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Riassunto di Re-inventare la famiglia di L. Formenti, Schemi e mappe concettuali di Pedagogia

Riassunto completo di Re-inventare la famiglia di L. Formenti. Apogeo, Milano, 2012.

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

2020/2021

Caricato il 20/05/2022

yaradatti
yaradatti 🇮🇹

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Scarica Riassunto di Re-inventare la famiglia di L. Formenti e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Pedagogia solo su Docsity! RE-INVENTARE LA FAMIGLIA Introduzione Il primo passo per poter re-inventare la famiglia è quello di smontare i pregiudizi e le invenzioni. Il secondo passo consiste nell’acquisire competenze e capacità di riconoscere quello che c’è. Il terzo passo sarà inventare nuovi pensieri, nuove visioni e nuove possibilità. Bisogna parlare della famiglia senza l’uso del verbo “essere”. Si utilizza l’approccio sistemico ovvero un approccio epistemologicamente fondato, che coniuga azione e percezione in una cornice estetica e una propensione a stare nei contesti, adattando la propria pratica in modo circolare alle risposte che vengono sia dall’istituzione che dagli utenti dei servizi. Le capacità con cui l’educatore si dovrebbe approcciare alla famiglia sono riassunte nelle 4C: curiosità, creatività, criticità e collaborazione. Insieme confluiscono nella riflessività ovvero la capacità di pensare ad eventi, definirli e analizzarli. PARTE PRIMA- LO SGUARDO DIPENDE DALL’AZIONE Lo sguardo dipende dall’azione: se i processi di percezione e di conoscenza dipendono da quello che noi facciamo nel mondo, cioè dalle azioni specifiche che esercitiamo sugli oggetti che incontriamo, non sarà la definizione di questi oggetti a farceli conoscere. Lavorare con la famiglia richiede una consapevolezza epistemologica, cioè un atteggiamento interrogante nei confronti dei nostri presupposti. Capitolo 1- Farsi l’orecchio: le invisibili partiture della famiglia L’approccio sistemico si fonda su una ecologia delle idee e quindi sulla curiosità per tutto quello che non appare immediatamente valido o scontato. Per comprendere una specifica famiglia sarà necessario ascoltarla attentamente ovvero farsi l’orecchio. Per farsi l’orecchio, l’educatore entra in una rete di relazioni e interdipendenze consolidate nel tempo. Una caratteristica delle famiglie è la consuetudine, la ripetitività e la ridondanza dei modelli di comunicazione. Imparare a lavorare in uno sistemico significa innanzitutto “apprendere i contesti”, cioè mettersi in relazione e in interazione con i sistemi comunicativi, usando la comunicazione stessa come veicolo. Il lavoro educativo con la famiglia si basa sull’aprire possibilità perché tutti stiano un po' meglio (quindi guardare tutti e non solo il singolo). Per farci l’orecchio sul sistema familiare dobbiamo partire da ciò che lo qualifica, cioè la con- vivenza, che vuol dire abitare concretamente uno spazio condiviso nel quale sono date alcune possibilità di interagire, mentre altre sono precluse. La con-vivenza è uno spazio d’interazione condiviso che dobbiamo imparare ad osservare con curiosità (perché non ci sono modi di convivenza più corretti o giusti di altri) e rispetto; un certo modo di convivere, una certa organizzazione della vita familiare ha senso, ha le sue ragioni, anche culturalmente e storicamente connotate. Troppi professionisti incontrano la famiglia carichi di pregiudizi, ma la nostra esperienza di vita è sempre troppo piccola per dare conto della complessità della vita altrui. Viviamo in una multiculturalità diffusa, ogni famiglia si presenta come una cultura essa stessa, con il suo linguaggio, le sue storie e miti fondativi, gli oggetti e artefatti che crea, le routine e le credenze che condivide. La prospettiva antropologica ci aiuta a sviluppare curiosità, riconoscendo che ci sono modi diversi per affrontare situazioni analoghe. Il senso del noi. Come osserviamo la famiglia? L’obbiettivo primario, quando osserviamo, è la rappresentazione estetica, cioè mettere in parole quello che si presenta ai sensi; distinguere la percezione di ciò che c’è dal ragionamento e dalle interpretazioni. Il professionista tende a esprimere valutazioni più esplicite e articolate, veri e propri giudizi derivanti dai saperi posseduti, il professionista che osserva una famiglia in azione ha uno sguardo peggiorativo ovvero tende ad isolare singoli comportamenti etichettandoli e sottovaluta la coerenza della danza, l’armonia dell’insieme; tuttavia, il professionista deve avere la capacità di cogliere e rappresentare il tutto, celebrandone anche la bellezza e la coerenza. Il professionista deve possedere quindi due sguardi: 1) quello che distingue, analitico, finalizzato, razionale e rigoroso, sguardo tecnico dell’esperto e 2) quello che abbraccia e celebra, che riconosce la ricerca di equilibrio e di struttura, risuona, onora la bellezza. Il senso del noi, della famiglia, si appoggia su entrambi. Il corpo familiare: ognuno dei componenti della famiglia si muove e si trasforma in relazione agli altri; non c’è apprendimento che non coinvolga tutto il sistema. Il noi nasce dalla famiglia in azione: relazioni reali, regole interattive, abitudini e ripetizioni che la vita familiare impone ai corpi, educando ad una certa postura, a un modo di respirare, di camminare, di svegliarsi, di mangiare. Per comprendere la coreografia di una famiglia è importante distinguere tra due livelli: la descrizione della nostra esperienza sensoriale e la categorizzazione. La natura relazionale della famiglia emerge nei coordinamenti reciproci delle azioni. Coltivare la bellezza e la polifonia, riconoscere le competenze e prendersi cura delle connessioni sono obbiettivi importanti nel lavoro educativo con le famiglie. Dobbiamo sostenere tutti i membri nella loro capacità di suonare insieme per dare forma al noi, sul piano reale e simbolico. [ Sistema : aggregato di parti interagenti, ciascuna delle quali può esistere in sé, ma è interdipendente dalle altre e dal tutto secondo determinate leggi e regole. La teoria dei sistemi considera gli esseri viventi come sistemi aperti ovvero un complesso di elementi in interazione tra loro. Un sistema è un tutto inscindibile ovvero il tutto è diverso dalla somma delle parti. Le parti di un sistema sono unite da retroazione che genera circolarità (b, c o d tornano su a). L’omeostasi è lo stato stazionario di un sistema, che mantiene una serie di parametri entro limiti di variabilità predeterminati. Nei sistemi aperti l’equilibrio è dato dal principio di equifinalità e cioè dal fatto che il loro funzionamento è legato al processo. La famiglia interagisce, comunica, la comunicazione c’è sempre, anche quando c’è silenzio; nell’approccio sistemico non si guardano le cause ma gli effetti delle azioni, si conosce un sistema provocandolo e vedendo come risponde. La famiglia può essere paragonata ad un essere vivente: ha un confine, scambia informazioni con il suo ambiente.] [Metafora: con la metafora si trasferisce il concetto al di fuori del suo significato reale; è considerata una dimensione cognitiva che sta alla base del linguaggio quotidiano e coinvolge non solo le parole ma anche il pensiero e l’azione; le metafore strutturano i processi di pensiero che stanno alla base della nostra conoscenza del mondo. Il corpo e i sensi ci offrono metafore per comprendere il mondo. nell’universale, a utilizzare l’attenzione al particolare, a vedere il dettaglio senza perdere di vista il contesto. Uno sguardo storico e contestuale può fornirci tracce che raccontano altre storie. Nel processo di re-inventare la famiglia, storicizzare e contestualizzare diventano due operazioni cruciali quando permettono di moltiplicare gli sguardi e creare le sfumature. Intendere la genitorialità come processo ontogenetico e filogenetico offre la possibilità di descrivere lo stesso evento con un’altra modalità, di creare storie possibili, costruire il senso