevanza gli aspetti legati a un apprendimento non formale, che si realizza attraverso il combinarsi di conoscenza codificata e conoscenza tacita nella configurazione di una conoscenza personale, esito dei processi di costruzione sociale che avvengono nei contesti operativi e lavorativi. La possibilità di approfondire il rapporto tra apprendimento e conoscenze tacite nei contesti professionali rinvia, da un lato, alla problematica metodologica relativa all’elicitazione di tali conoscenze e alla loro accountability; dall’altro, apre interessanti prospettive di indagine orientate alla declinazione dell’approccio all’apprendimento come processo situato e contestualmente distribuito. La conoscenza come risorsa anomala nella prospettica economica. Rischio e responsabilità della creazione di significati Lo spunto di partenza di questo paragrafo è offerto dalla considerazione di un’aporia riscontrabile nelle diffuse argomentazioni che tendono a interpretare la conoscenza “normalizzandola” e riconducendola a uno dei fattori di produzione, che si verrebbe ad aggiungere, sia pure un po' tardivamente, a quelli tradizionali. Il nodo dell’aporia risiede nell’identificare la conoscenza come una qualsiasi altra merce e in quanto tale come risorsa connotata, al pari di altre, dalle proprietà di scarsità, divisibilità, escludibilità e strumentalità, che caratterizzano gli altri fattori produttivi. In realtà si manifesta come risorsa “anomala” proprio perché non risponde a queste condizioni. Le sue peculiari caratteristiche riguardano la possibilità di creare valore attraverso la moltiplicazione degli usi e delle applicazioni delle conoscenze di partenza. La disponibilità di conoscenza, la sua produzione, gestione e distribuzione può essere concepita, in questo senso, come una filiera i cui driver sono l’efficacia, la moltiplicazione e l’appropriazione: - Efficacia connessa alle interpretazioni che i soggetti danno a eventi e situazioni e ai significati che in tal modo sono attribuiti alle diverse esperienze. - Moltiplicazione riguarda la possibilità di riusare la conoscenza, riproducendola in nuovi contesti e situazioni, consentendo in tal modo disseminazioni, nuove contaminazioni, continuità al flusso della propria esperienza. - Appropriazione fa riferimento al valore generato dalla conoscenza e alla sua distribuzione, non solo in termini di utilità economica, ma anche sociale. Essa dipende da regolazioni e processi che istituzionalizzano rapporti, dinamiche di interessi e di potere, di interazioni strategiche tra una pluralità di soggetti e stakeholder. La posta in gioco in questo caso è la ragionevole costruzione di un equilibrio soddisfacente tra due logiche: quella della produzione di nuova conoscenza (exploration), capace di generare soluzioni innovative a problemi emergenti e inediti; quella del riutilizzo e della propagazione del già noto (exploitation), che massimizza il valore generato dalle conoscenze disponibili attraverso il dispiego di dispositivi astrattivi. Le sottolineature richiamate introducono un approccio alla conoscenza in ambito economico che passa da una condizione di modernità centrata sui saper astratti e riproducibili, a uno scenario di modernità “riflessiva”; la sollecitazione riflessiva è connessa all’esigenza di confrontarsi con le nuove condizioni di variabilità e di fronteggiare le inedite esigenze di creatività e autoregolazione imposte dall’esponenziale aumento di complessità degli attuali scenari. La svolta per il possibile accesso a un nuovo rapporto con la conoscenza e la sua propagazione è legata alla crescita esponenziale della complessità generata dallo stesso sviluppo, per cui gli eventi emergono e dilagano oltre confini e spazi abituali, sfuggendo alle previsioni di specialisti, al controllo razionale prefigurato e preteso dalla grande piramide. La conoscenza da usare nei contesti è sempre più raramente rintracciabile in procedure giuste da applicare secondo sequenze di problemsolving: a ognuno è chiesto di mobilitare un’attitudine a produrre conoscenze in situazione, provando a reinventare il proprio percorso lavorativo, senza perdersi. Di qui l’enfasi sulla riflessività come continua riformulazione dei significati del lavoro in rapporto al contesto e l’esigenza di una propagazione riflessiva della conoscenza, per cui “quando incontra ostacoli o ambienti differenti da quello di origine non si arresta, ma esplora, genera varietà nuove, usa l’intelligenza evolutiva per trovare un cammino percorribile”. L’ottica è che il lavoratore neomoderno, che si colloca in una rete riflessiva, capace di criticare e rigenerare le sue premesse, non parte da un canovaccio precostituito di azioni da fare, ma si mette piuttosto in viaggio per esplorare insieme ad altri un mondo di possibilità che deve essere immaginato, costruito, abitato e vissuto come reale, anche nella parte artificiale che dipende da virtualità non ancora realizzare, ma presenti e attive tra gli uomini che danno loro senso. Abitare il mondo come partecipazione a pratiche di attività situata: antropologia ed ecologia della cultura Questo terzo filone di studi tratta di analisi e ricerche che approfondiscono il legame esistente tra dimensioni culturali e l’insieme di vincoli e possibilità connessi al nostro collocarci all’interno di ambienti sociali e materiali. Ritroviamo in queste indagini l’attenzione al tema della situatività e la considerazione degli artefatti materiali in uso, delle forme discorsive e conversazionali attraverso le quali se ne parla e si comunica, con una sensibilità semiologica nell’intercettare e leggere tracce e indizi dell’ordine della vita di cui è intessuta la nostra esperienza quotidiana. Il riferimento ai costrutti di cognizione distribuita e di piano situato di azione ci consente di accennare brevemente ai contributi di Hutchins e Suchman: Hutchins consolida la convinzione che apprendere e conoscere si configurano come processi di partecipazione ad attività situate, generano costanti trasformazioni nei soggetti che vi prendono parte, nelle loro relazioni e nelle stesse disposizioni materiali del contesto. Suchman porta a indagare il comportamento umano come pratica quotidiana che, socialmente e materialmente organizzata, genera competenza. Da una ricerca dell’autrice (evidenzia come i modelli funzionali alla configurazione di piani e programmi di azione, si distanzino dalle pratiche professionali situate nei contesti e che emergono dalla dinamica delle interazioni e relazioni sociali) abbiamo una distinzione tra: Gli esponenti di questo approccio identificano cause di tipo evolutivo o fisiologico per le differenze nelle competenze e nello stile comportamentaleE perciò per i diversi ruoli di uomini e donne nel lavoro e nella società. DOREEN KIMURA→ attribuisce a differenze morfologiche del cervello maschile e femminile maggiori abilità, rispettivamente visivo-spaziali (uomini) e verbali (donne). BARON COHEN→ definisce il cervello maschile “programmato per la sistematizzazione” e quello femminile “programmato per l’empatia”, attribuendo perciò agli uomini una maggiore predisposizione per ruoli inevitabilmente dirigenziali e alle donne ruoli in cui prevale la dimensione relazionale. Come abbiamo detto, non solo per la predisposizione alla cura, ma anche per il bisogno di essere presenti in famiglia, alle donne vengono attribuiti ruoli che non richiedono di rimanere a lungo fuori casa, in trasferta o per far fronte a diverse responsabilità (ruoli dirigenziali). Oltre alle differenze biologiche, anche l’aspetto fisico segna alcune diversità riguardo i ruoli che vengono attribuiti a donne e uomini, che li rende apparentemente più adatti a mansioni che richiedono maggiore o minore forza fisica o delicatezza. SUSAN PINKER→ afferma che il testosterone per gli uomini porta a un maggiore impegno nella professione, mentre l’ossitocina per le donne porta a dedicarsi maggiormente alla famiglia. Il grande limite che questo approccio presenta è quello di attribuire in modo deterministico, quindi immutabile, caratteristiche e ruoli adeguati a donne e uomini, trascurando l’importanza delle relazioni sociali nello sviluppo dell’identità di genere e delle costruzioni sociali e organizzative. L’approccio socioculturale L’elemento chiave di questo approccio è il genere letto nei termini di una costruzione sociale e culturale, frutto dell’interazione di donne e uomini, non un’inevitabilità biologica. MARGARET MEAD→ evidenzia come le diverse culture propongano modelli di genere anche molto diversi tra loro, talora contrastanti, disconfermando in tal modo la teoria del determinismo biologico. Il corpo sessuato è uno dei primi elementi di differenziazione tra gli individui: il sesso è universalmente la base per l’attribuzione di ruoli di genere ed uno dei primi elementi di differenziazione tra gli individui. Tuttavia, è solo con i processi di socializzazione che chi nasce con un corpo maschile o femminile acquisisce il “ruolo” di uomo o di donna (ruolo che ha una forte valenza relazionale in quanto in esso sono inscritte le dinamiche di potere e subordinazione che innervano le relazioni di genere). Teoria dell’apprendimento sociale → attraverso i meccanismi di imitazione, di modellamento del ruolo maschile e femminile e del rinforzo vicario in seguito all’adozione di modi di agire ritenuti “corretti”, i bambini sviluppano l’idea che esistono comportamenti adatti al loro sesso e tendono a metterli in atto. I ruoli di genere così acquisiti non riguardano solo il modo di apparire (es. abbigliamento), ma anche la divisione del lavoro tra i sessi. I ruoli di genere acquisiti attraverso la socializzazione in famiglia e nella società vengono perciò a caratterizzare anche i contesti organizzativi. SILVIA GHERARDI→ i contesti organizzativi non solo riflettono la cultura sociale di genere propria del contesto specifico in cui si colloca quell’organizzazione, ma contribuiscono a riprodurla. o La cultura organizzativa genderedsi manifesta negli artefatti, nello stile più o meno severo dell'abbigliamento, nel linguaggio usato in azienda. Se la natura gendereddelle dinamiche organizzative è determinata, come si è detto in precedenza, dai processi descritti, le relazioni di disparità tra uomini e donne, che nel mercato del lavoro si esprimono nella segregazione verticale e orizzontale, sono riprodotte poi nella società più ampia, attraverso alcuni meccanismi specifici delle organizzazioni del lavoro. JULIA KMEC→ identifica questi meccanismi nel “metodo della staffetta”, nella svalutazione dei lavori femminili, nella desiderabilità di alcuni ruoli che attraggono e per i quali vengono più sovente selezionati uomini. Questo metodo consiste nel reclutare chi deve ricoprire posizioni di responsabilità attraverso le “cordate”, metodi informali per cui i candidati vengono individuati all’interno della rete di contatti di chi già ricopre quella posizione: facilmente gli uomini avranno tra i loro contatti altri uomini. Meccanismo opposto è quello della desiderabilità, legata alla retribuzione, alle opportunità di visibilità che offre e che sarebbe proprio delle occupazioni per le quali si predilige un uomo. Tra i diversi meccanismi che vengono messi in atto, due sono gli elementi cardine strettamente intrecciati tra loro, come evidenzia tra gli altri Kmec: 1. Il primo è la socializzazione ai ruoli di genere in famiglia e nella società, attraverso cui si stabiliscono comportamenti e ruoli professionali che vengono trasferiti poi nelle organizzazioni del lavoro (dinamica descritta da Martin come “genderingpractises”); 2. Il secondo sono le pratiche, più o meno consapevoli, di azioni che contribuiscono a produrre e riprodurre una cultura gendered nelle organizzazioni e a trasferirla, poi di riflesso, nella società in cui si muovono le persone che lavorano (dinamica descritta da Martin come “practing gender”).  Genderingpractises = costituiscono un repertorio di regole ed esempi di comportamenti che la cultura di una società o organizzazione mette a disposizione degli individui per esprimere l’appartenenza a un genere, in modo prevalentemente binario;  Practising gender = è la dinamica attiva, performativa per cui attraverso l’agire e il parlare le persone contribuiscono a costruire e mantenere le relazioni e le strutture di genere. L’approccio psicoanalitico Gli esponenti di questo approccio si focalizzano principalmente sulle dinamiche di subordinazione e potere tra donne e uomini, sia a livello interpersonale che intrapsichico. FREUD→ propone una teoria dello sviluppo dell’identità femminile per differenza (e mancanza) da quella maschile: ipotizzaun unico modello di sviluppo dell’identità sessuale che ha il suo momento centrale nel complesso edipico. - Per gli uomini si risolve con la paura della castrazione da cui si forma il Super-Io che consente il costruirsi di una personalità sana e adulta; - Per le donne invece lo sviluppo della personalità resta incompiuto perché il complesso edipico porta alla consapevolezza della mancanza e da ciò passività e debolezza morale. Le sue eredi tuttavia hanno teorizzato lo sviluppo di un’identità femminile autonoma e peculiare. Tra tutte in particolare CHODOROW, che postula due diversi percorsi di individuazione per le donne e per gli uomini, a partire dalla relazione di dipendenza dalla cura materna nei primi mesi di vita: Uomo → nella formazione di sè sperimenta una doppia separazione dal corpo della madre, come individuo e come genere (assumendo come modello piuttosto il padre); Donna → vive un doppio movimento: uno di dis-identificazione per diventare individuo autonomo e di identificazione rispetto al genere, imparando a diventare così soggetto capace di cura. PAULA NICOLSON→ riprendendo Freud evidenzia come le organizzazioni riprodurrebbero le dinamiche del complesso edipico, nello specifico della “paura di castrazione” per gli uomini (timore che la rivalità nei confronti del padre per il possesso del potere possa essere punita) e dell’”invidia del pene” per le donne (del potere che gli uomini hanno); è perciò la percezione della mancanza che determinerebbe modalità diverse, maschili e femminili, di esprimere i contesti organizzativi e di muoversi al loro interno. - Gli uomini, poiché incapace di operare la possibilità di perdita del potere, ingaggiano una lotta per esso da cui derivano strutture organizzative caratterizzate da una forte gerarchia [le donne a causa della nonna risoluzione del complesso edipico tollerano la mancanza]; - Per le donne che entrando in organizzazione sperimentano tale esclusione deriva un vissuto complesso e ambivalente. Secondo Nicolsonle reazioni delle donne possono essere due:  Uscire dall’organizzazione e quindi dal mercato del lavoro, giustificando tale uscita con il desiderio di avere figli o di dedicarsi a loro;  Accettare una sorta di compromesso e rimanere in organizzazione a ricoprire solo alcuni ruoli e accettare parametri di valutazione e riconoscimento diversi per le donne e gli uomini. Questo porta a una progressiva interiorizzazione dei valori della cultura organizzativa maschile che si esprime, a sua volta, in due modi: 1. Si condivide l’idea che il ruolo principale della donna sia in famiglia con un graduale disinvestimento in ambito professionale, in favore dell’impegno familiare accettando ruoli di minore responsabilità e chiedendo talvolta il part-time; 2. Si sceglie di investire nella professione, in favore dell’impegno familiare, accettando di adeguarsi alle regole fissate dagli uomini per gli uomini. FISCHLMAYR→ descrive il processo di “autoesclusione” secondo cui le donne raramente riescono a percorrere una carriera internazionale, perché loro per prime non si legittimano la possibilità di ricoprire incarichi di responsabilità all’estero. Cambiamento avverrebbe portando nelle organizzazioni logiche di maggiore flessibilità e orientamento alla relazione (Nicolson). Ciò porterebbe forse sia le donne sia gli uomini a non dover scegliere tra impegni professionali e familiari e consentirebbe alle donne di portare tutto il loro potenziale nelle organizzazioni; ciò rappresenterebbe un vantaggio per le organizzazioni stesse che potrebbero in questo modo beneficiare della ricchezza che viene dall’accogliere e dar voce alla molteplicità al maschile e al femminile e una relazione di reciproco arricchimento anziché di subordinazione dell’uno all'altro, del femminile e maschile. Fasi e prospettive degli studi di genere in organizzazione Anche se le fasi dei gender studies non sono stati lineari, possiamo identificare dei momenti distinti: 1. Cecità nei confronti delle dinamiche di genere in organizzazione; 2. Presa di coscienza della discriminazione nei confronti delle donne nei contesti di lavoro da cui deriva: - In primo luogo, la rivendicazione dell’uguaglianza tra donne e uomini; - In secondo luogo, la valorizzazione della differenza. 3. Messa in discussione, grazie al post-strutturalismo e alla queer theory, della dicotomia normativa uomo- donna sottesa alla struttura organizzativa e apertura alle molteplicità. Il genere invisibile Questa prima fase in realtà non si può definire tale proprio perchè è caratterizzata dalla “cecità” nei confronti del tema della relazione uomo donna in luoghi di lavoro e la relativa discriminazione. MONACI→ sostiene che fino agli anni ’60, questa questione di fatto non esistesse; le donne erano entrate solo da pochi anni in numeri consistenti nei contesti organizzativi e quindi ricoprivano ruoli di secondo piano. Inoltre, muovevano i primi passi in ambienti già precedentemente pensati e guidati dagli uomini, perciò non era strana la loro assenza da posizioni manageriali. SIMPSION e LEWIS→ è ciò che loro definiscono “invisibilità”, cioè il non vedere e di conseguenza accettare acriticamente La cultura organizzativa maschile come norma, così radicata da non sentire il bisogno di tematizzarla. o Rispetto a tale norma le donne rappresentano l’eccezione; se la regola condivisa dalla maggioranza non si vede, l'eccezione è ben visibile. Rendere visibile significa mettere in discussione: è ciò che apre alla seconda fase degli studi di genere in organizzazione, in cui si inizia a dare voce a chi si trova a essere escluso o trascurato (ex. Donne in contesti organizzativi regolati da logiche maschili). Il riconoscimento della differenza In questa seconda fase degli studi di genere in organizzazione si inizia a dare voce e opportunità di espressione a chi viene escluso o comunque trascurato, in questo caso le donne. Questo tema diviene oggetto di riflessione solo intorno al 1960-80, dopo essersi verificati alcuni cambiamenti:  Si inizia a prendere coscienza del progressivo aumento della presenza femminile nei contesti organizzativi e a riflettere sullo scarso utilizzo del loro potenziale per ruoli di responsabilità;  Si ritiene che le donne possano offrire risposta a due “emergenze” del mercato del lavoro: 1. Si prevedeva per la fine del secolo una riduzione della forza maschile, a cui le donne potevano in parte sopperire; 2. Necessità di maggiore competitività nel mercato globalizzato. o Le donne stesse, infine, sempre più consapevoli della loro preparazione e delle loro competenze, iniziano a chiedere espressamente e con insistenza di accedere a posizioni di responsabilità. La prospettiva WIM(Women in Management) proviene proprio dalla considerazione di una disparità di trattamento tra donne e uomini, di cui le donne hanno cominciato sempre di più a prendere consapevolezza e sono sempre meno disposte ad accettarla. - Gli studiosi e le studiose di approccio sociologico si concentrano a riguardo nell’individuare i meccanismi collettivi che determinano e riproducono la discriminazione di genere nelle organizzazioni e le conseguenze che ne derivano. - Gli studiosi e le studiose di approccio psicologico, invece, si concentrano sui processi alla base delle aspirazioni e aspettative occupazionali di donne e uomini e sulla natura e sul contenuto proprio degli stereotipi di genere che attraversano la società e le organizzazioni.  