Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Riassunto di storia del quarto anno di scuola superiore, Sbobinature di Storia

Riassunto integrale del programma di storia di quarta superiore, Scenari vo.1 F.M. Feltri

Tipologia: Sbobinature

2021/2022

In vendita dal 02/12/2022

erika.venezia.3
erika.venezia.3 🇮🇹

4.7

(3)

8 documenti

1 / 164

Toggle sidebar

Spesso scaricati insieme


Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica Riassunto di storia del quarto anno di scuola superiore e più Sbobinature in PDF di Storia solo su Docsity! SCENARI 1 1. AGRICOLTURA E LAVORO DELL’UOMO TRA SEICENTO E SETTECENTO 1.1 Le case di reclusione per i poveri Il Seicento fu definito da alcuni storici una piccola era glaciale. Numerosi contadini videro i loro raccolti rovinati da una gelata fuori stagione o da estati fresche e brevi in cui l’eccesso di pioggia non permetteva ai raccolti di arrivare a piena maturazione. Nel 1692 solo in Francia morirono circa 2.800.000 persone. Pochi anni dopo in Finlandia la carestia del 1696 spazzo via un quarto di tutti gli abitanti del paese. In Scozia a causa del disastroso raccolto del 1698 il tasso di mortalità fu circa del 20%. In linea di massima la società non fu molto accogliente nei confronti di queste persone, che spesso vivevano già in miseria, ancor prima che la carestia li colpisse. A partire dalla fine del Cinquecento in tutti gli Stati si era diffusa l’idea secondo cui la maggior parte dei poveri era composta da imbroglioni e furfanti che preferivano farsi mantenere dalla collettività anziché lavorare. Questi poveri sventurati non potevano neanche ricevere la misericordia di Dio e quindi non dovevano essere aiutati dall’elemosina dei singoli cristiani. Le autorità di tutti gli Stati d’Europa vietarono il vagabondaggio e la mendicità e inoltre crearono appositi luoghi destinati alla reclusione di queste persone. In Francia nacquero nuove istituzioni denominate “ospedali generali”, ma in realtà si trattava di istituti che somigliavano a prigioni. La prima casa di segregazione per i poveri nacque a Lione nel 1614 e seguì la creazione dell’ospedale generale di Parigi nel 1657. Quest’ultimo fu istituito dal potere centrale e faceva parte di uno sforzo più generale di imporre in tutto il regno la reclusione dei poveri. In Francia addirittura nel 1662 un editto reale ordinò che tutte le città dovessero dotarsi di strutture adeguate, finalizzate ad educare i poveri. In Italia furono adottati provvedimenti simili sia dal papato che dal duca di Savoia. In Inghilterra, in particolare a Bristol, fu istituita la “workhouse” in cui furono rinchiusi, a fini educativi, i poveri considerati pigri e socialmente pericolosi. Si dava dunque per scontato che il povero fosse un personaggio immorale, una sorta di parassita che viveva alle spalle della comunità e pertanto doveva essere punito e riabilitato, cioè educato ad apprezzare il valore sociale e religioso. 1 1.2 Scompaiono le grandi calamità Nel Settecento la temperatura media crebbe di circa 1 grado. Tuttavia l’andamento dei prezzi dei cereali rimase una delle preoccupazioni principali per le autorità. Gli intellettuali e gli economisti cominciarono a sostenere che la libertà di circolazione dei cereali fosse l’unico mezzo per tenere sotto controllo i prezzi e garantire i rifornimenti. Al contrario, soprattutto in Francia, le attività tentarono di limitare il commercio di grani in quanto i contadini e i cittadini terrorizzati continuavano a scatenare tumulti. Crisi alimentari locali e sommosse furono all’ordine del giorno nella Francia del Settecento, che tuttavia non registrò più situazioni drammatiche come negli anni precedenti. Dunque il tempo delle carestie generalizzate era ormai dietro le spalle. Anche le epidemie di peste si fecero via via più rare e infine scomparvero definitivamente. A partire dalla seconda metà del Settecento si verificarono episodi di peste solo in Russia e nell’impero ottomano. Le ragioni per cui la peste abbandonò l’Europa occidentale nel Settecento ci sono ancora ignote. Probabilmente migliorarono un po’ ovunque le condizioni igieniche, limitando le occasioni di contatto tra gli esseri umani e le pulci dei topi che ospitavano e trasmettevano i batteri patogeni. 1.3 I primi successi della medicina moderna Per arginare alcune malattie, come la peste, furono adottate importanti misure di prevenzione. Oltre alla peste un’altra malattia che colpì gli europei nel Seicento e nel Settecento fu il vaiolo. In Islanda morirono circa 18.000 persone, mentre a Londra moriva di vaiolo un cittadino ogni 14 residenti. Chi guariva ne portava i segni per tutta la vita, in quanto il volto rimaneva segnato da numerose piccole cicatrici. Mary Worley Montagu, moglie del console inglese a Costantinopoli, si accorse nel 1717 che le donne turche avevano trovato un efficace sistema di prevenzione del vaiolo. Si trattava del cosiddetto innesto, ovvero un metodo che successivamente in Europa fu chiamato inoculazione: consisteva nel pungere una vena con un ago infetto della malattia. In tal modo il sistema immunitario produceva gli anticorpi capaci non solo di neutralizzare il vaiolo contratto, ma anche di impedire il manifestarsi della malattia. In questo modo l’organismo era immunizzato. Verso la fine del secolo il medico inglese Edward Jenner annunciò che lo stesso risultato si poteva ottenere trasmettendo agli esseri umani il vaiolo delle mucche, da qui il termine vaccinazione. Il medico aveva notato che le mungitrici che avessero contratto il vaiolo vaccino erano immunizzate contro il virus, che aggrediva gli esseri umani. Rispetto all’inoculazione la vaccinazione era molto più sicura, per cui divenne il simbolo della capacita umana di lottare contro la natura, servendosi della ragione. Gli studi più fecondi furono sicuramente quelli relativi all’anatomia e alla fisiologia umana, infatti fu legalizzata la pratica del sezionamento dei cadaveri. Nel 1761 Giovanni Battista Morgagni, professore all’università di Padova, pubblicò i risultati di 640 autopsie, offrendo un quadro praticamente completo di tutti gli organi. 2 compito di servire il sovrano. Da quel momento egli riuscì a tenerli sempre sotto il proprio controllo, bloccando ogni eventuale cospirazione. 1.2 Regalità assoluta perché di origine divina Luigi XIV giustificava il proprio assolutismo affermando di aver ricevuto dal Dio il diritto di governare e di esercitare la forza. Nel 1654 egli fu incoronato a Reims secondo il rituale tradizionale che trasformava il nuovo re nell’Unto del Signore, cioè una specie di messia, un soggetto diverso dagli altri comuni mortali, a cui era stato assegnato il compito di far rispettare in Terra la legge di Dio. Luigi XIV quindi era una figura sacra e per questo si riteneva fosse in grado di compiere guarigioni miracolose con il tocco delle sue mani. Il suo campo d’azione erano i malati affetti dalle scrofole, ovvero un’infiammazione delle linfoghiandole del collo causata dai bacilli della tubercolosi. All’inizio del Settecento l’idea, secondo cui il re di Francia potesse guarire le scrofole, era molto diffusa. All’incoronazione e alla pratica taumaturgica si aggiunse il potere del supplizio pubblico; si trattava di un procedimento con cui veniva eseguita la condanna a morte di un individuo ritenuto pericoloso dal tribunale. Il supplizio avveniva sulla piazza della città e durava diverse ore provocando qualsiasi forma di sofferenza possibile. Era convinzione comune che il supplizio avrebbe generato terrore in coloro che assistevano allo spettacolo. Poiché la legge del re coincideva con quella divina il criminale era anche un peccatore che presto sarebbe stato spedito all’inferno. 1.3 La politica religiosa di Luigi XIV In un regime assolutistico ai sudditi non era concessa alcuna libertà rispetto alle decisioni del re. A Parigi la tetra fortezza della Bastiglia era diventata il simbolo dell’assolutismo regio da quando nel Seicento era stata trasformata in un carcere destinato alle vittime delle lettere dei cachet. Queste ultime erano delle lettere firmate del re di Francia che ordinavano l’arresto di un suddito ritenuto pericoloso per la sicurezza dello Stato. Al tempo stesso la regalità per diritto divino implicava quasi automaticamente il rifiuto della tolleranza religiosa. In Francia nel 1661 viveva circa un milione di calvinisti chiamati ugonotti, molti dei quali erano mercanti banchieri artigiani abili e qualificati. Questi sudditi erano protetti dall’editto di Nantes promulgato nel 1598 da Enrico IV per mantenere la pace religiosa del paese. Agli ugonotti era concessa una completa parità giuridica nei confronti dello Stato, oltre ad una libertà di culto nelle loro regioni. Per gran parte del Seicento il clero francese aveva chiesto al re di Francia di ritirare l’editto. Tuttavia Luigi XIV si convinse invece del fatto che la presenza di una forte minoranza religiosa all’interno del paese costituisse una grave minaccia alla sicurezza del Regno e dunque decise di mantenere la promessa di lotta contro l’eresia fatta al momento dell’incoronazione. Nel 1665 fu vietato agli ugonotti l’esercizio di alcune professioni considerate troppo delicate e pericolose per essere affidate a dissidenti religiosi. La pressione si accentuò a partire dal 1675 quando i riformati furono 5 allontanati dalla maggior parte delle cariche pubbliche mentre a tutti gli ugonotti poveri disposti a convertirsi venivano offerti doni e denaro. Nel 1682 si ricorse addirittura ai Dragoni, cioè a soldati di cavalleria spesso dotati di armi da fuoco, incaricati di sorvegliare nelle regioni protestanti, come strumento di conversione forzata. L’atto finale della vicenda si consumò il 18 ottobre 1685 quando Luigi XIV emanò l’editto Fontainebleau con cui revocava l’editto di Nantes. In sostanza tutti gli ugonotti dovevano diventare cattolici mentre il loro tentativo di fuga era punito con la galera per gli uomini e la frusta per le donne. Nonostante queste minacce migliaia di riformati abbandonarono clandestinamente la Francia rifugiandosi in Olanda Inghilterra e in Brandeburgo. In queste terre gli ugonotti francesi portarono ricchezze e soprattutto competenze tecniche. La revoca dell’editto di Nantes finì per provocare danni enormi all’economia del paese cattolico che aveva anteposto la religione all’aspetto economico. 2. LE GUERRE DEL RE SOLE 2.1 Le prime sfide alla potenza olandese Quando il re sole salì al potere nel 1661, la terra costituiva ancora la fonte primaria di ricchezza, ovvero il mezzo di sostentamento principale delle popolazioni. Nel corso della seconda metà del XVII secolo l’Inghilterra e la Francia si resero conto della necessità di adeguare le proprie economie alle circostanze che erano mutate e cercarono con ogni mezzo di contrastare l’egemonia olandese. L’Inghilterra, dopo aver tentato di assalire a saltare le imbarcazioni olandesi, promulgò i cosiddetti atti di navigazione, con cui cerco di porre freno all’espansione olandese; a partire dal 1651 le merci importate in Inghilterra potevano essere trasportate esclusivamente sulle navi inglesi. In questo modo il Parlamento di Londra riuscì ad incentivare la nascita di un’industria cantieristica nazionale capace di reggere la concorrenza con quella delle Province Unite. Inoltre la Gran Bretagna si dotò nel 1694 di un nuovo strumento finanziario, la compagnia della banca d’Inghilterra, avente il compito di raccogliere denaro per lo stato. In poco tempo iniziò ad emettere carta moneta che poteva essere convertita in moneta metallica. La risposta francese alla potenza inglese invece subentro qualche anno dopo con l’opera di Jean Baptiste Colbert, il ministro delle finanze di Luigi XIV. Egli si preoccupò innanzitutto di dotare la Francia di un’efficiente flotta da guerra e di un elevato numero di navi mercantili capaci di competere con quelle olandesi. Il ministro diede impulso alla presenza francese sia in Asia che in America grazie a grandi società commerciali che somigliavano alla Compagnia delle indie orientali, che per anni aveva garantito ad Amsterdam il monopolio delle ricchezze dell’oriente. 2.2 Il mercantilismo Colbert istituì in Francia un sistema economico che viene definito mercantilismo, ossia un sistema in cui lo stato interviene direttamente nella vita economica, imponendo dazi per disincentivare le importazioni estere e promuovere le imprese creando situazioni di 6 monopolio. Egli aveva l’obiettivo di trasformare il Regno in una potenza capace di concorrere con le province unite anche sul piano della produzione di manufatti. Colbert pensava che lo stato potesse porsi alla guida del processo economico per proteggere il mercato interno dalla concorrenza straniera. Il principale pilastro del sistema mercantilistico fu il protezionismo doganale. In questo modo Colbert riuscì a rilanciare la produzione francese di panni di lana, che intorno al 1680 raggiunse la quota annua di un milione di pezze sufficiente per il consumo interno e per l’esportazione. Egli promosse anche l’industria della seta, di cui Lione divenne il più importante centro produttivo a livello europeo. Altre industrie di lusso da lui incentivate furono quella degli specchi e quella dei merletti ricamati, attività per le quali vennero reclutati operai specializzati sia dall’Italia che dall’Olanda. Secondo Colbert la crescita dell’Olanda era avvenuta a scapito della Francia, perché secondo lui i beni e i metalli preziosi esistenti al mondo non erano illimitati e quindi la potenza e la ricchezza di uno stato si era verificata solo a danni di un altro stato. Con queste premesse la guerra appariva inevitabile. 2.3 La guerra tra Francia e Olanda Il primo grande conflitto del tempo di Luigi XIV si svolse tra il 1672 e il 1678 e vide contrapporsi la Francia all’Olanda. Luigi XIV non tollerava la gloria e lo splendore della piccola, ma potentissima e ricchissima Repubblica delle province unite. Nel 1667 Colbert aveva introdotto una tariffa doganale elevatissima sui prodotti di importazione, per penalizzare la vendita di manufatti stranieri in Francia. La principale potenza industriale del tempo, cioè l’Olanda, era stata colpita più di tutti da questa guerra commerciale. ma aveva reagito rivolgendosi ad altri fornitori per le proprie importazioni acquistando dal Portogallo e dalla Spagna. Pertanto nel 1672 Luigi XIV, inizialmente sostenuto dall’Inghilterra, aprì le ostilità contro gli olandesi i quali non erano affatto preparati ad un conflitto e infatti vennero aggrediti ad Utrecht. Per fermare l’avanzata francese, fu necessario allagare intere regioni dopo aver distrutto le dighe che fermavano il mare, mentre una rivoluzione popolare rovesciò il governo dei borghesi di Amsterdam affidando i pieni poteri a Guglielmo III d’Orange. L’Olanda fu soccorsa dalle principali potenze europee che temevano l’eccessivo rafforzamento francese. La guerra Franco olandese fu il primo banco di prova dopo la pace di Westfalia con cui i vari Stati europei avevano stipulato un tacito accordo a difesa della pace. La guerra si trascinò fino al 1678 e si concluse con la sconfitta di Luigi XIV costretto a ritirare la tariffa doganale del 1667. Ma anche l’Olanda uscì sconfitta dal conflitto in quanto la sua prosperità economica iniziò a decadere. 2.4 La crisi dell’impero spagnolo L’Europa si coalizzò anche in occasione della guerra di successione spagnola avvenuta tra il 1701 e il 1713. La Spagna era uscita dalla guerra dei Trent’anni in condizioni economiche disperate che obbligavano periodicamente la monarchia iberica a dichiarare bancarotta nei confronti dei propri creditori. Nel tardo Seicento l’agricoltura e l’industria iberiche non erano in grado di sopperire ai fabbisogni primari del paese. Le colonie a loro volta avevano 7 pericolo per i tories e anche per i whigs, i quali pertanto si accordarono e decisero di procedere alla sostituzione del sovrano in carica con Guglielmo III d’Orange, standholder calvinista delle province unite che aveva sposato Maria Stuart, figlia di Giacomo II. 3.3 La Gloriosa rivoluzione del 1688-1689 Guglielmo II accettò di intervenire in Inghilterra in qualità di capo della grande coalizione antifrancese, che in quel momento non poteva procurarsi l’appoggio militare britannico a causa dei legami che univano il cattolico Giacomo II a Luigi XIV. La Rivoluzione si svolse il 5 novembre del 1688, quando Guglielmo d’Orange sbarcò in Inghilterra con 12.000 uomini. L’esercito inglese scelse di non opporre resistenza e Guglielmo II fuggì in Francia. Appena arrivato a Londra, il principe d’Orange cercò di porre fine alla rivoluzione cercando di ripristinare il disordine politico interno. Innanzitutto egli convocò un’assemblea di deputati che tuttavia non poteva essere considerata un vero Parlamento a causa della mancata ufficialità di re di Guglielmo. Pertanto l’assemblea ricevette l’appellativo di Convenzione e si assunse in primo luogo l’incarico di disegnare Guglielmo e Maria come sovrani legittimi. Un simile gesto segnava la fine del principio tradizionale della regalità per diritto divino e il trionfo dell’impostazione whig, secondo cui la corona era subordinata al Parlamento in quanto erano le camere che conferivano al sovrano il diritto di esercitare il proprio potere. Al termine della Gloriosa Rivoluzione il 13 Febbraio 1689 Guglielmo d’Orange e Maria Stuart furono proclamati sovrani d’Inghilterra, dopo aver stipulato patti con il Parlamento. Tale contratto fra monarchia e Parlamento fu espresso nella dichiarazione dei diritti, la celebre Bill of Rights, un testo che denunciava tutte le violazioni della tradizione compiute da Giacomo II e infine poneva limiti al potere dei due nuovi sovrani. Essi si impegnarono a non sospendere le leggi approvate dal Parlamento, a non reclutare un esercito senza il consenso delle camere e a garantire la libera elezione dei parlamentari. Il Bill of Rights sanciva la nascita di una monarchia costituzionale a nomina parlamentare. Successivamente Guglielmo d’Orange accettò di introdurre il principio dell’inamovibilità dei giudici, che cessarono così di essere strumenti passivi nelle mani del re e del governo. In ambito religioso fu concessa la libertà di culto a tutti i gruppi non conformisti. Guglielmo d’Orange riteneva il rituale della guarigione miracolosa una sciocca superstizione cattolica. Anna Stuart, sorella di Maria, fu l’ultima dei re taumaturghi inglesi. In Francia invece il rito continuò a essere celebrato fino alla rivoluzione francese. Dopo la gloriosa rivoluzione i re non erano più assimilabili a figure soprannaturali e pertanto decadde il principio discendente della sovranità per diritto divino. 3.4 Lo “stato di natura” nel pensiero di John Locke Nel 1690 con la pubblicazione di un’opera intitolata “Due trattati sul governo” il filosofo inglese John Locke fondò il nuovo modello di potere ascendente. In sostanza egli si sforzò 10 di giustificare sotto il profilo teorico sia il principio della legittimità della rivoluzione sia il nuovo ordinamento costituzionale che l’Inghilterra aveva assunto dopo la deposizione di Giacomo II. Anche Locke iniziò il proprio ragionamento dal concetto di Stato di natura, ma l’obiettivo dei due filosofi era opposto, in quanto Hobbes voleva giustificare l’assolutismo, mentre Locke si proponeva di trovare un fondamento a un sistema di governo che garantisse l’ordine. ma che non violasse la libertà dei cittadini. Egli, nel “Secondo trattato sul governo”, opera composta nel 1690, offrì una diversa visione dell’essere umano e quindi dello Stato di natura. Hobbes aveva concluso, sostenendo che lo stato di natura fosse una specie di inferno, rispetto al quale lo stato leviathan fosse addirittura migliore. Per Locke invece lo stato di natura non aveva nulla di invivibile, perché gli uomini non erano divorati dalla volontà di potenza e dalla sede di dominio. Gli uomini erano capaci di rispettarsi a vicenda e i soggetti violenti erano un gruppo relativamente ristretto: erano coloro che cercavano la propria felicità nella realizzazione immediata delle proprie pulsioni e dei propri desideri. Per Locke la condizione più preoccupante non era tanto la paura, ma la libertà di cui ogni individuo godeva in maniera completa. In secondo luogo occorre precisare che la proprietà occupava un posto speciale nella concezione che aveva dello Stato di natura. Egli rispose in modo dettagliato a tutti coloro che negavano il diritto di proprietà perché sostenevano che Dio avesse dato ogni cosa in comune il genere umano. Secondo il filosofo a fondamento del diritto di proprietà si trovava il lavoro del singolo uomo, in virtù del quale l’individuo distingueva tra alcuni beni naturali, che appunto erano proprietà del singolo, e il resto, che l’uomo lasciava a disposizione del prossimo. In quest’ottica l’esistenza della proprietà privata non rappresentava una degradazione del genere umano, ma una conseguenza del compito che Dio stesso aveva assegnato all’uomo e cioè di sottomettere il creato per mezzo del lavoro. 