in modo molteplice, aprire ad esiti evolutivi altri e impensati. Il modello istintivo e istruttivo della genitorialità (creatività e razionalità) pongono la genitorialità al di fuori della relazione, del contesto, della storia e delle storie. Sembra più adeguata una terza via, il modello evolutivo-ecologico, che può rendere conto di un processo relazionale e in continuo divenire, come quello genitoriale. Nel modello evolutivo si opera per interdipendenza tra universale e locale, per cooperazione e conflittualità, muovendosi verso una descrizione doppia, o verso la co-costruzione di mondi possibili. [Contesto: nessuna informazione può essere compresa al di fuori di un contesto. L’analisi del contesto è un processo di categorizzazione, indispensabile per poter procedere. Fruggeri rileva nella terapia familiare sistemica tre passaggi evolutivi nel significato di questa parola. La prima prospettiva, fattuale e oggettiva, considera il contesto come luogo, reale, fisico e/o sociale, in cui gli individui compiono azioni ed intrattengono relazioni; osservare la famiglia significa includere nel campo di osservazione il contesto in cui il fenomeno si verifica. La seconda prospettiva è quella costruttivista e simbolica, dove per contesto si intende il sistema di rappresentazioni in base al quale gli attori sociali costruiscono il mondo circostante e all’interno del quale compiono azioni e intrattengono rapporti. La terza prospettiva, riflessiva e ricorsiva, nasce con il costruzionismo; l’attenzione si sposta sul coordinamento delle azioni e dei significati, a diversi livelli e tra i diversi attori, retroattivamente interconnessi; il contesto è continuamente costruito e trasformato nella relazione e dipende dalla forma che il processo assume nel tempo con la collaborazione di tutti gli attori coinvolti.] [Descrizione doppia: la descrizione doppia è uno strumento epistemologico che dà la capacità di originare e discernere modelli di ordine diverso. Con la visione binoculare si passa dal comportamento al contesto; Bateson definì il modello di interazione simmetrico (forme di interazione che possono essere descritte in termini di competizione, rivalità, emulazione reciproca) e complementare (sequenze interattive con azioni diverse ma che si combinano come autorità-sottomissione, esibizionismo-ammirazione); la descrizione doppia serve a farci vedere che c’è una relazione tra due azioni.] Capitolo 4- Osservare la famiglia in azione Grandissima parte della comunicazione ha luogo attraverso segnali, mimiche, gesticolazioni, posture. L’osservazione è sempre e comunque un processo di selezione e di scelta metodologica intenzionale, soggettiva e coordinata. L’oggetto dell’osservazione non può essere considerato indipendente da chi lo osserva, perché l’atto di osservare modifica o altera in modo incontrollabile il comportamento dell’osservato. L’esperienza pregressa di chi osserva, i suoi pregiudizi e preconcetti inevitabilmente vengono messi in scena. Nel lavoro pedagogico l’osservazione è una vera e propria pratica che richiede e produce cura, attenzione e responsabilità. [Osservare la famiglia: Oggetto di osservazione diventano, più che l’adulto e il bambino, le relazioni tra loro, che possono essere più o meno funzionali e le interazioni in una dinamica relazionale di gruppo. Reiss distingue la famiglia praticante dalla famiglia rappresentata; la prima indica i processi di regolazione delle relazioni, che possono essere valutati solo con l’osservazione diretta; la seconda individua i processi di costruzione di rappresentazioni dell’esperienza relazionale, che possono essere più o meno condivise dagli altri componenti del sistema famigliare e si possono indagare attraverso le loro narrazioni. Nella conoscenza di una data famiglia, il livello comportamentale-osservativo e quello delle rappresentazioni-narrazioni devono contaminarsi ed integrarsi. Lezione: Distinzione tra famiglia praticata e famiglia rappresentata Famiglia praticata: interazioni concrete, osservabili; si osserva il modello educativo dei genitori; la famiglia è in azione. Famiglia rappresentata: le rappresentazioni sono scambiate dentro la famiglia, è la narrazione della famiglia che è sia all’interno della famiglia sia viene elaborata da persone esterne. Può essere sia vera che falsa. Bisogna andare a cercare ciò che c’è e sottolineare il buono. Nell’osservazione delle relazioni il bambino è considerato un individuo a tutti gli effetti, con le stesse possibilità degli adulti di condizionare il sistema in quanto partecipa in modo attivo ai modelli di interazione. La sistemica offre una cornice unificante nella quale si possono integrare tutti quegli studi che mirano alla conoscenza della famiglia intesa come unità. Studiare la famiglia assumendola come unità di analisi significa fare riferimento a un sistema di relazioni e processi interdipendenti. Attraverso l’osservazione diretta delle interazioni familiari è possibile riconoscere e sottolineare le modalità di funzionamento della famiglia e anche possibile coinvolgere la famiglia come protagonista attiva del processo di analisi e valutazione, in quanto ciascuno dei suoi membri può diventare osservatore. Il valore potenzialmente formativo dell’auto-osservazione sposta il processo osservativo dal piano diagnostico-valutativo al piano dell’intervento educativo vero e proprio.] Una pratica di osservazione. Ognuno di noi ha una propria personale esperienza di famiglia, di genitorialità, di cura, dell’essere figli. Quest’esperienza viene inevitabilmente evocata quando nel lavoro educativo o di consulenza siamo chiamati a interagire con un genitore che chiede aiuto. La videocamera è uno strumento che crea uno sguardo possibile; il video è in grado di mettere a fuoco le pratiche di cura quotidiana. L’obiettivo principale di questa proposta di consulenza è dare visibilità alle strategie e risorse che vengono messe in campo nella relazione con il figlio, per poi utilizzare le immagini come base per una riflessione in merito agli effetti delle azioni di cura e ai feedback in circolo tra i diversi partner relazionali; invita il genitore in un circuito riflessivo armonico. La metodologia da cui parte questa proposta è Lausanne Triadic Play che, partendo dall’osservazione del triangolo primario in azione, impegnato in un compito strutturato, permette di operare un’analisi delle interazioni tra i componenti della famiglia. Per rendere più accurata l’osservazione e permettere anche ai genitori di osservarsi in azione è utile l’utilizzo della videocamera; per ogni famiglia si riprende un’intera giornata in maniera continuativa per poi scegliere insieme al genitore o ai genitori i momenti su cui concentrarci nell’osservazione congiunta. Dopo i primi minuti in cui l’adulto sembra inibito dalla presenza del consulente e della videocamera, sono i bisogni e le richieste del figlio ad avere il sopravvento e riportare il genitore sul compito di cura. Da un lato la mia presenza influenza inevitabilmente ciò che accade nel sistema, le configurazioni relazionali possibili, le interazioni concrete e così via; dall’altro i miei pregiudizi ed esperienze precedenti provocano in me risonanze e atteggiamenti che arrivano poi attraverso differenti canali comunicativi a interagire con quelli degli altri componenti. Il passaggio successivo alla ripresa delle immagini è quello di ritrovarsi insieme a osservarle. Ai genitori chiedo di scegliere, selezionandoli e spiegandoli, gli scambi interattivi che sentono di aver vissuto con maggiore difficoltà e fatica. Portiamo l’attenzione sui momenti in cui ci si riconosce poco competenti nell’essere genitori o inadeguati. Soffermarsi a dare nome e riflettere sulle scene selezionate e scelte dai genitori, facendole nel contempo interagire con altre sequenze e figure rimaste sullo sfondo, è un processo che stimola i genitori a creare connessioni; questo passaggio fatto insieme è un processo di co-costruzione che genera, attraverso il confronto