Forehand e von Haller Gilmer, definiscono il clima organizzativo come “un set di caratteristiche che descrivono un’organizzazione e che: a) la distinguono dalle altre organizzazioni; b) sono relativamente durature nel tempo; c) influenzano il comportamento degli individui nell’organizzazione”. Si tratta quindi di stimoli generati dall’organizzazione, che influenzano il comportamento individuale dei membri della stessa. Tali stimoli vengono poi mediati dalle caratteristiche degli individui e influenzati dai loro valori, dalle loro capacità e dai tratti di personalità.  Litwin e Stringer giunsero alla conclusione che i climi organizzativi variano in funzione dei diversi stili di leadership esercitati. Secondo questi autori, “il clima organizzativo è un insieme aggregato di aspettative ed incentivi ed è anche un costrutto molare che: a) consente l’analisi delle determinanti dei comportamenti motivati in complesse ed effettive situazioni sociali; b) semplifica i problemi della misura delle determinanti situazionali legati alle percezioni e ai convincimenti individuali; c) consente la specifica definizione della situazione globale di influenza, sia dell’ambito esterno, sia dei vari tipi di ambienti interni all’organizzazione”.  Campbell, Dunnette, Lawler e Weick considerano il clima come “una serie di attributi specifici di una particolare organizzazione, che possono prendere forma grazie al modo con cui l’organizzazione tratta i propri membri e il proprio ambiente, influenzando prestazioni, partecipazione e atteggiamenti dei lavoratori. Per il soggetto, membro dell’organizzazione, il clima prende la forma di una serie di atteggiamenti e di aspettative che descrivono l’organizzazione in termini sia di caratteristiche statiche, sia di conseguenze comportamentali e risultati contingenti”. Secondo questi autori, il clima è costituito da quattro dimensioni: a) l’autonomia individuale; b) la struttura e le posizioni; c) i sistemi di ricompensa; d) il grado di considerazione e di sostegno. Critiche  Questa teoria non spiega i risultati delle ricerche che individuano climi diversi in gruppi di lavoro diversi appartenenti a una stessa organizzazione;  Non è stata evidenziata una relazione significativa tra il clima organizzativo e le rispettive caratteristiche strutturali previste da Campbell;  Non viene valutato l’impatto soggettivo che le caratteristiche strutturali hanno sulle reazioni individuali in una data situazione;  Non si prendono in considerazione i processi interattivi che si hanno tra diversi gruppi e che tendono a creare una comune cultura organizzativa. L’approccio percettivo James e Jones collocano l’origine del clima all’interno dell’individuo. Gli individui reagiscono e interpretano le variabili situazionali sulla base degli aspetti che sono psicologicamente significativi per loro. Il soggetto quindi percepisce e interpreta il contesto organizzativo e crea una sua rappresentazione psicologica del clima utilizzando sia la struttura sia i processi che caratterizzano l’organizzazione. Questa definizione di clima si basa sulla differenza tra il clima organizzativo, inteso come insieme di attributi organizzativi e dei loro effetti principali (descrizione collettiva dell’ambiente), e il clima psicologico, riferito ad attributi individuali attraverso i quali l’individuo trasforma l’interazione tra fattori organizzativi e caratteristiche individuali in una serie di attese, atteggiamenti, comportamenti (mappe cognitive, descrizioni individuali di pratiche-procedure organizzative, mondo soggettivo all’interno di uno specifico ambiente organizzativo). Il clima psicologico risulterà così essere la percezione del clima organizzativo.  Payne e Pheysey evidenziano il processo “causale/circolare” del clima, in quanto esso stimola e influenza il comportamento individuale e organizzativo, e ne è a sua volta influenzato.  Payne e Pugh affermano che il contesto organizzativo e il clima possono influenzarsi reciprocamente, ma essi sono più stabili delle persone che li compongono, per cui le condizioni del contesto organizzativo restano la chiave per comprendere l’atteggiamento dei membri dell’organizzazione.  Schneider afferma che “le percezioni di clima sono descrizioni molari psicologiche significative che le persone accettano come caratteristiche delle pratiche e procedure di un sistema. Attraverso le sue pratiche e procedure, un sistema può creare molti climi, in quanto le percezioni molari funzionano come schemi di riferimento per conseguire una certa congruenza tra il comportamento e le pratiche e procedure del sistema”.  Joyce e Slocum ripropongono il dualismo tra clima psicologico e clima organizzativo (James e Jones) attraverso il concetto di “mappe psicologiche”. “Il clima psicologico si riferisce alle descrizioni individuali di pratiche e procedure organizzative. Tali descrizioni possono essere usate per comprendere l’influenza dell’ambiente organizzativo interno sulla soddisfazione e sulle prestazioni individuali [...]. il clima organizzativo si riferisce a una descrizione collettiva di questo ambiente, molto spesso misurata attraverso la media delle percezioni dei membri dell’organizzazione”. Critiche  Le origini del clima vengono collocate all’interno dell’individuo senza considerare le percezioni che si creano durante le continue interazioni dei membri all’interno dell’organizzazione. L’approccio interattivo L’approccio interattivo può essere considerato una sintesi dei due approcci precedenti. Il suo assunto di base è che gli individui, posti all’interno di una specifica situazione, interagiscono gli uni con gli altri dando origine a percezioni condivise che diventano l’origine del clima.  La fenomenologia di Edmund Husserl: l’intersoggettività è il processo fondamentale grazie al quale si costituisce un collegamento sovra-individuale fra le prospettive, le interpretazioni, i valori e le credenze. Alla base dell’intersoggettività c’è la consapevolezza che gli altri hanno esperienze simili alle proprie e, quindi, si costruisce il proprio self usando gli altri come modelli. All’interno dell’organizzazione c’è un flusso continuo di eventi e azioni che gli individui cercano di interpretare creando una mappa cognitiva. Interagendo con gli altri membri dell’organizzazione, le varie mappe vengono confrontate e modificate. Il clima è quindi determinato da percezioni comuni.  L’interazionismo simbolico di George Herbert Mead: la realtà viene considerata come una costruzione sociale in cui gli esseri umani sono attori che utilizzano dei simboli, attraverso i quali comunicano, acquisiscono gradualmente una propria identità e partecipano pienamente a una realtà costruita socialmente.  Schneider e Reichers si ispirano a George Herbert Mead, e ritengono che l’individuo e l’ambiente si determinino l’un l’altro. “Il significato non risiede in nessuna cosa particolare, ma nasce dall’interazione tra due persone”.  La teoria strutturazionale di Poole e McPhee: il clima non è rintracciabile nelle percezioni personali degli individui, ma nelle loro interazioni. Il clima è un atteggiamento collettivo, prodotto e riprodotto continuamente con le interazioni tra i membri ed esito delle pratiche quotidiane presenti nell’organizzazione. Critiche  La prospettiva interattiva non spiega come l’ambiente influenzi l’interazione tra i membri L’approccio culturale L’approccio culturale, come quello interattivo, pone al centro dell’attenzione l’interazione tra i membri dell’organizzazione, ma in più evidenzia il ruolo fondamentale che svolge la cultura nella formazione dei processi che producono il clima. Questo approccio si focalizza, attraverso una prospettiva “sociale” e non più “psicologica”, sul modo in cui i gruppi interpretano, costruiscono, negoziano la realtà, attraverso la creazione di una cultura organizzativa. La cultura esiste quindi nelle interazioni tra gli individui.  Approccio comportamentista: la cultura è un insieme di risposte che il gruppo ha appreso per garantire la propria sopravvivenza.  Approccio cognitivista: le culture organizzative si formano con il contributo di tutti i membri dell’organizzazione e sono costituite da un insieme di soluzioni ai problemi che permettono alle persone di interagire con l’ambiente senza particolari sforzi.  Schein afferma che “le culture sono schemi di elementi che interagiscono [...]. Le organizzazioni sviluppano potenti culture che guidano il pensiero e il comportamento dei loro dipendenti”. E ancora: “La cultura organizzativa è l’insieme coerente degli assunti fondamentali che un dato gruppo ha inventato, scoperto o sviluppato imparando ad affrontare i suoi problemi di adattamento esterno e di integrazione interna, e che hanno funzionato abbastanza bene da poter essere considerati valori, e perciò tali da essere insegnati ai nuovi membri”.  Schneider è giunto alla conclusione che i concetti di clima e cultura sono complessi, multidimensionali e strettamente collegati tra loro, in quanto:  Il clima e la cultura si occupano del modo con cui i membri dell’organizzazione danno un senso al loro ambiente, generando così un sistema di significati condivisi;  Il clima e la cultura sono appresi attraverso un processo di socializzazione e interazione simbolica;  Il clima e la cultura sono processi che facilitano la comprensione e la relazione con l’ambiente;  La cultura ha un alto livello di astrazione e il clima è la sua manifestazione. Differenze tra clima e cultura  Il clima ha una natura mutevole mentre la cultura è decisamente più stabile.  Il clima agisce a livello di atteggiamenti e valori mentre la cultura opera anche a livelli più superiori, come quello ideologico e filosofico.  Il clima è il frutto delle variazioni immediate nell’ambiente interno ed esterno all’organizzazione, ma allo stesso tempo è intessuto dalle più profonde forme della cultura.  Il clima è espresso negli atteggiamenti dei lavoratori; la cultura è quel un insieme di assunti non detti, ma presenti, impliciti nell’organizzazione.  Il clima organizzativo rappresenta le descrizioni delle cose che accadono ai lavoratori di un’organizzazione ed è orientato al comportamento; la cultura organizzativa al contrario, è visibile nel perché esistano questi modelli di comportamento. Dunque, il clima può essere inteso come una manifestazione di superficie della cultura. Sviluppi recenti Nell’ultimo decennio, si abbandona l’idea di poter individuare un clima unico e omogeneo in una stessa realtà organizzativa e si rafforza quella più articolata di “clima collettivo”, un’idea che propone il concetto di “aggregazione climatica” intesa come l’aggregazione delle percezioni soggettive in unità più complesse. Le variazioni del clima collettivo possono essere descritte usando tre dimensioni: a) grado di consenso nelle percezioni multidimensionali del clima organizzativo; b) consistenza dei fattori; c) grado di congruenza dei profili di clima collettivo con variabili che hanno mostrato precedenza di influenzare il clima. I climi collettivi sono percezioni di procedure e norme organizzative che vengono diffuse attraverso le reti relazionali.  D’Amato e Majer vedono il clima come “un costrutto multidimensionale, un fenomeno complesso e al quale partecipa la pluralità di forze (di cause) da un lato e dall’altro che si traduce in una pluralità di esiti (di effetti)”. Il clima è un fenomeno che origina dallo scambio e dall’interazione tra i membri. Clima e soddisfazione lavorativa  Field e Abelson sostengono che clima e soddisfazione lavorativa siano in relazione tra loro, ma che non rappresentino lo stesso costrutto. “Il clima è una descrizione percepita dell’ambiente di lavoro [una percezione del mondo esterno], mentre la soddisfazione lavorativa rappresenta la risposta di valutazione affettiva delle persone in relazione ad aspetti del loro lavoro [uno stato emotivo interno]”.  Parker e colleghi rilevano una forte relazione sia con la soddisfazione lavorativa sia con gli atteggiamenti verso il lavoro e, attraverso questi aspetti, un aumento della motivazione e un miglioramento della performance. Entrambi sono concetti soggettivi che rientrano nell’ambito degli atteggiamenti, ma mentre il clima è una percezione prevalentemente descrittiva, la soddisfazione è una valutazione prevalentemente emotiva. È chiaro che si tratta di un rapporto correlazionale. Col tempo si è passati da un modello statico di clima, ad uno più dinamico, che si fonda sull’interazione come fonte principale del clima. Oggi non si parla più di clima ma di climi. Altri fattori in relazione col clima La rassegna di Kuenzi e Schminke analizza possibili antecedenti, mediatori-moderatori ed effetti del clima (generale o specifico) in relazione a diversi out come. In diversi studi emerge una relazione con... Antecedenti A livello individuale: caratteristiche individuali (genere, età, livello di istruzione, tenure), caratteristiche del ruolo, altri aspetti individuali (es. commitment); A livello di gruppo: aspetti strutturali (dimensione, eterogeneità), di processo (flessibilità, supporto) e culturali (es. collettivismo), leadership; A livello organizzativo: sistemi di governance, e supporto del managment verso alcuni aspetti di clima. Fattori di mediazione Di processo (es. conflittualità, strain); Comportamentali (es. OCB); Delle pratiche (es. chiarezza del ruolo, priorità degli obiettivi). Fattori di moderazione Forza del clima, ossia grado di coesione e condivisione della percezione tra i membri del gruppo; Caratteristiche individuali (di membri e leader); Caratteristiche dell’ambiente esterno (es. clienti); Cultura organizzativa (es. distanza di potere). Esiti A livello individuale: molti atteggiamenti: soddisfazione verso il lavoro (+), commitment organizzativo (+), intenzione di turnover (+), e alcuni comportamenti: OCB-cittadinanza (+). Meno chiara è la relazione con la performance individuale (?); A livello collettivo (gruppo/org): performance organizzativa (+) e assenteismo (-). Ricerche-intervento e politiche gestionali L’analisi del clima rientra nell’ambito delle action strategies. Ogni intervento deve risultare utile al cliente, e deve essere partecipatorio e condiviso. L’action research è un processo di ricerca all’interno del quale si ha equivalenza tra soggetto e oggetto di indagine e l’obiettivo è pervenire a un cambiamento attraverso il processo medesimo. La diagnosi del clima costituisce un positivo punto di innesco per il cambiamento. Attraverso l’action research possono essere ulteriormente chiariti gli elementi chiave dell’organizzazione. Principio fondamentale dell’action research è la partecipazione democratica, il ciclo continuo di analisi della situazione e riconcettualizzazione della stessa, attraverso due linee guida: il miglioramento e il coinvolgimento. L’analisi del clima costituisce per i membri dell’organizzazione il segnale che vi è una reale volontà politica di prestare la dovuta attenzione e di dare la debita importanza a tutti i componenti dell’organizzazione. In questo contesto è molto importante la figura del consulente di processo, che dovrà svolgere il ruolo di garante del rispetto delle regole, dell’anonimato e della trasparenza, oltre che dell’utilizzo Sarà necessario che i primi dati raccolti dall’analisi di clima (fotografia) possano essere confrontati con quelli che verranno raccolti in momenti successivi (altri fotogrammi). L’implementazione di un osservatorio permanente consentirà alle organizzazioni di disporre di dati certi e aggiornati. -CAPITOLO 8: : I gruppi di lavoro Oggi, gran parte delle imprese nasce grazie ad un team, e il successo dell’impresa dipende anche dalla competenza a lavorare insieme che le persone che compongono il gruppo possiedono. Infatti, il 65% circa delle nuove imprese ad alto potenziale fallisce per tensioni o problemi all’interno del team. Definizione di gruppo e lavoro di gruppo “Il gruppo è qualcosa di diverso dalla somma dei suoi membri: ha una struttura propria, fini peculiari, e relazioni particolari con altri gruppi. Quel che ne costituisce l’essenza è l’interdipendenza tra i suoi membri” (Kurt Lewin). Bisogna considerare il gruppo come un tutto, una totalità dinamica, un soggetto sociale organizzato in grado di generare comportamenti, pensieri, valori culturali ed emozioni propri, distinti da quelli dei singoli membri che lo costituiscono. Elemento chiave è l’interdipendenza tra i componenti, fenomeno per cui un cambiamento di stato di una parte del gruppo è in grado di influenzare lo stato di tutte le altre. Quaglino, Casagrande e Castellano propongono una concettualizzazione di gruppo di lavoro e di lavoro di gruppo. Il gruppo di lavoro è “una pluralità che tende progressivamente all’integrazione dei suoi legami psicologici, all’armonizzazione delle uguaglianze e differenze che si manifestano nel collettivo”. È soprattutto il raggiungimento della consapevolezza dei membri rispetto a quanto dipendono gli uni dagli altri, a trasformare un gruppo in un gruppo di lavoro. Questo passaggio è uno dei più importanti verso lo sviluppo in gruppo di lavoro. Il gruppo rappresenta quindi un insieme di persone in interazione fra di loro, in cui le azioni di un membro hanno un impatto su tutti gli altri. Il gruppo di lavoro è invece “un insieme interdipendente di individui che condividono la responsabilità di specifici risultati per la loro organizzazione, aventi capacità complementari, impegnate per uno scopo comune e per il raggiungimento degli obiettivi, e che condividono un approccio similare”. Ciò che caratterizza un gruppo di lavoro è la presenza di collaborazione, resa possibile da tre elementi:  La relazione di fiducia tra i membri, la quale permette che ciascuno si senta sicuro delle altrui capacità, così come dell’efficacia collettiva del gruppo;  La negoziazione continua, che tiene insieme le differenze e i diversi punti di vista al fine di elaborarne uno unico;  La condivisione delle decisioni prese e la loro concretizzazione in azioni volte al raggiungimento di risultati che ciascun membro del gruppo possa riconoscere come propri. Katzenbach e Smith enfatizzano l’elemento di impegno comune come tratto distintivo dei gruppi di lavoro. Gli autori individuano i seguenti passaggi come necessari a un gruppo per diventare un gruppo di lavoro:  La leadership diventa attività condivisa;  La responsabilità da individuale diventa sia individuale sia collettiva;  Il gruppo sviluppa uno scopo o una missione;  Il problem solving diventa un’attività full-time;  L’efficacia viene misurata dai risultati collettivi del gruppo. Il lavoro di gruppo è l’espressione dell’azione del gruppo di lavoro e prevede la pianificazione e lo svolgimento del compito da un lato, e la gestione delle relazioni tra i membri del gruppo, e tra il gruppo e l’organizzazione dall’altro. Queste due dimensioni dovrebbero essere indissolubilmente connesse, in quanto permettono al contempo sia il conseguimento degli obiettivi comuni, sia la soddisfazione dei bisogni individuali all’interno di relazioni sociali. Il gruppo di lavoro è caratterizzato da due fondamentali e interconnesse dimensioni: La dimensione del fare insieme legata all’operatività dinamica, all’agire con gli altri mettendo in campo piani di azione e svolgendo compiti in funzione del raggiungimento degli obiettivi attesi e condivisi. La dimensione dello stare insieme caratterizzata dalle relazioni tra i membri e dalle emozioni e dinamiche psicologiche che ne derivano. Tale dimensione è conseguenza della necessità umana di associarsi in gruppo per soddisfare bisogni che possono essere soddisfatti solo all’interno di relazioni con altri individui. Tipi di gruppo di lavoro in organizzazione Sundstrom e colleghi classificano i gruppi di lavoro in sei differenti tipi:  I gruppi action and performing affrontano le emergenze e le crisi (es. vigili del fuoco);  I gruppi advisory offrono consulenza (es. controllo della qualità);  I gruppi managment hanno compiti di gestione (es. il consiglio di amministrazione di una società);  I gruppi production si occupano della realizzazione di un prodotto/servizio;  I gruppi project sviluppano idee e sono spesso interfunzionali (es. esperti di produzione, marketing e vendite);  I gruppi service offrono assistenza e hanno l’obiettivo di garantire risultati di alta qualità in situazioni prevedibili e ripetute (es. assistenti di volo). Truxillo, Bauer e Erdogan distinguono tra gruppi:  Formali: vengono esplicitamente istituiti;  Informali: si formano in modo spontaneo. Infine, le task forces sono gruppi creati ad hoc in riferimento a uno specifico obiettivo, che smetteranno di esistere quando quell’obiettivo sarà stato raggiunto. Il gruppo di lavoro nella teoria psicologica Elementi di analisi di un gruppo che lavora Non è sufficiente riunire alcuni validi professionisti intorno a un compito o a un problema per ottenere un gruppo capace di produrre un risultato migliore di quello che avrebbero prodotto singolarmente. Obiettivo Variabile fondamentale in quanto giustifica e dà senso all’esistenza stessa del gruppo di lavoro. Per obiettivo si intende infatti l’espressione del risultati atteso dal gruppo di lavoro ed è quindi una sintesi dello scopo del gruppo stesso. Affinché il gruppo sia efficace è necessario che l’obiettivo sia chiaro e condiviso da tutti nonostante ciascun membro tenderà a darne una propria interpretazione. È quindi indispensabile che ogni gruppo di lavoro dedichi del tempo a chiarire l’obiettivo e a renderlo condiviso in modo che i membri lo percepiscano il più possibile vicino ai loro obiettivi individuali. Un obiettivo efficace deve essere SMART: S � � Specifico: preciso e non vago, se possibile quantificato M � � Misurabile: in che modo potrà essere misurato il raggiungimento dell’obiettivo A � � Attuabile: realistico e raggiungibile, in quanto obiettivi irraggiungibili riducono la motivazione R � � orientato al Risultato: in che modo l’obiettivo contribuisce al raggiungimento del risultato finale T � � legato al Tempo: i tempi dell’obiettivo, ossia la scadenza entro la quale deve essere raggiunto Metodo Il metodo è il modo di funzionamento del gruppo di lavoro, caratterizzato dai principi e criteri che guidano l’attività, e dalle modalità che strutturano e organizzano l’attività stessa. La definizione di un metodo di lavoro comune favorisce la tendenza all’uniformità, passando da una logica di pensiero e azione individuale a una di gruppo, sovraindividuale, riconosciuta dai singoli membri. Le principali attività per le quali è fondamentale che il gruppo di lavoro definisca un metodo di lavoro sono:  Analisi delle risorse e dei vincoli: le risorse rappresentano ciò che il gruppo può utilizzare per lo svolgimento del compito, e i vincoli rappresentano ciò che invece limita e condiziona il gruppo.  