3.5 Il diritto di insurrezione Come Hobbes, anche Locke pensava che gli uomini si fossero associati in comunità per migliorare la propria condizione di vita. Tuttavia, per Locke, era inconcepibile che gli individui avessero accettato di rinunciare a tutti i propri diritti naturali, cioè a quelle libertà di cui godevano prima di unirsi in società. Secondo il filosofo quando gli uomini avevano creato lo stato non avevano conferito adesso tutte le proprie libertà, ma solo alcune, così da poter esercitare meglio gli altri diritti naturali. Questi ultimi erano definiti da Locke diritti inalienabili, per sottolineare il fatto che essi non dovevano essere alienati dall’individuo. Tali diritti non sono stati ceduti allo stato proprio perché sono diritti naturali. Nello stato di natura ogni soggetto provvedeva personalmente ad individuare i mezzi migliori per garantire la conservazione della propria vita e dei propri beni; al tempo stesso ogni persona doveva provvedere in maniera autonoma ad eseguire le proprie decisioni e a metterle in atto. Questi due diritti di decidere di eseguire erano gli unici a cui gli individui rinunciavano, quando si associavano ad altri per mezzo di una comunità. In altre parole essi delegavano allo stato il potere legislativo e il potere esecutivo, cioè gli affidavano il diritto di elaborare le leggi e di provvedere alla regolare esecuzione delle stesse, punendo chi costituiva un pericolo alla vita e alla proprietà altrui. Dunque la concezione del potere di Locke è 11 ascendente, in quanto la genesi dello Stato non proveniva da Dio, ma dal basso, cioè dal popolo che poteva essere legittimamente considerato il detentore ultimo della sovranità. Il popolo aveva il potere di legiferare e di governare. Tuttavia i due poteri dovevano essere esercitati da figure o istituzioni distinte per evitare che il governo potesse trasformarsi in tirannide. Il modello di potere elaborato da Locke rifletteva la radicale scelta compiuta in Inghilterra nel 1688 e1689, quando si compì una netta divisione di poteri tra corona e Parlamento, che rispondeva all’esigenza di una separazione del potere esecutivo da quello legislativo. Al tempo stesso l’insistenza sul concetto di proprietà delimitava il concetto di popolo, riducendolo ad un numero esiguo di coloro che potevano partecipare alla vita dello Stato. In conclusione si può affermare che Locke abbia gettato le fondamenta teoriche dello Stato liberale basato su due principi: rispetto dei diritti del cittadino e separazione dei poteri. La sua impostazione però finiva per considerare legittima la disuguaglianza sociale, non permettendo di accettare il principio democratico secondo cui tutti i cittadini, a prescindere dalla ricchezza, dovrebbero poter partecipare alla vita dello Stato. 12 4. PIETRO IL GRANDE, CATERINA II E LA NASCITA DELLA POTENZA RUSSA 1.1 La Russia a fine Seicento Mentre l’Inghilterra si avviava a diventare la principale potenza economica, l’impero russo cominciò a svegliarsi. Dopo la caduta di Costantinopoli avvenuta nel 1453 i sovrani del Principato di Moscovia avevano iniziato a chiamarsi zar, espressione che deriva dal latino caesar, che significa imperatore. All’interno della cultura russa era diffusa la convinzione che Mosca fosse la terza Roma depositaria della vera fede e destinata a trionfare in tutto il mondo. Tuttavia la Russia era rimasta alla metà del Seicento molto arretrata rispetto al resto d’Europa, con la quale infatti aveva rapporti commerciali deboli. Nemmeno il Rinascimento, la riforma protestante e la rivoluzione scientifica avevano toccato Mosca. Della riforma l’unica idea che era arrivata in Russia era quella secondo cui il Papa di Roma fosse l’anticristo. Anche in campo artistico l’unica forma di pittura praticata era quella delle icone, che raffigurano Cristo Maria e altri santi. La situazione mutò durante il lungo Regno dello zar Pietro I Romanov, soprannominato il grande. Il sovrano tentò di conquistare la città di Azov, controllata dai tatari di Crimea discendenti lontani dei mongoli, che nel XIII secolo si erano spinti fino all’Ungheria e alla Polonia. Il fallimento di questa impresa rese Pietro consapevole delle carenze tecniche dell’esercito russo e della necessità di provvedere alla costruzione di una flotta da guerra. Egli era consapevole della profonda arretratezza russa e pertanto diede ordine di reclutare in Occidente un gran numero di tecnici e falegnami e inoltre decise di andare a visitare in prima persona i cantieri navali olandesi e le industrie più importanti d’Europa. Tornando dal viaggio Pietro impose al suo stato un orientamento economico mercantilistico simile a quello adottato in Francia da Colbert. A differenza dei francesi, il sovrano moscovita dovete cominciare dal nulla. 1.2 Le riforme dello zar Pietro Le prime riforme furono dettate dall’urgenza di fronteggiare il Regno di Scozia che all’inizio del XVIII secolo si avviava a diventare la principale potenza politica sul Mar Baltico. Nel 1709 gli svedesi furono pesantemente sconfitti a Poltava, in Ucraina, e questa disfatta segnò la fine della storia della Svezia come grande potenza. Essi furono i primi a sperimentare la forza del rinnovato impero russo che, a partire dagli inizi del 700, si impose come uno dei grandi protagonisti della scena politica europea. Dopo il successo, lo zar cercò di trasferire in Russia tutte le tecnologie che aveva incontrato in Olanda e in Inghilterra. Egli 15 tuttavia si rese conto che occorreva produrre anche tutte le merci che, in mancanza di manifatture nazionali, sarebbe stato necessario importare dall’estero. Tuttavia il dislivello tra la produzione di beni in Russia e in Europa occidentale rimase sempre molto elevato. Chiunque si opponeva ai progetti di Pietro veniva spietatamente eliminato, a cominciare da suo figlio Alessio che, nel 1618, fu sottoposto ad un processo pubblico, fu torturato e ucciso. La chiesa ortodossa fu messa a tacere attraverso l’abolizione della figura del patriarca, sostituito nel 1721 da un Santo Sinodo completamente controllato dallo stato. Anche la nobiltà fu privata di qualsiasi autonomia. In Russia tutti erano servi di qualcun altro: i contadini lavoravano per i nobili che trovano la terra per conto dello zar in quanto padrone assoluto. La modernizzazione fu compiuta, ma solo attraverso un regime assoluto accostabile all’autocrazia. 1.3 La “finestra sul Baltico” Il processo di occidentalizzazione della Russia non fu limitato solo all’ambito economico e militare in quanto Pietro obbligò i nobili e la Corte ad adottare uno stile di vita europeo, cioè abbandonando le lunghe tuniche asiatiche sostituite dai pantaloni e il taglio della barba che tutti i maschi russi portavano come segno di virilità. Nel 1703 la prima volontà dello zar di rompere con il passato sì completò con la decisione di istituire una nuova capitale che sostituisse Mosca. La nuova capitale fu San Pietroburgo, città che sorgeva sul Baltico nonché luogo d’incontro tra la Russia e la cultura occidentale. Il modello a cui si ispirò fu Amsterdam nei Paesi Bassi con i suoi numerosi canali. La prima struttura che fu costruita fu una fortezza di Pietro e Paolo, edificata da circa 20.000 soldati, metà dei quali morirono a causa delle pessime condizioni in cui furono costretti a lavorare. Infatti si dice che San Pietroburgo fosse la meraviglia del mondo, ma che le cui fondamenta fossero state realizzate con lacrime e cadaveri. Alle famiglie nobiliari più ricche e Pietro ordinò di costruire a proprie spese un palazzo nella nuova capitale seguendo precisi ordini che dettarono anche lo stile del comportamento da tenere sia a Corte sia in città. Lo zar proibì il vagabondare delle mucche e dei maiali per le strade più eleganti della città, che Pietro amava definire la sua finestra sul Baltico. Nel 1750 San Pietroburgo aveva raggiunto 74.000 abitanti e in poco tempo la sua popolazione si moltiplicò. Uno dei tratti più tipici fu il rinnovamento continuo della sua popolazione. Siccome la mortalità rimaneva alta, San Pietroburgo era meta di una continua immigrazione da parte di contadini che cercavano un lavoro stabile. 16 1.4 La Russia nel Settecento Nel XVIII secolo l’impero russo si stava rafforzando, danneggiando tutti i suoi paesi vicini. Dopo la Svezia l’altro paese che subì le conseguenze dell’espansionismo russo fu la Polonia. Il potere polacco era nelle mani dell’assemblea dei nobili e la monarchia era elettiva e non dinastica. Alla morte di un sovrano la corona non passava in automatico al figlio primogenito, ma veniva assegnato dai nobili al soggetto che individuavano come più idoneo. A partire dagli anni 70 del Settecento Russia, Austria e Prussia decisero di approfittare e procedettero ad una spartizione del territorio polacco. L’operazione fu condotta in tre tempi: nel 1772 la Russia ottenne un’enorme fascia terriera che oggi corrisponde alle repubbliche di Ucraina e Bielorussia; l’Austria ottenne la Galizia e la Prussia invece conquistò altre regioni del nord. La seconda e la terza spartizione ebbero luogo nel 1793 e nel 1795. Il risultato fu la completa perdita dell’indipendenza e anzi la scomparsa totale della Polonia come entità politica. La Polonia infatti sarebbe rinata solo nel 1919 dopo la prima guerra mondiale. Oltre la Polonia tocco all’impero ottomano avvertire il peso crescente della potenza russa. Negli anni 1768 e 1774 i turchi subirono una sconfitta che costò la perdita della Crimea e permise l’accesso dell’impero zarista al Mar Nero, che fino a quel momento apparteneva ai musulmani. Per rafforzare la loro presenza in quell’area i russi fondarono poi la città di Odessa, che divenne il principale porto per la vendita e il trasferimento in Europa del grano prodotto dall’Ucraina. Nella seconda metà del XVIII secolo la figura più importante fu la zarina Caterina II, che rafforzò il potere dell’impero. Sotto il suo Regno la Russia divenne un governo autocratico illimitato, a cui i sudditi dovevano obbedire senza condizione. In quel tempo e la Russia dovette affrontare un altro problema che riguardava la Polonia, in quanto ospitava innumerevoli ebrei in virtù dell’apertura religiosa. La zarina vietò severamente che gli ebrei potessero spostarsi in Russia, pertanto istituì la cosiddetta zona di residenza, all’interno della quale gli ebrei dovevano vivere senza poter emigrare verso est. 17 1.4 Razionalismo e rifondazione del sapere La felicità mondana di tutti gli esseri umani era il vero e supremo obiettivo dell’illuminismo. Per raggiungere tale meta gli uomini dovevano utilizzare la ragione, che si configurava come lo strumento principale che avrebbe permesso al genere umano di mutare la propria condizione di vita sulla terra. A proposito della storia della tradizione l’illuminismo offriva un giudizio critico e negativo. Poiché aveva escluso che le violenze dei secoli passati fossero il frutto di qualche difetto connaturato, il movimento illuminista trovò come unica spiegazione del male il fatto che gli uomini fino a quel momento avessero vissuto nelle tenebre dell’ignoranza, non usando la ragione. In sostanza essi avevano agito da ciechi, affidandosi a pregiudizi o a credenze insensate. Per questo il compito degli intellettuali fu quello di portare i lumi della ragione ad ogni uomo nella convinzione che tutti i problemi dell’essere umano potessero essere affrontati in modo razionale. Gli illuministi recuperarono e rilanciarono il concetto di medioevo, non più visto in un’accezione negativa, ma accompagnato da un’ammirazione sconfinata per il passato. L’illuminismo tuttavia guardava il futuro introducendo nella mentalità europea il concetto di progresso, che presupponeva l’abbandono di ogni reverenza nei confronti della tradizione dell’antichità. Secondo la sua concezione gli uomini del passato, mentalmente pigri e superstiziosi, non erano stati in grado di portare l’uomo alla felicita. Secondo gli illuministi ogni ambito dell’esistenza umana doveva essere sottoposto a critica. Tra i primi pensatori illuministici ci fu Charles Louis de Secondat, ovvero il barone di Montesquieu che negli anni 1734-1745 compose “lo spirito delle leggi”, con il quale si assunse il compito di applicare la ragione allo studio delle diverse società umane esistenti, così da individuare il regime politico, che garantisse la proprietà e la sicurezza dell’uomo, senza violarne la sua libertà. Egli, dopo aver duramente criticato il dispotismo, concluse che il sistema politico ottimale fosse quello inglese basato sull’equilibrio tra Parlamento, Corona e giudici, ovvero sulla preparazione dei tre poteri dello Stato: il legislativo, l’esecutivo e il giudiziario. 2 L’ILLUMINISMO FRANCESE 2.1 L’ Encyclopédie Il grande lavoro di Montesquieu, finalizzato alla diffusione del sapere razionalistico, fu divulgato da Denis Diderot e da Jean d’Alambert che, a partire dal 1750, curarono la pubblicazione dell’Encyclopedie. Oltre ad essere un’opera monumentale di notevole prestigio, aveva un’importante funzione didattica, in quanto si proponeva di mostrare con chiarezza le più recenti tecniche di produzione e di costruzione in campo artistico e industriale. L’enciclopedia voleva essere un inventario completo organico di tutto ciò che l’uomo conosceva e poteva conoscere. Degno di nota fu lo scarso peso che l’opera attribuì 20 alle tematiche religiose. Per i due intellettuali non era possibile cogliere nella storia umana alcun piano e alcun ordine non conoscibili all’uomo. La maggior parte dei filosofi che all’interno dell’enciclopedia affrontarono il problema religioso condividevano il cosiddetto deismo, il quale ammetteva l’esistenza di Dio, ma negava a priori la possibilità del miracolo e individuava nei comandamenti morali il vero fulcro della religiosità stessa. Non è un caso infatti che la pubblicazione dell’enciclopedia abbia incontrato numerose difficoltà al punto tale che, dopo la condanna del Papa Clemente XIII nel 1759, d’Alambert si ritirò dall’impresa, che venne portata a compimento solo dati da Diderot. Nel giro di pochi decenni l’Encyclopédie divenne il simbolo della nuova cultura e delle nuove idee che guardavano al futuro e al progresso, introducendo innovazioni profonde e mutamenti radicali sia in ambito politico che in ambito religioso. 2.2 Voltaire Voltaire, con il suo poema epico intitolato Henriade, non volle celebrare imprese belliche e vittorie militari, ma il fatto di aver posto fine alle guerre di religione che avevano insanguinato la Francia. Rompendo con la tradizione storica greca, latina e rinascimentale, scelse di non occuparsi solo delle campagne militari, ma si sforzò di esaminare il modo in cui sovrani avevano promosso o rallentato lo sviluppo dell’economia dei loro stati dedicando particolare spazio anche alla politica religiosa. Nel 1751 con la pubblicazione di un saggio egli celebrò Pietro il grande perché aveva rinnovato il volto della vecchia Russia, limitando drasticamente il potere della Chiesa ortodossa. Nel libro che egli dedicò a Luigi XIV, pubblicato nel 1751, criticò aspramente il re, in quanto aveva sperperato in guerre le ricchezze della Francia e aveva fatto patire terribili sofferenze ai francesi. Per questo fu durissimo il suo giudizio sulla revoca dell’editto di Nantes e sulla brutale politica di intolleranza messa in atto proprio dal re sole nei confronti degli ugonotti. Intorno alla metà del secolo Voltaire decise che la sua missione sarebbe stata combattere ogni forma di fanatismo religioso, che infatti denunciò nel “trattato sulla tolleranza” pubblicato nel 1773. Secondo lui era assurdo e irrazionale che gli uomini si uccidessero tra loro in nome di dogmi di cui nessuno poteva dimostrare la verità o la falsità. Con il passare del tempo le sue posizioni anticlericali furono sempre più accese. Egli credeva in Dio, in un giudizio ultraterreno, ma non nei miracoli, considerati violazione delle leggi matematiche divine, immutabili ed eterne. Per questa definizione un miracolo costituiva per Voltaire una contraddizione, in quanto una legge non poteva allo stesso tempo essere immutabile e violata. Tutte le narrazioni di miracoli tramandati dalla chiesa erano falsità, racconti pericolosi perché spesso inducevano la gente al fanatismo e alla violenza in nome di Dio e della religione. 21 2.3 Complessità della figura di Voltaire A differenza di Galileo che aveva cercato di conservare il valore religioso dei testi sacri, Voltaire negò alla Bibbia qualsiasi importanza, ritenendola un’opera puramente umana e quindi non in grado di essere un punto di riferimento per la conoscenza della storia o della natura. Nella sua critica alle sacre scritture egli rifiutò anche il racconto della genesi, secondo il quale l’intera umanità discendeva da Adamo ed Eva, cioè da una da un’unica coppia di progenitori. A Tale concezione tradizionale, Voltaire sostituì il poligenismo, cioè l’idea secondo cui i gruppi umani discendevano da numerosi differenti antenati. Tuttavia tali affermazioni di diversità sfociarono in un giudizio inopportuno su altre popolazioni diverse dagli europei bianchi e, per questo, il filosofo finì per condividere un diffuso pregiudizio, secondo il quale i neri erano esseri semi animaleschi e di conseguenza potevano essere sfruttati come schiavi. Voltaire assunse un atteggiamento di superiorità e di disprezzo anche nei confronti degli ebrei, definendoli un popolo barbaro e crudele. Egli accusò gli israeliti di essere discendenti di individui perversi e mostruosi che compivano uccisioni per scopi rituali e si cibavano di carne umana. Razzismo e antisemitismo non trovarono un freno nel movimento degli illuministi. Tuttavia va comunque ricordato che Guillaume-Francois Raynal assunse invece una posizione diversa, criticando apertamente l’istituto della schiavitù e la tratta oceanica degli schiavi neri. 2.4 La crisi del deismo: Candido Nel 1755 un grande terremoto distrusse la città di Lisbona provocando moltissime vittime. Ciò mise in discussione la perfezione che ordinava l’universo, dimostrando che l’essere umano poteva essere schiacciato facilmente da forze naturali. Lo stesso Voltaire, turbato dal drammatico evento, compose un’opera, “Candide”, con la quale si proponeva di dimostrare l’ottusità di quegli intellettuali illuministi che non volevano riconoscere la forza e la potenza del male nel mondo, affermando al contrario che l’uomo viveva nel migliore dei mondi possibili. Candido, l’opera tradotta in italiano, evoca innocenza ed ingenuità. Voltaire voleva dirci che, sostenere la perfezione del mondo, significava chiudere gli occhi di fronte al mondo reale intriso di sofferenza e di dolore. La formazione di Candido all’interno dell’opera si arricchisce anche dal fatto che personaggi girano tutto il mondo per scoprire che tutte le regioni del pianeta sono dominate dalla stessa brutalità dal male e dalla stupidità umana. Solo nel paese di Eldorado, Candido scopre un’isola di felicità. Egli dopo aver lungo viaggiato giunge alla conclusione che agli esseri umani non è concesso comprendere il senso della sofferenza di cui sono vittime. In conclusione afferma che è opportuno di volta 22 2.8 Complessità del pensiero politico di Rousseau Il grande merito di Rousseau è stato di aver scoperto e rilanciato l’idea di democrazia. Infatti fu solo con lui che gli ideali democratici basati sulla completa eguaglianza di tutti i cittadini di una comunità si imposero come alternativi rispetto alle concezioni liberali. Oggi siamo abituati ad identificare liberalismo e democrazia, al punto che i due termini sono diventati sinonimi. Tra il Settecento e l’Ottocento invece la situazione era più complessa, in quanto i principali esponenti liberali non ritenevano affatto giusto estendere a tutti i cittadini la gestione dello Stato. Tuttavia va precisato che la posizione di Rousseau, per quanto democratica, contiene elementi di ambiguità. Il concetto di volontà generale rischiava di lasciare poco spazio al dissenso e alla divergenza di opinioni. In questo modo l’individuo doveva cedere alla comunità i propri diritti in modo assoluto. In quest’ottica lo stato ideale di Rousseau somigliava al Leviathan di Hobbes, con l’unica differenza che nella concezione del filosofo inglese i diritti erano trasferiti ad un’autorità esterna alla comunità, mentre in Rousseau venivano ceduti alla comunità stessa. Tuttavia in entrambi i casi l’individuo rinunciava ad avere una propria e privata libertà, mentre la sua virtù consisteva nell’imparare a sottomettere i propri impulsi alla volontà della collettività. Rousseau rifiutava l’idea che i cittadini potessero dividersi in partiti e riteneva che fosse del tutto lecito costringere un individuo a conformarsi alla volontà generale della comunità. Inoltre prevedeva che esistesse una religione civile e che venissero celebrate feste civiche, finalizzate a rafforzare il senso del dovere e di sacrificio in ogni individuo il nome di una patria. All’atto pratico lo stato ideale di Rousseau somiglierebbe ugualmente ad un regime assoluto incapace di lasciare libera espressione alle posizioni critiche e all’indipendenza intellettuale dei singoli cittadini. 