reciproco, nuove possibilità di vedere e strategie percorribili. Attraverso il processo di visione, selezione, taglio e montaggio delle scene i genitori hanno la possibilità di soffermarsi prendersi cura di sé nella propria storia [Punteggiatura: Watzlawick definisce la punteggiatura come l’azione di un soggetto che impone un ordine in un mondo altrimenti casuale, imprevedibile e caotico. In un ordine di causalità lineare, soggetti diversi vivono lo stesso fenomeno ma attribuendo ordini diversi, punteggiature differenti. La natura di una relazione dipende dalla punteggiatura delle sequenze interattive tra i comunicanti.] L’effetto composizionale offre la possibilità di nominare le emozioni e di creare uno spazio di contaminazione, riflessione e confronto tra il proprio vissuto (riflessione in azione) e ciò che si può osservare da fuori (riflessione sull’azione). La possibilità di vedersi concretamente in interazione pone il genitore nella condizione di riuscire a riconoscere e comprendere il proprio stile interattivo e relazionale. La consapevolezza dello stile educativo e delle sue precomprensioni crea i presupposti per modulare l’azione di cura, variarla e metterla in movimento. Il confronto di coppia che avviene sulla base di immagini reali di quanto accade nella routine quotidiana permette una riflessione sull’idea di famiglia che ognuno ha; attiva il senso del noi: la costruzione di un’idea comune di cosa sia essere e fare i genitori in questa famiglia. La tappa successiva alla post-produzione consiste nell’utilizzare le immagini scelte dai genitori e com-porle allo scopo di creare punteggiature differenti, altre storie possibili, basate non più sull’incapacità e incompetenza, ma sulle risorse e sulle strategie messe in campo. Capitolo 5 – L’ABC dell’osservare Questo capitolo tratta un’azione specifica, l’osservare, e una pratica che utilizza il mezzo audiovisivo come strumento di lettura delle interazioni umane e dunque anche quelle familiari. Le storie raccontate attraverso le immagini permettono di soffermarci su alcune sequenze, rivederle e per così dire studiarle. L’obbiettivo è imparare ad osservare. Si osservano i processi interattivi nei quali la comunicazione si sviluppa, usando come lente il modello e i principi della Programmazione Neurolinguistica (PNL). [Comunicazione: la comunicazione è un sistema, qualcosa che va oltre la somma o la sequenza dei singoli messaggi; il modo sistemico di comprendere la comunicazione è riconoscerle la complessità, i molteplici livelli, la circolarità e l’interconnessione. Della comunicazione umana venivano definiti 5 assiomi: non si può non comunicare, ogni comunicazione contiene un aspetto L’educatore o il professionista che lavora con la famiglia è un soggetto educante chiamato ad avere maggior consapevolezza del proprio posizionamento, e quindi anche delle proprie rappresentazioni e narrazioni, nello svolgimento del lavoro di cura dentro quella storia e con quel sistema familiare. Lavorare professionalmente con storie familiari che generano sofferenza e fatica significa non inseguire il cambiamento o il raggiungimento di un’evoluzione prestabilita, ma perseguire l’apertura a nuove visioni del mondo, a narrative più articolate e pensose, più belle. Sarà questa apertura visionaria che darà origine a cambiamenti e trasformazioni. Lavorare alla ricerca della salute, della speranza e della bellezza significa pensare e offrire storie rinunciando alla tentazione di influenzare l’altro in modo istruttivo. Moltiplicare le storie implica proporre e occasionare nuove punteggiature e versioni della realtà, che vanno ad arricchire, integrare, rimodellare le versioni iniziali, mono-logiche, statiche, inizialmente chiuse su se stesse. Il lavoro di cura educativa consiste nell’introdurre variazioni, proporre sguardi differenti nei confronti delle proprie relazioni familiari, quindi di se stessi e della propria storia, andando a cercare cose piccole e belle, lavorando nella convinzione che esistono sempre tracce, anche minime, di bellezza; si privilegia la ricerca della bellezza. È auspicabile ascoltare il tipo di storia raccontata e poi andare a cercare/attivare, a partire da essa, escludendo interpretazioni e spiegazioni che chiudono, elementi di narrazione ulteriori, molto concreti, che rimettano in connessione la storia raccontata con le dimensioni della possibilità e della bellezza. Trattare i problemi partendo dalla ricerca di momenti, emozioni, elementi e aspetti di salute e di funzionamento aumenta il numero delle possibilità. [Cornici: Cornici politiche e semantiche: il termine cornice di riferimento viene usato per distinguere tra due modi di pensare la comunicazione umana: le cornici politiche riguardano le interazioni, l’organizzazione dei comportamenti, le strategie relazionali tra le persone; le cornici semantiche riguardano lo sviluppo dei significati attraverso la comunicazione; i due modi non sono contrapposti, ma intrecciati in una relazione dialettica; tuttavia, il primo è quello che più qualifica e distingue l’approccio sistemico. Chiedere di descrivere gli eventi porta il racconto sul piano dell’interazione, aiuta a rilevare modelli ripetitivi ed effetti pragmatici delle diverse azioni comunicative. Il pensiero sistemico ci ha insegnato a rispettare la complessità e dunque a ragionare in termini di una molteplicità di mondi culturali.] Si tratta di andare insieme a cercare tracce di competenza e abilità, ma soprattutto di poesia e bellezza, di immaginazione e desiderio, per rintracciare e vivificare. Si tratta di una narrazione familiare, di una postura mentale nel lavoro con la famiglia che si propone come estetica, ovvero sensibile alla bellezza delle relazioni tra le persone. Assumere un posizionamento estetico significa guardare e ascoltare con curiosità l’altro; è una sorta di reciproco spiazzamento al suo raccontarsi/rivelarsi. Per lavorare con le famiglie e le loro storie/romanzi possibili lasciandosi orientare dalla prospettiva salutogenica e dalla curiosità e, ancor di più, dalla ricerca della bellezza, non è sufficiente l’utilizzo di domande ben pensate e la cura auto-riflessiva e auto-consapevole del proprio posizionamento. È auspicabile utilizzare linguaggi e grammatiche capaci di dare voce ad aspetti della vita umana che non sono totalmente verbalizzabili: il racconto, la metafora, la poesia, il disegno, il suono della voce; più in generale, l’idea è quella di ancorare i percorsi di cura al nesso tra immaginazione ed educazione, utilizzare i linguaggi simbolici, metaforici e narrativi per creare nessi impensati. Usare l’immaginazione simbolica permette di accedere in modo leggero e veloce a una dimensione affettiva, emotiva e spirituale. La proposta è quella di pensare il lavoro con le immagini e l’immaginazione come uno dei tanti possibili per suscitare la ricerca della bellezza, per aver cura dell’altro e per attivare cura tra le relazioni. Si può proporre un foglio bianco e dei colori con cui rappresentare creativamente noi stessi, le nostre relazioni familiari, oppure un’esperienza, un’emozione, un concetto, ma anche il problema per cui abbiamo chiesto aiuto. Capitolo 7 – Tra micro e macrostoria: lo sguardo biografico per comprendere la vita familiare L’approccio biografico e autobiografico è una via per comprendere l’unicità della cultura di ogni famiglia; allo stesso tempo ci permette di vedere le connessioni tra il singolo sistema familiare e il contesto più ampio. Le narrazioni familiari ci aiutano a comprendere come cambia la vita quotidiana e come cambiano le relazioni, non solo per fattori interni a quella famiglia, ma per l’influenza delle determinanti sociali, dell’appartenenza di classe, territoriali, dei ruoli di genere. [Narrativa familiare, miti e leggende: la narrativa familiare è un insieme ampio e articolato di processi, individuali e collettivi, di creazione di storie che vengono condivise, modificate, arricchite, risignificate a ogni passaggio e