Discussione: dialogo e confronto tra i membri. Si deve essere in grado di favorire la partecipazione attiva di tutti e raccogliere e sintetizzare efficacemente le informazioni.  Decisione: anche in questo caso è bene darsi un metodo di decisione.  Pianificazione del tempo: il gruppo deve definire le azioni da mettere in campo e i tempi previsti per ciascuna di esse; è fondamentale una pianificazione del tempo seguita da costante monitoraggio.  Problem solving: ciascun membro porta nel gruppo diverse modalità di problem solving. Darsi un metodo nell’affrontare e risolvere i problemi permette di creare un modo di pensare che tenga insieme tali differenze verso un approccio di risoluzione comune. Ruoli L’insieme di comportamenti che ci si aspetta da parte di chi occupa una determinata posizione, assegnati a ciascuno in funzione del riconoscimento delle sue specificità. I membri portano infatti nel gruppo differenze di competenze e di esperienze. Il sistema di ruoli si basa sulla valorizzazione delle differenze presenti nel gruppo, al fine di generare innovazione e creatività e di permettere a ciascuno di esprimere se stesso. L’assegnazione dei ruoli deve essere fatta tenendo conto della coerenza con gli obiettivi e con i compiti, delle specifiche competenze delle singole persone e della loro motivazione a ricoprire quel ruolo. Alcune aree di un gruppo di lavoro richiedono di essere presidiate attraverso ruoli precisi:  Area del risultato, necessaria per garantire il raggiungimento degli obiettivi, generalmente presidiata dal ruolo del conservatore, colui che costruisce e mantiene la memoria del gruppo, e dal ruolo del realizzatore, colui che spinge alla concretezza.  Area del lavoro, nella quale si realizzano la coesione, la condivisione delle responsabilità e l’assunzione dei rischi, presidiata dal ruolo del metodologo, colui che orienta il problem solving e organizza il lavoro, e dal ruolo del negoziatore, capace di aumentare il livello di partecipazione e condivisione.  Area delle relazioni, dalla quale dipendono il clima e le possibilità di scambio e di espressione da parte dei membri, presidiata dal ruolo del comunicatore, colui che facilita la comunicazione, e dal facilitatore, colui che coinvolge i membri meno partecipativi.  Area della qualità, fondamentale affinché il gruppo possa produrre risultati condivisi orientati al miglioramento e all’innovazione, presidiata dal ruolo del creativo, che propone nuovi punti di vista, e dal ruolo dell’innovatore, che cerca nuove soluzioni a vecchi problemi. Comunicazione La comunicazione nei gruppi di lavoro può essere definita come un processo interattivo, informativo e trasformativo, grazie al quale si realizzano il dialogo e la struttura di relazioni tra le persone, avviene lo scambio di dati e informazioni, si generano innovazione e cambiamento. La comunicazione efficace in un gruppo di lavoro dovrebbe essere finalizzata agli obiettivi, trasparente e situazionale. Le componenti principali del processo di comunicazione sono:  Confronto e scambio, a livello sia di contenuto, sia di relazione;  Ascolto, reso possibile dalla fiducia e dalla consapevolezza del valore che la comunicazione di ciascun membro può avere per la soluzione del problema;  Esposizione, orientata a generare interesse, curiosità e coinvolgimento;  Feedback, ovvero dare o richiedere informazioni di ritorno. Clima In un gruppo di lavoro, si consolida un clima positivo, si sviluppa la fiducia, viene riconosciuto il valore del noi. Per clima si intende quell’insieme di elementi, sentimenti, percezioni dei membri che descrivono l’atmosfera che si respira nel gruppo. Alcuni indicatori sono:  Sostegno: descrive la fiducia di poter ricevere aiuto concreto, così come di ottenere le risorse e informazioni necessarie per lo svolgimento del compito;  Calore: riferito alla qualità delle relazioni e al grado di vicinanza tra i membri;  Riconoscimento dei ruoli: il livello di riconoscimento e accettazione delle differenze individuali;  Apertura e feedback: indicatori che si riferiscono alla possibilità di esprimere nel gruppo le proprie idee, di accettare il disaccordo come opportunità, di garantire ascolto e dare feedback chiari. Sviluppo Quando un gruppo si costituisce non esiste ancora una competenza cosiddetta gruppale, ma esistono i sistemi di competenza dei singoli membri che vengono utilizzati dal gruppo. Nel momento in cui evolve in gruppo di lavoro si avvia un processo di sviluppo che porta alla costruzione di un sistema di competenze autonomo del gruppo e, parallelamente, alla crescita dei sistemi di competenza individuali. Tale sistema di competenze comprende:  Le conoscenze del gruppo o cultura del gruppo, rappresentano il sapere che possiede o deve acquisire per lavorare efficacemente;  Le capacità più importanti di un gruppo di lavoro sono: quella strategica, quella innovativa, quella informativa e quella operativa;  Le qualità del gruppo di lavoro possono essere raggruppate in: qualità di sistema (insieme di attitudini che permettono al gruppo di vivere e svilupparsi come unità differenziata), qualità relazionali interne ed esterne, e qualità di azione (riferita alla modalità di lavoro). Leadership La leadership è capace di supportare aspetti sia strutturali (obiettivo, metodo, ruoli) e processuali (clima, comunicazione, sviluppo) nel gruppo di lavoro. La leadership ha la funzione di garantire sopravvivenza e crescita del gruppo stesso. Possono esserci diversi leader in un gruppo, detti leader funzionali, che si distinguono dal leader istituzionale che è invece in genere uno solo, formalmente scelto. Una delle teorie che si sono occupate di leadership è la leadership di servizio, che considera il leader e il gruppo come indistinguibili. Il leader infatti lavora con e non per il gruppo, stimola in coinvolgimento e le capacità di tutti, e la condivisione sia dei rischi sia dei successi. Il ciclo di vita di un gruppo Qualunque tipo di gruppo passa attraverso un ciclo di vita o sviluppo. Uno dei modelli che descrive questo processo è quello di Tuckman: 1. Forming: fase in cui il gruppo si forma e i membri si incontrano per la prima volta. Essi cominciano a comprendere il compito per il quale il gruppo è stato creato e a discutere le norme iniziali. La fiducia è bassa ma si cerca di evitare Dal gruppo alla squadra: una proposta research-based Quali sono le “buone pratiche” che consentono a un gruppo di lavorare con efficacia secondo le persone che quotidianamente spendono la loro vita lavorativa nelle aziende italiane? Una ricerca sul campo realizzata da Quaglino e Cortese individua quattro aspetti principali intorno ai quali si raccolgono le “buone pratiche”: l’obiettivo, il metodo, le risorse e i vincoli, il coordinamento. Tali aspetti costituiscono un’importante base di contenuti per la formazione orientata al team building e alla team performance optimization. L’obiettivo L’obiettivo risponde alla domanda fondamentale: “Perché siamo qui?”. È il traguardo da raggiungere, lo scopo da ottenere. È ciò che origina il gruppo, ma anche il suo punto d’arrivo, poiché una volta raggiunto l’obiettivo il gruppo non esisterà più, se non in funzione di un nuovo obiettivo. I gruppi efficaci sono consapevoli del fatto che ciò che istituisce il gruppo è l’espressione di una finalità. Nei gruppi reali si rileva per contro una resistenza rispetto alla definizione dell’obiettivo: viene dato per scontato, chi deve precisarlo non lo precisa perché gli appare superfluo, chi potrebbe chiedere chiarimenti non lo fa perché teme di essere l’unico a non aver capito. È compito di tutti far sì che l’obiettivo venga esplicitato, poiché il lavoro di gruppo potrà aver inizio solo quando tutti si rappresenteranno l’obiettivo allo stesso modo. Ci sono infatti delle situazioni in cui gli obiettivi individuali si assomigliano ma non sono realmente equivalenti. Solo con il passaggio dal “mio obiettivo” al “nostro obiettivo” i singoli individui diventeranno un gruppo di lavoro. Nel modello emerso dalla ricerca, la definizione dell’obiettivo è ciò che avvicina le parti creando la premessa per lo stabilirsi di relazioni. Un buon obiettivo è estremamente chiaro e tutti l’hanno compreso allo stesso modo. La chiarezza consente anche di aumentarne il grado di condivisione e di superare le resistenze rispetto ad essa. Il metodo Con il termine metodo si fa riferimento all’insieme di regole che i componenti del gruppo scelgono di utilizzare per governare le proprie azioni e relazioni. Tuttavia, i gruppi tendono ad occuparsi delle modalità di lavoro di tipo tecnico, ma non delle modalità di lavoro di tipo relazionale, cosicché le interazioni risultano disordinate e confuse, di conseguenza frustranti e fonte di conflitti interpersonali. L’azione che intraprendono i gruppi efficaci ha dunque a che fare con la scelta delle modalità di interazione, sollecitata da domande quali: “Come lavoriamo insieme?”, “Come ci parliamo?”, “Chi comincia?”. Nella realtà i gruppi spesso non si occupano di questa scelta, talvolta poiché credono che il miglior metodo di interazione emergerà spontaneamente, talora perché ritengono equivalenti i differenti metodi. Ma il metodo migliore richiede un’attenzione consapevole, e nessun metodo può sostituirsi a un altro: per esempio, ben diverso è affrontare creativamente un problema (compito che probabilmente richiede un momento iniziale di brainstorming) dal delineare il quadro della situazione (compito che richiede invece la presentazione di informazioni da parte di chi le possiede). Ma ancora più spesso il nemico è l’ansia di fare: il gruppo che ha fretta, è un gruppo in cui probabilmente ciascun componente si sente autosufficiente e migliore degli altri, e dunque non si pone il problema delle relazioni interpersonali. L’ansia di fare è spesso associata a un sentimento narcisistico di sopravvalutazione di sé e svalutazione degli altri, che porta a percepire gli altri membri come un ostacolo piuttosto che una risorsa. In assenza di un metodo il gruppo continuerà ad essere una “somma di singoli”. La formazione del “noi” necessita dello stabilirsi di una rete di relazioni, passaggio che è possibile solo in presenza di un metodo, segnando la transizione dall’” essere ” al “ fare ” . Le risorse e i vincoli Per essere in grado di raggiungere il proprio obiettivo i gruppi hanno bisogno di un insieme di risorse, per esempio le competenze dei membri del gruppo, l’ambiente di lavoro, gli strumenti. Allo stesso modo, è necessario che siano stati chiaramente individuati i vincoli da tenere in considerazione, per esempio il tempo a disposizione, le regole da rispettare e i protocolli da seguire, il budget massimo. I dati di ricerca hanno evidenziato che un ostacolo che frequentemente frena l’efficacia dei gruppi non è l’insufficienza di risorse, bensì il mancato utilizzo delle risorse che il gruppo possiede. Spesso nei gruppi qualcuno afferma: “Non possiamo farlo perché non abbiamo i mezzi!”, ma si tratta di un autoinganno, poiché le risorse ci sono, ma il gruppo non ne è consapevole, oppure non è in grado di utilizzarle. Allo stesso modo, ci sono gruppi che incorrono in un errore legato al mancato rispetto dei vincoli. Anche in questo caso è il gruppo – deliberatamente o inconsapevolmente – a non volerli individuare, pur essendo in grado di farlo. I gruppi efficaci dimostrano una grande consapevolezza a proposito delle loro risorse e dei loro vincoli: in questo modo la probabilità che il gruppo abbia successo risulta superiore. Il coordinamento Il coordinamento non è una tappa, ma un presidio da mantenere attivo per tutto il divenire del lavoro del gruppo. Fare coordinamento significa:  Ancorare l’obiettivo: nel corso del lavoro di gruppo si può perdere di vista l’obiettivo. In queste occasioni fa coordinamento chi ricorda l’obiettivo, lo rende nuovamente chiaro e visibile a tutti.  Garantire il metodo: garantire il metodo significa proteggerlo dagli “assalti” che di volta in volta potranno portare ai membri il desiderio, ad esempio, di essere rapidi, promuovendo la convinzione che solo l’azione progettata è in grado di portare al risultato.  Padroneggiare risorse e vincoli: fare coordinamento significa promuovere la consapevolezza su risorse disponibili e vincoli, per comprendere se si tratta di condizioni sufficienti per rispondere positivamente alle richieste dell’organizzazione o se è necessario ottenere maggiori risorse ed eliminare alcuni vincoli. È importante distinguere tra il coordinamento, che è l’azione del coordinare ed è una funzione che non può mancare, e il coordinatore, colui che fa coordinamento, che è un aspetto secondario. Infatti, se c’è il coordinamento il gruppo funziona, se c’è unicamente il coordinatore non è detto che sia in grado di fare coordinamento. In questo senso, tutti i componenti del gruppo possono assumere il ruolo di coordinatori. Evoluzioni e sfide Gruppi autogestiti I gruppi autogestiti sono gruppi di lavoratori ai quali vengono riconosciute autonomia e controllo nella supervisione gestionale del loro lavoro e delle loro attività, rendendoli supervisori di se stessi, affidando loro diverse tradizionali funzioni di management. Generalmente questo tipo di gruppi ha come riferimento un leader esterno che non interviene nelle attività e decisioni del gruppo ma ne facilita l’autogestione. Vantaggi Aumento di produttività e di qualità dei risultati; migliore qualità della vita lavorativa; riduzione di assenteismo e turnover. Svantaggi Tale tipologia di gruppo spesso fallisce, spesso a causa del leader che potrebbe essere troppo coinvolto nelle attività del gruppo. Gruppi virtuali Il gruppo virtuale di lavoro è un gruppo di persone accomunate da un obiettivo comune che lavorano insieme pur essendo distanti da un punto di vista geografico, organizzativo e/o temporale, attraverso il supporto di tecnologie di informazione e comunicazione. È però importante garantire, soprattutto nelle prime fasi di vita del gruppo, periodici momenti di interazione in presenza, al fine di incrementare la coesione, la fiducia, il commitment, la comunicazione e il senso di responsabilità. Vantaggi La flessibilità e l’efficienza rese possibili dal focus sulle informazioni e sulle capacità dei membri più che sulla localizzazione e sul tempo; il risparmio economico su viaggi e spostamenti; la possibilità di coinvolgere esperti da ogni parte del mondo; lavorare su un progetto per ventiquattro ore al giorno sfruttando i diversi fusi orari. Svantaggi L’assenza o la scarsità di scambi in presenza; un difficoltoso esercizio della leadership da parte dei manager. Gruppi transculturali Nei gruppi transculturali sono riunite persone provenienti da diverse zone geografiche, portatrici quindi di culture a volte molto diverse tra loro. Vantaggi Le esperienze multiculturali favoriscono lo sviluppo di apertura mentale e la capacità di generare approcci diversi al problem solving, oltre ad aumentare la creatività nel gruppo. Svantaggi La diversità culturale migliora le prestazioni del gruppo solo nel caso in cui vengono superati i pregiudizi e la chiusura mentale che le differenze culturali possono generare, riconoscendole come valore aggiunto. CAPITOLO 9: Capitolo 9: la leadership Nella difficile operazione di individuare una definizione di leadership, Bass riprende le formule più ricorrenti: leadership come dimensione della personalità, strumento per raggiungere risultati, determinante dei processi di gruppo, esercizio di influenza e persuasione, arte di avere seguito. Sintetizzando questi elementi si può affermare che la leadership è “l’azione di avere seguito e conseguire risultati”, è quindi centrale la relazione coi follower. Nei contributi recenti la leadership sembra essere sempre più caratterizzata da trasparenza, integrità, fiducia e giustizia, come emerge nella leadership autentica. Un tema soggetto a discussioni è la distinzione tra leadership e management, termini spesso considerati intercambiabili, ma che molti riconducono a significati nettamente distinti, la cui compresenza è necessaria per il successo organizzativo. Mentre la leadership è una relazione di influenza tesa a realizzare cambiamenti significativi, il management è una relazione di autorità finalizzata a produrre e vendere beni e servizi, come esito di un’attività coordinata. Teorie del “grande uomo” ->Tratti motivazionali ed abilita sono gli elementi distintivi dei primi studi, in cui vi è la convinzione che queste siano caratteristiche di leadership sostanzialmente stabili. Gli approcci del “grande uomo” si concentrano su quei leader con elevato livello di popolarità, base di queste teorie è la convinzione che esistano persone con tali caratteristiche che sono “leader naturali”. Le caratteristiche considerate sono: lealtà, socialità, autostima, prontezza, adattabilità, estroversione, mascolinità, dominanza e conservatorismo. Stogdill e Mann credono che il valore della personalità nel rendere conto della riuscita di un leader sia limitato, mentre la compatibilità tra la personalità del leader e quella dei follower può giocare un ruolo decisivo. Considerazioni successive affermano invece che l’efficacia dei tratti debba essere posta in relazione con la specificità della situazione. Studi recenti segnalano invece l’importanza dell’estroversione. Approccio basato sul comportamento ->Lewin, Lippitt e White approfondiranno l’influenza dello stile di leadership sul comportamento del gruppo, sia in relazione al clima affettivo che riguardo alla realizzazione dei compiti. In una ricerca veniva chiesto a degli adulti di esercitare una leadership autocratica, democratica o laissez-faire con 3 diversi gruppi di