25 6. ASSOLUTISMO E ILLUMINISMO NELL’ITALIA DEL SETTECENTO 1.1 L’ Assolutismo illuminato in Austria La guerra di successione spagnola provocò in Italia un caos politico, in quanto la dominazione spagnola fu completamente cancellata. Alla metà del Settecento nell’impero degli Asburgo furono gli stessi sovrani a farsi promotori di importanti riforme. Il potere assoluto del sovrano non fu messo in discussione, anzi fu rafforzato tanto da giungere a quello che poi verrà denominato assolutismo illuminato. In Austria il processo riformatore fu iniziato dall’imperatrice Maria Teresa, la quale accettò il principio secondo cui l’obiettivo primario dei governi doveva essere il bene della società civile. Dopo la sua morte l’opera di cambiamento fu proseguita in modo più radicale da suo figlio Giuseppe II. In primis Maria Teresa riorganizzò e razionalizzò l’amministrazione dello Stato, successivamente intorno al 1750 pose sotto il controllo della Corona l’università di Vienna, che fino a quel momento era gestita dai gesuiti. In tutti i paesi cattolici la compagnia di Gesù era in effetti l’ordine religioso più importante. In tutti i territori fedeli a Roma i gesuiti furono oggetto di un attacco costante al punto che il papato fu costretto a sciogliere l’ordine nel 1764. Giuseppe II accolse le lamentele che venivano mosse nei confronti degli ordini monastici e procedette tra il 1783 e il 1787 alla soppressione di circa 800 conventi. Giuseppe II però non era un sovrano agnostico. È vero che nel 1781 legittimò il luteranesimo, il calvinismo e il cristianesimo greco ortodosso, abolendo completamente le discriminazioni di cui erano vittime i sudditi ebrei del suo impero. Eppure è altrettanto vero che il sovrano riteneva che i suoi sudditi cattolici dovessero avere una solida educazione religiosa. A tal proposito Giuseppe II istituì dei seminari gestiti direttamente dallo stato, cercando di elevare le condizioni economiche e culturali del clero. Egli inoltre portò a termine la riforma introdotta da Maria Teresa, introducendo un sistema di istruzione elementare obbligatoria. Nello stesso anno si pose seriamente il problema dei contadini e delle condizioni in cui versavano e pertanto istituì il catasto, in cui tutte le terre dovevano essere registrate e catalogate. Egli, proseguendo su questa strada, sottopose anche i nobili a tassazione, mentre fissò precisi limiti alle prestazioni che i contadini dovevano effettuare sulle terre dei loro signori. Infine nelle terre appartenenti alla corona egli procedette all’abolizione del servaggio dei contadini stessi. 1.2 L’Illuminismo milanese: Pietro Verri e “Il Caffè” 26 L’azione riformatrice degli austriaci fu seguita anche dagli intellettuali illuministi di Milano, all’epoca capitale della Lombardia assegnata agli Asburgo nel 1713 dal trattato di Utrecht. Il maggiore esponente fu Pietro Verri, il quale accettò di collaborare con il governo attuando una radicale riforma fiscale. Verri era profondamente convinto che il progresso della ragione avrebbe portato al genere umano condizioni di vita sempre migliori. La cosa più importante per lui riguardava il fatto che tutte le attività umane dovessero poggiare su basi razionali, divulgando le nuove conoscenze tecniche. Verri fondo “il caffè”, un giornale pubblicato dal maggio del 1764 al giugno del 1766, in cui affrontava le più svariate tematiche. La rivista infatti ospitò articoli che si occupano di economia e di agricoltura, di medicina, di morale, di Scienze con il fine di divulgare la nuova cultura dei lumi. In ambito sociale Verri e i suoi collaboratori, tra cui Giuseppe Parini, volevano denunciare i privilegi della nobiltà, proponendo l’abolizione del cosiddetto fedecommesso, cioè la prassi tradizionale secondo cui il patrimonio fondiario delle famiglie nobili doveva essere tramandato in maniera integrale di generazione in generazione. Secondo Verri in questo modo le terre non circolavano e non potevano essere vendute da chi non riusciva a farle fruttare. 1.3 L’Illuminismo milanese: Cesare Beccaria e Dei delitti e delle pene Tra i numerosi argomenti affrontati nella rivista di Verri un posto importante meritano le questioni giuridiche. Fu proprio Verri a suggerire a Cesare Beccaria di comporre il trattato “dei delitti e delle pene”, considerato il manifesto nel campo del diritto penale. Il bersaglio delle critiche di Beccaria era il supplizio, che si poneva come un’anticipazione delle pene infernali e una manifestazione della volontà e della potenza del re. Ai suoi il supplizio gli appariva assurdo dal momento che riteneva che lo stato fosse nato in virtù di un libero contratto stipulato da tutti i cittadini. Egli innanzitutto distinse la punizione umana da quella divina, affermando che non era consentito agli esseri umani di sostituirsi a Dio. Per Beccaria giustizia umana e giustizia divina non andavano confuse, in quanto l’uomo doveva occuparsi solo di crimini valutabili secondo un parametro terreno. Tale criterio fu individuato da Beccaria nel danno che il delitto provocava alla società. Quanto al supplizio vero e proprio la sua posizione era poi estremamente chiara, in quanto il fine delle pene non poteva essere di tormentare e affliggere un essere sensibile, ma di impedire al colpevole di fare nuovi danni ai suoi cittadini. Inoltre Beccaria osservò che a spaventare un potenziale criminale non era affatto la brutalità, ma la certezza della pena. Inoltre seguendo i principi di Locke e Montesquieu egli riteneva che gli esseri umani al momento dell’uscita dallo stato di natura non avessero delegato allo stato tutti i propri diritti naturali, ma solo quelli relativi alla difesa della loro vita e della loro proprietà. Poiché nessun uomo dotato di ragione poteva aver delegato allo stato il potere di ucciderlo, la pena di morte era da considerare illegale o comunque un abuso di potere dello Stato. Infine Cesare Beccaria suggeriva la carcerazione o il lavoro forzato per l’omicidio o altri delitti più gravi. La sua opera attaccò senza mezzi termini la tortura come strumento di accertamento della verità in fase istruttoria. Secondo lui nessun cittadino, prima di una di una sentenza, poteva essere considerato colpevole, ma tutti meritavano un processo. 27 7. LA GUERRA DEI SETTE ANNI E LA RIVOLUZIONE AMERICANA 1. LA GUERRA DEI SETTE ANNI (1756-1763) 1.1 Un cambiamento di alleanze tra gli stati europei Il principale evento bellico del XVIII secolo fu la guerra dei Sette anni che fu combattuta tra il 1756 e il 1763. Questo evento fu paragonato dagli storici alla prima guerra mondiale per alcuni punti di contatto. In primo luogo l’epicentro non fu solo l’Europa e in secondo luogo stiamo di fronte ad uno stato, in questo caso la Prussia, che rompe l’equilibrio creato dalle grandi potenze europee. Nel 1756 il dato più sorprendente fu la rivoluzione diplomatica che fu provocata dall’emergere della potenza prussiana. Francia e Austria erano nemiche dai tempi di Francesco I e Carlo V d’Asburgo, infatti si erano combattute per tutto il Cinquecento. Inoltre l’Austria, che era finalmente libera dalla minaccia turca, è rimasta in prima linea nella lotta contro la Francia del re sole. Contro ogni aspettativa, a metà secolo, Parigi e Vienna unirono le proprie forze, ostacolando le mire espansionistiche di Berlino. A questa alleanza si unì poi la Russia che colse tutti di sorpresa, poiché il suo ingresso nella grande coalizione anti prussiana le apriva le porte al ruolo di potenza europea. Parallelamente Francia e Inghilterra stavano lottando per decidere di chi sarebbe stata in futuro la supremazia mondiale. Nel 1756 e 1763 la sfida fu tra Inghilterra e la Francia e non è un caso infatti che Londra si alleò con Berlino dal momento che entrambe dovevano combattere lo stesso nemico. Il 16 gennaio 1756 Prussia e Inghilterra stipularono la Convenzione di Westminster che impegnava ad un sostegno reciproco in caso di guerra: la Russia voleva espandersi in Europa, mentre l’Inghilterra voleva l’egemonia sui mari e nel grande commercio internazionale. 1.2 La nuova guerra del XVIII secolo Il Settecento fu un secolo di conflitti continui che però non provocano collassi demografici, anzi incrementarono la popolazione. A scatenare le guerre erano motivazioni politiche che si risolvevano con diplomazia e compromessi. Inoltre nel Seicento si prese atto che il dominio su una regione brutalmente saccheggiata dalle proprie armate non era affatto redditizio. Sul piano tecnico la guerra del Settecento vide numerose novità: la più significativa fu la baionetta a ghiera introdotta nel 1678, che veniva agganciata alla canna dell’arma da fuoco grazie ad un anello. In questo modo la figura del bicchiere scomparve completamente, in quanto ogni militare si trovò capace sia di sparare sia di colpire da vicino il nemico con una 30 punta acuminata. Fu poi perfezionato il meccanismo di sparo a fucile cioè a pietra focaia. Nel complesso una guerra di questo genere prevedeva movimenti lenti e quindi lunghi tempi di spostamento per le truppe, infatti raramente un esercito riusciva a piombare fulmineamente sul nemico e ad annientarlo. Per prevenire il nemico e impedire disordini gli eserciti introdussero diverse forme di disciplina militare. Il saccheggio fu vietato e per questo gli eserciti accusarono sempre di più il grave problema dei rifornimenti. 1.3 Nasce una nuova potenza, la Prussia Dopo la guerra di successione spagnola l’Austria aveva ottenuto i Paesi Bassi meridionali e la Lombardia. In un primo momento era riuscita ad impossessarsi anche della Sicilia, della Sardegna e del Sud Italia, ma poi questi territori furono assegnati alle grandi potenze ad altri sovrani. Intanto in Europa centrale nel corso del XVIII secolo si rafforzò progressivamente il Regno di Prussia, destinato a diventare il principale avversario dell’Austria. Il primo nucleo di questo Regno era costituito da Brandeburgo, governata dalla dinastia di Hohenzollern. La nobiltà prussiana e brandeburghese possedeva enormi tenute coltivata da contadini in regione di servitù. I profitti di questi nobili chiamati Junker aumentarono notevolmente nel corso del Settecento, a causa della grande domanda di cereali da parte dei paesi dell’Europa occidentale. I sovrani seppero legare a sé l’aristocrazia terriera, affidando ai nobili le più prestigiose cariche militari, mentre l’esercito acquistava sempre più importanza e prestigio. L’obiettivo della monarchia di Berlino era di allargare i propri domini nella regione tedesca a scapito dell’Austria. Il principale obiettivo dei sovrani persiani era Slesia, territorio che oggi si trova in Polonia. A Vienna l’imperatrice Maria Teresa pensava che la Prussia fosse un pericoloso elemento da eliminare. Il 29 agosto del 1756, dopo che la tensione fra Austria e Prussia si era placata e dopo che gli austriaci ebbero ottenuto la garanzia del sostegno francese, il re di Prussia Federico II decise di colpire per primo. Secondo le sue aspettative la guerra sarebbe stata semplice e veloce, ma in realtà il Regno di Prussia si trovò a fronteggiare da solo la vasta coalizione formata da Francia, Austria, Svezia e Russia. 1.4 I trionfi dell’esercito prussiano Sul piano militare l’episodio più importante della guerra dei sette anni fu la battaglia di Rossbach che si svolse il 5 novembre del 1757 tra prussiani e francesi. La vittoria di Federico II fu rapida e spettacolare, in quanto l’esito destò grande meraviglia a causa della schiacciante superiorità dell’esercito francese. Non a caso Voltaire affermava che tale conflitto rappresenta un’umiliazione superiore a quella di Crecy e Azincourt. In numerosi ambienti sia borghesi che nobiliari l’alleanza con l’Austria non era stata per nulla condivisa. La Corte di Vienna era detestata perché la si considerava una sanguisuga che si ingrassava a spese della Francia. Già qui possiamo intravedere alcuni elementi che poi diventeranno importanti nella successiva storia francese, tra cui il desiderio da parte dell’opinione pubblica di partecipare nelle scelte decisive per il paese. Un altro scontro che entrò nella 31 leggenda militare tedesca fu quello di Leuthen, dove Federico si trovò in grave inferiorità numerica, ma riuscì a sconfiggere il nemico con una tattica rivoluzionaria. Il 12 agosto 1759 a Kunersdorf l’esercito prussiano fu sconfitto così pesantemente dagli austro russi che il sovrano non riuscì ad impedire la temporanea occupazione di Berlino. Quando la Prussia sembrava ormai sull’orlo della rovina la Russia si ritirò dal conflitto e stipulò la pace, tirandosi dietro prima la Svezia e poi l’Austria. Per tutta la durata dello scontro il problema principale della Prussia fu quello del reclutamento delle truppe e a tal fine istituì un rigido sistema di coscrizione che interessò i sudditi di maschi compresi tra i 18 e 40 anni di età. Alla fine circa il 5% della popolazione prussiana si trovò sotto le armi. 1.5 La guerra dei Sette anni, una guerra mondiale La guerra dei Sette anni non portò alla Francia alcun vantaggio. Se in Europa centrale il principale nemico fu il Regno di Prussia, in Asia, in Africa e in America lo scontro fu tra Francia e Inghilterra che si affrontarono in Canada, nei Caraibi e in Africa e in India. In tutte queste regioni i francesi furono pesantemente sconfitti, mentre l’Inghilterra riuscì ad imporsi come unica potenza europea. Nel Nord America si scontrarono più volte francesi e inglesi a cui si aggiunsero le innumerevoli scorrerie e azioni compiute da truppe irregolari composte da coloni che praticavano la guerriglia e soprattutto dagli indiani, alcuni dei quali si schierarono con gli inglesi, altri con i francesi. In America centrale l’Inghilterra installò la propria base in Honduras, impossessandosi peraltro di alcune isole produttrici di zucchero. In Africa la Francia fu costretta a cedere agli inglesi la costa del Senegal, che era uno dei più fiorenti insediamenti adatti per la tratta degli schiavi neri. Intanto gli inglesi ottennero importanti progressi in India. Tuttavia il successo inglese più importante fu quello riportato a Pondicherry nel sud dell’india nel 1761. Dopo quella disfatta i francesi furono praticamente espulsi dall’India. Nel 1763 la pace di Parigi pose fine al conflitto e sanzionò la nuova situazione uscita dalla guerra, che consacrò ufficialmente la supremazia britannica in campo marittimo. Tuttavia il commercio inglese con le colonie aveva mutato la propria fisionomia, in quanto dopo la pace le colonie servivano soprattutto come mercati per le esportazioni di prodotti inglesi. Nel 1700 l’America e le indie occidentali assorbirono circa il 13% delle esportazioni inglesi e nel 1772-1773 monopolizzarono nel 45%. La vittoria inglese fu pagata a carissimo prezzo, in quanto durante la guerra la flotta inglese impiego più di 350 vascelli. Per risanare l’enorme debito prodotto dal conflitto il Parlamento si trovò costretto ad imporre nuove tasse che coinvolsero anche i coloni americani suscitando in loro ostilità nei confronti della madrepatria. 2. LA RIVOLUZIONE AMERICANA 2.1 Le tredici colonie inglesi in America del Nord Dopo la grande vittoria della guerra dei sette anni l’Inghilterra non aveva più rivali e si poteva affermare quale principale potenza economica del mondo intero. Tuttavia negli anni 70 Londra fu messa in crisi da due fattori: il rischio di bancarotta dello Stato e la rivolta delle 13 colonie che erano sorte In America del nord. Al primo pericolo il governo e il 32 propri rappresentanti in quell’assemblea. La parola d’ordine per i coloni divenne “no taxation without representation”. I coloni proponevano una concezione dell’impero totalmente diversa rispetto a quella maturata dal Parlamento, il quale pensava all’impero britannico come ad un organismo centralizzato diretto dall’assemblea londinese dotata di pieni poteri. I coloni contrariamente proponevano o una concezione dell’impero simile a quella del moderno Commonwealth, dove il re era il capo dell’esercito, posto al centro di un sistema di autonome nazioni, ciascuna con le proprie assemblee legislative. I coloni si mossero con determinazione verso la scelta dell’indipendenza, rafforzando la corona e riducendo alla sola Inghilterra il campo d’azione dell’assemblea londinese. 2.5 Dalla protesta alla Dichiarazione d’indipendenza Dopo l’abrogazione dello Stamp Act il Parlamento cercò di imporre la propria sovranità, attuando la tassazione esterna, cioè imponendo i dazi sui prodotti che i coloni importavano dall’Inghilterra. Ciao suscitò una reazione dei coloni, i quali cominciarono a fabbricare in America manufatti proibiti e a boicottare i beni provenienti dalla madrepatria provocando all’Inghilterra una perdita enorme. Ben presto Boston divenne l’epicentro della protesta coloniale e fu proprio qui che il 16 dicembre del 1773, in segno di protesta contro le nuove imposte su beni importati, l’intero carico di te di una nave della compagnia delle indie venne gettato a mare. Le rivolte infuriarono in tutti i paesi al punto che nella primavera del 1875 il governo inglese decise di ricorrere alla forza, inviando in America l’esercito e la flotta britannici. Il 23 agosto dello stesso anno re Giorgio III dichiarò ufficialmente che le colonie si erano ribellate alla sovranità inglese. A Philadelphia fu istituito un Congresso in cui si riunivano delegati di tutte le colonie e che aveva il compito di governo provvisorio centrale, ormai in aperto conflitto con l’Inghilterra. Al generale George Washington della Virginia fu affidato il comando dell’esercito, mentre i porti furono aperti alle navi di tutti i paesi, violando così la prassi secondo cui le navi britanniche potevano importare merci nei possedimenti inglesi oltreoceano. La formale proclamazione di indipendenza ebbe luogo il 4 luglio 1776, quando il Congresso di Filadelfia approvò all’unanimità un documento redatto dal virginiano Thomas Jefferson, con il quale giustificava la ribellione delle colonie, utilizzando come argomento di base la teoria contrattualistica di John Locke circa l’origine dello Stato. Non è un caso infatti che la dichiarazione di indipendenza si apre con una solenne affermazione secondo cui esistono alcune verità, tra cui il fatto che gli uomini tutti sono stati creati uguali da Dio e sono stati da lui dotati di diritti inalienabili. Seguendo fedelmente il filosofo inglese Locke, il testo prosegue affermando che il compito di un governo è quello di garantire a tutti l’esercizio pieno di questi diritti e che viceversa la rivolta è perfettamente legittima nei confronti di quei governi tirannici. Siccome l’Inghilterra aveva compiuto una serie di abusi e di violazioni, tentando di assoggettare le colonie, gli abitanti di quest’ultime resero proprio il diritto e dovere di abbattere un tale governo. Coloro che si impegnarono per l’indipendenza delle colonie furono chiamati Whigs, termine che indicava i sostenitori della superiorità del Parlamento rispetto alla figura del re. Riprendere quel termine significò per i rivoluzionari d’America presentarsi come veri difensori della libertà contro la tirannia e il dispotismo. Numerosi tuttavia furono anche gli 35 avversari della secessione definiti tories, termine che in Inghilterra designava i sostenitori della monarchia. La rivoluzione americana fu anche una guerra civile che costrinse migliaia di persone ad emigrare. 