consegnate agli interlocutori interni ed esterni alla famiglia. Mito: il mito familiare riguarda un certo numero di opinioni ben sistematizzate, condivise da tutti i componenti della famiglia, concernenti i reciproci ruoli familiari e la natura della loro relazione; i miti familiari comprendono molte regole nascoste della relazione; l’adesione al mito familiare impedisce l’innesco di processi di trasformazione riducendo al minimo i cambiamenti. Alcuni miti familiari molti comuni sono: il mito della famiglia felice e priva di problemi, il mito del capro espiatorio dove la responsabilità di tutti i problemi ricade su un componente, il mito della sfortuna, il mito dell’unità che esclude i membri esterni alla famiglia, il mito dell’incomunicabilità; il mito può avere anche valore positivo e generativo in quanto favorisce la creazione e il rinforzo del senso d’identità della famiglia, soprattutto nei momenti di transizione; parlando delle famiglie come sistemi auto-mito-poietici, Formenti vede interagire tra loro i miti individuali con quelli coniugali e familiari. Leggende: le leggende familiari sono quei racconti di eventi e situazioni specifiche che, mescolando realtà e immaginazione, vengono tramandati di generazione in generazione attraverso la parola; come per il mito, anche la leggenda può prendere la connotazione di cosa falsa, frutto di fantasia; la leggenda contiene dunque istruzioni implicite sull’attraversamento delle situazioni difficili, sulla soluzione dei problemi: offre modelli, significati, copioni e incitazioni.] Costruzioni biografiche. Le storie, nella pedagogia della famiglia, possono offrire sia un modo di leggere le trasformazioni della vita familiare sia un metodo di intervento educativo. Costruzione biografica: la vita vissuta in presa diretta, per poterle dare senso dobbiamo guardarla retrospettivamente, solo le storie che raccontiamo ci aiutano a costruire tale senso. Per comprendere l’impatto della dimensione biografica sulla vita familiare ci è necessaria l’immaginazione autobiografica, cioè la capacità di comporre sguardi multipli andando oltre le nostre cornici disciplinari e professionali. Il mondo esterno entra continuamente nel microcosmo familiare, come nel caso della scolarizzazione dei figli; a ogni nuovo ciclo generazionale, relazionarsi con la scuola è uno dei modi per la famiglia di aprire i propri confini, di rimettere in discussione i paradigmi consolidati. [Paradigma familiare: il paradigma familiare è il complesso di presupposti, immagini reali e ideali, rappresentazioni e concetti che costruiscono un modello cognitivo, emotivo, valoriale ed etico con cui la famiglia sceglie di dare forma alle sue azioni. Il paradigma è una variabile sistemica in quanto esprime caratteristiche che appartengono alla famiglia nel suo insieme. L’analisi del paradigma familiare non serve a connotare le famiglie come patologiche o sane, ma a comprendere la molteplicità e l’unicità del loro modo di dare senso. Reiss individua tre parametri che pone agli estremi di un continuum entro cui è possibile collocare ogni famiglia: 1) il primo parametro analizza la visione del mondo in termini di configurazione: una configurazione alta è propria di una famiglia con una visione del mondo ordinata e controllabile, all’estremo opposto si trova una famiglia con una configurazione bassa che vede il mondo caotico e incontrollabile, quindi si sentirà impotente e minacciata 2) il secondo parametro è la coordinazione: a un estremo troviamo la coordinazione alta di una famiglia che si presenta altamente coesa e si aspetta di essere trattata come un gruppo, all’estremo opposto una famiglia con configurazione bassa appare come un aggregato di individui separati che richiedono un riconoscimento della loro individualità 3) il terzo parametro si concentra sull’atteggiamento rispetto all’informazione: una famiglia si mostra aperta se mostra di riconoscere e accogliere i messaggi, le differenze, le novità, modificandosi di conseguenza, all’opposto appare chiusa se riconosce solo ciò che è già noto e tende alla conferma. Dalla combinazione di questi tre livelli di analisi si compongono i diversi paradigmi familiari; Reiss individua i seguenti paradigmi familiari: famiglia orientata al consenso, alla distanza, all’ambiente al risultato. Nel ciclo di vita di una famiglia si presentano momenti di crisi che possono mettere in discussione il modello di interazione e comportare una revisione del paradigma familiare.] Analogo discorso vale per la medicalizzazione tecnicizzazione delle cure. Quale idea di apprendimento per la famiglia. è andato in frantumi la regolarità e sequenzialità delle tappe, la loro durata e soprattutto i significati che si attribuiscono ai vari movimenti. [Apprendimento: Bateson lo definisce come un fenomeno gerarchicamente organizzato nel quale sono coinvolti diversi ordini di cambiamento; ogni livello di apprendimento può cambiare e dunque generare un livello di apprendimento superiore. Il livello più semplice, l’apprendimento 0, corrisponde alla risposta specifica che segue uno stimolo sensoriale, le reazioni sono sempre uguali e prevedibili; si basa su azioni non suscettibili di correzione, l’errore non serve in quanto non dà alcun contributo all’abilità del soggetto in situazioni successive. Nell’apprendimento 1 è l’errore vantaggioso perché fornisce all’organismo informazioni capaci di generare un cambiamento nella risposta; Bateson definisce A1 il processo che avviene per tentativi ed errori; alcuni casi sono il riflesso condizionato, un apprendimento strumentale, l’apprendimento meccanico, l’annullamento o inibizione della risposta. L’apprendimento 2 è particolarmente importante nell’ambito delle relazioni educative e di cura; è chiamato anche deuteroapprendimento, è un cambiamento nel processo dell’apprendimento 1, per esempio un cambiamento correttivo nell’insieme di alternative entro il quale si effettua la scelta; l’apprendimento 2 è adattivo, avviene un processo di generalizzazione del contesto basato adattamento di cornici precedenti alle nuove informazioni in ingresso. La vita familiare chiede molto spesso di cambiare cornice. PARTE SECONDA – AZIONI CRUCIALI NEI SERVIZI: VERSO UN SAPERE INCARNATO, DINAMICO, RIFLESSIVO Tutta la prima parte di questo libro è stata dedicata allo sviluppo di una sensibilità per il pattern che connette. Ora si tratta di vederlo in azione dentro contesti e situazioni specifiche; si affronteranno le azioni cruciali che caratterizzano l’operatività di un educatore che incontra la famiglia e desidera celebrarne la complessità sistemica. Verranno raccontate esperienze e pratiche che confluiscono in una riflessività che nasce dall’azione stessa del raccontare: ricostruire gli eventi in modo sincero richiede che si scelga una punteggiatura, quindi, vi è un invito a pensare, a dare una direzione, un senso. La scelta di partire dal racconto si basa su alcune tesi: 1. il sapere educativo è sempre incarnato e relazionale; il racconto è la via più immediata e coerente per accedere ai saperi dell’educatore, co-costruiti nella relazione con gli utenti, con altri, con il servizio in quanto sistema; il racconto diventa l’unico modo sensato per comprendere e ricostruire a posteriori. Lo sguardo sistemico è caratterizzato dalla dinamicità, la metafora del flusso. 2. nelle storie c’è un prologo, uno svolgimento, un epilogo, pensare per storie inserisce il tempo nelle nostre vite; il lavoro educativo è un muoversi per mettere in movimento. Anche il raccontare è un movimento, che genera a certe condizioni un pensiero che muove l’azione. 