bambini. Il leader autocratico tende a centralizzare l’autorità ed esercita il potere attraverso il controllo, le ricompense e la coercizione; un leader democratico delega l’autorità, incoraggia la partecipazione e si affida ai follower, il suo potere dipende dal rispetto dei collaboratori; lo stile laissez-faire fa riferimento alla tendenza del leader alla passività, evita di agire proattivamente ed interviene solo se esplicitamente richiesto dal gruppo. E’ risultato che nella leadership autocratica la prestazione è migliore solo quando il leader è presente, in quella democratica la prestazione era invece qualitativamente migliore, anche quando il leader non era presente, e l’affettività del gruppo appariva positiva. Likert (università Michigan) -> mette a punto un questionario, la Survey of Organization, individuando due stili di leadership: centrato sul lavoro (job-centered) e sulla persona (employee-centered). In un’ulteriore espansione Likert individua poi 4 stili, per cogliere le diverse sfumature dell’atteggiamento: autoritario minaccioso, autoritario benevolente, consultativo e partecipativo. Stogdill (Ohio) -> mette a punto il Leader BehaviourDescriptionQuestionnaire(LBDQ), da cui emergono due dimensioni principali della leadership efficace: 1) Comportamento di realizzazione, teso alla realizzazione del compito 2) Comportamento di sostegno, teso al riconoscimento dei bisogni dei collaboratori ed allo sviluppo di relazioni. Dall’intreccio di queste due dimensioni emergono 4 stili di leadership, ai cui estremi ci sono Leader orientati alla realizzazione del compito e poco attenti alle persone (comunicazioni unidirezionali) e leader molto attenti alle persone e meno alla realizzazione del compito (bidirezionali – condivisione decisioni) Approccio Situazionale ->lo schema di leadership di Tannenbaum e Schmidt è l’esempio migliore di questa tendenza: il continuum della leadership rappresenta una descrizione degli stili di decisione del capo in relazione alle dimensioni dell’uso dell’autorità e della discrezionalità concessa ai subordinati. Ai due estremi avremo una leadership centrata sul capo ed una centrata sui subordinati; nel modello lo stile centrato sui subordinati è quello che permette di raggiungere più obiettivi: aumenta la motivazione, la capacita dei collaboratori, migliora la qualità delle decisioni e sviluppa il lavoro di gruppo. Il modello è attento anche ai dati situazionali, in particolare evidenzia 3 elementi che possono orientare la scelta dello stile: i manager, ognuno con un’idea precisa della “leadership appropriata”, le caratteristiche dei collaboratori, la situazione (-> il contesto). Altri fattori situazionali di influenza sono dimensione del gruppo di lavoro, dispersione geografica dei collaboratori e loro preparazione, riservatezza delle tematiche affrontate e pressione temporale. In un contributo successivo Blake e Mouton costruiscono una griglia manageriale che segnala il legame tra leadership e cambiamento e favorisce la selezione dello stile di azione che può meglio sostenere la tensione verso il futuro. Questo modello oscilla tra la dimensione di interesse per la produzione e quella di interesse per le persone, misurandole con un questionario sono emersi 5 stili di leadership: 1) Leader debole (1.1) ->punteggi bassi su entrambe le dimensioni 2) Stimolazione Intellettuale ->la via per dare energia 3) Motivazione Ispirazionale ->dare un significato al lavoro, delineando sfide per il futuro ed obiettivi 4) Influenza Idealizzante ->attenzione alla fiducia, essere un modello in cui i collaboratori si identificano La leadership trasformazionale è molto influente non solo nelle ricerche, ma anche in contesti organizzativi reali, dove è un riferimento per l’assessment, oltre che un obiettivo per i programmi di formazione. Si aggiungono poi altri elementi per definire la leadership trasformazionale, andando sempre più verso la leadership empowering: costruzione di significato e coinvolgimento attraverso la fiducia, cultura come elemento che la leadership può creare e modificare, il cambiamento, che va anticipato e consolidato e l’apprendimento, da stimolare e promuovere. Leadership Empowering e Team leadership ->La caratteristica più significativa dei contributi recenti è il passaggio a relazioni ispirate all’empowerment, diventato tema cruciale in quanto sempre più persone reclamano maggiore potere, partecipazione e coinvolgimento a diversi livelli, è quindi evidente che dinamiche di rigido controllo siano controproducenti sul piano motivazionale. L’empowering è un obiettivo ed una dimensione trasversale del ruolo di leader e serve a favorire l’assunzione di responsabilità da parte dei collaboratori, attraverso la condivisione del potere, la promozione di partecipazione e creatività e la non penalizzazione degli errori (-> opportunità di cambiamento). Alla leadership viene chiesto di essere empowering attraverso alcuni comportamenti: fornire informazioni puntuali e continue sulla prestazione, fare in modo che si apprendano conoscenze e competenze adeguate, dare il potere di prendere decisioni significative, aiutare a comprendere il significato e l’impatto del proprio lavoro, riconoscere i contributi dei collaboratori ai risultati dell’organizzazione. Dunque il compito principale del leader è accompagnare nel processo di apprendimento del proprio potere, chiarendo come usarlo consapevolmente (leader = esperto nell’uso del potere). In una recente meta analisi viene segnalata l’importanza della leadership empowering per l’apprendimento di gruppo, il ruolo del leader nel determinare la produttività di quest’ultimo è fondamentale anche per i comportamenti volti al raggiungimento degli obiettivi. La leadership empowering può essere promossa attraverso azioni formative rivolte al leder. Per quanto riguarda la team leadership, essa si fonda su un insieme di comportamenti: riconoscere i bisogni individuali e di gruppo, identificare i punti di forza, consolidare la fiducia, sviluppare la capacita di affrontare i cambiamenti, condividere le responsabilità, ispirare e motivare il team, riconoscere i risultati raggiunti. Leadership Autentica ->l’interesse per questo tipo di leadership è cresciuto come reazione alla paura e all’insoddisfazione associate ai cambiamenti sociali, ai fallimenti e alla crisi con i suoi correlati di incertezza e disagio. La leadership autentica fornisce speranza nei contesti di lavoro rispondendo al bisogno di figure responsabili e leader capaci di mostrare integrità, trasparenza, coraggio ed ottimismo. Elementi essenziali di questa leadership sono autoconsapevolezza (di valori, identità, obiettivi) ed autoregolazione del leader (analizzare discrepanze tra risultati attuali ed attesi ed identificare azioni per ridurle). L’espressione di una leadership autentica si esprime attraverso azioni fondamentali come: possedere un capitale psicologico ed una prospettiva morale positivi, guidare attraverso l’esempio, sostenere consapevolezza ed autoregolazione dei follower e promuovere il loro sviluppo, avere obiettivi di prestazione sostenibili. Per quanto riguarda il contesto organizzativo, questo deve essere caratterizzato da accesso alle informazioni, disponibilità di risorse, supporto percepito ed eque opportunità; occorre che si inneschi un circolo vizioso in cui la leadership autentica promuove un clima organizzativo inclusivo che a sua volta genera una relazione autentica tra leader e follower, in questo modo la leadership autentica promuove capacita psicologiche ed un clima etico positivo, favorendo uno sviluppo autonomo dei collaboratori. I leader autentici agiscono in base ai propri lavori e non nascondono i loro punti di debolezza, promuovendo la fiducia nei collaboratori attraverso un meccanismo di self-disclosure, relativo ai punti sia di forza che di debolezza: ciò si traduce nella possibilità di affrontare in modo coerente situazioni e problemi. I leader autentici sono più coinvolti con l’organizzazione ed hanno collaboratori più partecipi, fiduciosi e soddisfatti. Leadership e Ombra ->Il nodo del potere (=aspetto umbratile) diventa centrale in alcuni momenti del ciclo di vita lavorativo, ad esempio nella “sfida della successione”. Secondo Conger il lato oscuro è composto soprattutto dal senso di onnipotenza e dall’eccesso nel potere, che ha conseguenze sul gruppo di lavoro: relazioni contraddistinte da rivalità, soprattutto all’interno del gruppo c’è molta tendenza a prevalere, a livello interpersonale manca l’attenzione verso l’altro ed il leader tende ad essere autocratico o molto informale; la visione rispecchia i bisogni egoistici del leader e non le necessita dell’organizzazione; nella comunicazione i toni sono eccessivi ed i tentativi di manipolazione sono frequenti, le informazioni sono distorte (omesse quelle negative). Secondo i contributi psicodinamici sulla leadership, l’aspirazione al potere o la fuga da esso sono riconducibili alle prime esperienze infantili e per comprendere la leadership bisogna fare attenzione ad alcuni elementi centrali: 1) Il potere, certato o evitato, è radicato nelle prime esperienze infantili 2) La redazione leader-follower è analoga al transfert, vengono ripetute le relazioni con le figure parentali 3) Il narcisismo è l’elemento fondamentale della leadership ed implica il rischio della chiusura, del travisamento dei dati, dell’instaurazione di protezione reciproca leader-follower 4) La perdita di potere può essere vista come una “non esistenza” (imprese familiari) 5) Le fantasie dei follower circa l’onnipotenza/accoglienza del leader co-costruiscono la relazione di leadership Studiare le dinamiche di potere è importante per limitare il lavoro dell’ombra e per consentire ai leader di lavorare con l’ombra, quindi con le difficoltà di ciascuno ma anche con la tossicità dell’organizzazione, che il leader deve gestire attraverso un continuo esercizio di equilibrio, che si declina nella capacità di: gestire il disagio dei collaboratori di fronte a richieste/sfide, fare attenzione alla conciliazione lavoro-vita, ascoltare e dare feedback ai collaboratori, trasmettere sicurezza e contenere le ansie esercitando la capacità negativa. Conclusioni ->La principale differenza che separa una prima fase di studio (fino alla leadership situazionale) da una seconda fase (da leadership transazionale a leadership autentica) è il passaggio da una visione della leadership in cui la relazione serve solo al raggiungimento degli obiettivi ed i follower sono l’elemento “debole, verso un teoria in cui l’azione del leader è pensata in termini di consapevolezza, sviluppo, sostegno, apprendimento e crescita del follower. Gli sviluppi più recenti mettono al centro la fiducia nella relazione leader-follower, per poi articolare la complessità della leadership nelle sue espressioni distintive di sfida e guida. CAPITOLO 10: LA FOLLOWERSHIP (CAPITOLO 10) Secondo Kelley nelle diverse fasi della carriera e nei diversi momenti di una giornata di lavoro, la maggioranza dei manager ricopre sia il ruolo di follower che di leader, raramente in modo ugualmente efficace. La followership domina le organizzazioni ma la nostra preoccupazione per la leadership ci impedisce di considerare l’importanza dei follower. Questo capitolo tratterà la letteratura sulla followership organizzativa, sintetizzerà i risultati degli studi più rilevanti e presenterà gli strumenti di ricerca, rilevanti soprattutto nei processi di formazione volti allo sviluppo di una followership efficace. Cosa si intende per followership ->Il termine si riferisce al fatto di seguire passivamente, senza avere il coraggio di percorrere la propria strada, e di avere uno status inferiore (connotazione negativa); per contro il verbo to follow fa riferimento ad un’azione diretta ed intenzionale, il suffisso ship rimanda invece ad un processo: il movimento volontario di qualcuno che vede il percorso intrapreso da qualcuno altro e decide di seguirlo. La leadership e la followership si definiscono a vicenda, nessuno dei due può esistere senza l’altro (-> si può fare da guida solo se qualcuno ci segue e viceversa), ciò che si trova alla base di questi due concetti è quindi la relazione. In base a queste considerazioni il follower non dovrebbe essere considerato come il subordinato nell’organigramma, ma quasi sempre è egli stesso leader e sceglie se e come essere anche seguace (-> scelta individuale). Ci sarà una followership che è solo subordinazione di una leadership che è solo comando, come ci sarà una followership esemplare che è relazione con una leadership evoluta: un leader che si preoccupi che qualcuno lo stia ancora seguendo ed un follower in grado di aiutare durante il percorso, criticando in modo costruttivo e proponendo nuove vie. Una followership attiva può offrire spunti di crescita sia al leader (confronto e delega) che al follower (sviluppo empowering -> valorizzare per fare crescere). All’interno di una buona relazione il leader cede potere invece di accentrarlo, il follower accetta di assumersi responsabilità. Alla base del legame leader-follower ci sono 3 aspetti centrali: - E’ un rapporto reciproco e complementare - Implica asimmetria nella relazione - Compiono azioni guidate verso un obiettivo comune In generale è necessario che ci sia collaborazione! Followership in letteratura ->In contesti organizzativi che si trovano a fronteggiare cambiamento ed instabilità sono necessari sia un leader in grado di elaborare strategie per farvi fronte, che dei follower che possano fornire conforto e confronto. Questo tema è importante per 3 ragioni: 1) Bisogno di definire la followership e la sua relazione con la leadership, chiarendone la dinamica di interdipendenza -> cosi si delinea il profilo di una followership che può essere proattiva, che accoglie l’influenza che viene dall’alto ma è anche in grado di esercitarla verso l’alto, supportando il leader. 2) Necessita di chiarire la relazione tra followership ed altre variabili organizzative, soprattutto prestazione e benessere a livello sia individuale che organizzativo. In uno studio di Agho è emerso che il 99% dei manager pensa che una leader e follower efficaci influenzino positivamente la qualità dei risultati, la soddisfazione e la coesione del gruppo. 3) Importanza di tradurre il discorso teorico-scientifico in linee guida per azioni capaci di promuovere dinamiche positive di followership (attenzione particolare per il processo di formazione). Shamir ed il ruolo dei follower ->Shamir ha descritto il cambiamento di prospettiva rispetto ai subordinati, analizzando come questi sono concepiti nelle diverse teorie sulla leadership; egli riconduce i diversi approcci a 5 categorie a seconda del ruolo che questi assegnano ai follower: 1) Destinatari dell’influenza del leader: questa categorie include le teorie tradizionali, che si concentrano sui tratti del leader efficace, sulle sue caratteristiche, competenze ed azioni. Un comportamento del leader influisce sui follower che, condividendo la visione del leader, si sentono più coinvolti nell’organizzazione. In queste teorie dunque i follower non avrebbero un ruolo attivo. 2) Moderatori dell’impatto dei leader: le teorie di questo gruppo ammettono che alcune caratteristiche dei collaboratori (competenza, motivazione, atteggiamenti) possano esercitare un’influenza sullo stile del leader. Appartengono a questo gruppo le “teorie della contingenza” (es. leadership situazionale -> tiene conto delle caratteristiche dei follower). 3) Sostituti nella leadership: comprende le teorie per cui i follower possono fare a meno dei leader, soprattutto se sono ben addestrati, hanno esperienza e conoscenze specifiche del lavoro, sono altamente motivati ed hanno interiorizzato norme che consentono di raggiungere alti livelli di performance. 4) Costruttori della leadership: i follower hanno un ruolo centrale ed esplicito in quanto sono loro a generare la leadership. Questo può avvenire ad esempio nei periodi di crisi, quando i follower tendono a idealizzare il leader, reagendo ad una sua “immagine” (non ai suoi comportamenti effettivi), in grado di dare sicurezza e ridurre l’ansia (meccanismo di proiezione). 5) Follower come Leader: teorie che parlano della leadership come di un processo diffuso (dispersed), di una funzione che può essere assunta a rotazione dai vari membri del gruppo. Crossman e Crossman -> La loro classificazione riguarda la “followership di per se’” e non in relazione con la leadership. Gli autori affermano che un primo insieme in teorie sia caratterizzato da individualizzazione e leader- centricità, adottano una prospettiva in cui la leadership è top-down, studiano quindi il leader e le sue caratteristiche uniche ed eccezionali (categoria sovrapponibile alle prime 2 di Shamir). Nel secondo insieme la prospettiva dei follower diventa più rilevante, esso comprende i lavori che adottano un approccio bottom-up, il quale esamina le prospettive dei follower su quello che rende i leader efficaci o inefficaci, e la teoria del Leader Member Exchange (-> contributi comunque focalizzati su leadership). Il terzo insieme riguarda invece gli studi in cui la leadership è considerata condivisa, collaborativa o collettiva, tutti questi studi fanno riferimento alla decentralizzazione del potere. In questa categoria si riconosce che possono esserci più leader che emergono informalmente, c’è quindi una combinazione di interdipendenza formale e informale tra leadership e followership (include anche il tema “sostituti della leadership” e “comportamenti e competenze comuni a leadership-followership). L’ultimo insieme riguarda la followership intesa come processo qualitativamente diverso dalla leadership. 3) Implementer (alto supporto bassa sfida) ->si limita ad eseguire ciò che gli viene chiesto dal leader 4) Partner (alto supporto alta sfida) ->costituisce frequenti occasioni di stimolo e sfida intellettuale per il leader, è in grado di supportarlo ma anche di criticarlo se necessario (rapporto di partnership) Si possono far rientrare negli approcci prescrittivi anche quei contributi che fanno riferimento ai comportamenti necessari per una followership efficace, capace di esercitare quell’influenza reciproca che fonda la relazione di leadership. Tra i comportamenti identificati da questi contributi alcuni sono riferibili alla dimensione del supporto(sostegno al capo e confronto diretto); altri comportamenti fanno riferimento alle dimensioni dell’iniziativa e del comportamento proattivo (contrastare il leader, assumere decisioni, anticipare richieste del capo); altri sono riconducibili all’accettazione del ruolo (accettare la responsabilità); altri infine si riferiscono alla dimensione della comunicazione efficace col leader (tenerlo informato, dirgli la verità, fare da portavoce ai colleghi). Teorie Situazionali ->Include le teorie che descrivono la follower ship in relazione al contesto in cui la relazione follower-leader prende forma. Secondo Wortmane’ più probabile che i follower siano creativi ed indipendenti se l’organizzazione promuove questi atteggiamenti. Thompson, Morris et al. hanno proposto un modello integrato derivante dal match tra il modello sulla leadership situazionale e quello di Kelley sugli stili di followership, per fare ciò è necessario associare i quadranti in modo da massimizzare il potenziale dei diversi stili di leadership e followership: uno stile partecipativo sembra adattarsi a follower alienati; uno stile selling migliora l’efficacia di follower passivi, cosi come quello telling potrebbe potenziare collaboratori conformisti. Istituire collegamenti tra i costrutti di leadership e followership è importante perché le persone si muovono quotidianamente da un ruolo all’altro! Alla ricerca di una definizione univoca ->Anche se connessa alla leadership, la followership è un processo qualitativamente diverso. Ma qual’e’ il nucleo essenziale del concetto di followership e cosa descrive l’essenza di “ciò che fanno i follower quando seguono”, 3 gli elementi ricorrenti nelle concettualizzazioni 1) Asimmetria in termini di potere ->connesso alla problematica sottostante alla gerarchia nell’organizzazione, quella del potere, una proprietà che dipende dalle relazioni e dal contesto e si esplica in una differenza tra gli attori nel controllo delle risorse; produce un legame di interdipendenza tra chi lo esercita e chi è il destinatario. “I comportamenti prototipici di followership concernono una qualche forma di deferenza al leader, scomparsa questa scompare la leadership (e la followership), quindi la followership deve necessariamente confrontarsi con tale asimmetria, indipendentemente dallo stile di leadership, sia questa gerarchica o condivisa, una parte del potere spetta al leader ed una minore ai follower, che devono imparare a partecipare in modo efficace a dispetto di questo squilibrio. Carsten circoscrive il concetto di followershipproprio in base a tale differenza di ruoli: i comportamenti di followershipvengono messi in atto dagli individui nella relazione con il loro leader, la letteratura sulla followership cerca quindi di conciliare gli aspetti di asimmetria e disparità che aumentano la distanza tra leader e follower da un lato, con la possibilità di influenza e scambio che, dall’altro, dovrebbero riequilibrare parzialmente i dislivelli: la deferenza dei follower verso i leader può essere costruita basandosi su forti differenze di status o considerandosi partner, co-follower e co-leader. In una relazione sbilanciata a favore del leader disposizioni individuali come il coraggio possono risultare grandi equilibratori di potere. 