3. LA NASCITA DEGLI STATI UNITI 3.1 La vittoria delle colonie La guerra di indipendenza delle colonie inglesi durò quasi 8 anni dal 1776 al 1783. Nel 1778 anche la Francia entrò in guerra con l’obiettivo di rimettere in discussione l’egemonia britannica in America del nord. Successivamente a fianco delle colonie intervennero anche la Spagna e l’Olanda. Nel 1781 una pesante disfatta a Yorktown risultò decisiva e costrinse gli inglesi alla resa. Durante gli anni di guerra alcune città furono bombardate e moltissime fattorie furono saccheggiate. Molte persone patino la fame, la miseria e l’inflazione. Anche in America si verificò un mutamento nei tradizionali ruoli sessuali, in quanto siccome gli uomini erano andati a combattere, spettò alle donne mandare avanti da sole le fattorie. Come era già capitato durante la guerra dei Sette anni al conflitto parteciparono anche diverse tribù indiane e questo rese la guerra ancora più violenta. La pace fu ufficialmente firmata a Parigi il 3 settembre 1783. La Gran Bretagna stipulò un trattato anche con la Francia, che ottenne basi in Senegal e in alcune isole delle Antille, e con la Spagna, che ottenne la Florida e riprese Minorca. 3.2 La nascita dell’Unione Anche se nel 1777 il Congresso aveva sottoposto ad ogni Stato un documento di Unione, i legami che tenevano Uniti i vari elementi della Confederazione degli Stati Uniti d’America erano ancora molto fragili. Il reale potere decisionale era completamente delegato all’assemblea dei singoli stati, mentre il Congresso poteva solo emanare delle raccomandazioni. D’altra parte l’articolo 2 del documento proclamava che ciascuno Stato conservava la propria sovranità libertà e indipendenza. Per superare queste difficoltà nel 1787 fu convocata a Filadelfia una Convenzione che si assunse l’incarico di elaborare una nuova Costituzione capace di far durare nel tempo il nuovo organismo politico uscito dalla rivoluzione e dalla guerra d’indipendenza. La decisione più importante assunta fu quella di seguire le indicazioni di Alexander Hamilton e di James Madison i quali sostenevano la necessità di trasformare la Confederazione in una vera Federazione di stati. La differenza riguardava il fatto che in una Confederazione il potere centrale era debole al punto che i singoli stati la propria sovranità, mentre la Federazione era uno stato vero e proprio guidato a livello politico economico e militare da una forte autorità centrale. La preoccupazione principale era quella di trovare un equilibrio fra tutti diversi soggetti politici che erano già attivi ( i singoli stati) e quelli che la costituzione stava creando (potere federale, Presidente e Congresso) e mettendo in moto. Ricorrendo alla separazione dei poteri si riuscì ad evitare il 36 dispotismo e a tal proposito il potere legislativo fu conferito ad un Congresso, quello esecutivo ad un presidente. Il Congresso a sua volta era articolato in Senato e in una Camera dei rappresentanti; La soluzione bicamerale fu l’esito di un compromesso. Rispetto al passato le competenze e gli ambiti in cui al Congresso era possibile legiferare apparivano decisamente più ampi, infatti gli venne assegnata la possibilità di imporre dazi su tutto il territorio dell’unione. A differenza del modello parlamentare inglese, il potere esecutivo non è assegnato ad un governo, ma al presidente ovvero una figura estranea e separata rispetto al Congresso. Tale figura esercitava anche il diritto di veto, cioè poteva rifiutare di firmare progetti di legge già approvati dal Congresso e rinviarli per un’ulteriore discussione. Nel sistema politico americano il potere giudiziario finì per assumere il compito di custode della costituzione. Il fatto che quest’ultima fosse considerata rigida, cioè non modificabile da leggi ordinarie, era una garanzia, in quanto nessuna maggioranza avrebbe potuto ritenersi onnipotente e violare la libertà dei cittadini. A tutela dei diritti del singolo si impose anche il judical rewiew, cioè il diritto -dovere da parte della Corte Suprema di valutare la costituzionalità di ogni legge approvata. La stesura di una costituzione scritta e rigida doveva servire per il futuro a proteggere il cittadino da ogni abuso compiuto dal potere legislativo. 3.3 Il problema della schiavitù dopo l’indipendenza Alla fine del Settecento gli Stati Uniti erano lo stato più libero del mondo. Tuttavia restava il problema della schiavitù. Nelle colonie del nord la schiavitù non riuscì ad impiantarsi sia perché il clima non permetteva l’economia di stagione sia per l’ostilità degli artigiani e dei contadini bianchi. Dopo la guerra d’indipendenza la Costituzione si limitò a sanzionare la situazione, lasciando ogni singolo stato libero di decidere se adottare o meno la schiavitù. Inoltre l’articolo 4 specificò esplicitamente che l’eventuale fuga di un soggetto in uno stato in cui il lavoro servile non esisteva non gli garantiva la liberta. Numerosi storici hanno osservato che l’articolo 4 non utilizzava in modo esplicito la parola schiavo e schiavitù, ma preferiva e far ricorso a giri di parole ed eufemismi. In sede di assemblea costituente molti delegati degli Stati del nord avevano sostenuto che i neri non andassero contati affatto in termini di popolazione. Fondandosi su questa base giuridica fino alla metà dell’Ottocento la schiavitù rimase una caratteristica fondamentale della società americana. 37 1.4 Il rancore del Terzo stato verso i privilegi della nobiltà e del clero A partire dal X secolo l’iniziativa della difesa e le altre attività tipiche dell’autorità statale passarono ai funzionari statali periferici, incaricati di rappresentare il re in una determinata regione. Successivamente nella maggior parte dei casi e soprattutto in Francia le stesse grandi contee finirono per diventare numerose entità territoriali di piccole dimensioni, ognuna delle quali faceva capo ad un castello. Intorno ai nuovi centri fortificati la Signoria bannale si sviluppò a partire dal momento in cui il castellano si appropriò del cosiddetto “bannus”, cioè del potere che fino ad allora era stato esercitato direttamente dal re o dai suoi funzionari. Il titolare del banno iniziò ad esigere tributi destinati alla manutenzione della fortezza o al sostentamento dei soldati. Il signore bannale finì per sfruttare tutti gli uomini della zona, che vennero considerati semplici servitori. I contadini furono obbligati a versare i tributi in denaro per poter utilizzare alcuni strumenti essenziali. Nel Settecento la monarchia assoluta aveva ormai tolto ai nobili quasi tutti i poteri in campo politico e giudiziario e per questo la figura del re era molto amata dai sudditi, in quanto era visto come una sorta di protettore dagli abusi e dalle angherie dei signori locali. Gli aristocratici però esercitavano ancora alcuni diritti nei confronti dei contadini, i quali costituivano la maggior parte del terzo stato, cioè il 98% della popolazione globale nelle grandi città. Il terzo ordine comprendeva anche i mercanti, gli imprenditori artigiani e i liberi professionisti colti che tuttavia non godevano di alcun privilegio. Ciò che li accomunava era il rancore verso i gruppi privilegiati, in quanto a tutti sembrava ingiusto che i nobili e il clero non pagassero imposte fondiarie e che anzi potessero percepire denaro dagli altri sudditi del re. 40 9. LA RIVOLUZIONE FRANCESE 1. LE ORIGINI E LE RADICI 1.1 La Rivoluzione Francese fu davvero una rivoluzione? Definire la vicenda francese una rivoluzione è corretto, ma non bisogna commettere l’errore di prospettiva e cioè concentrare l’attenzione su solo su pochi eventi fondamentali. Per quanto concerne la Francia il discorso deve attraversare l’intero diciottesimo secolo o meglio tutto ciò che è accaduto dalla morte del re sole verificatasi nel 1715. Negli ambienti borghesi e in quelli dell’alta finanza il sollievo per la notizia fu evidente a causa dei disastri che si erano susseguiti. I nobili pensarono subito a come potevano fare per recuperare il terreno che l’assolutismo Regio aveva loro sottratto. La monarchia per diritto divino aveva mandato in rovina il paese per i propri interessi dinastici megalomani. 1.2 Il periodo della Reggenza (1715-1724) Nel XVIII secolo la mortalità infantile era elevatissima e l’esperienza di vita era molto scarsa. Alla morte di Luigi XIV la corona passò ad un bambino di 5 anni di cui il bisnonno ma a causa della fragilità del piccolo sovrano la reggenza fu assunta dal duca Filippo d’Orléans figlio di un fratello XIV. Il periodo della reggenza fu molto importante in quanto la nobiltà che era stata estromessa da tutte le posizioni importanti si ripropose come soggetto politico significativo. Nel Seicento lo strumento utilizzato dai nobili era stato la rivolta armata; a partire dal diciottesimo secolo lo strumento più idoneo fu la creazione di un sistema di governo, denominato “polysynodie”, basato su una serie di consigli che il reggente si impegnava a consultare. Tale esperimento, finalizzato a rilanciare il ruolo dei nobili limitando il potere, nel giro di pochi anni il sistema fallì completamente. Intanto in Francia vacillava la credenza secondo cui il re fosse un taumaturgo. Anche Montesquieu affermò che il re di Francia fosse solo un abile mago. Questo pensiero era in linea con le nuove idee illuministiche che si stavano imponendo in Francia in quel periodo. Sempre in quegli anni si affermò un altro soggetto importante politico caratterizzato dai “parlaments”, termine con cui non designavano le assemblee legislative, ma le corti giudiziarie, ovvero tribunali d’appello incaricati di vagliare le sentenze penali di primo grado emesse dai giudici che operavano nelle varie città. Il Parlamento più importante e prestigioso era ovviamente quello di Parigi. I giudici del Parlament affermavano che nessun provvedimento preso dalla corona fosse valido senza la sua registrazione. 41 1.3 Il Regno di Luigi XV Il Re sole aveva portato il Regno sull’orlo del baratro finanziario. Per evitare la bancarotta il duca d’Orleans si affidò al finanziere scozzese John Law, che propose di mettere in circolazione una grande quantità di carta moneta. In un primo tempo l’operazione funzionò alla perfezione e un gran numero di persone dotate di capitali si precipitarono ad acquistare sia la carta moneta sia le azioni della compagnia delle indie. Tuttavia non appena questa iniziò a rendere meno del previsto, gli investitori iniziaroo a vendere le azioni e finanche a richiedere che la carta moneta fosse convertita in oro. Il risultato fu un caos finanziario che provocò la caduta in disgrazia di Law, il fallimento della banca e una riorganizzazione della compagnia. Il problema del debito pubblico francese divenne un macigno sempre più pesante, mentre apparivano evidenti limiti della tradizione, che assegnava la riscossione delle imposte a finanzieri privati denominati “fermiers”, i quali naturalmente tenevano per sé un’altissima percentuale di quanto raccoglievano. Nel 1723 alla morte del reggente Luigi fu dichiarato maggiorenne e divenne formalmente re a tutti gli effetti. Siccome aveva 13 anni il potere però passò nelle mani dell’anziano cardinale Fleury, il quale sosteneva che, solo stipulando la pace con l’Inghilterra, la Francia avrebbe potuto risollevarsi. In effetti lo stato visse alcuni decenni di notevole prosperità. La situazione poi divenne problematica negli anni 50 e 60 a seguito della ripresa delle guerre francesi. La pressione fiscale sui contribuenti obbligati a pagare le tasse divenne insopportabile al punto che nel 1763 lo stato reclamava circa il 25% del reddito di ogni cittadino. Contro le ordinanze che aumentavano sempre le imposte, si schierarono i parlamenti i quali iniziarono ad accusare Luigi XV di dispotismo. Lo scontro raggiunse il suo vertice nel 1771, quando si richiese la convocazione degli Stati Generali, l’assemblea che il re avrebbe dovuto consultare ogni volta che si fosse reso necessario un aumento del prelievo fiscale. L’avvento al potere di Luigi XVI nel 1774 sciolse provvisoriamente la tensione. 1.4 L’ Illuminismo, la rivoluzione della cultura Negli anni 70 in Francia si diffusero numerose opere che proponevano un illuminismo radicale e che circolavano clandestinamente, a causa del loro messaggio polemico nei confronti dell’ancien regime. Tra i vari esponenti vi erano Diderot e d’Holbach. A livello religioso illuministi radicali erano quasi tutti atei. Il sostanziale materialismo dei razionalisti radicali è un primo fortissimo elemento di distinzione rispetto all’Illuminismo classico più moderato. Una seconda differenza riguarda anche l’ambito politico: Voltaire aveva valutato positivamente l’assolutismo illuminato di Federico II di Prussia, mentre era giunto alla conclusione che non era possibile illuminare tutti gli uomini, poiché l’opera di rischiaramento delle menti poteva riguardare solo un’élite. Montesquieu aveva sostenuto 42 dei deputati degli ordini privilegiati era dunque di 561 contro i 578 del terzo stato. Tale supremazia numerica tuttavia non garantiva alcun vantaggio al terzo stato, poiché per tradizione, le votazioni avvenivano per ordine in camere separate. Siccome il clero era composto esclusivamente da cadetti di famiglia aristocratica, il sistema tradizionale avvantaggiava i gruppi privilegiati, rendendo impossibile l’approvazione di provvedimenti radicali capaci di eliminare i loro vantaggi. Consapevole di questa situazione Sieyès aveva richiesto che la votazione avvenisse per testa in un’unica camera: ogni deputato sarebbe stato titolare di un voto e un provvedimento sarebbe stato approvato, se avesse ottenuto il consenso della maggioranza dei votanti. Il re però aveva respinto una simile richiesta, considerandola troppo innovativa. Il problema del voto per testa o per ordine non era soltanto tecnico, ma anche politico perché votare per testa significava rinnegare il principio dell’ordine e affermare il primato dell’individuo. Durante i primi lavori i deputati del terzo stato cercarono di affrontare la questione, ma ricevettero un rifiuto da parte dei nobili che non volevano cambiare il sistema tradizionale. Infine i deputati del terzo stato decisero di passare all’offensiva e infatti il 17 giugno 1789 dichiararono che da soli essi rappresentavano l’intera nazione. Rifiutando la tradizionale terminologia, decisero di definire sé stessi non più assemblea dei deputati del terzo stato, ma assemblea nazionale. Il re fu colto di sorpresa ed ordinò che venisse chiusa la sala dell’assemblea nazionale. Il giorno 20 giugno i deputati del terzo stato si riunirono in una palestra in cui si praticava la pallacorda e pronunciarono un solenne giuramento, non limitandosi più a chiedere il voto per testa, essi si impegnarono a non separarsi fino a quando non fossero riusciti a dare alla Francia una nuova Costituzione. Il terzo stato intanto cominciò a trovare sostegno anche negli altri due ordini, i quali si riunirono nei giorni 24 -25 giugno nell’assemblea nazionale. Il 27 giugno Luigi XVI decise di scendere a patti, invitando il clero e la nobiltà ad unirsi al terzo stato per deliberare in sede congiunta. 2.2 La presa della Bastiglia a Parigi e i tumulti nelle campagne Nonostante l’umiliazione, subita il re non aveva accettato le novità costituzionali e quindi ordinò ad alcuni reggimenti di marciare su Parigi per restaurare l’ordine. La capitale era in fermento a causa dell’aumento del costo del pane, che il 14 luglio 1789 arrivo a toccare il prezzo più alto di tutto il XVIII secolo. in questo contesto era semplice credere alla diceria di una congiura aristocratica finalizzata ad affamare la Francia e ad impedire che gli Stati generali prendessero qualsiasi decisione favorevole agli interessi del popolo. L’intera città esplose in un grande tumulto, che raggiunse la Bastiglia, ovvero la grande fortezza in cui venivano rinchiusi i nemici del re. Quando si diffuse la voce che le truppe fedeli al re stavano marciando su Parigi, la folla irruppe nella fortezza, uccise il comandante e ne portò la testa in giro per Parigi. La violenza degli eventi paralizzò il re e convinse i nobili del pericolo rivoluzionario, infatti due giorni dopo la presa della Bastiglia alcune tra le più prestigiose famiglie aristocratiche abbandonarono Versailles e si rifugiarono all’estero. Fu istituita una milizia, la guardia nazionale, incaricata di mantenere l’ordine nella capitale. La milizia assunse come proprio emblema una bandiera tricolore, in cui il bianco evocava la monarchia, il rosso e il blu erano i colori del Comune di Parigi. Il tricolore divenne il 45 simbolo della rivoluzione della nuova Francia. L’obiettivo era eliminare l’assolutismo per far nascere in Francia un nuovo sistema liberale simile a quello inglese; non è un caso che a capo della guardia nazionale fosse posto il marchese La Fayette, che in precedenza aveva guidato il contingente francese in America a sostegno dell’indipendenza delle colonie. Alcuni radicali iniziarono ad assumere come modello addirittura il sistema americano repubblicano. Negli stessi giorni in cui Parigi guidava la propria rivoluzione scoppiarono gravi disordini anche nelle campagne, dove il grano iniziava a scarseggiare. Anche in questi territori si sparse la voce secondo cui i nobili avessero ordito una vasta congiura e minacciavano di distruggere il nuovo raccolto con la complicità dei poveri e dei vagabondi. In altre zone invece la paura della congiura aristocratica spinse a credere che dall’estero i nobili emigrati avessero mandato dei grandi eserciti mercenari. Infine nella notte tra il 4 e il 5 agosto del 1789 l’assemblea nazionale decise di intervenire contro alcune rivolte contadine. I diritti signorili furono aboliti e inoltre, mentre la decima percepita dal clero fu soppressa, gli impieghi pubblici furono aperti a tutti i cittadini e quindi non furono più riservati unicamente ai nobili. In sostanza tale decreto fu pose fine all’ancien regime, cancellando l’antica e tradizionale società trinitaria basata sul privilegio. 2.3 La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino Il 26 agosto 1789 l’assemblea nazionale incaricata di stendere la nuova costituzione del Regno di Francia approvò la “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino”, che riassumeva i principi dell’Ottantanove, cioè esprimeva in modo chiaro e preciso i due concetti di libertà ed eguaglianza che avevano sorretto fino a quel momento il moto rivoluzionario. Il testo è composto da 17 articoli, tre dei quali particolarmente importanti: l’articolo 1 afferma che gli uomini nascono liberi e uguali nei diritti, l’articolo 6 esprime con chiarezza il significato del termine uguaglianza e l’articolo 17 definisce la proprietà un diritto inalienabile per cui l’uguaglianza proclamata dalla dichiarazione è di tipo esclusivamente civile, giuridico e non economico. Tuttavia il bersaglio polemico del testo è l’antico regime basato sul privilegio. Questo testo, così come la dichiarazione di indipendenza del 1776, presupponeva una concezione ascendente del potere, secondo la quale la sovranità risiede nel popolo e non in Dio. Inoltre il testo francese rivendico la piena legittimità della resistenza all’oppressione di fronte ad uno stato tirannico, che invece di proteggere e garantire i diritti del cittadino, li stava sistematicamente calpestando. 