3. riflessività come postura abituale del professionista, riflessione come pratica di cura di sé e dell’altro. La riflessività sistemica è circolare e relazionale: non la singola mente che si auto- interroga privatamente, ma un andirivieni tra sé e l’altro, un dialogo tra fatti e significati, tra azioni e teorie. Capitolo 1 – Movimenti: il lavoro educativo con la famiglia [Circuiti riflessivi: la Coordinated Management of Meaning ha operato una revisione del doppio legame alla luce del concetto di circuito riflessivo; secondo gli autori solo alcuni circuiti riflessivi, che chiamano bizzarri, possono essere identificati come doppi legami, responsabili di disagio e confusione fino a sfociare nella psicopatologia; i modelli comunicativi che pur contenendo riflessività non generano disagio sono chiamati circuiti riflessivi armonici. La teoria del CMM fornisce indicazioni per discriminare i circuiti riflessivi armonici da quelli bizzarri, cioè la comunicazione generativa da quella patologica. Bateson distingueva in ogni messaggio due livelli di significato organizzati gerarchicamente: il livello di contenuto e quello di relazione; la confusione tra i due livelli si verifica quando non è chiaro quale dei due sia da intendere come superiore in termini gerarchici. Un certo grado di riflessività è comunemente presente nelle relazioni gerarchiche; il circuito riflessivo compare quando le due forze, implicativa e contestuale, avranno la stessa potenza; in quel caso l’ambiguità sarà massima. I circuiti riflessivi sono intrinseci all’interazione sociale; all’inizio d’un qualsiasi episodio comunicativo la qualità del contesto non è chiara perché non è già data, ma verrà costruita durante l’interazione, a ogni passaggio. Per analizzare una comunicazione sono necessari livelli molteplici di contesto e di significato; nel CMM il modello di analisi della comunicazione a due livelli proposto da Bateson (contenuto e relazione) viene ampliato fino a sei: il contenuto, gli atti linguistici, l’episodio, la relazione fra i comunicanti, il sé o biografia interna, i modelli culturali. In ogni scambio comunicativo vengono definiti tutti questi livelli che formano un sistema gerarchico di significati. Per distinguere i circuiti armonici da quelli bizzarri vengono introdotti i concetti di transitività e di intransitività; due livelli di significato sociale hanno una relazione transitiva quando ciascuno può diventare il contesto dell’altro senza che si modifichi il significato di nessuno dei due; due livelli di significato hanno una relazione intransitiva quando non è possibile che ciascuno dei due diventi il contesto dell’altro senza che questo cambi il significato. La transitività si basa sulla cultura e sull’esperienza personale che fissano delle metaregole; le metaregole hanno origine dalle percezioni sociali e possono fare da contesto per altre percezioni sociali, in base a specifici modelli culturali e familiari e in base al bagaglio di esperienze personali. Un circuito riflessivo può risultare bizzarro per una persona/famiglia e armonico per un’altra, è impossibile sta stabilire a priori se si è di fronte al doppio legame.] Nello scaffolding l’allievo esegue il compito con l’assistenza dell’esperto mentre nel fading l’allievo procede autonomamente mentre l’esperto fornisce solo suggerimenti; lo scaffolding è un processo relazionale reciproco, c’è un processo comunicativo fatto di azioni e reazioni circolari; l’educatrice offre una struttura che però non sorregge le persone ma le azioni. Il contesto. C’è una rete di relazioni significative intorno a ogni famiglia; avere in mente una chiara mappa di queste relazioni è il primo passo dell’analisi del contesto. C’è un contesto sociale, o meglio una rete di relazioni significative, ci sono relazioni prossimali, relazioni istituzionali, relazioni distali o anche occasionali che acquisiscono per qualche motivo un valore trasformativo. La circolarità delle comunicazioni, dei feedback, delle ridondanze definisce il contesto come matrice di significati ovvero dà senso a ciò che accade tra le persone; la rete delle relazioni è la risorsa più importante che ognuno di noi ha per crescere. Un educatore è qualcuno che sa come muoversi tra queste relazioni, come valorizzarle per sfruttarne le potenzialità; per riuscirci deve fare quella che i sistemici chiamano “analisi del contesto” cioè una riflessione che risponde alla domanda “dove siamo?”. Il contesto istituzionale è un luogo concreto dentro il quale avviene l’intervento educativo: un’organizzazione di pratiche e di significati che propone cornici politiche e semantiche, le quali definiscono cosa può e non può accadere in determinate circostanze. L’analisi del contesto serve per realizzare una composizione delle cornici, per creare comunicazioni propizie alla trasformazione; l’analisi del contesto, dunque, va oltre un prendere atto dell’organigramma, dei mansionari, delle procedure istituite ma anche comprendere come il servizio evolve e si trasforma; tutti gli operatori sono chiamati a una maggiore consapevolezza di ciò che accade intorno. Il lavoro educativo si connota come la capacità di leggere e usare in modo creativo le risorse e i vincoli presenti, ridefinendo in tempo reale gli scenari, gli obiettivi e le azioni concrete. Gli ingredienti dell’intervento educativo. I classici concetti che definiscono gli ingredienti base di ogni intervento sono: 1. la domanda: un modo per aiutare che non si basi sul negativo, sul far sentire l’altro incompetente consiste nel sostituire al bisogno il desiderio, all’aiuto la cura; non si parla più di analizzare la domanda come se fosse un dato preesistente alla relazione, ma di generare domande multiple, capaci di dare senso alla relazione e alle sue continue trasformazioni. 2. l’invio: posizionarsi rispetto all’invio in modo corretto e generativo di possibilità è una competenza importante. 3. il mandato: interrogarsi sul mandato e disporsi a interpretarlo e ridefinirlo rende l’operatore protagonista del proprio lavoro, non è necessario subire passivamente un mandato. 4. la convocazione di tutto il sistema: nell’approccio sistemico la convocazione è l’invito a tutta la famiglia a presentarsi al servizio. La convocazione contiene in sé i presupposti dello stigma. In un’ottica sistemica, è famiglia l’insieme delle persone coinvolte nella cura, nel problema, quelle che vedono questo bambino, quelle che chiedono aiuto, quelle che danno un contributo nel cercare soluzioni; convocare significa mettere insieme le voci, tutte le voci, per ricomporre le polarizzazioni e le fratture prendendosi cura delle armonie del sistema e generando nuove sonorità; il pensiero dell’operatore sistemico è sempre volto all’insieme delle relazioni e al desiderio di allargare il contesto. 5. la costruzione del setting: la ritualizzazione connota il tempo dell’intervento come uno spazio speciale, dedicato alla cura di sé e degli altri; l’operatore propone azioni specifiche che non sono quotidiane per la famiglia, offre esperienze potenzialmente trasformative. Pensare il setting, organizzarlo, prendersene cura nei minimi dettagli significa chiedersi continuamente, riflessivamente, quali messaggi si vogliono dare e ricevere nell’intento di sostenere e accompagnare le trasformazioni delle relazioni familiari e prendersi cura dei legami, di instillare senso di competenza, speranza e bellezza. 