2) Condivisione tra leader e follower di un obiettivo comune -> secondo alcuni autori è grazie all’esistenza di una meta comune che la relazione può strutturarsi in modo più equilibrato, in quanto il suo raggiungimento implica garantire un impegno protratto ed attivo nella condivisione di valori fondamentali. 3) Possibilità di esercitare un’influenza sul leader ->leadership e followership sono concepibili al meglio come ruoli in relazione: relazione in cui la followership è in grado di costruire, arricchire ed ispirare la leadership. La followership più efficace e positiva è assimilabile ad una partnership, nella quale persone competenti si uniscono per raggiungere ciò che non potrebbero conseguire da sole. Se l’organizzazione ed il leader lo consentono, l’influenza può essere esercitata da entrambi i ruoli come parte di uno scambio sociale (-> influenza reciproca); il follower può usare come fonte di potere ed influenza il proprio commitment e la propria competenza, in modo tale che il leader e l’organizzazione non desideri perderlo. Queste capacita di scelta ed influenza del follower può portare, in positivo, ad iniziative di whistleblowing (followership responsabile) ed in negativo a dinamiche disfunzionali leader-follower. I leader infatti potrebbero essere condotti fuori strada proprio dai follower, rischio che investe ogni tipo di leadership e che, paradossalmente, è più concreto per il “buon leader”, che attraverso la condivisione di progetti ed obiettivi e la delega, rende i seguaci più consapevoli ed empowered. Può però coinvolgere anche il leader carismatico, circondato da flatterer followers (adulatori) che possono manipolare e deformare informazioni e notizie, ingannandolo. I follower adulatori potrebbero essere più ascoltati di altri e rinforzare le eventuali tendenze narcisistiche del leader (ama chi lo ama), con conseguenze negative per il gruppo e l’organizzazione. Il problema più serio in questo caso è la possibilità che tali dinamiche isolino il leader dalla realtà circostante e dalle cattive notizie, dandogli un’illusione di benessere e buon comando. Esistono definizioni di followership che integrano tutti questi aspetti, ad esempio: la followership è l’abilita degli individui di seguire in modo proattivo e competente le istruzioni e supportare gli sforzi del loro superiore per raggiungere gli obiettivi organizzativi. Gli studi sul campo ->Ad oggi i lavori di ricerca sulla followership sono pochi ma in aumento; è possibile distinguere tra lavori a carattere esplorativo (metodi qualitativi) e ricerche quantitative. Ricerche qualitative ->in tutti i lavori è presente la finalità di individuare le dimensioni attorno alle quali si costruisce l’idea di una buona o cattiva followership (base empirica -> narrazioni-linguaggio quotidiano). BERG ha chiesto di descrivere il follower esemplare pensando a casi celebri in campi diversi (letteratura, mitologia, politica..), sono emerse 4 declinazioni di followership esemplare: second in command, sidekick, partner e group (followership collettiva -> interazione di più individui col leader). CARSTEN voleva invece decostruire il significato della followership, il suo studio prevede una classificazione delle qualità e dei comportamenti emersi dai resoconti di 31 follower intervistati in 12 categorie sull’efficacia della followershipe 4 categorie riguardanti le influenze contestuali più importanti (tra cui influenze del clima di lavoro, del contesto gerarchico e burocratico ed influenze della leadership empowering-supportiva-autoritaria). Gli autori descrivono inoltre le rappresentazioni sociali della followership come distribuite lungo un continuum passivo-attivo-proattivo. Lo studio di Syè a metà tra l’approccio qualitativo e quello quantitativo, egli utilizza una metodologia integrata per esplorare le ImplicitFollowership Theories (IFTs), definite come le “assunzioni personali rispetto ai tratti ed ai comportamenti che caratterizzano i follower”. La sua indagine verte sulle rappresentazioni dei capi rispetto ai loro collaboratori. A partire dai contenuti raccolti Sy declina le IFTs in una struttura composta da 6 fattori, gli aspetti positivi sono industriosità, entusiasmo e buona cittadinanza (Followership Prototipe), quelli negativi sono conformismo, insubordinazione e incompetenza (FollowershipAntiprototype). Ricerche Quantitative ->Alcuni studi si sono proposti di individuare gli antecedenti di uno stile di followership efficace, considerando sia la relazione leader-follower che la possibile influenza di fattori di personalità. Tanoff e Barlow utilizzano la Leadership Personality Survey per indagare la leadership e la seconda scala di Kelley per la followership, concludendo che collaboratori con Indipendent Critical Thinking (ICT) ed Active Engagement (AE) elevati presentano caratteristiche di personalità simili ai leader efficaci, soprattutto riguardo all’orientamento alla riuscita. Mushonga e Torrancehanno invece studiato la relazione tra le 2 dimensioni della followership di Kelley ed i fattori del Big Five, rilevando una relazione positiva solo tra le due dimensioni e la coscienziosità e tra ICT ed estroversione. Gatti et al. analizzano invece alcuni antecedenti del Follower’sactive engagement (AE) osservando che adottare strategie di coping di tipo evitante diminuisce l’AE, mentre gli OCB accrescono il coinvolgimento attivo dei follower, al contempo chi tende ad aiutare colleghi e l’organizzazione tende ad essere un follower altamente engaged. AE è connessa a molte variabili di interesse, ad esempio si potrebbe analizzare se il tra il legame AE-OCB si possa innescare un circolo virtuoso che l’organizzazione potrebbe alimentare; un lavoro analogo analizza anche gli antecedenti del pensiero critico indipendente (ICT) e conferma l’impatto negativo delle strategie di coping evitante e quello positivo degli OCB. Inoltre più il capo viene percepito come rappresentativo dell’organizzazione (-> coerente con i suoi valori) più cresce l’active engagement del follower. Gatti, Ghislieri e Schyns -> usano una scala da loro sviluppata per analizzare l’obbedienza/deferenza dei follower e l’espressione di opinioni legate al lavoro (comportamenti followership efficace Carsten) -> tra le variabili personali l’affettività positiva accresce entrambi, tra quelle legate al lavoro il leader-memberexchange (LMX) ha una relazione positiva con entrambi i comportamenti, mentre la significatività percepita del lavoro aumenta l’obbedienza ma non l’espressione di opinioni. L’influenza dell’LMX viene moderata dalla durata della relazione col capo (+ influente in relazioni brevi). Insieme alle caratteristiche personali dei follower, la qualità della relazione col capo è un antecedente importante dei comportamenti dei followership, l’organizzazione dovrebbe prestargli attenzione ed intervenire attraverso interventi formativi, o curando le interazioni leader-follower (es. colloqui di valutazione). Per quanto riguarda gli studi sugli esiti della followershipBlanchard e colleghi mettono in relazione le 2 dimensioni della followership di Kelley con la soddisfazione lavorativa (intrinseca-estrinseca) ed il commitment organizzativo. AE influenza in senso positivo tutti gli esiti, ICT è invece correlato negativamente al commitment normativo ed alla soddisfazione estrinseca, suggerendo che il pensiero critico renda meno recettivi ai benefit e più sensibili agli aspetti meno soddisfacenti del proprio lavoro. L’interazione tra AE ed ICT potrebbe invece avere un effetto di moderazione sugli esiti, se sono entrambi elevati aumenterebbero la soddisfazione intrinseca, che invece diminuirebbe se AE fosse basso, in quest’ottica i follower alienati potrebbero essere quelli meno efficaci (o almeno i meno soddisfatti). In conclusione la tendenza al pensiero indipendente e critico potrebbe essere un’arma a doppio taglio. Spostando il focus d’attenzione Gatti, Hall e Schyns indagano i comportamenti proattivi di voice (migliorare la situazione attraverso il cambiamento) come antecedenti della soddisfazione nel ruolo di follower (sottoscala della soddisfazione lavorativa, correlata con soddisfazione per il capo e per il lavoro svolto). Nell’indagine i comportamenti di voice hanno una relazione debole con la soddisfazione nel ruolo di follower e non mediano il rapporto con variabili di esito ed altre variabili indagate (LMX). Ciò porta a pensare che la proattività non sia un elemento importante per la soddisfazione, ma sarebbe importante assicurarsi che venga percepita come un comportamento di ruolo, in modo che comportamenti di voice vengano messi in atto più spesso. Prospettive per la formazione e la ricerca ->tra le principali implicazioni pratiche dello studio della followership vi è quella di rendere la conoscenza della leadership più completa, cosi da consentire lo sviluppo di interventi formativi mirati a facilitare un’assunzione dinamica dei ruoli; ciò sarebbe importante per i middle managers, a cui viene chiesto di essere contemporaneamente leader e follower efficaci. Interventi integrati su leadership e followership potrebbe anche arginare i danni derivanti da una relazione leader-follower strutturata in senso negativo. Nello specifico Potrà essere utile definire leadership e followership nei loro aspetti positivi e di rischio, nei loro aspetti distintivi e in quelli sovrapposti -> migliorare la capacita autocritica di entrambi, sensibilizzare i follower a valutare i feedback, spingere i leader a valutare i collaboratori in modo più accurato. In base a queste considerazioni sembrano essere particolarmente coerenti gli interventi formativi condotti con modalità di lavoro partecipativo e riflessivo, che pongono la relazione al centro. La versione italiana del questionario sulla followership di Kelley ->A partire dalle 2 dimensioni su cui la followership viene declinata (ICT ed AE -> in particolare sui comportamenti tipici del polo positivo di ciascuna), Kelley ha proposto un questionario sulla followership: uno strumento di self-assessment composto da 20 item (10 rilevano ICT e 10 AE) in formato Likert (da 0-> mai a 6-> sempre). Questo strumento di autodiagnosi dovrebbe consentire a chi lo compila di determinare lo stile di followership che più frequentemente mette in atto, fornendo spunti di riflessioni sui punti di forza e debolezza, inoltre permette di stimare la flessibilità con cui una persona si muove dall’una all’altra dimensione. Incrociando i punteggi sulle due dimensioni si ricava il posizionamento su uno dei 5 “stili di collaborazione”. Esiste anche una versione breve del questionario, utile se si vogliono abbreviare i tempi di compilazione. Un ambito di applicazione riguarda la formazione alla leadership ed alla followership. Nella formazione alla leadership il questionario può essere usato per capire se, dopo la formazione a cui ha preso parte il leader, cambiano i livelli di ICT ed AE (-> questionario somministrato prima e dopo la formazione). Facendo invece riferimento ad un followership training lo strumento può essere usato per individuare comportamenti di followership che possono essere oggetto di apprendimento, sempre confrontando i questionari pre-formazione con quelli post-formazione, alla ricerca di specifici indicatori di cambiamento. Oltre a questi utilizzi, gli stili di collaborazione potrebbero essere adottati per ampliare la conoscenza su followership, leadership e sul funzionamento delle organizzazioni italiane. Brown, Manning e Ludema → in linea con il modello di Lewin, sostengono l’importanza di comprendere i processi e i meccanismi che mantengono la stabilità all’interno dell’organizzazione, la cui comprensione permette di fare luce sulle pratiche e procedura di intervento per realizzare il cambiamento. Di particolare importanza gli aspetti legati alla cultura e all’identità organizzativa, che tendono a conservare la stabilità. Il termine “resistenza al cambiamento” è frequentemente usato nei contributi teorici solitamente in relazione agli effetti che il cambiamento stesso genera negli attori organizzativi. Il cambiamento, infatti, non può essere analizzato esclusivamente come un evento desiderabile e un’opportunità di sviluppo, ma anche come elemento di rifiuto, di negazione e di difesa, che può determinare in alcuni casi il calo della soddisfazione lavorativa e del commitment. Il cambiamento genera negli attori organizzativi una gamma di emozioni che vanno dalla completa accettazione e dal supporto attivo al completo rifiuto, che in alcuni casi porta anche all’abbandono dell’organizzazione. Comprendere ed elaborare le emozioni durante il processo di cambiamento costituisce una strategia vincente per gestire il cambiamento stesso. L’azione di cambiamento è preceduta da una “lotta” tra spinte e resistenze; analizzare le resistenze come feedback del processo di cambiamento può aiutare a comprendere come procedere per raggiungere gli obiettivi. La dimensione difensiva nella maggior parte dei casi è un fatto “fisiologico” e una normale reazione a una situazione che sta mutando (lasciare il conosciuto per qualcosa che non si conosce). Un approccio completo allo studio delle resistenze suggerisce di considerare sia le componenti soggettive che quelle di contesto come antecedenti delle resistenze al cambiamento. Piderit→ in accordo con George e Jones propone un modello soggettivo e multidimensionale delle resistenze, individuando la componente cognitiva, affettiva e comportamentale: le resistenze hanno un forte impatto sulle emozioni, che a loro volta influenzano cosa si pensa razionalmente e di conseguenza il comportamento a favore o sfavore del cambiamento. Le resistenze individuali 1. L’incertezza e l’insicurezza per il “nuovo” → gli individui tendono a resistere al cambiamento quando percepiscono una minaccia alla propria sicurezza e al loro futuro, che può far emergere timori che si attivano di fronte a un cambiamento, anche se quest’ultimo è riconosciuto come effettivamente necessario per la sopravvivenza dell’azienda. Le resistenze individuali sono ulteriormente classificabili in:  psicologiche (quando l’individuo percepisce una minaccia alla propria identità occupazionale)  economiche (quando la propria competenza esperta e consolidata è minacciata e si teme una riduzione dello stipendio, una retrocessione o un aumento del carico di lavoro non corrisposto da un aumento degli incentivi) 2. La selezione percettiva delle informazioni → abbiamo la tendenza a selezionare le informazioni coerenti con le nostre opinioni e gli schemi consolidati che usiamo abitualmente. Si attiva la resistenza quando il cambiamento minaccia queste credenze 3. Le abitudini → il cambiamento può creare situazioni che mettono in discussione la routine, gli schemi mentali individuali e i comportamenti consolidati. Schermerhorn, Hunt e Osborn → parlano non solo di abitudini, ma anche di tratti di personalità: alcuni individui sono più predisposti di altri a resistere al cambiamento. Nell’approccio cognitivo si analizzano le reazioni al cambiamento utilizzando il concetto di sensemaking, cioè il modo in cui l’individuo interpreta soggettivamente il cambiamento. Le teorie disposizionali della personalità sostengono invece che la reazione degli individui al cambiamento può essere predetta da alcune caratteristiche individuali, come il locus of control (porta minore percezione di perdita di controllo), autoefficacia, stili di coping, bisogni motivazionali. Le teorie motivazionali applicate al cambiamento evidenziano che i lavoratori che presentano bisogni di realizzazione e di crescita tengono a impegnarsi e ad attivarsi concretamente nel processo di cambiamento e ad esprimere reazioni positive nel lavoro durante la fase di trasformazione. Oreg e collaboratori → sviluppano una scala per misurare la tendenza individuale a resistere e/o evitare il cambiamento, individuando sei fonti di resistenza al cambiamento: 1) riluttanza a perdere il controllo, 2) rigidità cognitiva, 3) basso livelli di resilienza, 4) intolleranza al periodo di aggiustamento a seguito di un cambiamento, 5) preferenza per bassi livelli di stimoli e di novità, 6) riluttanza ad abbandonare vecchie abitudini. La scala RTC è composta da 17 item su scala Likert (da 1 a 6) riconducibili a quattro sottodimensioni indicative delle resistenze individuali: 1. Routine Seeking ( RS ) → riluttanza ad abbandonare le abitudini consolidate 2. Emotional Reaction ( ER ) → reazione emotiva connotata da stress legata alla partecipazione al cambiamento 3. Short-Term Focus ( STF ) → tendenza a individuare gli svantaggi a breve termine connessi al cambiamento, piuttosto che i vantaggi a lungo termine 4. Cognitive Rigidity ( CR ) → rigidità del pensiero nel considerare idee e prospettive alternative allo status quo Le resistenze di gruppo Le principali sono:  Le dinamiche legate al potere e ai conflitti → si attivano quando il cambiamento è percepito come occasione per dare maggiore potere ad alcuni individui a discapito di altri.  La struttura e la cultura organizzativa → una struttura organizzativa burocratica e centralizzata, con una rigida suddivisione dei ruoli, risulta più resistente ai tentativi di cambiamento; è difficile intervenire all’interno di esse e promuovere un cambiamento contrastando la mentalità dominante. Riconoscere e fronteggiare le resistenze, sia individuali che di gruppo, è compito degli agenti di cambiamento (chi lo decide e lo progetta). Per fronteggiarle è fondamentale individuarne l’origine, distinguendo le manifestazioni e le conseguenze. Per minimizzare le resistenze è necessario informare i dipendenti sui possibili vantaggi, cercando di ridurre gli svantaggi e i rischi. Comunicazione molto importante!! Aiuta a ridurre l’ansia e l’incertezza dei dipendenti verso il nuovo e accresce il loro livello di efficacia nel sostenere le azioni di cambiamento. > La ricerca-azione per lo sviluppo organizzativo Prenderemo ora in esame l’approccio chiamato “Sviluppo organizzativo”, traduzione dall’americano Organizational Development (OD): il movimento che negli anni ‘50 rappresentò la pratica più diffusa per la gestione del cambiamento. Tra le varie definizioni di OD, ricordiamo in particolare quella proposta da: French e Bell → OD= “un tentativo guidato e sostenuto dal top management, nonchè condotto in un lungo arco temporale, volto a migliorare l’azione di sviluppo della visione dell’organizzazione, l’empowerment, l’apprendimento e i processi di soluzione dei problemi, attraverso una gestione collaborativa e continua della cultura organizzativa - con particolare riferimento alla cultura dei gruppi di lavoro formali o di altre configurazioni dei gruppi - con l’aiuto di un consulente-facilitatore e l’uso della teoria e della tecnica delle scienze applicate del comportamento, inclusa la ricerca-azione.” Si è deciso di prendere in considerazione questa definizione perché sottolinea tre condizioni fondamentali per intervenire efficacemente nell’evoluzione dei sistemi sociali: 1. la possibilità di utilizzare il tempo quale risorsa non stringente 2. la lettura dell’organizzazione come cultura 3. l’utilizzo della scienza comportamentale applicata e in particolare della “ricerca-azione” (RA) Le definizioni 1-RA è un modo di intervenire all’interno del contesto organizzativo, con un intento trasformativo, prendendo le mosse da:  una domanda espressa dall’organizzazione tramite qualche suo rappresentante; in questo caso la questione dell’avvio della RA è fondativa, ed è rilevante il modo in cui si arriva a una visione condivisa delle questioni sulle quali si intende ricercare, sulle criticità che si stanno affrontando e che si vorrebbero superare, al fine di pervenire a una titolarità collettiva dell’analisi della domanda e degli elementi che rappresentano il punto di partenza dal quale evolvere.  