3. LA FASE DELLA MONARCHIA MODERATA 3.1 Le innovazioni introdotte dall’Assemblea costituente Il 6 ottobre 1789 un’immensa folla di parigini obbligò il re a trasferirsi da Versailles a Parigi e con lui anche l’assemblea nazionale si trasferì nella capitale, dove condusse per quasi due anni una vera attività di tipo legislativo. Furono indicati due gruppi parlamentari con i termini di destra e sinistra: nei seggi posti a destra si posero i nobili e i membri del clero che 46 avevano cercato di opporsi alla cancellazione dell’antico regime, mentre a sinistra si posero i deputati del terzo stato e tutti coloro che avevano votato a favore della fine dei privilegi. Il problema principale che l’assemblea si trovò a dover affrontare fu quello finanziario. Per sanare almeno in parte i debiti dello Stato, si decise di confiscare tutte le terre del clero che furono convertite infatti in beni nazionali, che lo stato poteva recuperare, a patto di garantire in altri modi il salario dei sacerdoti. Il 2 novembre 1789 l’assemblea nazionale votò la nazionalizzazione dei terreni del clero, alcuni dei quali furono subito venduti, al fine di creare un gruppo di proprietari terrieri i cui gli interessi fossero legati alla sorte della rivoluzione. La situazione per il clero peggiorò quando l’assemblea ordino il 13 Febbraio 1790 lo scioglimento di tutti gli ordini religiosi, eccetto quelli dediti all’assistenza e all’insegnamento. Inoltre il 12 luglio fu approvata la Costituzione civile del clero, che sottopose l’attività dei sacerdoti ad un rigido controllo statale e vietò ogni interferenza del Papa nella scelta nella consacrazione dei vescovi. Quando fu stabilito che tutti gli ecclesiastici, in quanto funzionari statali stipendiati, giurassero fedeltà alla Costituzione civile del clero il Papa si pronunciò pubblicamente contro i nuovi provvedimenti adottati dall’assemblea e quindi contro la rivoluzione stessa. Fu in quel momento che si aprì una spaccatura nell’opinione pubblica francese. Il risultato complessivo di questa vicenda fu la divisione del clero in preti giurati e preti refrattari ostili alla rivoluzione. Importanti innovazioni furono condotte anche sul fronte amministrativo e giudiziario nel corso del 1790. Con il decreto del 15 gennaio 1790 il territorio francese fu riorganizzato in 83 dipartimenti suddivisi a loro volta in distretti e comuni, amministrati in modo autonomo. Per quanto riguarda la giustizia, nell’agosto del 1890 si deliberò la fine della vendita delle cariche, prassi che fino ad allora comportava l’esistenza di una magistratura non indipendente, ma che svolgeva il suo compito non per capacità ma perché aveva ottenuto la carica con il denaro. 3.2 Contro la rivoluzione: le idee di Edmund Burke Il parlamentare britannico Edmund Burke nel 1790 pubblico un’opera intitolata “riflessioni sulla rivoluzione francese”, che si tradusse nel principale atto d’accusa nei confronti degli eventi francesi e perfino del concetto stesso di diritti dell’uomo e del cittadino. Secondo Burke il difetto più grave della rivoluzione francese era quello di procedere per formule astratte intellettualistiche puramente teoriche. Trasferendo questo atteggiamento al campo della politica, i rivoluzionari francesi avevano proceduto a fare tabula rasa di tutto il patrimonio politico e sociale ereditato dal passato e tentato di imporre dal nulla una nuova costituzione. Secondo il parlamentare britannico la polemica dei francesi contro l’assolutismo era stata legittima, fino a quando i nobili avevano lottato per ripristinare gli usi tradizionali, cioè avevano richiesto la convocazione dell’assemblea degli Stati degli Stati generali. Ciò che non giustificava era la ribellione del terzo stato, che comportava la perdita di ogni limite morale. Il risultato di una simile arroganza poteva essere solo negativo e distruttivo. L’opera di Burke ebbe uno straordinario successo. In Italia la polemica contro la rivoluzione fu altrettanto precoce e numerosi scrittori impugnarono la loro penna per denunciare la gravità degli eventi francesi. L’accento degli scrittori controrivoluzionari 47 pregiate calze di seta tipici dell’abbigliamento dei ricchi e dei nobili. La maggioranza dei sanculotti non era formata da veri e proprio operai, ma da bottegai, artigiani e commercianti che, pur non essendo ignoranti e nullatenenti, erano stati esclusi dal pieno godimento dei diritti elettorali. Subito dopo il primo insediamento, la Comune insurrezionale invitò le diverse sezioni alla mobilitazione rivoluzionaria; il 10 agosto due colonne di sanculotti assalirono il Palazzo delle Tuileries, dove risiedeva la famiglia reale e ad una di queste colonne si associò anche un reparto di volontari, che erano arrivati da Marsiglia e avevano appreso da poco un nuovo inno militare, che riceverà il nome di marsigliese, destinato a diventare il simbolo della resistenza rivoluzionaria. Dopo un violento scontro, dove morirono 376 persone, Luigi XVI fu trasferito di fronte all’assemblea legislativa, che ne decretò la sospensione. La Francia divenne una Repubblica in nome del principio della resistenza all’oppressione, dichiarato sacro e inviolabile dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789. Al fronte la situazione si fece drammatica, dopo la caduta di Verdun l’ultima piazzaforte che separava i prussiani da Parigi. I sanculotti si convinsero che, subito dopo la partenza dell’esercito per il fronte, i nobili avrebbero fatto evadere tutti delinquenti e proceduto al saccheggio di Parigi. Così a cominciare dalla notte del 2 settembre, un numero enorme di prigionieri furono uccisi all’interno delle carceri. Tuttavia non si trattò di veri crimini politici. Il fatto che la maggioranza degli uccisi appartenesse alla categoria dei poveri detenuti per reati comuni di vagabondi reclusi stava ad indicare che il panico giocava un ruolo decisivo in quelli poi che saranno ricordati i massacri di settembre. Il 20 settembre l’esercito francese si scontrò con i prussiani a Valmy, dove costrinse le truppe straniere a ritirarsi. Il 21 settembre 1792 si riunì un’assemblea di deputati che ricevette il nome di Convenzione. Quest’ultima si riunì a Parigi nel settembre del 1792 attribuendosi l’incarico di stabilire un nuovo ordinamento per lo stato francese, dopo la deposizione del re e la proclamazione della Repubblica. Nello stesso tempo la Convenzione avrebbe svolto anche il ruolo di camera dotata di poteri legislativi, cioè avrebbe approvato tutte le leggi della nuova Francia repubblicana. 4. LA REPUBBLICA DEMOCRATICA 4.1 Il processo e la condanna di Luigi XVI In un primo momento alla Convenzione si formarono tre schieramenti: i girondini, decisi avversari dell’assolutismo monarchico, erano determinati a proseguire la guerra fino in fondo per impedire la controrivoluzione. Essi diffidavano della Comune rivoluzionaria e dei sanculotti, temendo che il loro fanatismo fosse pericoloso. Secondo loro il popolo non doveva assumere un ruolo autonomo e determinante, in quanto le folle dovevano essere dirette da un’élite borghese. I principali nemici dei girondini furono i parlamentari legati al club dei giacobini, all’interno del quale assunsero un prestigio le due figure di Maximilien Robespierre e di Louis Antoine de Saint Just. Questi ultimi erano disposti ad ammettere che, per salvare la rivoluzione, fosse indispensabile il contributo dei sanculotti, facendo loro delle concessioni in campo politico ed economico. Alla convenzione i giacobini erano seduti nelle tribune più alte e pertanto il gruppo nel suo complesso ricevette il nome di montagnardi, ovvero uomini della montagna. Infine il terzo gruppo era costituito dai 50 parlamentari che venivano definiti “Pianura o Paluda” in modo dispregiativo perché non erano schierati né con i girondini né con i montagnardi. Il contrasto tra montagnardi e girondini emerse nel momento in cui la convenzione discusse il problema del destino da riservare al sovrano deposto. Robespierre riteneva che Luigi XVI non dovesse essere processato. Malgrado l’opposizione dei giacobini, la maggioranza dei parlamentari ritenne necessario celebrare il processo il 3 dicembre 1792, in modo da impartire un solenne pubblico insegnamento al popolo francese. I girondini a quel punto cercarono di ritardare il più possibile il processo e l’inevitabile condanna per timore che i loro avversari fossero rafforzati e legittimati nel loro agire. La prima seduta del procedimento penale ebbe luogo il 21 dicembre 1792. La sentenza di morte fu pronunciata il 14 gennaio 1793, poi eseguita il 21 gennaio. In tutta Europa l’esecuzione di Luigi XVI ( 9 mesi più tardi di quella della moglie Maria Antonietta) diede un enorme scalpore, in quanto fu considerata come una vera e propria sfida al principio secondo cui i re, poiché governavano i popoli per grazia di Dio, erano responsabili delle proprie azioni solo di fronte a Lui. 4.2 La rivolta in Vandea Dopo il successo di Valmy gli eserciti francesi riuscirono ad invadere Savoia e Belgio, territori che furono annessi alla Repubblica. L’Inghilterra, preoccupata dell’espansionismo rivoluzionario, aderì alla grande coalizione antifrancese e dichiarò guerra alla Repubblica il 1 febbraio 1793. La situazione precipitò e la Convenzione decretò la leva di 300.000 uomini. Tale decisione sconvolse l’intero paese che esplose in proteste e tumulti. In Vandea, una regione situata nella Francia occidentale, le sommosse cominciarono tra il 10 e il 12 Marzo del 1793. Insulti riuscire a causa organizzazione dell’esercito repubblicano. I ribelli della Vandea si blocca proclamarono apertamente realisti e cattolici opponendosi ai principali cambiamenti introdotti dalla rivoluzione francese in nome dell’illuminismo e a fronte della concezione ascendente del potere proclamata dalla dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Essi rilanciarono l’ideale del re che provvedeva con giustizia paterna al popolo che Dio gli aveva affidato. Tale situazione generò preoccupazione a Parigi che diede mandato all’esercito di reprimere la rivolta in vandea con ogni mezzo e a qualunque costo. Per sconfiggere la rivolta generale i repubblicani fecero ricorso a misure repressive brutali e spietate; ci furono esecuzioni in massa e morirono migliaia di persone. L’interno della regione fu riconquistato e furono eliminati moltissimi civili nei primi mesi del 1794 quando la vandea fu messa a ferro e fuoco dalle colonne infernali si assistette all’apice della violenza. La pacificazione della Vandea provocò la morte di 250.000 abitanti. 4.3 La Costituzione democratica del 1793 A Parigi i sanculotti accusarono i girondini di scarsa determinazione. Il 2 giugno 1693 i militanti delle sezioni di Parigi ottennero l’arresto dei parlamentari avversari; per la prima volta si vedevano a confronto la rappresentanza nazionale e la democrazia diretta impersonata nella forza feroce del popolino. Il 27 luglio, dopo avere a lungo esitato, Robespierre entrò a far parte del Comitato di Salute Pubblica e ne divenne il leader. Egli 51 cercò di ottenere il sostegno di sanculotti e di limitare gli eccessi e l’estremismo. Il suo progetto politico fu esplicato nel discorso che tenne alla Convenzione il 23 Aprile 1793 in cui sosteneva che la proprietà non doveva essere abolita, ma bisognava alleviare la povertà e l’analfabetismo in cui viveva la maggioranza dei cittadini della Repubblica. Il suo obiettivo era quello di promuovere un graduale miglioramento della vita di tutti i francesi, in modo che ognuno di loro ognuno di essi vivesse in una condizione dignitosa. In linea con i suoi ideali furono emanati dei decreti nel giugno e nel luglio del 1793 per favorire i contadini. Il 3 giugno fu stabilito che i beni degli emigrati sarebbero stati venduti in piccoli lotti, così da consentire ai contadini francesi di trasformarsi in piccoli proprietari terrieri. Il 24 giugno 1793 fu approvata la nuova costituzione che introduceva il suffragio universale e fissava il principio secondo cui lo stato doveva promuovere la felicità dei cittadini, offrendo istruzioni a tutti, occupazione a coloro che erano in grado di lavorare, assistenza agli anziani e a coloro che avevano bisogno di soccorsi pubblici. Tuttavia la proprietà non era messa in discussione, anche se Robespierre non condivideva il liberismo economico. La Costituzione del 1793 lasciava però poco spazio alla democrazia diretta, limitando al minimo la pratica del referendum popolare. 4.4 Robespierre e il periodo del Terrore La Costituzione del giugno del 1793 non rispondeva alle aspirazioni di sanculotti più radicali. Il paese era in preda all’inflazione, in quanto la guerra aveva causato una fortissima svalutazione dell’assegnato, ovvero la moneta cartacea che il governo francese aveva iniziato ad emettere nel 1791, dopo la nazionalizzazione dei patrimoni ecclesiastici. I sanculotti chiedevano da tempo il cosiddetto “maximum”, ossia un prezzo artificiale per ogni merce che i venditori non potessero superare. Un tale provvedimento però rischiava di portare al collasso l’attività produttiva di un paese, in quanto altera in modo radicale la legge della domanda e dell’offerta basata sulla compravendita dei beni. Tuttavia l’assemblea accolse ugualmente questa richiesta dei ed approvò il maximum il 29 settembre 1793. La Convenzione accolse pure la richiesta di procedere in modo più fermo nei confronti dei nemici della rivoluzione, infatti a partire dal settembre del 1793 iniziò il cosiddetto “terrore”, che trovò i principali strumenti di esecuzione nel comitato di salute pubblica e nel tribunale rivoluzionario. Sul piano istituzionale l’aspetto più grave fu la completa subordinazione del potere giudiziario a quello esecutivo, il quale finì di fatto per negare ogni diritto ai cittadini, considerati pericolosi per la sicurezza dello Stato. Robespierre definì il terrore come l’adozione delle stesse procedure che venivano o applicate nei confronti dei nemici in situazioni di guerra, ma stavolta venivano applicate agli avversari politici interni. 4.5 La ghigliottina Il principale strumento di esecuzione usato durante il terrore fu la ghigliottina. Nel 1789 un deputato di nome Joseph-Ignace Guillotin aveva proposto all’Assemblea Costituente che la pena capitale avvenisse per mezzo della decapitazione. Dopo che la proposta fu accolta lo strumento di esecuzione adottato fu denominato, appunto, “guillotin”. Nelle intenzioni dei 52 10. IL DIRETTORIO E LE PRIME CAMPAGNE DI NAPOLEONE 1.1 La Costituzione moderata del 1795 La Costituzione del 1793 era nata in un momento di estrema difficoltà ed emergenza; aveva introdotto il suffragio universale, il diritto al lavoro, all’assistenza degli invalidi all’istruzione. I borghesi, più attenti agli interessi del proprio gruppo sociale, però aspettavano solo il momento giusto per attenuare il terrore e rimettere al loro posto il popolo, che aveva sognato un mondo migliore. Prima di tutto essi volevano abrogare la costituzione democratica voluta da Robespierre e dai giacobini. Nel settembre del 1794, un mese dopo l’esecuzione di Robespierre, Parigi iniziò a cambiare volto, in quanto furono liberati i detenuti arrestati a causa del terrore. Il 5 agosto furono imprigionati i nemici dei giacobini, accusati di essere nemici della Repubblica della rivoluzione francese. Nei tre mesi successivi i carcerati erano 3600, mentre Parigi abbandonava gradualmente la pesante atmosfera che gravava sulla città all’epoca del governo del comitato di salute pubblica. Nel novembre del 1794 fu chiuso il club dei giacobini e a marzo furono uccisi circa 120 giacobini. Il 22 agosto 1795 fu approvata la nuova costituzione, la terza dopo quella del 1791 e quella del 1793. A differenza delle ultime due, essa non era preceduta solo da una dichiarazione dei diritti, ma anche da una dichiarazione dei doveri del cittadino. Ogni riferimento per il diritto di insurrezione del popolo fu soppresso, così come fu rifiutato il principio della democrazia diretta, tanto caro ai sanculotti. Il potere esecutivo fu attribuito al direttorio, un collegio di 5 membri chiamati direttori. In virtù del principio della separazione dei poteri la legge fondamentale del 1695 assegnò il potere legislativo a due soggetti distinti dal direttorio, ovvero due camere (il Consiglio dei Cinquecento, il consiglio degli anziani o Senato) che agivano in modo complementare: la prima camera proponeva i provvedimenti e il Senato li approvava. Entrambe le camere erano elette a suffragio censitario, il che rendeva non democratico il nuovo ordinamento dello Stato. 1.2 La rabbia del popolo Le chiese furono riaperte al culto e fu abolito il maximum, che rappresenta un gravissimo colpo per i poveri, in quanto l’assegnato si svalutava ogni mese di più. Di conseguenza i prezzi conobbero un processo di ascesa. Più volte nella primavera del 1795 il popolo di Parigi insorse, chiedendo la Costituzione del 1793, mai suoi tumulti furono repressi. Nemmeno “la congiura degli eguali”, tentata nella primavera del 1796 da Gracco Babeuf, sortì un effetto positivo. Gli obiettivi di questa sommossa furono esposti in un documento, 55 noto come manifesto degli uguali, in cui si affermava esplicitamente che i frutti della terra, considerata ancora la principale fonte di ricchezza nazionale, dovessero appartenere a tutti, in modo da azzerare ogni differenza sociale. L’importanza storica della congiura di Babeuf consisteva nel fatto che per la prima volta l’insurrezione ebbe carattere socialista, infatti rappresentò il primo tentativo di conquistare il potere dello Stato al fine di abolire la proprietà privata. Babeuf era convinto che il popolo parigino non potesse andare molto lontano e che le masse avessero bisogno di un’avanguardia illuminata capace di indicare al popolo stesso i suoi veri interessi. 1.3 La campagna di Napoleone in Italia Nel 1796 la Francia era sull’orlo della bancarotta e pertanto il direttorio si convinse che bisognava continuare la guerra, in quanto solo la ricchezza delle terre conquistate avrebbe potuto salvare la Francia dal collasso finanziario punto. Il piano progettato dal direttorio prevedeva un’offensiva su due fronti: sul Reno e in Italia settentrionale. L’attacco in Germania avrebbe dovuto essere quello principale, mentre al fronte italiano fu assegnata un’importanza marginale, infatti non fu un caso che l’armata destinata all’offensiva contro il Regno di Sardegna e la Lombardia austriaca fosse formata da uomini mal pagati. Qui il governo aveva collocato il giovane generale Napoleone Bonaparte, che si era distinto durante la riconquista repubblicana della città di Tolone. Nel corso dell’estate del 1796 l’offensiva sul Reno fu bloccata dagli austriaci, mentre sorprendentemente in Italia Bonaparte riuscì a sconfiggere l’esercito nemico in varie battaglie e ad entrare trionfalmente a Milano il 15 maggio. Dopo aver ricevuto rinforzi, il generale francese respinse gli austriaci fuori dall’Italia stipulando il trattato di Campoformio, in base al quale la Francia acquisì i Paesi Bassi austriaci e le terre della riva sinistra del Reno, mentre l’Austria fu costretta a ritirarsi anche dalla Lombardia. In cambio di questa perdita Bonaparte tuttavia le concesse di occupare la Repubblica di Venezi,a che fu privata della propria millenaria indipendenza. 1.4 Sostenitori e avversari di Napoleone in Italia Napoleone aveva ricevuto dal direttorio di trattare l’Italia come una terra di conquista, da depredare in modo sistematico. Milano fu spogliata della biblioteca ambrosiana e i 13 volumi di manoscritti di Leonardo da Vinci furono inviati in Francia, così come a Venezia furono fatte sparite le tele di Tiziano e di Tintoretto. La Francia rivoluzionaria stava trattando il popolo italiano e le sue terre nello stesso modo in cui in passato si erano comportati i sovrani d’Austria o di Spagna. Non tutti gli italiani infatti avevano accolto Bonaparte come un liberatore, anzi la maggior parte aveva assunto un atteggiamento ostile. Napoleone impose alla regione di Milano un contributo immediato di 20 milioni di franchi per provvedere ai bisogni dell’esercito. Modena dovette versare 7 milioni e mezzo e Parma due milioni. Alla fine dell’anno i francesi erano riusciti a raccogliere ben 58 milioni di franchi. Questa politica di rapina, accompagnata da numerosi episodi disprezzo nei confronti dei luoghi di culto della religiosità popolare, scatenò la rabbia dei contadini i quali insorsero; i primi bisogni di rivolta di massa si verificarono in Lombardia: il 16 maggio 56 insorse Pavia, seguita da Binasco. Quest’ultima fu incendiata mentre, Pavia fu brutalmente saccheggiata. Le truppe di Napoleone trattarono gli insorti italiani con la stessa violenza che in passato avevano trattato il popolo in Vandea. Roma fu occupata nel Febbraio del 1798, mentre il Papa fu obbligato a trasferirsi a Siena. Napoli aprì le sue porte all’esercito francese nel gennaio del 1799, mentre il re si rifugiava in Sicilia, difesa della flotta britannica. 