6. il processo: contratto, intervento, valutazione, chiusura: nel contratto sono definiti gli obiettivi, ma l’intervento educativo non può solo avere esiti attesi; l’intervento ha una durata, è bene definire in modo esplicito inizio e chiusura; uno dei problemi più diffusi dell’intervento educativo è la sua cronicizzazione. Partire dalla fine, cioè dai criteri di valutazione, è utile perché la valutazione ci dice a che cosa diamo valore; i criteri di valutazione dovrebbero essere fissati insieme alle famiglie tenendo conto dei bisogni, dei desideri e dei punti di vista di ciascuno dei membri. La circolarità tradotta in comunicazione. Il concreto del lavoro educativo avviene in un flusso comunicativo incessante al quale le persone partecipano. L’operatore sistemico partecipa alla comunicazione in modo attivo, tiene conto del processo comunicativo in atto e prova a perturbarlo alla ricerca di nuove possibilità; è responsivo cioè adotta una postura di grande attenzione per i feedback; il suo modo di comunicare non è centrato sull’intenzionalità del messaggio ma sugli effetti pragmatici (sarà la risposta che ricevo a dirmi che cosa ho detto, che significato ha la mia azione). Ipotizzazione, circolarità e neutralità sono le linee guida che portano da una concezione della conversazione come raccolta di informazioni sulla famiglia all’idea molto più sistemica di una conversazione a più voci nella quale si generano informazioni attraverso il gioco delle differenze; le domande sono formulate in modo tale da introdurre differenze che sono spiazzanti per la famiglia e ne riorientano il movimento in direzioni impreviste. [Ipotizzazione, circolarità, neutralità: sono tre principi per la conduzione della seduta di terapia sistemica familiare; si voleva sottolineare l’importanza delle azioni comunicative e del modo di porsi durante l’incontro con la famiglia. Il primo principio, l’ipotizzazione, consisteva nella capacità dell’equipe di formulare un’ipotesi sistemica fondata sulle informazioni in suo possesso, e funzionale a garantire l’attività dei conduttori nel ricostruire i giochi relazionali della famiglia; l’idea che c’è sempre un’altra idea, non c’è mai un un’idea finale e vera. Strettamente legata all’ipotizzazione era la circolarità cioè una conduzione basata sulle retroazioni della famiglia, sollecitate da domande che venivano poste in termini di rapporti, cioè di differenze possibilità. L’intervento, quindi, pur nato a partire dai bisogni dei più piccoli, non può prescindere dal tenere in costante considerazione il sistema di relazioni complessive. Il punto di partenza dell’ADM è proprio la relazione, l’alleanza possibile con la famiglia. [Curiosità e irriverenza : in ambito sistemico, Cecchin elabora il concetto di curiosità come la possibilità di percepire l’armonia dei sistemi in un modo nuovo. Il terapeuta esperto che pensa di sapere e classifica la patologia osservata (diagnosi) smette di ascoltare e di essere curioso perché non gli serve cercare altre spiegazioni. Il correttivo è, a un primo livello, una postura di curiosità “buona” che porta a sperimentare e inventare punti di vista e mosse alternativi, i punti di vista e mosse alternativi generano, a loro volta, curiosità. C’è però una seconda trappola in agguato, il terapeuta istruttivo, che cerca di insegnare alle famiglie cosa fare e come fare, diventa un’insegnante. C’è una curiosità di secondo livello, non per le cose in sé, ma per come sono interconnesse. La curiosità sistemica ci invita a fare un salto: anche nei casi più disperati riconosciamo che il sistema funziona, è vivo. Si tratta di comporre due posizioni: quella di aiutare l’istituzione a svolgere la sua funzione di controllo e contenere la sofferenza del sistema, insieme a quella che accetta il sistema per quello che è. Invece di dare consigli, come farebbe un moralista, l’operatore curioso cerca di capire il messaggio. Il pregiudizio sistemico è che se un sistema esiste vuol dire che qualcosa funziona; la curiosità ci fa cercare ciò che tiene insieme questo sistema. Il processo di ipotizzazione favorisce la ricerca continua di descrizioni e spiegazioni diverse. Cecchin continuerà a riflettere sulla posizione del terapeuta: l’irriverenza sarà il passo successivo; proprio l’entusiasmo nei confronti di un modello o di un’ipotesi aiuta il terapeuta a entrare in contatto con una famiglia senza perdere quella posizione di relativo distacco che rende possibile il rispetto e alimenta la curiosità.] La casa. Il nome Assistenza Domiciliare Minori indica che il servizio si dovrebbe svolgere a domicilio. Nella maggior parte dei casi, l’educativa domiciliare è un intervento coatto; per questa ragione l’operatore, in quanto visto come parte del servizio sociale, non può essere percepito da subito come una potenziale risorsa dai membri della famiglia. La diffidenza, la chiusura e persino l’aperta aggressività sono inizialmente interpretabili come un modo legittimo, per quanto spiacevole, di prendersi cura della propria famiglia rispetto a quelli che appaiono come attacchi e tentativi di invasione. Compito dell’educatore è allora quello di guadagnarsi quella fiducia che permetta alla famiglia di aprire la porta della propria storia, per iniziare un percorso di co- costruzione di possibilità nuove. Lo stare in una casa permette di osservare processi e situazioni ripetitive che sarebbero totalmente invisibili e probabilmente trascurati in altri contesti e interventi educativi. Dalla casa si può uscire per andare verso luoghi altri, che si trasformano in luoghi educativi proprio per il loro essere altri, ma connessi con la casa e con la famiglia. L’epistemologia sistemica invita a concentrarsi non solo sul bambino, ma sull’intero sistema di cure e di interazioni in cui è inserito quotidianamente. La famiglia e l’educatore: dal sostituire al valorizzare le relazioni. Non stupisce che la famiglia opponga resistenze all’ingresso dell’operatore, soprattutto se imposto da un decreto. Molti interventi domiciliari si trasformano in una sorta di sostituzione del genitore da parte dell’educatore nella funzione di sostegno e supporto ai figli; questo modo di intendere l’intervento realizza una “colonizzazione educativa”: concentrarsi unicamente sul figlio porta sullo sfondo le figure genitoriali, svalorizzandole ulteriormente; si perde così l’occasione di sfruttare appieno un intervento che dovrebbe invece partire proprio dalla storia della famiglia, dalle risorse effettive o potenziali dei genitori, dallo stile e dai modelli educativi e culturali che questi possono riconoscere e/o sviluppare come propri. Il rischio del sostituirsi ai genitori può portare ad una sorta di deresponsabilizzazione progressiva degli stessi e ad alimentare la convinzione da un lato che i genitori sono incapaci di badare al figlio e dall’altro che proprio il bambino sia il problema, confermandone la posizione di capro espiatorio. L’intervento educativo può proporsi come maggiormente ecologico e caratterizzarsi come lavoro con (e non su) la famiglia. Tutti i membri della famiglia si possono sentire attori coinvolti. Il sistema famiglia è quindi al centro dell’intervento domiciliare, come rete di relazioni essenziali nella vita di un bambino o di un adolescente, un nucleo affettivo da cui è impossibile prescindere se l’obbiettivo principale dell’intervento vuole essere il benessere del minore e di tutti coloro con cui si relazione, cioè se l’obbiettivo principale dell’intervento è che tutti stiano un po meglio; la famiglia diventa protagonista attiva di un processo di evoluzione e cambiamento. Compito dell’operatore è da un lato trovare le strategie per potenziare queste risorse e dall’altro co-costruire insieme alla famiglia delle risorse nuove, dei percorsi possibili e percorribili che la famiglia possa sentire come proprie portare avanti anche quando l’intervento educativo terminerà. Diventare consapevoli dei propri pregiudizi e delle proprie premesse, accettare e diventare consapevoli del proprio stato emotivo e dei propri valori sono azioni auto-riflessive necessarie. La riflessività permette di generare e riconoscere le proprie cornici di riferimento, la propria epistemologia dell’educazione, per poi metterle in connessione con le cornici della famiglia con cui si è chiamati ad interagire. Capitolo 4 – Comporre i legami messi alla prova dal carcere L’arresto del genitore è un momento topico che spezza i rapporti e mette in pericolo i legami. Il progetto di cura che più immediatamente appare possibile e forse necessario è il ricongiungimento. Nell’ambiente penitenziario di lavoro con le famiglie è stata messa in atto la “pratica compositiva” nell’ambito della fondazione di Bambinisenzasbarre dove la composizione assume il valore di prevenzione sociale e protezione dei diritti dell’infanzia; il mantenimento dei legami con i genitori è primario. Il contesto istituzionale: il carcere e le sue leggi. Il colloquio è un momento prezioso