una domanda proposta dal ricercatore/consulente stesso (domanda provocata) e fatta propria da un attore o da un gruppo di attori organizzativi; in questo caso la questione è l’identificazione di un attore che nel tempo possa comunque giocare il ruolo del cosiddetto “cliente primario” della RA, ossia di iniziatore e facilitatore del processo. 2-RA è un modo di conoscere nella relazione e attraverso la relazione. La sua produzione deve essere congiunta e affondare le radici nell’azione pratica per far sì che la conoscenza diventi fonte di energia in grado di orientare e sostenere i futuri comportamenti degli attori organizzativi impegnati in un cambiamento. L’ipotesi è che: si conosce a partire dalla riflessione sulla pratica, quando la pratica è interrogata dagli attori che la mettono in essere insieme al ricercatore, il quale la osserva, la “misura” e la interpreta insieme al suo “autore”. La conoscenza è conoscenza in relazione, si definisce all’interno della “comunità di ricerca”, grazie a cicli di azione e riflessione, nei momenti formali di lavoro come in quelli informali. Essa emerge nel corso del tempo, così come la qualità delle relazioni, che è condizione per la qualità della ricerca. Come rafforzare invece una relazione debole? L’agente di cambiamento deve fare i conti con il fatto che gli attori organizzativi non sono sempre così desiderosi di essere coinvolti; il rischio è che la RA diventi una “nuova cosa da fare”, un compito imposto a “vittime” che non hanno potuto sottrarsi. 3-RA è una filosofia, un modo di essere e di vivere che interpreta e vive la partecipazione come testimonianza e come metodologia. La RA è animata da intenti valoriali e trasformativi: intende raggiungere importanti scopi organizzativi e sociali, dando a se stessa il compito di rendere l’organizzazione un posto migliore in cui vivere. In questo caso RA è ricerca con, per e attraverso le persone, non sulle persone (scienza delle persone). I soggetti partecipanti alla ricerca sono partner ugualitari su un piano di equivalenza, non di uguaglianza, rispetto al contributo nelle attività di ricerca. 4-RA è un processo di cambiamento: changing. Si sottolinea l’importanza dell’attenzione consapevole a ciò che accade durante il processo di azione conoscitiva, allo stesso modo dell’eventuale processo di decisione e implementazione delle decisioni circa i futuri corsi di azione. 5-RA è anche una metodologia di ricerca, prevalentemente ma non esclusivamente qualitativa. E’ una pratica riflessiva e di cooperazione sin dalle prime battute del processo di ricerca. Sull’oggetto di ricerca sarà poi possibile intervenire solo se la comunità di ricerca si sarà nel tempo trasformata in un gruppo, capace di passare dalla fase di comprensione e consapevolezza a quella di azione sperimentale, che potrà poi consolidarsi in una nuova routine. A differenza della ricerca in laboratorio, questa si svolge in contesti inevitabilmente attraversati da ambiguità in cui le interazioni sono sempre precarie e le convergenze provvisorie, e non sempre sfociano in risultati stabili. Fondamentale è costruire un setting in grado di facilitare la nascita e la crescita di rapporti costruttivi e produttivi tra tutti gli stakeholder del progetto di ricerca. Ogni RA che concluda un suo ciclo vedrà un processo ulteriore di ricerca, questa volta di valutazione degli effetti dell’azione. Questo è un momento cruciale sia per la verifica interpretativa, sia per l’espansione teorica dei temi indagati. Le prospettive Pur non volendo proporre una classificazione definitiva dei molti modi in cui gli studiosi hanno nel tempo descritto le RA, presenteremo:  RA classica sperimentale di Kurt Lewin  l’Action Science di Argyrise Schon  Ra partecipativa, che comprende: Co-operative Inquiry di Herone Reason, Action Inquiry di Freire e Tobert, PAR (Participatory Action Research) di Whyte,AppreciativeInquiry di Cooperridere Srivastva, Community Action Research di Sengee Scharmer, RA clinica di Schein.  RA postmoderna decostruttivista di Barry e Treleaven Le pratiche RA classica sperimentale di Lewin → la realtà sociale è “là fuori”, cognitivamente accessibile perché indipendente dal ricercatore, lo scienziato testa empiricamente le sue ipotesi e detta la direzione del cambiamento, promuovendo il coinvolgimento attivo degli attori per facilitare il processo di implementazione del cambiamento desiderato. Action Science di Argyris e Schon → si pone l’obiettivo di accedere induttivamente alla cultura dei partecipanti alla ricerca, operando all’interno del loro contesto naturale. Si usa una metodologia qualitativa di raccolta dei dati, ricorrendo soprattutto all’etnografia e all’osservazione partecipante. Viene così prodotta una teoria radicata nel campo che guida i successivi interventi di sviluppo. RA partecipativa → senza addentrarci in nessuna delle tipologie elencate in precedenza, ci limitiamo a sottolineare l’enfasi sulla dimensione partecipatoria e il forte orientamento democratico, così come il comune screditamento di qualsiasi affermazione tale per cui la RA può essere ritenuta moralmente fondata come un modo per migliorare l’efficacia, l’efficienza e la salute organizzativa, o giustificata e abilitata grazie ad analisi oggettive di “come veramente stanno le cose”. Il ricercatore si allontana dal ruolo di esperto che osserva in maniera distaccata per modo critico le proposte del gruppo,sopprimendo ogni debbolezza, il gruppo quindi rimodifica poi le proprie proposte, e alla fine si cerca di arrivare ad una soluzione da entrambe le parti). Disfunzioni nella presa di decisione nel gruppo: in particolare come primo è il Conformismo(ossia tendenza dell’individuo a cambiare le idee per conformarsi al gruppo, si può presentare: quando si decide una norma del gruppo quando arriva uno stimolo ambiguo, basta anche solo che una persona la accetti come Vera, oppure quando l’individuo si conforma alla maggioranza anche per mantenere un’immagine positiva di sé e per essere accettato questo avviene però quando non si tratta di un’accettazione privata ma pubblica e infine quando si cerca di obbedire all’autorità). La seconda disfunzione è il Pensiero di Gruppo(janis): dove gruppi molto coesi hanno l’obiettivo di prendere una decisione e questo viene messo in secondo piano rispetto alla coesione,secondojanis il coordinatore del gruppo può limitare questo processo,attraverso: l’evitamento di dichiarare la propria opinione per primi, assegnare il ruolo di valutatore a quasi tutti,organizzare gruppi indipendenti e discutere le idee con persone esterne. CAPITOLO 13: Capitolo 13: Leggere e Gestire il conflitto nelle organizzazioni In questi ultimi anni, la conflittualità è aumentata, i processi di globalizzazione hanno portato molte possibilità,ma anche a precarietà;allo stesso tempo però bisogna obbedire a richieste rapide,si fa più fatica nel connettere informazioni e nel riflettere. Ci troviamo in un momento in cui l'appartenenza è messa in discussione e l’altro quindi può rappresentare una minaccia; in questo capitolo si cercherà di dare un’altra visione della conflittualità dove può essere vista quest’ultima come accesso nel riconoscere i limiti e la dipendenza nell’altro,apprendendo nuove modalità di legame e riflettendo sull’aggressività. La parola “conflitto” indica un incontro/scontro tra due entità differenti che reagiscono tra loro;è stata sempre enfatizzata o la connotazione positiva o negativa del termine. Per quanto riguarda questo tema possiamo trovare il contributo di Lewin (recupera l’idea di conflitto come struttura che regola il gioco delle forze psichiche nel campo psicologico di ognuno,dove in quest’ultimo sono presenti le relazioni e i significati con i quali i soggetti danno senso agli eventi). Altri approcci sono stati fondamentali, ad esempio come la concezione che vede il conflitto come “deviazione pericolosa” , con il paradigma interazionista invece vediamo il conflitto come fenomeno da gestire, in modo da trarne beneficio e creando conseguenze anche positive da esso. Invece con il paradigma culturale, il conflitto viene visto in modo strutturale, rapportandosi a quest’ultimo come qualcosa da valorizzare e infine il paradigma della complessità , lo considerano centrale perchè determinante nei sistemi per quanto concerne il raggiungimento degli obiettivi e l’innovazione. E’ possibile individuare delle caratteristiche in comune tra le varie teorie del conflitto, come: le origini di questo tema possono essere reali o immaginarie e è un argomento che incide sulla soggettività, e molte volte può essere rifiutata la sua presenza. Per parlare di conflitto intendiamo il caso dove la visione del mondo dell’altro può diventare minacciosa per noi e può essere visto come qualcosa che tende a lasciare inalterate le differenze oppure a eliminarle, ma soprattutto come qualcosa che risveglia le nostre pulsioni. Due modelli: Strutturale : tratta i paramentri (come norme,incentivi) e le condizioni stabili che influenzano questo processo; - modello processuale : che si focalizza sulla dimensione temporale delle fasi del conflitto. Ad esempio Thomas divide le variabili strutturali in:-predisposizioni comportamentali;-pressioni sociali;-incentivi,-ruoli e procedure, analizza anche la specializzazione professionale, il livello di partecipazione, ecc che possono aiutare o ostacolare la collaborazione.I conflitti esprimono rapporti di forza tra esigenze che si contrappongono, sia in modo manifesto che latente. Sono stati individuati livelli dove il conflitto può presentarsi: Intrapersonale :conflitto che origina dal contrasto tra le richieste dell’organizzazione e le caratteristiche personali; come: conflitto tra persona e ruolo; oppure al soggetto viene chiesto di ricoprire due ruoli contraddittori; intragruppo : tra membri dello stesso gruppo e intergruppi : tra gruppi della stessa organizzazione. Ferrari individua altri livelli: intrapsichico : per quanto riguarda le aspettative del proprio ruolo; interpersonale : riguarda due o più persone, quando ad esempio il giudizio espresso su una persona è diverso del giudizio sul suo operato e riguarda anche i comportamenti patologici( come ad esempio sfruttare il lavoro di altri e non agire per timidezza); nei gruppi: conflitto tra esigenze dei membri; -intergruppi : dove istanze individuali passano in secondo piano e sono importanti quelle sociali. Il conflitto quindi può portare sia a esiti positivi, che negativi, la prima riguarda ad esempio una maggiore qualità delle idee generate; un incremento del dibattito e uso migliore delle risorse, invece per quanto riguarda gli aspetti negativi si parla di clima ostile che causano disfunzioni nel clima di lavoro e fino ad arrivare alla paura di essere rifiutati. Un tema molto importante è quello del rapporto tra conflitto e soddisfazione lavorativa , quest’ultima intesa come “sentimento di piacere che deriva dalla percezione che la propria attività è in grado di soddisfare valori personali”: il conflitto può generare rabbia portando a una minaccia della stima del sé, fino a portare a un cattivo clima nell’ambito lavorativo, quindi gli effetti del conflitto sulla soddisfazione si riducono quando conflitto è gestito da Problem Solving e si rafforzano quando viene gestito con evitamento; inoltre le variabili individuali e situazionali moderano la relazione tra conflitto e salute attraverso la loro influenza sulle strategie di gestione del conflitto che le persone adottano. Conflitto ed efficacia personale e collettiva : l’efficacia personale è vista come giudizio sulla propria capacità di portare a termine un compito, questa influenza la scelta della persona tra varie attività e determina la perseveranza; De Breu e Beersma sottolineano come dall’influenza del conflitto sull’efficacia personale e collettiva possono far nascere due prospettive: -la prima dove si capisce che per il benessere organizzativo ci deve essere la presenza di una normale quota di conflitto; -la seconda dove si distingue conflitto del compito e sulla relazione; dove il secondo interferisce nella performance e il primo porta i soggetti a considerare più prospettive e ad aumentare la qualità. Conflitto e team di lavoro : De Breu, Van Dierendonck e Dijkstra pongono al centro “la cultura organizzativa del conflitto” dove vediamo come vengono analizzati i contrasti e quali strategie si usano( in alcuni casi il conflitto è visto come strategie di gestione, altre dove è visto come una minaccia al sé e quindi si cerca di evitarlo). Per molti autori per comprendere il conflitto, bisogna soffermarsi sulla cultura organizzativa; infatti hanno analizzato l’influenza dei tipi di conflitto sul benessere dei lavoratori, considerando come centrale il ruolo di mediazione della cultura; ed emerge anche come la cultura media la relazione tra conflitto e le reazioni affettive dei lavoratori. CAPITOLO 14: La qualità è richiamata nei contesti organizzativi attraverso il suo marchio di riconoscimento ufficiale rappresentato dalla certificazione. Attualmente però il significato della qualità va oltre quello della certificazione: esso ha subito un'evoluzione che è il risultato di un processo storico in ambito organizzativo che ha trovato applicazioni innovative e a volte rivoluzionarie. Per esempio all'inizio del 900 la qualità era definita dalla difettosità o no di un prodotto, mentre oggi la qualità è un concetto più ampio che va oltre la tangibilità proiettandosi nella sfera dell'eccellenza. E’ molto difficile trovare una definizione univoca di qualità, infatti come ricorda anche Romano il termine qualità risulta ambiguo perché è utilizzato in contesti molto diversi a seconda se richiamo e’ a persone o a cose. Generalmente la quantità si riferisce alle proprietà, alle caratteristiche o alla natura di un oggetto, di un prodotto o di un servizio, di un animale, di una persona o anche di una situazione o di un loro insieme organico. Il termine qualità è spesso utilizzato in contrapposizione con il termine quantità. Nel gergo comune la qualità ha un valore positivo, in ambito organizzativo la qualità è un movimento ispirato ai principi detti appunto “della qualità” e che comprendono tra i tanti la soddisfazione del cliente, il miglioramento continuo e l'eccellenza competitiva. Questi concetti che trovano ampia diffusione oggi sono ben diversi da quelli prevalenti nelle organizzazioni alla fine dell'800 e durante il secolo scorso. La storia della qualità coincide con la trasformazione del suo significato nel corso del tempo soprattutto con le sue più recenti evoluzioni concettuali. LA STORIA DELLA QUALITA’ Il problema della qualità arriva con l'avvento dell'era industriale e con la divisione del lavoro. Infatti se prima l'artigiano compiva da solo tutte le funzioni aziendali anche quella della verifica diretta con il cliente, l'operaio della catena di montaggio non ha nessun feedback del suo operato e quindi non può attuare nessuna azione correttiva per rendere migliore il prodotto finale. Vi e’ una standardizzazione del prodotto per abbattere i costi e in questo contesto Il controllo qualità e’ finalizzato a definire se un prodotto e’ privo di difetti tramite l'ispezione del prodotto al termine del processo collettivo. Le funzioni di controllo nascondevano però alcune complessità organizzative: innanzitutto non sempre all'aumentare della complessità tecnica del prodotto corrispondeva un aumento delle competenze degli ispettori, inoltre mancava una formazione loro dedicata ed infine la funzione di controllo interveniva a prodotto già terminato, quindi non portava alcuna miglioria. Non si deve però dimenticare l'importante ruolo avuto dagli uffici di ispezione nell'evoluzione del concetto di qualità, infatti nelle aziende più grandi e strutturate si registravano dati e informazioni e si promuoveva l'adozione di strumenti di misura. In questo modo si è dato il via all'applicazione della statistica nel controllo di qualità. Questo ha fatto sì che si passasse dal controllo di qualità all'assicurazione qualità, una tecnica orientata a controllare il processo produttivo e a istituire azioni correttive durante il processo per ridurre i costi e la presenza di difetti. Al 1924 viene fatto risalire il primo abbozzo di modello di controllo statistico di processo a Opera di Walter Shewhart. Tuttavia fino alla fine del 1950 la diffusione di queste tecniche è abbastanza limitata anche se vi era un'esigenza in tal senso derivata dall'industria bellica che era alla ricerca di prodotti di grande affidabilità e sicurezza. Negli anni post bellici il controllo di qualità trova fortuna nel mondo giapponese: per il Giappone era un'epoca non felice per il sistema industriale, aveva infatti una reputazione pessima, in quanto luogo di produzione a basso costo con macchinari obsoleti e poco capitali. La consapevolezza di questa condizione di inferiorità fu uno stimolo per il Giappone per adottare un sistema di gestione orientato alla qualità e il miglioramento dei prodotti. A questo punto era necessario cambiare l'impostazione Taylorista e Fordista dell'organizzazione del lavoro: il controllo qualità non doveva avvenire a fine lavoro ma si doveva intervenire durante i singoli processi per eliminare immediatamente i difetti. Questa innovazione organizzativa insieme ad altre che erano state introdotte si concatenano così bene fino a diventare un modello organico e alternativo a quello Taylorista dominante nel mondo occidentale. Già alla fine degli anni 60 le esportazioni giapponesi negli Stati Uniti e in Europa erano aumentate notevolmente grazie alla maggior qualità ed economicità rispetto a omologhi prodotti occidentali. S registra in questa fase il tentativo di superare una qualità negativa e di raggiungere quindi l'obiettivo “zero difetti”. In Occidente il riconoscimento della validità di una gestione orientata alla qualità è arrivato solo agli inizi degli anni 80 quando le aziende hanno iniziato a guardare con maggiore attenzione al successo giapponese e a mettere in moto strategie per contrastarlo. Nel 1983 la Gran Bretagna lancia la campagna Nazionale qualità con l’obiettivo di elevare la consapevolezza della quantità per la competitività delle aziende e la loro sopravvivenza nel mercato mondiale. Negli Stati Uniti la concorrenza giapponese ha stimola la diffusione della filosofia gestionale della qualità totale additata come un modello di successo. Il modello giapponese fu però esportato in una prima fase nel mondo occidentale attraverso quelli che venivano definiti guru della qualità, che definivano la qualità come una valorizzazione per le risorse umane più che come un modello organizzativo organico e strutturato. Inizialmente in occidente il modello giapponese è conosciuto prevalentemente per i circoli di qualità,piccoli gruppi di lavoratori che si incontrano con il management per proporre azioni migliorative, sovrastimati rispetto all'effettiva utilità che una loro applicazione comporta. Solo in un secondo momento si diffonderà una più ampia applicazione del modello giapponese che coinvolge l'intero processo produttivo, che deve essere essenziale,snello e tendere esso stesso all'obiettivo “zero difetti”. La ricerca della qualità deve essere perseguita da tutti i soggetti dell'organizzazione, lungo tutto il processo produttivo , le responsabilità vengono così suddivise fra tutti e ognuno sarà coinvolto nella promozione della qualità a tutti i livelli. L'individuo, in questa prospettiva, è essenziale per raggiungere una qualità che sia totale e perciò anche i singoli devono essere trattati secondo regole ispirate ai principi della qualità. E’questo l'inizio della fase che porterà la qualità verso il significato di qualità positiva: in questo processo diventano essenziali anche le aspettative verificate, misurate o sottoposte, del cliente. La qualità esce dalle organizzazioni e si allarga più verso il cliente alla ricerca della sua soddisfazione. LA QUALITÀ’ E IL CLIENTE Dal punto di vista del cliente la qualità può avere diverse sfumature a seconda che si tratti di qualità attesa, qualità progettata, qualità erogata, qualità percepita o qualità confrontata. La qualità attesa è la qualità che il cliente si aspetta di ricevere quale prestazione minima del prodotto servizio: può essere espressa oppure implicita, data per scontata anche dallo stesso cliente. La qualità progettata è la qualità che l'organizzazione si propone di raggiungere. Non sempre coincide con la qualità attesa del cliente: ciò avviene quando l'azienda non riesce a tradurre la qualità desiderata dal cliente in corrispondente progettualità, cioè quando c'è un Gap di comprensione. La qualità erogata è la qualità realmente raggiunta e può differire dalla qualità progettata. Il divario tra ciò che l'organizzazione ritiene che il cliente debba ricevere e ciò che l'organizzazione realmente fornisce è definibile Gap di realizzazione. La qualità percepita è la qualità che il cliente riscontra nel prodotto o nel servizio fornito. La qualità percepita e’ sintesi di aspetti oggettivi e soggettivi. La distanza tra la qualità effettivamente fornita dall'organizzazione e la percezione che di essa ha il cliente è definita Gap di comunicazione. 