1.5 Dalle Alpi alle Piramidi: Napoleone in Egitto Dopo la pace stipulata con l’Austria, la Francia rivoluzionaria era in guerra solo con l’Inghilterra. Secondo la classe dirigente britannica, il cambiamento che era avvenuto a Parigi non aveva apportato alcuna modifica, in quanto, benché non fosse più guidato da Robespierre, il nuovo regime si rivelava in ogni caso pericoloso per l’assetto politico e sociale europeo. Dopo 5 anni di guerra l’esercito francese era diventato una macchina capace di tener testa a qualsiasi avversario, ma la Gran Bretagna era una potenza marittima di gran lunga superiore alla Francia. Quest’ultima pensò bene di disturbare l’Inghilterra, colpendo i suoi possedimenti coloniali in India. La Francia quindi cominciò una guerra per conquistare l’Egitto, poiché solo se i francesi avessero dominato il Mar Rosso sarebbe stato possibile attaccare i territori controllati dagli inglesi in India. L’obiettivo era mettere in discussione la supremazia inglese e di privarla del rango di Stato egemone, che aveva conquistato durante il XVIII secolo. Il comando della spedizione d’Egitto fu assegnato a Bonaparte, che parti da Tolone il 5 Marzo 1798 con circa 38.000 uomini. Egli era il generale più valido che la Francia aveva a disposizione, infatti in Egitto sconfisse l’esercito dei mamelucchi, che detenevano il potere nel paese. Tuttavia la flotta francese, incaricata di rifornire l’esercito di Bonaparte, fu distrutta da quella inglese, comandata dall’ammiraglio Nelson nella rada di Abukir. L’attacco francese provocò l’ingresso in guerra anche dell’impero turco e della Russia, che erano preoccupati dell’alterazione dell’equilibrio politico in Medio Oriente. Per fronteggiare l’esercito francese le grandi potenze europee si coalizzarono, come accadde con Luigi XIV. Sul piano militare la spedizione francese in Egitto fu un completo fallimento; gli unici effetti positivi si registrarono in campo culturale, poiché durante la campagna militare fu trovata la cosiddetta “stele di Rosetta”, che avrebbe finalmente permesso la decifrazione dei geroglifici egizi. Mentre Napoleone era lontano, l’esercito francese trasformò tutti i territori conquistati in Italia in Repubbliche alleate della Francia. Nel Nord Italia, subito dopo Campoformio, nacque la Repubblica Cisalpina con capitale Milano, che comprendeva la Lombardia e Bologna, Ferrara, Modena e Reggio Emilia. Al centro sud nacquero la Repubblica romana e la Repubblica napoletana. 1.6 Le Repubbliche giacobine e la Grande insorgenza Le repubbliche italiane furono le principali vittime della grande controffensiva europea anti napoleonica. Ad aprile il generale russo Suvorov conquistò Milano mentre l’ammiraglio Nelson Napoli, ponendo fine alla Repubblica partenopea. La repressione che colpì Napoli fu 57 abolì ogni forma di discriminazione nei confronti dei protestanti, degli ebrei e persino dei non credenti, infatti fin dal 1801 era stato stipulato un concordato con la Santa Sede, che poneva fine alla fase anticattolica della rivoluzione. Lo stato inoltre introdusse il matrimonio puramente civile e il divorzio, quest’ultimo si trattava di una novità radicale. Tuttavia sul ruolo della donna invece lo stato assume una posizione medievale, in quanto il legislatore partiva dal presupposto che la figura femminile fosse debole e incapace di gestire personalmente la propria vita. Ancora una volta quindi abbiamo l’immagine della donna che è inferiore all’uomo. Spettava a quest’ultimo di amministrare i suoi beni. La donna risultava sempre priva di autonomia ed indipendenza economica. Mentre la costituzione democratica del 1793 attribuiva allo stato il compito di provvedere soprattutto all’istruzione elementare, così da garantire che tutti i cittadini potessero leggere e scrivere, il Codice del 1804 affidò allo stato la cura delle scuole superiori (licei) finalizzate a rifornire l’apparato civile e quello militare di validi e preparatiti funzionari. 1.3 Napoleone, imperatore dei francesi Il 2 dicembre del 1804, con la presenza del pontefice Pio VII, nella cattedrale di Notre Dame di Parigi, Bonaparte cinse la corona di imperatore dei francesi. Tale cerimonia richiamava quella tipica delle incoronazioni medievali. Tuttavia quell’evento non aveva nulla in comune con la tradizione, in quanto Napoleone, diversamente da tutti i sovrani del passato, si incoronò personalmente e il suo vero modello, più che medievale, era romano. Nel 1805 l’Inghilterra riprese la guerra contro la Francia e in ottobre la flotta britannica annientò quella francese nella grande battaglia di Trafalgar in Spagna, nel corso della quale morì l’ammiraglio Nelsen. La determinazione inglese spinse i sovrani del continente a formare una nuova coalizione guidata dall’Austria e dalla Russia. Tuttavia l’esercito dei due imperatori continentali fu sbaragliato da Napoleone ad Austerlitz nel 1805. Bonaparte cominciò a sentirsi un secondo Carlo V, incaricato dalla storia di unificare sotto il dominio francese l’intera Europa. Egli pertanto nell’agosto del 1806 dichiarò estinto il sacro romano impero, sostituito da una Confederazione del Reno, ovvero una serie di stati vassalli che costituivano l’immenso dominio del generale. La Prussia cercò di opporsi, ma il suo esercito fu annientato. Napoleone entrò trionfalmente a Berlino il 27 ottobre 1806 dalla porta di Brandeburgo e obbligò la Prussia a versare un tributo di oltre 100 milioni di franchi e a sostenere l’esercito francese con 150.000 soldati. Una vasta area fu separata dal regno prussiano e nacque il Granducato di Varsavia. Tutti gli Stati, in un modo o nell’altro, dovevano la loro esistenza a Napoleone e pertanto erano obbligati a fornire i contingenti di truppe e ad eseguirne gli ordini. In Italia il Regno di Napoli fu dapprima assegnato a Giuseppe Bonaparte, fratello dell’imperatore, e poi nel 1808 a Gioacchino Murat, suo fedele generale di cavalleria; il resto del paese fu in parte annesso alla Francia (Piemonte, Liguria, Toscana e Lazio, con Roma compresa) e in parte organizzato in un Regno d’Italia istituito nel 1805. 60 12. FRANCIA E RUSSIA: ULTIMO DUELLO 1.1 Le nuove ambizioni della Russia Negli ultimi decenni del Settecento, le grandi potenze europee (Austria, Prussia e Russia) si erano rafforzate notevolmente a scapito dell’impero persiano, impero turco e il Regno di Polonia Lituania. Per i musulmani di tutto il Medio Oriente, già sconvolti dalle conquiste di Napoleone, si trattò di una sorta di trauma: il mondo cristiano, fino ad allora disprezzato e guardato con forte senso di superiorità, era in grado di attaccare la casa dell’islam. L’offensiva contro l’impero ottomano era già iniziata alcuni decenni prima, quando i russi nel 1783 si erano impadroniti della Crimea. La spedizione di Napoleone in Egitto permise ai russi di imporsi sempre di più sul governo di Istanbul, che fu obbligato ad aprire alle navi russe gli stretti del Bosforo e dei Dardanelli. Nel mondo politico russo insomma cominciò a farsi strada il sogno di riconquistare Costantinopoli. In Europa la principale vittima dell’imperialismo russo fu la Polonia, oggetto di desiderio anche da parte di altre potenze emergenti come l’Austria e la Prussia. La prima spartizione avvenne nel 1772. Nelle regioni rimaste indipendenti i nobili polacchi tentarono di riformare lo Stato e diedero vita nel 1791 ad una costituzione più moderna, che limitava il potere assoluto del re. La Russia, che considerava il Regno di Polonia un proprio protettorato, considerò quel gesto un atto di ribellione e di indipendenza. Nel 1792 la guerra esplose sia in Occidente sia in Oriente. 1.2 Dal regno di Polonia al granducato di Varsavia Le truppe polacche, guidate da Tadeus Kosciuszko, riuscirono ad infliggere una pesante sconfitta all’esercito russo presso Zielence. I cristiani intervennero a sostegno dei russi, che obbligarono il 4 settembre 1793 il re di Polonia Stanislao Augusto ad abrogare la Costituzione del 1791, accettando la perdita di altri territori. La Russia occupò una vasta area, mentre i prussiani ottennero Danzica. All’inizio del 1694 Kosciuszko, che era fuggito per evitare l’arresto, tornò dall’esilio e si mise a capo di una vasta insurrezione, sostenuta anche dai contadini. Per ottenere l’appoggio, il generale aveva proclamato solennemente a Cracovia il 24 Marzo l’abolizione della servitù della gleba. Varsavia venne attaccata sia da Oriente che da Occidente e al termine della guerra la Polonia cessò di esistere. I prussiani occuparono la regione di Varsavia, i russi un’ulteriore area e gli austriaci completarono il loro controllo della Polonia sud orientale. Il trattato che nel 1795 poneva fine al Regno di 61 Polonia riporto una durissima clausola, che imponeva la cancellazione della Polonia. Moltissimi polacchi si arruolarono nell’esercito di Napoleone, il quale nel 1806 ricostruì un Granducato di Varsavia, ma le tasse e le requisizioni erano elevatissime e quindi crollò. La Polonia divenne ancora una volta merce di scambio tra le potenze continentali. Nella prima metà del 1800, dopo aver sconfitto la Russia, Napoleone volse il suo esercito contro l’armata dello zar Alessandro I, con il quale il 7 luglio 1807 stipulò il trattato di Tilsit, in base al quale la Russia accettava la supremazia francese in Europa. Giunto all’apice della sua potenza, Bonaparte decise di vietare a tutti i paesi europei di intrattenere relazioni commerciali di qualsiasi genere con l’Inghilterra. Egli, non riuscendo a piegare la Gran Bretagna sul piano militare, stava tentando di provocare il collasso economico, bloccando nelle esportazioni. 1.3 Le conquiste francesi in Europa e il blocco economico Il “blocco continentale” fu sanzionato da tre decreti, emanati a Fontainebleau il 13 ottobre e a Milano il 23 novembre e il 17 dicembre 1807. Il sogno di Napoleone era quello di poter sostituire in Europa i prodotti inglesi commerci francesi. Una misura di questo tipo avrebbe dovuto dare un nuovo impulso al commercio francese, sei soprattutto la vastissima area di mercato che il blocco aveva creato. L’operazione del blocco fu accompagnata dall’invasione francese del Portogallo, che era completamente asservito alle esigenze economiche inglesi e della Spagna. La conquista della penisola iberica, nelle intenzioni di Napoleone, avrebbe dovuto essere rapida, ma in realtà, oltre ad aver subito una disfatta, l’esercito francese incontrò grandi difficoltà per conquistare il territorio spagnolo. La popolazione iberica, guidata dalla nobiltà, si oppose agli invasori e praticò la tattica della guerriglia, riuscendo a tenere testa all’esercito napoleonico. I francesi, che si erano presentati in Spagna come popolo civilmente e culturalmente superiore, si scontrarono con il tenace attaccamento dei popoli conquistati ai propri usi e proprio costumi e soprattutto alle proprie credenze religiose. Il governo inglese inoltre inviò in Spagna un contingente di truppe guidate dal duca di Wellington che inflisse ai francesi numerose sconfitte e soprattutto riuscì a conservare il controllo britannico sul Portogallo. 1.4 La fine dell’avventura napoleonica L’embargo nei confronti dell’Inghilterra non sortì i risultati sperati, anzi quest’ultima riuscì in breve tempo a trovare i mercati alternativi a quelli europei. In altre parole, grazie all’incremento degli scambi con Stati Uniti e con l’America del Sud, l’economia britannica parò il colpo e non fu costretta ad arrendersi. Diversamente accadde ai grandi porti situati nell’area del dominio francese, come Bordeaux, Marsiglia, Amsterdam, Amburgo e Napoli, che subirono gravissimi danni. Napoleone avrebbe potuto contrastare davvero la prepotenza economica inglese, solo trasformando l’intero continente in un’unica vastissima area di libero mercato protetta dalla pericolosa concorrenza britannica. Al contrario l’intero sistema era in realtà subordinato agli interessi economici della Francia, che protesse con ogni mezzo la propria produzione manufatturiera. Il risultato dell’ambigua impostazione data 62 Per tanti motivi Herder non ammirava il modello politico inglese basato sulla centralità del Parlamento e sulla separazione dei poteri. La differenza radicale, che vigeva tra Herder e Voltaire, emerse soprattutto nel diverso atteggiamento che essi avevano nei confronti degli antichi germani e del medioevo. Per Voltaire i barbari, che avevano messo fine all’impero romano, non avevano nulla di nobile, ma erano solo dei selvaggi devastatori che avevano provocato la fine della civiltà. Diversamente Herder esaltava il medioevo, celebrando le virtù degli antichi germani, presentati come coraggiosi ed idealisti. Centrale per il filosofo tedesco era la lingua di un popolo che rappresentava l’anima più profonda ed autentica di una nazione. Il popolo, attraverso il proprio idioma, esprimeva sé stesso e il proprio temperamento. Herder pensava che la poesia e le tradizioni popolari avessero conservato le leggende e i miti più cari all’anima di ciascuna nazione e lo stesso valeva per la religione di un popolo che non avrebbe dovuto mai rinnegare le credenze a cui era legato per tradizione. Per lui non esistevano valori universali e tale rifiuto preparò la strada ad una concezione gerarchica precocemente nazionalistica, che celebrava il primato e la superiorità del popolo tedesco della sua lingua e della sua cultura. Quanto al cristianesimo finì per essere conservato nella misura in cui era possibile germanizzarlo. 1.3 La reazione dei paesi europei all’invasione francese La critica nei confronti dell’illuminismo trovò un’ulteriore giustificazione nell’atteggiamento tenuto dai francesi nei territori occupati dalle loro armate vittoriose al tempo delle campagne napoleoniche. In linea di massima i conquistatori agirono animati da ideali di matrice illuminista. In Germania, ad esempio, Napoleone chiuse i ghetti ed obbligò i governi tedeschi a concedere la completa parità giuridica agli ebrei, sulla base dei principi proclamati nella “dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino”. Nella maggior parte dei casi i popoli reagirono con un tenace attaccamento alle proprie tradizioni, cioè rivendicarono la propria originalità nazionale, anche a costo di rifiutare innovazioni. Il sentimento nazionale si diffuse in tutti i principali paesi europei, ma raggiunse il suo apice in Germania, dopo la disfatta subita dai prussiani a Jena nel 1806. In quegli anni drammatici la figura più prestigiosa fu il filosofo Fichte che, nell’inverno del 1807-1808, tenne a Berlino una serie di 14 discorsi alla nazione tedesca, che possono essere considerati l’atto di fondazione del moderno sentimento nazionale tedesco. Riprendendo Herder, il filosofo insisté soprattutto sulla lingua, che gli appariva primitiva originaria e quindi genuina, a differenza degli idiomi neolatini artificiali e derivati. Secondo lui solo i tedeschi erano in grado di produrre grande letteratura. Egli arrivò ad affermare, nel suo ultimo discorso, che la scomparsa del popolo tedesco sarebbe stata una perdita terribile per l’umanità, perché esso occupava un posto di preminenza, di guida del genere umano verso i più alti traguardi spirituali. I tedeschi dovevano opporsi a Napoleone con lo stesso vigore con cui gli antichi germani avevano lottato contro le legioni di Augusto nell’antica Roma. In ultima analisi il popolo tedesco si doveva porre una meta ancora più ambiziosa, ovvero quella di rigenerare moralmente la propria nazione attraverso un programma vasto di educazione patriottica delle nuove generazioni. 65 1.4 La nascita del Romanticismo Gli ultimi anni del Settecento furono caratterizzati dalla coesistenza di posizioni intellettuali e movimenti filosofici assai contrastanti. Nei principali paesi europei fra gli intellettuali e fra gli artisti la sensibilità divenne una sempre più netta e marcata insoddisfazione nei confronti dell’illuminismo. Questa reazione anti razionalistica venne denominata “romanticismo”, termine usato per la prima volta Madame de Staël nel 1813, derivato da un aggettivo inglese “romantic” che, fino ad allora, era stato usato per pittoresco o romanzesco. Anche Rousseau lanciava una sua sfida ai filosofi dell’Enciclopedia, ricordando l’importanza delle passioni e dei sentimenti della vita umana e l’impossibilità di elaborare norme uguali per tutti i popoli. Il romanticismo fu un fenomeno culturale artistico molto articolato, che gettava le radici nella consapevolezza dei limiti dell’illuminismo. In tutte le figure romantiche incontriamo la negazione e il rifiuto dei tratti fondamentali del movimento dei Lumi. L’Illuminismo si caratterizzava per l’ottimismo, per il razionalismo e per la critica nei confronti della tradizione. Tale impostazione fu respinta dagli intellettuali romantici, i quali presero coscienza della potenza del male, che impediva all’uomo di realizzare i propri desideri. Secondo la mentalità romantica, che in Italia ebbe in Vittorio Alfieri e in Ugo Foscolo i sui primi esponenti, l’essere umano è fondamentalmente un frustrato, uno sconfitto, una figura costretta a riconoscere che tutte le sue aspirazioni più profonde sono condannate a non realizzarsi e a restare pure illusioni. Soprattutto in Italia molti autori romantici condivisero l’ateismo e il materialismo tipici dell’illuminismo radicale, giungendo a vedere la causa primaria del dolore proprio nella ragione che obbligava l’uomo a percepirsi come un essere mortale. In altri scrittori il rifiuto del razionalismo illuminista nacque invece dalla convinzione che la vera intima realtà della vita fosse percepibile unicamente per via intuitiva, cioè per mezzo delle emozioni o della visione, in quanto la ragione, secondo questi autori, si fermava solo alla superficie dei fenomeni e non era in grado di cogliere gli abissi dell’animo umano. Questo aspetto del romanticismo si manifestò soprattutto in Germania e trovò sostegno filosofico nelle idee di Friedrich Schelling. 1.5 I principali tratti del Romanticismo: il rifiuto della ragione come unica spiegazione delle azioni umane... Per quanto riguarda l’agire umano l’elemento più caratteristico del romanticismo può essere colto nel rifiuto di porre la ragione alla base di tutte le azioni umane. Secondo i romantici seguire l’indicazione illuminista significava impoverire il genere umano, rendendolo più squallido e più meschino, in quanto la ragione tendeva a spegnere negli individui ogni slancio disinteressato. Secondo i romantici una comunità umana composta di individui impregnati solo di razionalità sarebbe stata piatta, gretta, meschina ed egoista. In Germania, vera culla del romanticismo, una prima importante manifestazione della nuova sensibilità fu il movimento che assunse il nome di “sturm und drang” (tempesta e impulso) che si sviluppò tra il 1765 e il 1782. L’espressione fu resa celebre da un giudizio dispregiativo espresso dal critico svizzero Christoph Kaufmann, il quale disapprovava il fatto che tutti gli individui si lasciassero travolgere dall’impeto delle proprie passioni, dall’odio come 66 dall’amore. Per Klinger invece questa loro intensità di sentimento dimostrava che essi erano veri esseri umani e non marionette privi di anima e forza interiore. Due anni prima questo nuovo tipo umano aveva già trovato la propria consacrazione letteraria nell’opera di Johann Wolfgang Goethe, ne I dolori del giovane Werther, in cui il protagonista rifiutava di sottomettersi alle norme morali, entrando in conflitto con la società in cui si inseriva. Un’ulteriore determinante contributo provenne da Fichte, che pose l’accento sul fatto che il vero Io di un soggetto emerge e diventa chiaro al soggetto stesso solo quando esso entra in urto con una realtà che gli si oppone. Dunque la vera lotta diventa un valore in sé. Molti artisti romantici difesero e sostennero nelle loro opere la figura del Titano che accetta la sfida e combatte una battaglia anche in circostanze estreme, cioè sapendo per certo che uscirà sconfitto. 