e cruciale per la cura del legame; la famiglia rappresenta non solo un sostegno affettivo importante durante la detenzione ma l’ambito in cui la persona detenuta può trascorrere parte della pena. Il recupero della relazione con i figli sembra portare la persona detenuta a ritrovare una motivazione al cambiamento. Al sostegno dei rapporti familiari viene riservato una particolare attenzione nell’ordinamento penitenziario italiano: sono riconosciute una detenzione domiciliare speciale e l’uscita diurna dal carcere con rientro la sera. Un intervento a più livelli. L’intervento di bambinisenzasbarre combina due dimensioni: da un lato la responsabilità contenuta nel mandato istituzionale e il rispetto dei suoi vincoli, dall’altro la flessibilità e creatività dell’appartenenza al privato sociale. L’attenzione va innanzitutto al bambino in quanto la sanzione penale, interrompendo i rapporti affettivi, interviene come un fatto traumatico nella sua vita. Si agisce a più livelli: le attività di carattere psicopedagogico in carcere e le azioni di rete a livello locale, nazionale e internazionale. Il sostegno e l’accompagnamento della relazione genitoriale durante la detenzione si configura anche come intervento di prevenzione sociale; è un dato ormai consolidato da diverse ricerche che il figlio di un genitore detenuto ha maggiori probabilità di trovarsi in conflitto con la legge e di ripetere l’esperienza detentiva del genitore. È una pratica che individua un percorso di accompagnamento e di sostegno psicopedagogico alla coppia genitore-figlio nel suo sistema di relazioni; si è scelto di privilegiare il diritto del figlio al mantenimento della relazione e di favorirne l’inserimento nel tessuto sociale; nei confronti del genitore, parallelamente, si realizza un lavoro di mediazione che gli consenta di riconnettersi con la rete di relazioni da cui è separato a causa della detenzione, e con una rete di rapporti istituzionali che coinvolge servizi interni al carcere. La cura dei legami in carcere: temi emergenti. Se il bambino ha meno di tre anni la frattura viene solo differita nel tempo, infatti, dentro il carcere la relazione madre-bambino è molto intensa, quasi esclusiva, un piccolo mondo a due dove l’esterno appare lontano e irraggiungibile. Vi è una separazione forzata e traumatica nella prima fase dopo l’arresto, periodo in cui il bambino non ha più contatti con la madre mentre la madre a sua volta non ha notizie del figlio; questa condizione può durare diversi mesi e un intervento tempestivo di ricomposizione della comunicazione può risultare determinante. Una linea guida prioritaria di qualsiasi intervento educativo in carcere è ricordare sempre che la persona non è il reato. La persona che incontriamo in carcere ha un figlio, soggetto assente, che il nostro intervento cerca di presentificare, innanzitutto definendolo come proprio destinatario; è un bambino che nella maggior parte dei casi non conosce la verità sulla condizione del genitore, ma questa può essere appresa solo all’interno dei canali familiari. Il nostro compito è sostenere il processo di consapevolezza della verità raccontabile, un compito difficile perché ogni famiglia ha le sue strategie, il suo percorso possibile per far fronte all’esperienza della detenzione di un congiunto. Il primo passo è quello di dire ai bambini la verità sui loro genitori con parole a loro accessibili; la chiave di tutta la questione è la consapevolezza dei bambini che i loro genitori li continuano ad amare. Il silenzio e le bugie vincolano, rendono impossibile crescere liberi. Se la separazione fisica avviene in modo brusco e improvviso, in assenza di relazioni sostitutive sufficientemente rassicuranti, è difficile per il bambino ancorare la propria posizione all’interno della configurazione familiare; l’interruzione del legame crea così un disorientamento angoscioso, sentimenti di abbandono o di rifiuto; il bambino che si sente abbandonato percepisce se stesso come non meritevole d’amore, un bambino cattivo. Il bambino che incontriamo è spesso arrabbiato, ma fatica ad esprimere questo sentimento; le strategie di dissimulazione e negazione delle emozioni trasformano a volte la naturale sofferenza in disadattamento, in alcuni casi in sintomo. Aiutare a comprendere il comportamento apparentemente incoerente dei figli rappresenta spesso l’intervento primario per salvaguardare la relazione nella coppia genitore-figlio. Prendersi cura del legame genitoriale: il processo l’intervento. Il genitore viene considerato come un genitore sufficientemente buono, che ha però bisogno di essere aiutato a ritrovare la legittimazione del proprio ruolo; infatti, separarsi dai figli significa perdere le proprie prerogative di genitore e cioè di adulto riconosciuto nel suo potere d’azione e di influenza sulla vita nel figlio. Possiamo definire il processo di intervento come la realizzazione: - di un percorso strategico di informazione, formazione, sensibilizzazione - come intervento di prevenzione sociale - che coinvolge la rete interna al carcere e quella esterna sul territorio - per una presa in carico Allo scopo di allargare il contesto, può essere richiesto al bambino anche di costruire un genogramma familiare oppure disegnare i blasoni familiari cioè una rappresentazione grafico- simbolica dei valori di una famiglia. Buone pratiche da adottare dagli educatori in situazioni di conflitto sono: - l’ampliamento dello sguardo che permette di vedere il carattere sistemico del conflitto - posizionarsi continuamente rispetto a ciò che si vede: posizionarsi significa entrare in contatto con premesse diverse, sentire lo scontro e utilizzarlo come occasione di autoconsapevolezza - potrebbe essere utile fare un esercizio di riposizionamento e domandare: quali sono gli effetti particolari di questi principi generali nella situazione che ho raccontato? - riposizionarsi rispetto ai principi che hanno fondato l’intervento fa sorgere domande nuove; la curiosità come posizionamento sempre in divenire; Il continuo posizionarsi è dunque la premessa indispensabile per imparare a saper stare nell’incertezza ad accogliere l’inedito e il conflitto. Capitolo 6 – Costruire consapevolezza nella relazione con le famiglie [Emozioni: per Bateson le emozioni sono strutture di relazione, sono pensiero. La teoria relazionale delle mozioni implica prima di tutto la considerazione che le emozioni non sono mai solo interne ma sempre interne-esterne; non reazioni a stimoli esterni ma azioni effettive volte al mantenimento di cornici di significato che danno forma ai processi comunicativi entro i quali esse emergono; le emozioni sono interattive e danno forma alle relazioni cui partecipiamo.] Il Centro diurno “Vivi ciò che sei”. Il centro diurno “Vivi ciò che sei” della cooperativa “L’albero della vita” accoglie dal 2001 ragazzi e ragazze tra gli 11 e 17 anni. Il livello di gravità delle situazioni familiari è tale da prevedere un intervento dei servizi ma non così grave da richiedere l’allontanamento del minore dalla famiglia. L’intervento con le famiglie rappresentano una parte particolarmente importante nel lavoro educativo del centro. Sono stati intervistati sei educatori da cui è emerso che: - il primo approccio alla famiglia da parte degli operatori ricarica il modello della “famiglia assente”: la famiglia non è in alcun modo considerata nella cornice di riferimento con cui si guarda al minore - subito dopo il modello della famiglia assente viene quello della diffidenza verso una famiglia vista come distante o potenzialmente problematica - poi situazioni in cui la famiglia è etichettata definitivamente come sbagliata. Le cornici di senso di genitori ed educatori a volte non coincidono; due interpretazioni diverse spesso conducono a un conflitto; una reazione tipica dell’operatore è la sensazione che la famiglia ostacoli il lavoro del centro. Nell’interazione educativa accade di fare troppo o troppo poco l’atto educativo è frutto di un posizionamento