6. coinvolgimento di tutti i dipendenti nel perseguimento del miglioramento continuo, attenzione allo sviluppo delle persone attraverso formazione e l’empowerment e implementazione dei self managed teams; 7. enfasi sulla gestione trasversale; 8. riconoscimento importanza fornitori per i processi di miglioramento continuo (supplier partnership); 9. valorizzazione della qualità come strategia competitiva. Questa consapevolezza deve essere chiara soprattutto al leader. Alcune di queste caratteristiche sono state riprese da altri sistemi di gestione: il Total Quality Management rappresenta dunque un integrazione di aspetti tecnici, culturali, comportamentali e organizzativi diversi, ma la sintesi che ne deriva lo identifica come un modello teorico preciso e definito. LA QUALITÀ E LA PSICOLOGIA Nell’organizzazione orientata alla qualità prevale l’idea che i soggetti-lavoratori passino da uno stato di dipendenza psicologica da “altri” a uno stato di partecipazione diffusa, che rende tutti protagonisti sulla scena aziendale. In questa prospettiva, che riporta al centro il pensiero e la sua conseguente applicazione nella capacità di risolvere i problemi, le conoscenze derivanti dalla psicologia possono trovare ampia applicazione. il contributo che la psicologia del lavoro e delle organizzazioni può dare alla qualità e’ legato alla valorizzazione delle soggettività, quindi generando innovazioni nel campo delle risorse umane. Molti fenomeni richiamati nel Total quality management sono di natura psicologica o comportamentale. Sicuramente si nota che più la complessità aumenta all’interno delle organizzazioni tanto più emerge il fattore umano. Nel momento in cui il capitale materiale lascia il posto alla capacità intellettiva rappresentata dalla crescita umana, la dimensione psicologica assume un ruolo centrale. Tale avvicinamento delle norme alla soggettività è una acquisizione recente ma ancora oggi persiste tra l'affermazione di principio e la realtà certificata una notevole distanza. I requisiti di una corretta gestione del personale secondo le norme della qualità(ISO 9001: 2000) si declamano in termini di: 1. Competenze necessaria a svolgere attività connesse e finalizzate alla qualità del prodotto: 2. Formazione, stimolata dall'obiettivo del miglioramento continuo; 3. Valutazione dell'efficacia delle azioni messe in atto per raggiungere l'obiettivo qualità; 4. Consapevolezza da parte di tutti dell'importanza dei propri comportamenti e di come siano essenziali per raggiungere l'obiettivo qualità; 5. Documentabilità dei progressi conseguiti da tutti i soggetti dell'organizzazione nell'acquisizione di esperienze, abilità e competenze. E’ proprio in questi ambiti che la psicologia del lavoro e delle organizzazione può fornire il suo contributo in termini di conoscenze teoriche e di tecniche applicative. Ricorrono frequentemente rimandi a costrutti ben conosciuti nella psicologia del lavoro e delle organizzazioni anche nel Total Quality management come quelli del leadership, del clima organizzativo, della comunicazione, della valutazione delle persone dello sviluppo di carriera, della motivazione e della responsabilizzazione. Si pensi al vasto tema della leadership, che diviene l'elemento essenziale nel Total Quality Management per l'intrinseca coerenza dell'impostazione generale della qualità: il leader è il portatore della vision della qualità, cioè del modo di pensare, di interpretare, di rappresentare la realtà organizzativa secondo modalità che portino alla condivisione e all’interiorizzazione del messaggio. Solo così lavision diventa codice di comportamento per sé e per gli altri soggetti. Il leader della qualità motiva i collaboratori dando significato al lavoro del gruppo favorendo lo sviluppo di nuove idee, nuovi metodi e nuove soluzioni operative. L'allineamento dell'operatività al perseguimento dell'obiettivo qualità stimola il consolidamento di una cultura basata sulla flessibilità, sulla formazione continua e antagonizza il rischio di stress da sovraccarico di lavoro. CONCLUSIONI Qualità non significa solo certificazione e certificazione non implica sempre qualità. Come si è visto le origini del sistema qualità come apparato di norme e standard sono abbastanza distanti dalle teorie tecniche studiate dalle Scienze del comportamento in particolare dalla psicologia del lavoro e delle organizzazioni: tuttavia la tensione all'eccellenza non può prescindere, soprattutto perché attraverso l'attenzione al fattore umano che essa si può concretamente realizzare. CAPITOLO 15: Le emozioni nella vita organizzativa Sin dagli anni '30 del secolo scorso lo studio delle emozioni nei contesti di lavoro è stato sviluppato dalla psicologia. La tematica della vita emotiva degli individui nelle organizzazioni è stata presa in esame sulla base di due chiavi interpretative la approccio psicodinamico e quello costruttivista. Le parole della psicologia: affetto, emozione, sentimento e umore La teoria sulle emozioni fu proposta da JAMES: sosteneva che i cambiamenti fisici stimolano i sentimenti (se ridiamo siamo contenti). Alcuni studiosi dopo di lui hanno definito le emozioni associandole a tratti di personalità, altri a dimensioni inconsce; altri mettono in evidenza la relazione tra emozioni e processi cognitivi o tra sentimenti e norme culturali. Le “parole delle emozioni” sono:  Affetto: sinonimo di “sentimento” o di “emozione”, è un termine generico che include le emozioni;  Emozione: stato affettivo intenso e di breve durata, associato a una causa esterna o interna al soggetto; sono in relazione a persone, situazioni o eventi (passati o futuri). Hanno un carattere dinamico: fase iniziale- evoluzione-attenuazione. Hanno intensità diverse e la loro natura è incerta, ambivalente e sono spesso intrecciate tra loro. Le emozioni sono accompagnate da modificazioni fisiologiche, espressioni facciali e comportamenti caratteristici a seconda di ciò che si prova e della situazione sociale in cui i troviamo;  Sentimento: è l’elemento più soggettivo di ciò che si prova, è ciò che sentiamo in maniera “autentica” e “intima”. Nella prospettiva costruttivista, i sentimenti si distinguono dalle emozioni (ciò che noi mostriamo o esibiamo). Le emozioni sono considerate ciò che traspare e rendiamo visibile dei nostri sentimenti. Nella prospettiva psicodinamica, non c’è distinzione tra emozione e sentimento e sono spesso intercambiabili. Un’altra distinzione riguarda l’intensità e la durata: i sentimenti sono più durevoli e meno intensi, le emozioni meno durevoli e più intense;  Umore: stato affettivo con intensità minore ma durata maggiore delle emozioni; alcune persone sono di umore stabile mentre altre sono umorali: sperimentano un cambiamento repentino nei loro sentimenti e stati d’animo. Le emozioni dunque non si esprimono come entità distinte, in maniera discreta o polarizzata, ma in forma di trame (emotional texture), secondo una complessa, sottile, fragile, talvolta caotica e confusa tessitura. Le emozioni nelle organizzazioni Le emozioni inizino ad essere considerate oggetto di studio delle organizzazioni a partire dagli anni ’30 quando ELTON MAYOcondusse gli studi sulla Western Electric Company di Hawthorne, sottolineando l’importanza della “logica dei sentimenti” o delle caratteristiche socio-emotive dei soggetti nei processi di lavoro. Il paradigma allora dominante trascurava i sentimenti degli individui perché li riteneva fattori ininfluenti o potenziali disturbi dell’efficienza organizzativa.  Mayoafferma la necessità di considerare il morale degli uomini e delle donne al lavoro per capire davvero i comportamenti organizzativi: legittima l’idea che uomini e donne a lavoro nelle organizzazioni possiedono un cuore e questi sentimenti influenzano i comportamenti degli individui e dei gruppi sia positivamente che negativamente (riduzione o aumento di performance). Successivamente l’interesse per la vita emotiva degli individui nelle organizzazioni rimane marginale fino agli anni ’80: tale marginalità è connessa alla cultura che vedeva emozioni e sentimenti come segnali di perdita di controllo e un disturbo per l’efficienza organizzativa. WEBER suggerisce che la burocrazia raggiunge la sua massima espressione in termini di efficacia ed efficienza quando è completamente deumanizzata – sine ira ac studio – sottratta cioè all’interferenza dei sentimenti. Tra gli anni ’50 e ’70, nell’ambito della psicologia delle organizzazioni l’interesse per le emozioni inizia a dividersi in due direzioni principali:  Studio degli atteggiamenti che possiedono una componente affettiva: ricerche sulla soddisfazione lavorativa interessati a comprendere come alcuni fattori connessi all’attività svolta dal singolo (comportamenti di cittadinanza organizzativa, commitment e performance) influenzano la soddisfazione e i risultati organizzativi;  Lettura psicodinamica delle organizzazioni: descrivono le dinamiche organizzative come centrate sulle diverse configurazioni delle angosce primarie che le persone rivivono all’interno dei contesti lavorativi. Dalla metà degli anni ’80, gli studiosi delle organizzazioni hanno riscoperto l’interesse per il tema delle emozioni. La prospettiva psicodinamica e la prospettiva costruttivista hanno rivitalizzato il dibattito scientifico intorno alle emozioni degli individui nella vita organizzativa. Le organizzazioni come arene emotive La metafora le organizzazioni sono arene emotive in cui le emozioni sono rappresentate (performed) a favore di un pubblico (capi, colleghi, clienti, concorrenti) che si intende influenzare, stupire, impressionare, spaventare. L’esibizione delle emozioni (emotional display) può anche essere utilizzata dai singoli per sostenere, aumentare o destabilizzare l’ordine organizzativo. Due concetti: a) Gli individui emozionati costruiscono l’organizzazione; b) Tali attori organizzativi compiono azioni modellate in virtù delle forze emotive da cui sono animati. Le organizzazioni sono arene emotive in cui i sentimenti provati dai singoli danno forma ad azioni e decisioni e viceversa. All’interno delle organizzazioni gli attori recitano drammi intonati (noia, rabbia, gioia, invidia, ansia) e quando gli si chiede di raccontare le loro giornate di lavoro in modo autentico si intravede la trama emotiva che caratterizza la vita organizzativa. Sentimenti, emozioni, fantasie che caratterizzano il mondo del lavoro non sono semplici sottoprodotti della vita organizzativa, ma sono componenti imprescindibili dei processi considerati fondamentali per l’azione organizzata, ad esempio per la presa di decisione. Non c’è dicotomia tra “ragione” ed “emozioni”. L’approccio psicodinamico In psicoanalisi, le emozioni sono forze che condizionano profondamente le vicende degli esseri umani. Sono un impulso profondo che spinge a lavorare, lottare per il potere, ricercare la verità e appassionarsi alla conoscenza: tutte queste azioni sono mosse dalle emozioni. Le emozioni sono il collante dei gruppi, ma anche le forze che portano alla distruzione. L’ansia è l’emozione posta in primo piano dagli studi considerati ormai classici che, rifacendosi alla teoria kleiniana, attraverso una chiave interpretativa psicodinamica, hanno proposto una riflessione sulla vita emotiva degli individui nei contesti organizzati. L’idea centrale è che il lavoro in sé sia un attivatore di ansie (paura di fallire, timore di essere boicottati o rifiutati da colleghi o superiori). Quando un individuo deve affrontare un compito lavorativo insieme ad altri si attivano in modo automatico due tipi di ansie: a) Ansie paranoidi : forme più primitive di angoscia, paura di essere annientati e distrutti; b) Ansie depressive : profondi timori di non essere capace, di fallire e perdere così la stima delle persone intorno. Queste ansie, se emergessero alla coscienza, potrebbero diventare distruttive per la persona e per la sua capacità di portare a termine il compito. Per proteggersi da tali ansie l’individuo ricorre a meccanismi di difesa sia individuali che collettivi. Gli studiosi teorizzano che l’individui costruiscono la struttura organizzativa al fine di ripararsi da questi due tipi di ansie. JAQUESsostiene che gli individui si uniscono in organizzazione per proteggersi dalle angosce, dalle ansie e dalle paure, utilizzandosi reciprocamente e caricando tra loro le relazioni di significati che “disturbano” la relazione stessa. Gli individui, dunque, mettono in atto meccanismi di difesa attraverso forme di introiezione e proiezione, cosicché la razionalità organizzativa si scontra con le emergenze irrazionali camuffate da autosvalutazione, passività, narcisismo, vittimismo. ESEMPIO:Operai scissione dei dirigenti in buoni e cattivi. Dirigenti  idealizzazione degli operai come meccanismo inconscio per far fronte all’ansia e al rimorso di aver gestito in modo autoritario, e quindi di aver potenzialmente danneggiato, gli operai. Investivano una fiducia spropositata negli operai che erano sempre e comunque bravi e ligi al dovere. Idealizzazione negava gli aspetti “cattivi” degli operai e di riflesso permetteva ai manager di proteggere se stessi dalle loro “parti cattive”. MENZIES: nello studio sulle infermiere di una scuola ospedaliera londinese, mise in evidenza che il personale infermieristico era continuamente esposto a emozioni e sentimenti (pietà, compassione, amore, colpa, risentimento e perfino odio spesso intrecciati tra loro) legati, da un lato, al contatto con la sofferenza e la malattia, e dall’altro, alle emozioni che le infermiere stesse suscitavano nei pazienti e nei parenti dei malati (ammirazione mista a invidia, gratitudine, risentimento per la dipendenza dalle cure). Allo scopo di far fronte a questo crogiolo di emozioni, l’organizzazione sanitaria utilizzava meccanismi difensivi come:  L’organizzazione del lavoro era basata su un’elevata specializzazione, cosicché che a ogni infermiera veniva assegnato solo un ristretto numero di compiti, da svolgersi per tutti i ricoverati; Numerosi studiosi hanno costruito strumenti di misurazione e verificato se l’Intelligenza Emotiva potesse essere considerata un predittore della performance lavorativa. I risultati empirici hanno confermato quanto appena detto. Entro questo dibattito, dunque, le emozioni sono state analizzate in termini di competenze e la ricerca si è concentrata su questioni di misura per poter fare diagnosi e valutazione dei profili di competenze in vista della pianificazione di interventi di sviluppo professionale. L’altro ambito in cui si è diffusa la riflessione sulle emozioni è quello della salute e del benessere al lavoro. Il concetto di regolazione delle emozioni si aggiunge al concetto di emotion al labour ed emotion work. Un modello che sta influenzando la ricerca in psicologia del lavoro e delle organizzazioni è il Process Model of EmotionRegulationdi GROSS (matrice costruttivista). Attenzione sulle strategie che i lavoratori e le lavoratrici usano per gestire le emozioni e sugli effetti che tali strategie hanno sulla salute.  La regolazione delle emozioni è intesa come il processo attraverso cui gli individui influenzano quali emozioni provano, quando le provano e come le palesano. Il processo di regolazione delle emozioni interviene per aumentare il valore adattivo delle emozioni attraverso la modulazione della forma espressiva o la trasformazione dell’emozione stessa. Nelle interazioni sociali, regolare le emozioni può aiutare nel dare continuità alla relazione (ex. Modulare la rabbia può evitare una polemica con un collega che potrebbe portare alla rottura della relazione che per noi è importante). Questo processo può essere conscio o inconscio, automatico o controllato e può agire in diverse fasi del processo emotivo. Per quanto riguarda le strategie attraverso cui le persone costruiscono tale adattamento, GROSS ha distinto tra: - Strategie basate sull’antecedente: nella fase di genesi dell’emozione, cambiano l’esperienza emotiva (ciò che si prova), agendo sugli eventi-stimolo (selezione e modificazione della situazione), o sulla valutazione degli stimoli; - Strategie basate sulla risposta emotiva : nella fase di esibizione dell’emozione e influenzano la risposta comportamentale (modulazione della risposta). Poiché il processo di regolazione è concepito come adattivo, e quindi non dannoso per la salute dell’individuo, in ambito organizzativo l’obiettivo diviene quello di capire quali strategie di regolazione possano essere considerate protettive della salute e quali invece possano generare malessere per le persone al lavoro.  