1.6 …e la valorizzazione dell’eroismo e del sentimento L’illuminismo aveva disprezzato il medioevo, considerandolo un’epoca barbara e selvaggia e per questo motivo molti intellettuali romantici invece si appassionarono all’età di mezzo, che ai loro occhi apparve affascinante, proprio perché l’umanità si lasciava guidare dalla fede, dalla sete di gloria e dal senso dell’onore e da altri valori, ma non dalla ragione. Il romanzo storico Ivanhoe dello scrittore scozzese Walter Scott appare il più chiaro esempio della mentalità romantica. I suoi cavalieri si gettano nelle imprese più rischiose senza mai valutare razionalmente le conseguenze delle loro azioni e soprattutto senza mai mettere in conto di poter morire. L’idea, secondo cui un comportamento è tanto più autentico quanto meno è filtrato attraverso la ragione, fu applicata dagli intellettuali romantici anche all’arte e alla letteratura. L’insistenza romantica sul sentimento, sulla passione, sulla percezione soggettiva della realtà da parte di ogni singolo essere umano fornì una dignità culturale all’idea di nazione, nata dal tentativo di contrastare l’imperialismo culturale napoleonico. Jean-Jacques Rousseau può essere considerato l’anello di congiunzione delle due mentalità, quella illuminista e quella romantica. In lui si percepisce il legame che la mentalità romantica istituisce tra senso dell’individualità personale e senso di individualità nazionale e storica. Come non ha senso pretendere che tutti gli uomini abbiano i medesimi gusti e provino i medesimi sentimenti, assurdo è pensare di poter elaborare leggi universalmente valide per tutti i popoli. Rousseau si pose il problema dell’educazione nazionale, del rafforzamento dell’amor di patria nel cuore dei cittadini e per questo propose la celebrazione periodica di feste patriottiche e la costruzione di monumenti veri, spazi sacri intorno ai quali riunire il popolo per le celebrazioni liturgiche nazionali. 67 Tra le merci provenienti dall’india un posto sempre più rilevante avevano assunto i tessuti in cotone. In Europa il cotone era stato lavorato fin dal XII secolo, ma il filato che si otteneva era scadente. Siccome non poteva essere usato da solo, il cotone serviva di solito come filo di trama, mentre per l’ordito si utilizzava il lino, un tessuto misto prodotto in Germania e chiamato anche fustagno. Quest’ultimo non poteva reggere la concorrenza con le bellissime tele indiane tutte in cotone che la Compagnia delle Indie importava dell’Estremo Oriente. La crescente domanda di tele di cotone fece sì che la prima importante attività economica inglese investita dall’innovazione tecnologica fosse proprio la produzione di tessuti di cotone. La rivoluzione del cotone si configurò una sorta di rivincita rispetto all’industria indiana; si trattava di lavorare altrettanto bene e a minor prezzo. Nel 1733 un orologiaio del Lancashire, John key, introdusse un importante miglioramento nel telaio, che venne dotato della cosiddetta spoletta volante; esso permise a un solo operaio di svolgere il lavoro che in precedenza necessitava di due o più individui. Possiamo osservare che alla prima rivoluzione industriale il processo complessivo di meccanizzazione del lavoro non richiedeva né competenze scientifiche particolarmente raffinate né grandi capitali. Fino al 1760 l’invenzione di Key non divenne d’uso comune e proprio questo ritardo indicava il fatto che le novità tecniche da sole non fossero significative, ma si trasformavano in importanti mezzi produttivi solo quando l’intero sistema economico le richiedeva e li esigeva come strumenti che permettevano di abbassare i costi di produzione di una merce. 1.6 Tre nuove macchine per l’industria tessile: la jenny, il frame e il mulo La prima novità nel campo della filatura fu chiamata jenny e permise ad una sola donna di filare sei o sette fili alla volta. Il procedimento venne inventato da un falegname tessitore di nome James Hargreaves negli anni 1764-1767, per poi diffondersi velocemente; intorno al 1788 erano circa 20.000 i filatoi dotati di Jenny attivi in Inghilterra. La jenny fu adottata anche dai contadini che filavano nelle proprie case in campagna. Il suo difetto principale era che produceva un filo molto sottile adatto soltanto per la trama del tessuto. Il filato per l’ordito dovette essere prodotto con i metodi tradizionali fino a che poi non si diffuse su larga scala il frame, una macchina a rulli costruita nel 1668 da Richard Arkwright. Il filato ottenuto con questa macchina aveva caratteristiche opposte rispetto a quello che usciva dalla Jenny, perché si caratterizzava per una trama in filato fino e un ordito più robusto ed anche poco costoso. Diversamente il frame necessitava di molta energia e per questo le macchine erano localizzate in luoghi speciali. L’impianto più importante sorto a Cromford utilizzava l’energia idraulica ed offriva lavoro a 600 operai. Dal 1775 molti opifici ospitarono anche macchine cardatrici (trasformavano il cotone in fibra filabili), anch’esse alimentate ad acqua. Nel 1785 Samuel Crompton costruì una macchina capace di produrre un filato uniforme (denominato mussoline), adatto sia per la trama che per l’ordito. Dal 1790 per alimentare i muli venne impiegata la macchina a vapore. Nel 1802 i numeri dei cotonifici a Manchester divennero 52 e nel 1811 i 4/5 delle merci di cotone prodotte nel Lancashire erano fatte con filato uscito dai muli e lavorato per la maggior parte nelle città. Nel 1813 vi erano appena 2400 telai meccanici e un numero superiore di telai a mano. Solo negli anni ‘20 dell’Ottocento la situazione si modificò in maniera radicale in favore di telai meccanici. 70 Nel 1833 un milione di inglesi era impegnato nella lavorazione del cotone. Tra il 1816 e il 1848 l’industria del cotone contribuì annualmente a una quota pari al 40% del totale delle esportazioni britanniche. Analogamente gli inglesi trovarono in Africa e in America Latina dei mercati sterminati disponibili a essere riempiti di tessuti britannici. Il successo infine fu completo quando la stessa India dovette arrendersi, rinunciando ad essere il principale paese esportatore di manufatti di cotone. 1.7 La macchina a vapore applicata all’industria siderurgica La vittoria della produzione cotoniera inglese fu determinata dall’applicazione della macchina a vapore ai processi produttivi. I primi tentativi di impiegare l’energia del vapore per scopi produttivi furono compiuti nel campo dell’industria mineraria. A causa della carenza dell’alto costo del legname, l’estrazione del carbon fossile divenne sempre più importante, ma il lavoro in miniera presentava problemi notevoli. Mentre gas di vario tipo potevano uccidere i minatori, l’acqua si infiltrava continuamente nelle gallerie. Per risolvere quest’ultimo problema nel 1708 Thomas Newcommen inventò la cosiddetta macchina atmosferica automatica che utilizzava il vapore per azionare una pompa, che eliminava l’acqua in eccesso. Nel 1765 vi erano 100 macchine di questo tipo a cui era possibile attribuire il grande sviluppo della produzione carbonifera annua in Inghilterra. La macchina di Newcommen tuttavia presentava numerosi difetti. Per questa ragione tra il 1775 e il 1784 James Watt ideò e perfezionò la sua macchina rotativa a doppio effetto, che sarebbe stata poi utilizzata nell’industria siderurgica, nei cotonifici e avrebbe rivoluzionato anche i trasporti, sostituendo le tradizionali fonti di energia con quella generata dalla combustione del carbone e dall’ebollizione dell’acqua. Come nel caso del cotone, il contributo della macchina di Watt risultò determinante nel campo dell’industria metallurgica perché portò a pieno compimento un processo di innovazione già iniziato nel tempo. All’inizio del Settecento, il principale problema che gravava sulla produzione di ferro era quello energetico, poiché, per la fusione e la raffinazione del ferro, si faceva un largo uso del carbone di legna. Quando venivano esaurite le risorse lignee di una zona, l’imprenditore era obbligato a trasferire gli impianti in un altro territorio boschivo e per questo si trattava di un’industria nomade, in quanto era costretto a spostarsi. Nel XVIII secolo la principale novità tecnica applicata all’industria siderurgica fu la progressiva sostituzione del carbone di legna con il coke, un combustibile a elevatissima resa energetica ottenuto dal carbon fossile. Henry Cort ideò due sistemi di lavorazione della ghisa chiamati puddellaggio e laminazione, con i quali portò a compimento la completa vittoria del coke. A partire dagli anni ‘80 del XVIII secolo l’industria siderurgica poté finalmente fare a meno dei boschi e del suo nomadismo, trasformandosi in un’attività saldamente radicata nelle principali regioni produttrici di carbone. 1.8 Le innovazioni nei trasporti: nasce la ferrovia Lo stretto legame che unì ferro, coke e vapore sta poi alla base anche della nascita della ferrovia. L’inventore della locomotiva a vapore, George Stevenson, aveva lavorato come ingegnere alla progettazione di uno dei nuovi impianti inglesi, che comportava la stesura dei 71 binari di ghisa, su cui venivano fatti scorrere dei carrelli carichi di carbone trainati da cavalli. Su questa linea sperimentò i suoi primi prototipi fino a quando nel 1829 suo figlio Robert realizzò la prima locomotiva, utilizzata nella linea che collegava Manchester a Liverpool. Intorno alla metà dell’Ottocento la rete ferroviaria britannica era ormai completata e contava circa 8000 miglia di rotaie. Anche l’industria delle ferrovie richiedeva l’investimento di enorme quantità di capitali, ma lo stato non svolgeva alcun ruolo in quest’opera, che venne quasi interamente finanziata con denaro privato. La costruzione la rete ferroviaria offrì lavoro ad un numero elevatissimo di operai: nel 1147 erano impegnate in questo settore 260.000 persone. Molti di questi operai erano poveri immigrati dall’Irlanda, che negli anni 1845 e 1148 fu vittima di una drammatica carestia, provocata dall’improvvisa diffusione di un parassita nelle colture di patate. 2. IL PENSIERO ECONOMICO LIBERISTA 2.1 Il pensiero economico di Adam Smith Fra il Settecento e l’Ottocento nacque la moderna scienza economica, il cui fondatore fu Adam Smith. La sua opera più importante “Ricerca sulla natura e sulle cause della ricchezza delle Nazioni” fu pubblicata nel 1776 a seguito di un lungo viaggio nel continente europeo e dell’incontro con numerosi esponenti illuministi tra cui Voltaire. Al centro della sua riflessione si pone la concezione tipicamente illuminista, secondo cui l’umanità vive in un cosmo basato su leggi orientate unicamente al benessere dell’uomo. Egli rivalutò l’egoismo o meglio la ricerca dell’interesse personale, affermando che l’istinto al piacere e al guadagno permetteva all’intero meccanismo della natura di funzionare e permetteva a tutti di raggiungere la felicita; solo per desiderio di profitto gli individui offrono ad altre persone il frutto del loro lavoro. In altre parole ognuno, pur inseguendo solo il proprio guadagno, in realtà contribuisce a far sì che tutti possano soddisfare le loro necessità. Smith immaginava una sorta di mano invisibile che permetteva all’egoismo dei singoli di trasformarsi in uno strumento di felicità del prossimo. In questo ordine provvidenziale lo stato non doveva intervenire, ma doveva astenersi dall’interferire nella dinamica economica. Quest’ultima doveva essere governata solo dalla legge della domanda e dell’offerta. Questo può definirsi il primo vero pilastro del liberismo, la dottrina economica di cui Smith può essere considerato il fondatore. Il secondo pilastro è costituito dal libero scambio, ovvero la libera circolazione delle merci. Secondo lui lo stato non doveva intervenire nel campo dell’economia, applicando dazi doganali o con qualsiasi altra misura, finalizzata a proteggere economia del paese. Le merci dovevano circolare liberamente e con esse anche i prodotti. Il protezionismo invece impediva l’ingresso in un paese di quei beni che risultavano capaci di far concorrenza alle industrie nazionali oppure permetteva l’ingresso solo ad alcuni prodotti, imponendo una tassa che aumentava il costo al consumo. Secondo Smith il protezionismo era uno dei più gravi ostacoli allo sviluppo economico internazionale. 72 3.3 Le prime proteste operaie Alla fine del Settecento tutti i governi erano convinti che gli operai non dovessero avere la possibilità di organizzarsi in associazioni. In Inghilterra il Parlamento votò i cosiddetti Combination Acts che vietavano appunto l’associazionismo operaio. Per diversi anni ogni forma di protesta operaia fu repressa. L’episodio più grave ebbe luogo a Saint Peter’s field nel 1819, quando fu richiamata la cavalleria per disperdere 50.000 persone, provocando 11 morti e 500 feriti. Questa strage fu approvata da tutta la classe politica inglese e poiché anche il duca di Wellington, ovvero il vincitore della battaglia di Waterloo, espresse pubblicamente il suo sostegno nei confronti degli ufficiali, l’episodio fu ribattezzato massacro di Peterloo. L’usanza di creare raduni di massa in Inghilterra era stata inaugurata dal metodismo, un movimento religioso protestante fondato da John Wesley nel 1739. Questo movimento si diede una struttura flessibile che successivamente sarebbe stata adottata da tutti i sindacati e partiti operai. I gruppi che avevano diretto contatto con la gente venivano chiamati bande, che poi furono chiamate cellule dal movimento operaio. Nel dicembre del 1819 un altro decreto, chiamato Six Acts, vietò i cortei e limitò il diritto di riunione. Il clima politico e sociale però cominciò a raffreddarsi, fino a quando nel 1825 i Combination Acts furono abrogati. Agli operai fu riconosciuto il diritto di associazione per affrontare le questioni relative al salario e all’orario di lavoro. Il nuovo provvedimento permise la nascita dei primi sindacati moderni, le cosiddette trade unions. Nel 1830 l’associazione nazionale per la protezione dei lavoratori raggruppava già circa 100.000 operai dei settori tessile, metallurgico e minerario. … e le prime leggi a tutela dei lavoratori Nel 1832 il Parlamento approvò il Reform Act, un provvedimento che permise ad un numero elevato di cittadini inglesi di esercitare il diritto di voto. Gli operai non ne beneficiarono, in quanto la soglia minima di censo richiesta per diventare elettori non era compatibile con il loro salario. Il Factory Act del 1833 introdusse le prime forme di tutela degli operai sul luogo di lavoro. Nell’industria tessile fu vietata l’attività notturna, mentre fu fissato un numero massimo di ore per la giornata lavorativa. Per i ragazzi al di sotto dei 13 anni l’impiego in fabbrica non poteva superare le 8 ore, mentre per quelli compresi fra 13 e 18 il tetto massimo di 12 ore. Nel 1836 fu lanciata per la prima volta l’idea di far votare al Parlamento una vera carta del popolo sorta a modello della Magna carta libertatum del 1215. Nella prima versione la carta del popolo prevedeva sei richieste precise: suffragio universale segreto maschile, scrutinio segreto, soppressione del censo come requisito per potere essere eletti in Parlamento, retribuzione dei parlamentari, rinnovo annuale del Parlamento e riorganizzazione dei collegi elettorali. Il movimento cartista tra il 1836 e il 1842 sottopose al 75 Parlamento una serie di petizioni in sostegno della carta del popolo. La Camera dei comuni tuttavia si dimostrò sempre irremovibile, rifiutando di prendere qualsiasi provvedimento. 15. SOCIALISMO, NAZIONALISMO E RAZZISMO 1.1 Nasce la fabbrica moderna La rivoluzione industriale mutò in modo radicale la vita di milioni di esseri umani, la maggioranza dei quali fu condannata a vivere in condizioni infernali e terrificanti. Innanzitutto comportò un radicale cambiamento nel sistema di produzione, i cui metodi tradizionali furono rivoluzionati dall’energia generata dalla combustione del carbone. Siccome era una sola macchina a vapore che azionava contemporaneamente numerosi strumenti di lavoro, il processo produttivo comportò innanzitutto un ampio processo di concentrazione della manodopera in un unico luogo, la fabbrica moderna, contrassegnata sempre di più da una dispersione di fumo nell’atmosfera. Al tempo stesso la fabbrica comportò una sempre più alta divisione del lavoro con il risultato che l’artigiano fu sostituito da un esercito di operai scarsamente qualificati, a cui peraltro veniva chiesto in genere operazioni molto semplici. Il primo risultato di questa trasformazione fu il massiccio impiego di donne e bambini nel processo di produzione e un vasto esodo della popolazione in direzione delle città, dove erano localizzate le industrie. I ritmi di lavoro e le condizioni di vita delle prime generazioni operaie furono drammatiche; gli operai dovevano lavorare per 13 o 14 ore al giorno, ricevendo salari di fame in ambienti rumorosi e malsani. Inoltre le città industriali erano prive dei servizi primari, infatti in quartieri operai regnavano miseria e sporcizia e alcolismo divenne una piaga sociale. 1.2 Il socialismo utopistico I termini socialismo e socialisti indicavano la posizione di coloro che proponevano la soppressione della proprietà privata per rimediare alle drammatiche condizioni degli operai e alla disuguaglianza sociale. Nel Settecento l’attacco alla proprietà (considerata un’istituzione non conforme alle leggi della natura e quindi ritenuta responsabile di tutti i mali che affliggevano l’umanità) si era inevitabilmente concentrato sulla sola proprietà terriera. La rivoluzione industriale obbligò a prendere in considerazione che la ricchezza proveniva ormai dalla produzione e dalla vendita di manufatti fabbricati in quantità incalcolabile a basso costo, grazie all’aiuto della macchina a vapore. In cima alla scala non si trovavano più i nobili proprietari terrieri, ma i capitalisti, cioè i borghesi che investivano i loro capitali nelle fabbriche. In fondo alla scala sorse il nuovo gruppo sociale, la classe operaia, ovvero il proletariato che comprendeva tutti coloro che, essendo privi di capitali, erano costretti a vendere la propria forza lavoro ai capitalisti per poter sopravvivere. Il termine socialista apparve per la prima volta in Francia grazie a Pierre Leroux, seguace di Claude de Saint- Simone, un aristocratico affascinato dalla scienza moderna e convinto che 76 l’intera società avrebbe dovuto essere guidata da un’élite di tecnici specializzati capaci di pianificare sia la produzione sia una più equa distribuzione dei profitti ricavati dal lavoro collettivo. Parallelamente a Saint-Simone in Francia emerse anche Marie Charles Fourier, che propose una vasta riforma della società basata sull’istituto del falansterio, indicando l’organizzazione di un gruppo di circa 1800 persone che avrebbe dovuto vivere e lavorare insieme, sostenendosi a vicenda. Anche Thomas Moore nel Cinquecento aveva chiamato utopia il suo modello di mondo perfetto. 1.3 Karl Marx Per distinguersi da numerosi utopisti, Karl Marx e Friedrich Engels preferirono inizialmente non adottare l’appellativo di socialisti, ma di utilizzare quello di comunisti, in quanto essi non volevano limitarsi a criticare la società capitalistica, ma volevano abbatterla per costruire materialmente una società migliore. Engels, figlio di un ricco industriale tessile tedesco, ebbe modo di osservare in Inghilterra il degrado dei grandi centri urbani inglesi e per questo avverti il bisogno morale di denunciare le terribili condizioni in cui viveva il proletariato che lavorava nelle fabbriche. Nel 1846 egli pubblicò “La situazione della classe operaia in Inghilterra”, in cui denunciò il volto più oscuro e tragico della rivoluzione industriale. Anche Marx era tedesco ed era figlio di un ebreo convertitosi al protestantesimo. Tuttavia la sua origine ebraica non ebbe alcuna rilevanza e non condizionò assolutamente il suo pensiero. Di questo argomento si occupò solo in un’opera intitolata “la questione ebraica”, che si configurò come una risposta ad un saggio di Bruno Bauer, secondo il quale il presupposto per la vera mancipazione degli ebrei era che lo stato prussiano cessasse di essere ufficialmente cristiano. Bauer era un filosofo ateo e riteneva che l’eliminazione della religione fosse impossibile fino a quando avesse avuto l’appoggio dello Stato. Anche Marx era ateo e riteneva che l’umanità dovesse abbandonare la fede e che lo stato dovesse dichiararsi neutrale. Secondo lui Dio non era altro che una proiezione di quello che l’uomo non riusciva ad essere sulla terra. Credere nell’esistenza di un essere superiore era il segnale di un profondo disagio, ravvisabile nelle condizioni di vita dell’umanità. Per Marx la religione simboleggiava soltanto l’illusione dell’esistenza di un mondo migliore nell’aldilà e forniva dunque all’uomo un rimedio artificiale e fasullo, paragonato a quello fornito dall’oppio. In ultima analisi egli sosteneva che, per procedere alla completa eliminazione della religione, fosse necessario individuare le cause profonde della situazione opprimente in cui l’uomo viveva in questo mondo. 