che è fisico ma soprattutto mentale, fatto di emozioni e pensieri. Quasi tutti gli educatori riconoscono di avere avuto un pregiudizio molto forte nel primo approccio con le famiglie; in questo passaggio è cruciale il lavoro di gruppo con i colleghi nella riunione d’equipe e nella supervisione. Il contatto con le famiglie sollecita il ricordo e la riflessione sulle proprie esperienze familiari; l’esperienza personale permette innanzitutto di connettersi empaticamente con le dinamiche che osserva nelle famiglie del Centro. L’atto educativo consiste nell’offrire ai ragazzi e alle famiglie un punto di vista diverso che colloca i conflitti in un orizzonte di senso più ampio, all’interno di una vicenda personale e relazionale di crescita; quell’atto è anche profondamente auto-educativo per l’educatrice (educare per educarsi). Una pratica di consapevolezza nella relazione. Proviamo a sviluppare una pratica alla consapevolezza di sé nella relazione educativa attraverso due idee-strumenti utilizzati dalla PTM: l’osservazione di sé e la mediazione. L’osservazione di sé: l’esercizio dell’auto-osservazione consiste nella ricerca continua di uno stato di attenzione verso se; l’attenzione è in realtà divisa perché nella relazione educativa mentre osservo me stesso osservo e porto l’attenzione anche all’altro. Caratteristica fondamentale dell’osservazione è la neutralità ovvero la distinzione tra dati e informazioni: i dati sono elementi di realtà puri che l’educatore seleziona e mette a disposizione dell’educando come elementi assolutamente neutri, le informazioni sono invece dati che l’educatore ha già caricato, meccanicamente e in maniera indiretta, di una connotazione di valore derivata da un pregiudizio. Il processo di consapevolezza nella direzione del dato si configura come uno strumento utile per cercare di svelare i filtri che applichiamo per interpretare la realtà. La mediazione: la mediazione è l’azione che permette l’incontro dei saperi tra educatore e educando affinché si verifichi un effettivo apprendimento da parte di quest’ultimo; il processo di mediazione nella PTM viene riassunto nella cosiddetta legge dei 100 passi che consiste nello stimolare l’altro a fare dei passi nella propria direzione, anche solo un passo manifesta la sua crescita; l’educatore che compie tutti e 100 i passi corrisponde al caso di colui che si sostituisce all’altro, chi non compie alcun passo esprime una rinuncia al ruolo educativo; il processo di mediazione implica una componente emotiva perché l’educatore è un modello con cui c’è un’intensa relazione affettiva. Con l’ausilio dell’osservazione di sé e la mediazione possiamo dare un nome alle reazioni, ai gesti, alle emozioni, alle cornici di pensiero per tracciare una mappa delle nostre conoscenze. I cambiamenti nella relazione educativa con le famiglie avvengono grazie a una consapevolezza la quale permette di rilevare elementi in precedenza non considerati, di cambiare le cornici di pensiero che inquadrano gli eventi in maniera statica e riprodurre quelle trasformazioni che fanno avanzare la relazione educativa. Capitolo 7 – Fare spazio e dare voce: l’incontro con i familiari in un Servizio psichiatrico territoriale Il Progetto Famiglie. Si è pensato ad uno spazio fisico e mentale da dedicare in modo specifico alle famiglie, uno spazio di ascolto in cui l’attenzione non sia posta sulla diagnosi, sulla malattia, ma sul vissuto che di essa hanno i familiari, sull’interazione tra la malattia e il significato che la famiglia le attribuisce e sulla possibilità di trovare un senso. [Diagnosi: indica il processo di identificazione di una malattia in base a sintomi o segni; la diagnosi in ambito medico psichiatrico tende a diventare un concetto senza tempo, totalizzante, che reifica i comportamenti e porta con sé un significato di irreversibilità nella storia della persona. La competenza di un operatore sistemico si costruisce sulla capacità di comprendere quando è utile difendere il valore della diagnosi, quando cercare di capire come andare oltre le etichette univoche, come integrare e comporre lo sguardo e il linguaggio medico con altri sguardi e discorsi]. Il nostro intervento è pensato dunque innanzitutto come uno spazio di ascolto, in cui sia possibile, in un clima di accoglienza, definire l’attuale situazione familiare, attribuire senso e significato agli eventi alle relazioni in corso; uno spazio dove raccontare la propria storia, dove la sofferenza possa essere legittima e riconosciuta. È proponendo un nuovo modo di parlare e di pensare alla situazione che si può aprire una possibilità diversa di stare con il proprio familiare. La narrazione biografica può diventare una via per ricominciare a condividere con gli altri i propri significati emotivi e cognitivi. Chi narra diventa meno estraneo e questo permette all’operatore di adottare come stile cognitivo una curiosità irriverente; la curiosità ci aiuta a continuare a cercare descrizioni e spiegazioni diverse anche quando non siamo in grado di immaginarne altre. L’intervento con i familiari si va sempre più caratterizzando come un accompagnamento al becoming parent. A chi chiedeva soluzioni immediate e concrete per affrontare la quotidianità è stata offerta la possibilità di passare da una posizione passiva di assistito a una più attiva di co-risolutore. Capitolo 8 – Apparecchiare contesti di apprendimento per promuovere competenze [Stigma: la parola stigma oggi denota disapprovazione sociale legata a caratteristiche della persona, fisiche o morali; lo stigma porta alienazione, isolamento sociale. La costruzione dell’identità personale può essere descritta in termini di carriera morale: i modi di vivere, il processo di socializzazione sono diversi per chi è stigmatizzato dalla nascita; nel processo di socializzazione avviene un gioco di sguardi reciproci: è dallo sguardo degli altri che si apprende che cosa significa avere uno stigma e nelle interazioni si sviluppa la strategia per amministrarlo. Il riconoscimento è cruciale nella carriera morale di un individuo: non avrà bisogno di nascondere il suo stigma se accetta se stesso e si rispetta. Distinguere nettamente le persone stigmatizzate dai cosiddetti normali è un pregiudizio; lo stigma, come processo interattivo e di costruzione reciproca dell’identità, è rivelatore delle norme sociali che presiedono alla devianza e al conformismo]. La presa in carico delle famiglie in difficoltà tratta un disagio ormai conclamato, socialmente definito; l’idea di famiglia a cui sono rivolti è evidentemente quella di una famiglia malata, disfunzionale, in grave affaticamento e con manifeste inadeguatezze rispetto alla cura e all’educazione dei figli. C’è anche un altro modo di guardare e quindi di intervenire, un modo che presuppone processi di inclusione del disagio nella normalità, chiamando le famiglie a un lavoro insieme, non a partire dalle loro difficoltà ma dalle loro risorse, seppur a volte atrofizzate, povere e residuali. Abbiamo pensato quindi ad un laboratorio dove produrre esperienze in cui i partecipanti si sentano attivi, coinvolti, competenti. Una delle fatiche che tutti i genitori attraversano è l’isolamento, la privatizzazione del compito educativo e la solitudine che questo comporta. Il laboratorio si propone come uno spazio pubblico dove poter esibire gli stili educativi e sperimentare i ruoli familiari senza ripetere necessariamente gli stessi copioni che caratterizzano il privato di ogni famiglia e che causano cortocircuiti relazionali; ciò richiede la partecipazione attiva di genitori e figli insieme. Si vorrebbe offrire a ogni famiglia, attraverso il gruppo, la possibilità di sperimentare forme di comunicazione inedite tra adulti e con i figli e un’esperienza di condivisione. Gli incontri sono strutturati in maniera precisa e costante: 1. l’apertura della serata: seduti in cerchio ci si saluta e ognuno, adulti e bambini, si firma il registro presenze;
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