Le strategie basate sulla risposta (ex. Soppressione delle emozioni) comportano una maggiore attivazione fisiologica e un maggiore sforzo cognitivo. La salute individuale può essere influenzata dal modo in cui la persona regola le proprie emozioni. L’uso cronico di strategie di soppressione è associato a esiti negativi. Le strategie di rivalutazione (deep acting): il legame con il burnout non appare significativo. Inoltre, gli effetti del lavoro emotivo risultano legati al tipo di occupazione che la persona svolge. Alcune strategie più di altre, comportano un elevato dispendio di energia ma non in tutte le professioni tale dispendio di energia si trasforma in burnout. La scelta delle strategie di regolazione delle emozioni non avviene solo “dentro la testa delle persone”, ma è profondamente situata nel contesto. CAPITOLO 17: CAPITOLO 18: CAPITOLO 18 - MARKETING SOCIALE,RESPONSABILITA’ E SOSTENIBILITA’ Nel nostro paese vi è un costante incremento della comunicazione sociale da parte di regioni, ministeri ecc. a problemi quali la prevenzione di patologie, la promozione di stili di vita salutari, la sicurezza stradale e la tutela dell’ambiente. Tuttavia ciò non è sufficiente. Per essere in grado di provocare cambiamenti di atteggiamenti e comportamenti individuali e collettivi, è necessario avvalersi di un approccio più globale di marketing. Si parla di marketing sociale (Kotler e Zaltman), intendendo con questo concetto la progettazione e la realizzazione di programmi finalizzati ad aumentare l’accettabilità di una causa o di un’idea sociale. Esso utilizza concetti e strategie del marketing per massimizzare la risposta influenzando il gruppo target ad accettare, modificare o abbandonare un comportamento in modo volontario. Tuttavia,sebbene utilizzi principi e tecniche del marketing, il marketing sociale è profondamente diverso da quello commerciale per valori e finalità. Infatti quello commerciale ricerca un vantaggio economico, quello sociale ha come obietti primario un beneficio collettivo per i destinatari del progetto. °In particolare gli obiettivi del marketing sociale sono: -Cambiamenti cognitivi potenziando la conoscenza e la consapevolezza di un problema e delle possibili soluzioni; -Cambiamenti d’azione promuovendo scelte o azioni favorevoli in un determinato periodo di tempo; -Cambiamenti di comportamento  incentivando l’adozione di stili di vita salutari e l’abbandono di comportamenti pericolosi; -Cambiamenti di valori  tramite la modifica di ideali e credenze radicati, in relazione ad alcuni temi costituzionali °Il marketing sociale si qualifica per caratteri propri, che ne fanno un’attività specifica: -Tipologia dell’offerta i prodotti oggetto di scambio sono idee, valori, comportamenti e stili di vita; -Finalità dell’offerta: il cui obiettivo principale è affrontare e risolvere problemi di interesseindividuale,sociale e collettivo; -Carattere dell’offerta  che non vi sia controversia sui temi trattati, come accade invece per temi comeaborto o politica. °Il piano del marketing sociale prevede l’articolazione delle seguenti fasi: -Analisi del contesto/ambiente punto di partenza dell’attività che approfondisce l’ambiente sociale,economico, culturale e normativo, al fine di identificare le forze in grado di sostenere le idee, icomportamenti e i valori favorevoli o contrari all’azione di marketing sociale che si vuole realizzare. -Sviluppo del piano di marketing sulla base di quanto emerso dall’analisi del contesto, dalla risorse disponibili e dai bisogni espressi dai consumatori, vengono definiti gli obiettivi e individuate strategie operative: 1. Segmentazione suddivisione della popolazione in gruppi omogenei per le variabili individuate nella fase precedente; 2. Selezione si decide quali gruppi della popolazione individuati sono più bisognosi dell’intervento, ma si possono anche definire programmi dettagliati (marketing mix) per ogni segmento scelto; 3. Posizionamento del prodotto nell’ambito di ogni segmento, individuando i benefici più rilevanti per comunicare il valore della propria offerta (idee, valori o comportamenti). Si parla delle 4P: prodotto, prezzo, placement (distribuzione) e promozione. -Implementazione\realizzazione dell’intervento di marketing sociale -Audit\controllo e valutazione dell’efficacia: da effettuare in modo continuativo, per consentire eventuali correzioni e un’adeguata pianificazione di campagne successive. °Analisi preliminare di contesto/ambiente: la ricerca di marketing sociale. Il primo passo per costruire una campagna di marketing sociale è la descrizione della funzione del progetto,dell’ambiente culturale su cui si innesta e della direzione che si vuole seguire. Questa fase è definita SWOT analysis in cui si individuano punti di forza (Strenghts), punti di debolezza (Weaknesses), opportunità (Opportunities) e minacce (Threats) del micro e del marco ambiente di riferimento. Grazie a queste riflessioni è possibile definire gli obiettivi del progetto e scegliere gli utenti target. Per poter individuare questi ultimi correttamente occorre conoscere i desideri, le abitudini, le credenze e le intenzioni di comportamento attuali e potenziali dei destinatari. La ricerca di marketing è finalizzata a: 1) Determinare gli obiettivi dell’azione di marketing; 2) Identificare eventuali barriere e benefici collegati alla promozione del comportamento desiderato; 3) Identificare la concorrenza, cioè coloro che promuovono il comportamento alternativo; 4) Definire il piano per il monitoraggio e la valutazione dei risultati delle azioni di marketing. Le categorie in cui vengono ricondotte le modalità di ricerca di mercato sono tre:esplorative, descrittive o correlazionali e causali o esplicative. A seconda della disponibilità di mezzi e tempo, a seconda della profondità che si vuole raggiungere e a seconda delle competenze del ricercatore,vengono privilegiate l’una o l’altra modalità di ricerca. I principali metodi d’indagine sono: -Focus group  sono uno strumento di frequente utilizzo. Consistono in discussioni di gruppo (8- 10 persone),moderate da uno o due ricercatori, in cui si trattano i temi d’interesse per un paio d’ore. Le informazioni sono raccolte o con videoregistrazione o con appunti degli osservatori, in base agli obiettivi; -Interviste a testimoni privilegiati  come esperti o politici. Sono utili per ottenere informazioni sul target, per discutere strategie da seguire e per interpretare dati già in possesso dal ricercatore. Tali interviste potrebbero essere semi strutturate; -Survey sono indagini quantitative su larga scala svolte attraverso questionario, sono utili per identificare aspetti sintetici della popolazione di riferimento. Si inizia con il definire chi risponderà al questionario,precisando la numerosità campionaria, e successivamente la modalità attraverso cui si scelgono le persone della popolazione. Il campione è un sottoinsieme di persone rappresentativo della popolazione di riferimento,vanno poi scelte le domande; -Esperimento  per testare l’efficacia di una parte del progetto. Con questo metodo è possibile individuare le relazioni di causa-effetto tra le variabili considerate. Si tratta di fare in modo che due o più gruppi differiscano solo per una o più variabili scelte dal ricercatore, o che le variabili siano manipolabili, ossia consistano nella presentazione di materiali o attività che influenzino ciò che si vuole indagare (variabile dipendente); -Osservazione tecnica molto utile, ma disattesa per motivi di costo e scarsa strutturazione. L’osservazione potrebbe essere utilizzata per scoprire eventuali barriere al comportamento atteso e può aprire gli occhi al ricercatore, portandolo a riflessioni che altrimenti non avrebbe fatto; -Tecniche implicite sono procedure svolte al computer che utilizzano la velocità o l’accuratezza (numero di errori) delle risposte dei partecipanti a compiti di identificazione o categorizzazione per ottenere una misura dell’intensità dell’associazione semantica tra concetti. In sostanza queste tecniche consentono di individuare l’atteggiamento implicito; -Ricerca etnografica si basa sull’assunto che il ricercatore può capire veramente gli utenti se si immerge estensivamente nel loro ambiente naturale. L’osservazione è una tecnica molto usata in questo approccio insieme a diari e colloqui. Nuovo approccio di studio e ricerca è il neuromarketing, una disciplina che integra le conoscenze del marketing con quelle della neurologia e delle scienze psicologiche, con l’obiettivo di comprendere i meccanismi cerebrali che sottendono i processi decisionali e le scelte d’acquisto del consumatore. Utilizza tecniche di indagine avanzate in grado di analizzare e misurare le modificazioni psico-fisiologiche e dell’attività cerebrale innescate da specifici processi cognitivi ed emotivi. Una delle tecniche più usate è l’analisi del movimento oculare, la conduttanza cutanea, la respirazione, il battito cardiaco, la misurazione delle espressioni facciali e delle onde cerebrali tramite EEG. Le tecniche di neuromarketing permettono di accedere in maniera diretta e ravvicinata alle dinamiche emotive e affettive, spesso anche a livello non consapevole. °Sviluppo di una campagna di marketing sociale In questa fase avviene la progettazione e la realizzazione dell’intervento. Lo sviluppo della campagna di marketing sociale ha due obiettivi: °Il prodotto (che cosa promuovere): il prodotto di un marketing sociale può essere -Comportamento: ad esempio smettere di fumare; -Bene fisico: per esempio etilometri da distribuire ai giovani in una campagna contro la guida in stato diebbrezza; -Servizio: per esempio il controllo del tasso alcolemico fuori dai locali notturni; -Persona: ad esempio un testimonial. -Il prezzo, la distribuzione e la promozione (come promuovere) Prezzo: rappresenta il costo designati sonoi cittadini, si potrà scomporre l’obiettivo in comportamenti come prendere la bicicletta, comprare auto elettriche ecc; -Che cosa devono sapere: è spesso utile diffondere dati statistici relativi al comportamento promosso; -In che cosa devono credere: è un obiettivo molto più ambizioso rispetto al cambiamento delle conoscenze.A questo livello si possono abbassare le barriere dell’adozione del comportamento desiderato ed eventualicredenze erronee che favoriscono il comportamento alternativo; 3. Strategia creativa necessaria alla scelta dei canali di comunicazione. Deve seguire le seguenti regole: -Va perseguita l’incisività del messaggio, rendendolo chiaro e semplice, comprensibile a tutti; -Ci si deve focalizzare sui benefici collegati al comportamento desiderato; -Centrare il messaggio intorno a quanto il target “ci può guadagnare”; -I messaggi che elicitano paura sono efficaci soprattutto per persone che in precedenza non la percepivano. °Il controllo Il processo di marketing sociale si conclude con lo stadio del controllo. Secondo Kotler per una validazione di marketing è importante: -Monitoraggio consente di verificare lo svolgimento del piano di marketing, riuscendo anche a modificare,se necessario, gli elementi che non si dimostrano efficaci rispetto al piano stesso, impedendo così che irisultati si sviluppino secondo linee non desiderate; -Valutazione consente di verificare in che misura si è raggiunto ciò che era stato prefissato. Il piano divalutazione e controllo richiede un’attenta riflessione su 5principali aspetti: -Scopo della misurazione può essere finalizzata a valutare il conseguimento degli obiettivi, a suggerire nuovemisure correttive, a migliorare progetti futuri ecc. Tali finalità presuppongono diversi strumenti e tipologie divalutazione e a motivazioni distinte che portano alla decisione di intraprendere un’attività valutativa; -Oggetto della misurazione  Possono essere diversi elementi come: 1. Risultati a breve termine: si propongono di valutare se siano stati raggiunti o meno gli obiettivi volti a: 2. Cambiamento cognitivo: aumento delle conoscenze; 3. Cambiamento di atteggiamenti: incremento di valutazioni positive o riduzione di pregiudizi; 4. Cambiamento delle intenzioni comportamentali. 5. Risultati a medio\lungo termine: possono rilevare consolidati cambiamenti a livello °Comportamentale: ad esempio aumento delle persone che smettono di fumare; °Valoriale: ad esempio una matura concezione di uguaglianza tra i popoli; °Sociale: ad esempio crescita del tasso di natalità. -Misure di impatto: sono i risultati osservabili nel lungo periodo che costituiscono la categoria dimisurazioni maggiormente costosa anche sul piano metodologico, in quanto richiede un attento controllo delle variabili che potrebbero contribuire alla risoluzione del problema; -Strumenti per la misurazione: sono diverse le tecniche per il controllo dei risultati, sia qualitative (es. focus group, colloqui), sia quantitative (questionari, interviste strutturate); -Momenti per la misurazione: vi sono due principali momenti di controllo: 1. Monitoraggio: durante lo svolgimento del programma con il fine di verificare l’andamento del programma stesso; 2. Valutazione: alla fine del programma per la comprensione dei risultati che si sono ottenuti e del raggiungimento o meno degli obiettivi prefissati. Talvolta vi può essere anche un’occasione di valutazione definita pre-test che si colloca a monte delle precedenti fasi, dando vita a un programma che costituisce un’anticipazione di quello vero e proprio, in modo da realizzarlo eliminando le azioni che sono meno efficaci. -Costi della misurazione: questo problema è strettamente legato al modo in cui si è deciso di impostare il piano di controllo e valutazione, e quindi in base a quanto si ritenga necessario investire nella realizzazione del piano stesso. I costi possono avere un range molto ampio che varia in funzione dell’utilità che si percepisce che il piano possa avere in rapporto a campagne future. Integrazione dei concetti di responsabilità e sostenibilità nelle strategie di marketing. Un numero sempre maggiore di organizzazioni, europee e internazionali, promuove oggi strategie di Responsabilità Sociale d’Impresa (RSI) in risposta a varie pressioni sociali, ambientali ed economiche. Alla base c’è una consapevolezza che l’organizzazione non è un’isola separata dall’ambiente sociale in cui opera;al contrario essa diventa sempre più un punto di riferimento per chi ci lavora, per chi investe, per chi produce beni e strumenti e per chi vive nel territorio. La RSIviene definita dalla Commissione Europea come“l’integrazione su base volontaria, da parte delle imprese, delle preoccupazioni sociali ed ecologiche. Essere socialmente responsabili significa non solo soddisfare gli obblighi giuridici, ma anche andare al di là investendo di più nel capitale umano, nell’ambiente e nei rapporti con le altre parti interessate”. Essa rappresenta un’opportunità di generare profitto in modo responsabile verso i diversi stakeholder (dipendenti,consumatori utenti, investitori, partner ecc), verso la collettività e verso l’ambiente, creando un collegamento tra l’agire imprenditoriale e la qualità del lavoro e della vita sociale. Viene quindi riconosciuta un’interdipendenzatra i risultati produttivi ed economici e quelli sociali. Esempio molto importante è quello del degrado ambientale, che è divenuto uno dei temi più sentiti dalla comunità internazionale e che ha portato a stabilire delle linee programmatiche da seguire per favorire la salvaguardia ambientale. In tale scenario è cruciale l’idea del “principio di responsabilità”, termine coniato da Jonas nel 1979, il quale sosteneva che la sopravvivenza dell’umanità dipende dalla sua capacità di prendersi cura della natura e del futuro del Pianeta. Due conferenze molto importanti quella di Rio de Janeiro (1992) e quella di Johannensburg (2002), hanno affrontato il tema dello sviluppo sostenibile, individuando la “multidimensionalità” dello sviluppo sostenibile nel cui alveo rientrano componenti economiche, ambientali e sociali. Responsabilità sociale per le organizzazioni significa assumersi la responsabilità dell’impatto prodotto dalle proprie attività e iniziative sull’ambiente circostante. Ad oggi sono sempre più numerose l eimprese che scelgono di adottare una sorta di “codice etico” che esprima il loro impegno nel rispettare laqualità dei prodotti emessi sul mercato. L’immagine stessa delle imprese si sta modificando. Cause Related Marketing e Green Marketing Emerge quindi la concezione di un marketing etico che, mantenendo intatte le sue caratteristiche e le sue strategie d’azione, opera in spazi diversi da quelli puramente d’impresa, a favore di un benessere sia dei consumatori, sia dell’intera società. Questo punto di vista porta con sé una maggior fiducia dei consumatori i quali, in nome di una condivisione di valori con l’azienda, assicurano un maggior vantaggio competitivo all’azienda stessa. Le componenti etiche sono strumenti per creare fiducia,migliorando l’immagine dell’impresa e aumentando così la probabilità di acquisto e di riacquisto. Il consumatore viene altamente fidelizzato. Tra le tecniche che hanno raccolto maggior consenso abbiamo: -Cause Related Marketing c’è un alleanza tra impresa produttiva e impresa non-profit per promuovere ilprodotto abbinato ad una causa meritevole di attenzione e di impegno e ottenere così un beneficio perentrambe le imprese. Con questa tecnica l’azienda aumenta le vendite, il consumatore trae beneficiodall’acquisto del prodotto e le imprese non-profit (promotori) ricevono nuovi fondi; -Green Marketing  consiste in tutte quelle attività per facilitare scambi destinati a assolvere desideri e bisogni umani, affinché la soddisfazione di questi desideri avvenga con un impatto minimamente dannoso per l’ambiente. Questa strategia richiede la massima coerenza tra missione, strategie d’impresa e piano di marketing. L’obiettivo primario del Green Marketing consiste nell’ottenere un profitto per l’impresa mediante la soddisfazione dei bisogni del cliente, diminuendo il consumo di materie prime e di energia,utilizzando materiali riciclati ecc. La prestazione ecologica di un bene viene valutata durante tutto il suo ciclo vitale interessando anche il post consumo in termini di riciclaggio dei rifiuti. Comportamenti di consumo sostenibili Per gli atteggiamenti consapevoli verso l’ambiente, è in corso un processo di trasformazione che sta investendo il consumatore: un consumatore attivo, critico, responsabile le cui scelte non avvengono solo in base al parametro qualità\prezzo, ma anche in base a come quel bene è stato prodotto. Il consumatore è quindi sempre più attento a comprare prodotti da aziende che integrano la sensibilità sociale con le valutazioni economiche. Tuttavia i consumatori non sono esenti da critiche dato il loro comportamento contradditorio. Vari studi hanno dimostrato che ad elevati livelli di preoccupazione ambientale (componente emozionale)e di coscienza ambientale (componente cognitiva), non corrisponde sempre un comportamento responsabile nelle azioni quotidiane. In particolare emerge, anche in Italia, che le persone che si sono dichiarate consumatori attenti all’ambiente, non sono però disposte a spendere di più per prodotto a basso impatto, o ad utilizzaretrasporti pubblici per recarsi al lavoro ecc. Emerge quindi che nelle scelte relative all’adozione di alcuni comportamenti, i consumatori attribuiscono maggior peso al proprio benessere immediato, a discapito di un beneficio a lungo termine, sociale. Il concetto di consumo sostenibile si deve invece basare sulla reciproca responsabilità dei consumatori e delle imprese. Si possono definire quattro principali comportamenti del consumatore attento all’ambiente: 1. Cerca di evitare i prodotti dannosi per l’ambiente (es. bombolette spray); 2. Respinge prodotti che fanno esaurire le risorse ambientali naturali (prodotti ad alto consumo di energia); 3. Rifiuta i prodotti dannosi per la salute di persone e animali (es. carne di animali sottoposti a trattamento ormonale); 4. Vuole tornare al sapore originale del cibo. La letteratura ha individuato relazioni fra alcune variabili individuali (locus of control, coscienziosità, norme sociali e valoriali, self-efficacy) e l’adozione di comportamenti sostenibili. Ad esempio il consumatore verde ha elevati livelli di self-efficacy e percepisce il proprio contributo come utile per migliorare l’ambiente; se non realizza comportamenti sostenibili, il consumatore “verde” è soggetto a senso di colpa per non aver agito coerentemente con i propri valori. Tuttavia il consumatore non è disposto all’acquisto di beni ad elevate qualità ambientali a fronte di una prestazione complessiva inferiore al prodotto tradizionale. È pertanto necessario che l’impresa soddisfi i bisogni del consumatore assicurando la medesima qualità. Appare necessaria quindi una maggior conoscenza dei propri clienti e delle loro caratteristiche per fidelizzarli. Da queste considerazioni ha avuto origine il marketing relazionale il cui obiettivo principale è quello di gestire le relazioni di scambio con i gruppi di interesse al fine di perseguire vantaggi competitivi sostenibili a lungo termine. È richiesta infine, per promuovere una crescita sostenibile e rispettosa dell’ambiente, una consapevolezza da parte di consumatori e imprese che tale intervento è necessario per migliorare la qualità della vita. Raggiungere una sicurezza ambientale significa da parte di istituzioni e consumatori, non solo riconoscere il problema, ma anche porsi in collaborazione per poterlo risolvere. La condivisione delle responsabilità costituisce la chiave per la tutela ambientale.
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