1.4 Il Manifesto del Partito Comunista Marx attaccò il concetto di diritti dell’uomo e del cittadino, così come erano stati definiti nel 1776 nel 1789. Secondo lui proclamare tali diritti significava esaltare il trionfo dell’egoismo individuale. Quelli non erano veri diritti dell’uomo, ma soltanto diritti del borghese, di cui lo stato si impegnava a difendere e proteggere la proprietà. Secondo Marx alla base della disuguaglianza stava proprio lo scandalo della proprietà, che permetteva ad alcuni individui di dominare tutti gli altri. Per questo la lotta politica non era sufficiente per ottenere uno 77 e l’equilibrio con cui veniva rappresentata la figura umana e aveva considerato il tipo greco come l’incarnazione della bellezza assoluta ideale. Tale perfezione esteriore era lo specchio di una perfezione interiore propria dell’uomo ellenico. Nella prima metà dell’Ottocento il pensiero razzista si appropriò del neoclassicismo e giunse ad affermare che i popoli ariani erano i più nobili, più intelligenti e più capaci di grandi sentimenti, rispetto a coloro che fisicamente erano molto lontani dal modello di riferimento. In quest’ottica sia i neri che gli ebrei venivano guardati con disprezzo. In tutta Europa acquisì notevole importanza l’educazione fisica, poiché era finalizzata ad offrire ai giovani la possibilità di plasmare il proprio corpo a modello dell’atleta ellenico. Chiunque vedesse l’individuo dall’esterno doveva immediatamente percepirne la perfezione interiore, la sanità morale e l’intelligenza. Un corpo perfetto doveva manifestare la sua superiorità razziale. 1.8 La maturità del pensiero razzista Tra la fine del Settecento e il 1850 il pensiero razzista giunse a piena maturazione. L’olandese Peter Camper propose il concetto di angolo facciale, ricavabile dal calcolo dell’angolo, risultante dall’incrocio di due linee che andavano dal labbro superiore fino alla fronte e l’altra dalle labbra all’orecchio. Secondo Camper l’angolo dell’uomo greco era perfetto perché era di 100 °. Il più coerente pensato razzista dell’Ottocento fu il Conte francese Arthur, che nel 1853 il pubblicò un’opera intitolata “Saggio sulle ineguaglianze delle razze umane”, in cui per la prima volta assunse il concetto di razza come criterio per comprendere le vicende storiche del suo paese. Secondo Camper esistevano tre razze fondamentali (la gialla, la nera e la bianca), ognuna delle quali produceva un proprio tipo specifico di civiltà. Mentre la razza bianca possedeva grandi facoltà creative creatrici, i gialli pensavano solo al benessere materiale, mentre i neri erano dotati di scarsa intelligenza e caratterizzati da un istinto animalesco. La mescolanza delle razze era per Camper la grande tragedia del genere umano. 80 16. MOTI E RIVOLTE DAL CONGRESSO DI VIENNA AL 1848 1. L’ORDINE VIENNESE E I MOTI DEL 1820-1821 1.1 Fine di un’epoca e nuovi problemi Nel 1815, dopo la disfatta di Bonaparte a Waterloo, l’Europa entrò in una fase nuova della storia. Due vicende politiche ed economiche giunsero a compimento, mentre nuovi problemi avanzavano. La prima vicenda fu la “Seconda guerra dei cent’anni”, un’espressione utilizzata dalla maggior parte degli storici per designare il lungo duello che vide contrapposte Francia e Gran Bretagna per l’egemonia in Europa e nel commercio mondiale. Tra il 1713 (pace di Utrecht) il 1815, la Francia cambiò il proprio regime politico tre volte: monarchia assoluta di Luigi XIV e dei suoi successori, la Repubblica, figlia della rivoluzione e infine l’impero napoleonico. Per sbarrare la strada ai sogni di vari governi che si succedettero a Parigi, il Regno Unito divenne l’anima di innumerevoli grandi coalizioni europee, che coinvolgevano tutte le principali potenze in funzione antifrancese. Sul campo di battaglia l’Inghilterra si scontrò con i francesi poche volte e la Francia non riuscì mai a strapparle il dominio dei mari. Nel 1815 la Seconda guerra dei cent’anni si era conclusa con un verdetto incontestabile: l’Ottocento sarebbe stato un secolo inglese, mentre la Francia era condannata al ruolo di potenza di secondo rango. Le dinamiche che hanno portato alla sconfitta della Francia erano state simili a quelle che avevano bloccato Luigi XVI; tuttavia ad affiancare le potenze occidentali aveva fatto la sua prepotente comparsa alla Russia, di cui nessuno più avrebbe potuto ignorarle la forza. Per qualche anno ministri e sovrani si illusero che l’idea di nazione fosse un fuoco di paglia; quando si riunirono nel Congresso di Vienna questo tema non compariva nella loro agenda politica. 1.2 Il congresso di Vienna Dopo la sconfitta di Bonaparte tutti i paesi volevano ripristinare la vecchia situazione politica. Dal 3 novembre 1814 al 9 giugno 1815 si tenne a Vienna una serie di riunioni che videro i ministri e i principi degli Stati più potenti d'Europa impegnati a discutere dell'assetto politico che l'Europa avrebbe dovuto assumere. I veri protagonisti del Congresso di Vienna furono quelle potenze che, coalizzandosi, avevano impedito a Bonaparte di diventare il padrone assoluto: Inghilterra, Russia, Austria e Prussia. La Francia, malgrado la sconfitta, non fu esclusa dalle trattative, ma fu proprio il suo più prestigioso delegato Charles Maurice de Talleyrand a proporre uno dei criteri che il Congresso decise di seguire 81 sulla riorganizzazione dell'Europa: il cosiddetto principio di legittimità. In altre parole bisognava ricostruire la situazione politica che vigeva prima dello scoppio della Rivoluzione francese, riportando sui troni i numerosi sovrani deposti da Napoleone e azzerando tutte le varie modifiche apportate dai vari eserciti rivoluzionari. La Francia non uscì umiliata dal conflitto, perché tale principio era volto a curare i suoi interessi, infatti non subì alcuna significativa mutilazione territoriale, ma perse solo i territori conquistati durante il periodo bellico. Questo ritorno al passato pre bellico fu denominato età della Restaurazione. Oltre al principio di legittimità, le potenze europee istituirono anche un principio dell'equilibrio, sostenuto soprattutto dall'Inghilterra, la quale era preoccupata che nessuno assumesse in Europa un peso tale da imporre la propria egemonia. Qualche anno prima infatti la provvisoria supremazia napoleonica aveva istituito il blocco continentale, impedendo la vendita dei beni inglesi. La nuova economia britannica aveva rischiato il collasso e per questo l'idea di equilibrio era per la potenza inglese una necessità dettata dalla strada intrapresa sul terreno economico. Il Congresso inoltre si preoccupò di rafforzare alcuni stati confinanti con la Francia, per evitare un rinnovato espansionismo francese. Il Belgio fu posto sotto la sovranità olandese, mentre al Regno di Sardegna furono aggiunte Savoia e la Repubblica di Genova. Alla Prussia furono assegnate una porzione della Sassonia e parte dei territori del Reno confinanti con la Francia. Il principio di equilibrio ebbe il sopravvento sul principio di legittimità tutte le volte in cui i due criteri entrarono in contrasto tra loro. Il caso più clamoroso è ravvisabile con la nella sorte della Repubblica di Venezia, che aveva perso la propria indipendenza nel 1797 con il trattato di Campoformio. In base al principio di legittimità avrebbe dovuto ritornare ad essere uno stato libero, ma in realtà fu assegnata la all'Austria. L'impero asburgico così guadagno compattezza e unità rispetto al Settecento, quando la Lombardia era separata dal resto dei domini austriaci a causa di Venezia. Nell'Europa orientale contemporaneamente stava allargando i suoi domini la Russia annettendo la Finlandia e gran parte della Polonia. 1.3 La Santa Alleanza In tutto il periodo compreso tra il 1815 il 1914 non si ebbe alcuna guerra nella quale fossero coinvolte più di due grandi potenze. All'interno degli Stati europei, con la sola eccezione dell'Inghilterra e della Francia, vigeva un rigido assolutismo, che non ammetteva alcuna forma di critica ai governi e non prevedeva alcuna limitazione del potere dei sovrani. Agli occhi dello zar Alessandro I o del primo ministro austriaco Clemens Lothar von Metternich ogni innovazione politica che mettesse in discussione il potere assoluto dei sovrani, considerato di origine divina, doveva essere repressa. Su queste basi nel settembre del 1815 i sovrani di Austria, Prussia e Russia si unirono nella cosiddetta Santa alleanza, finalizzata proprio ad impedire ogni tentativo di introdurre mutamenti all'interno dell'ordine di Vienna. Nelle intenzioni dello zar i tre sovrani rappresentavano i diversi rami della fede cristiana (cattolica, protestante e ortodossa) e insieme si assumevano il dovere di proteggere il mondo dai pericoli della rivoluzione. Tuttavia il Papa declinò l'invito ad aderire, in quanto il pontefice romano non poteva accettare di considerare l'imperatore russo e il luterano re di Prussia come propri pari in quanto questi ultimi erano dei monarchi eretici. La difesa dell'assolutismo per diritto divino si sommò poi al rifiuto di accogliere le aspirazioni 82 2. L’INSURREZIONE DI PARIGI DEL 1830 E I MOTI DEL 1830-1831 IN EUROPA 2.1 La rivoluzione parigina del luglio 1830 Alla fine del XVIII secolo la Francia era una monarchia isolata. La situazione precipitò il 25 luglio 1830, quando il sovrano e mano alcune ordinanze che sospendevano la libertà di stampa, scioglievano la Camera dei deputati e fissavano dei parametri censitario ancora più alti per esercitare il diritto di voto. Tale politica reazionaria provocò la collera dei cittadini di Parigi che insorsero e dominarono per tre giorni la città, fino a quando Carlo C non ebbe abdicato. Gli insorti utilizzarono la strategia delle barricate, ovvero barriere improvvisate costruite con carri mobili o rottami, che chiudevano le strade principali della capitale, trasformando interi quartieri in fortezze popolari. La partecipazione dei ceti popolari all'insurrezione fu massiccia; tuttavia la direzione del moto restò sempre nelle mani di borghesi, i quali erano attenti ad impedire che gli obiettivi della rivolta assumessero caratteri sociali e mettessero in discussione la proprietà privata. Al posto di Carlo X, fu incoronato re Luigi Filippo d’Orléans, il cui padre era il cugino di Luigi XVI; il nuovo sovrano assunse il titolo di “re dei francesi”, accettando il principio secondo cui il suo potere non discendesse da Dio, ma gli era stato conferito dal popolo francese. Luigi Filippo accettò il tricolore come vessillo nazionale e cancellò il Preambolo dalla Carta costituzionale: ciò significava che la carta non fosse più “octroyèe” (=concessa), cioè il frutto di una concessione, ma l'esito di un contratto sociale fra il re e il popolo. Sul piano politico la camera alta, di nomina regia, perse importanza rispetto alla Camera dei deputati, eletta dai cittadini e inoltre i ministri del governo cominciarono a considerarsi responsabili del proprio operato di fronte al Parlamento e non più di fronte al re. Tuttavia, malgrado la presenza popolare, il regime liberale uscito dalla rivoluzione del 1830 non era affatto democratico e il suffragio restava ancora censitario. 2.2 L’indipendenza del Belgio e i moti del 1830-1831 L'esempio della rivoluzione parigina spinse all'insurrezione la popolazione di Bruxelles, dove si formò un governo provvisorio che proclamò l'indipendenza del Belgio, dopo aver ricevuto anche sostegno diplomatico dell’Inghilterra. Non ebbero successo invece le insurrezioni che si verificarono in Polonia e in Italia, che contavano sull'aiuto francese, ma Luigi Filippo dichiarò che la Francia non sarebbe intervenuta a sostegno dei rivoltosi. 2.3 La “monarchia di luglio” in Francia 85 Nella Francia degli anni 1830 e il 1848, periodo denominato monarchia di luglio, una delle maggiori figure di spicco fu Francois Guizot, un intellettuale di origine protestante che assunse importanti incarichi di governo. Secondo lui il mutamento di dinastia che si era verificato nel 1830 doveva essere paragonato alla “gloriosa rivoluzione”, scoppiata in Inghilterra nel 1688. La Seconda rivoluzione però aveva stabilizzato il regime costituzionale e consegnato il potere ai proprietari, la componente più colta e responsabile di tutta la popolazione. Guizot si mostrò sempre ostile ad accogliere tutte le richieste di un ulteriore allargamento del suffragio. Per tale ragione il malcontento parigino non si placò e il nuovo governo ebbe subito vari e agguerriti nemici. Fu in questo clima che nacque il movimento socialista, che contestava al regime di essere solo il governo dei ricchi e dei borghesi. Questi rivoluzionari socialisti si presentavano come i continuatori della lotta iniziata da Gracco Babeuf nel 1796. Essi, non potendo agire in maniera legale, preparavano clandestinamente la grande insurrezione, che avrebbe segnato la fine del governo dei ricchi borghesi. Nel mondo delle sette e delle società segrete si distinse Louis Auguste Blanqui, che dapprima diede vita alla “società degli amici del popolo” e poi alla “società delle famiglie”. I cerimoniali erano simili a quelli della massoneria, un'associazione segreta sorta nel Settecento, al fine di rispondere di difendere gli ideali dell’Illuminismo. Ogni membro doveva sottostare ad un rituale di affiliazione alla setta, a rispondere alle domande di un catechismo rivoluzionario e ad impegnarsi con un giuramento solenne. Con il passare del tempo il candidato doveva anche sottoporsi ad un sacrificio. Dunque anche nelle sette di Blanqui, orientate in direzione del comunismo, si fece strada la nuova mentalità romantica, tutta centrata sullo slancio appassionato, sull'entusiasmo, su l'eroismo individuale fino alla morte. Il romanticismo disprezzava il borghese che, oltre a sfruttare i poveri proletari, incarnava un tipo umano squallido e meschino, dominato dall'egoismo e dedito solo all'accumulo del denaro. 3. LA FRANCIA DALLA MONARCHIA ALL’IMPERO E I MOTI DEL 1848 3.1 La situazione in Francia alla vigilia del 1848 La monarchia di luglio non incontrò serie difficoltà fino al 1845, quando il prezzo del grano aumentò bruscamente a causa del cattivo raccolto dell'anno precedente. La Francia di metà Ottocento quindi stava vivendo un delicato momento di transizione, in quanto i nuovi problemi sociali tipici del mondo industrializzato si intrecciavano con le crisi tipiche dell'antico regime biologico, che nemmeno l'ampia diffusione della cultura delle patate era riuscito ancora a debellare. Dal settore agroalimentare la crisi si trasferì a quello della produzione tessile, infatti il rialzo dei prezzi dei beni primari provocò un immediato crollo della domanda di tutti gli altri generi di consumo. La situazione mise in ginocchio numerose banche a causa dell'insolvenza dei creditori. Ad essere colpevolizzati potevano essere un intero sistema sociale e la classe che da quel sistema traeva i massimi benefici. Era nate da qui la rabbia del Terzo stato contro l'aristocrazia e la conseguente richiesta di abolire l'intero ancien régime. Nel 1848 tuttavia la classe dominante era ormai la borghesia, mentre il gruppo in ascesa era il proletariato di fabbrica, che iniziò a chiedere la riduzione della giornata lavorativa, l'intervento dello Stato a favore dei disoccupati e il suffragio universale. 86 3.2 1848: la rivolta di Parigi e la diffusione dei moti in Europa Ancora una volta la rivoluzione esplose a Parigi, dopo che il governo aveva vietato un “banchetto”, cioè una manifestazione politica che favoriva il suffragio universale e che si presentava sotto forma di cena tra amici, per evitare in questo modo i controlli della polizia. Il 24 Febbraio 1848, il popolo di Parigi bloccò le principali strade della città con le barricate. La notizia della rivoluzione parigina si diffuse in tutta Europa, provocando ovunque insurrezioni. Il 14 Marzo 1848 insorsero gli studenti e gli operai di Vienna, obbligando il primo ministro ad abbandonare il potere. Successivamente si sollevarono anche Praga e Budapest e in Italia, Milano e Venezia. Alcuni giorni dopo Vienna, anche Berlino fu teatro di un'insurrezione, il cui principale obiettivo era il superamento della frammentazione politica e il conseguimento dell'unità nazionale. Tutti i moti però vennero soffocati dal nuovo imperatore austriaco, Francesco Giuseppe, che, con l'aiuto delle truppe russe, represse ovunque le insurrezioni. In Germania, il re di Prussia, Federico Guglielmo IV, rifiutò la corona imperiale offerta dall'assemblea di Francoforte che, divisa anche al proprio interno, l'anno successivo si sciolse. 3.3 La conclusione della rivolta a Parigi Luigi Filippo fu obbligato ad abdicare e venne subito istituito il nuovo regime di tipo repubblicano e democratico, che assunse come punto di riferimento la Costituzione del 1793. Il nuovo governo era composto da oppositori liberali alla monarchia di luglio e da socialisti, uno dei quali, Louis Blanc, il 25 luglio pubblicò un decreto con il quale rilanciava il principio giacobino del diritto al lavoro. Egli, al fine di trasformarlo in una realtà concreta, istituì i cosiddetti “ateliers” ovvero i laboratori nazionali. Si trattava di manifatture di proprietà dello Stato che permettevano di dare un'occupazione e un salario agli operai rimasti senza impiego. Nel giro di pochi mesi i poveri che ricorsero a questa forma di assistenza pubblica giunsero a 100.000. Timorosi di una rivoluzione sociale, il 21 giugno 1848, il nuovo governo repubblicano emanò alcuni decreti che lasciavano intuire la sua volontà di ridurre o chiudere i laboratori. Gli operai parigini insorsero, ma la rivolta fu schiacciata dopo tre giorni di violenti combattimenti. In Francia non esisteva ancora una vera e propria classe operaia. L'intera vicenda della rivolta del 1848 per la prima volta portò alla ribalta la questione sociale. I socialisti mettevano l'accento sull'uguaglianza che ormai concepivano come livellamento delle ricchezze. I borghesi e repubblicani moderati insistevano invece sulla libertà, intesa come diritto a possedere beni e capitali e sulla fraternità, concepita come unione di tutto il popolo e di tutti i gruppi sociali che lo compongono, capaci di mettere da parte gli interessi particolari, di abbandonare la lotta di classe e di agire insieme per il bene della Francia. 87 1.3 i moti del 1830 1831 in Italia Buonarroti condivideva l'idea di Rousseau secondo cui tutti i mali dell'umanità derivano dalla proprietà privata. Seguendo questa linea, egli giunse ad auspicarne la completa abolizione. Servendosi delle sette e delle società segrete, cercava di tenere ben nascosto il suo obiettivo finale. A Milano la maggior parte dei gruppi che cospiravano nell'ombra per ottenere l'indipendenza dall'Austria, in realtà erano diretti e manovrati da Buonarroti. Tra coloro che pagarono personalmente per la loro ostilità all'Austria si annovera Silvio Pellico, che fu internato nella prigione dello Spielberg dal 1822 e il 1830 ed annotò la propria esperienza nel libro “Le mie prigioni”, pubblicato nel 1832. Una seconda ondata di moti coinvolse le diverse città italiane nel1831. La figura più lungimirante fu Ciro Menotti, un imprenditore che propose di creare una comunità economica, abolendo dazi e dogane. Da Modena l'insurrezione si allargò e coinvolse l'intera Emilia Romagna e le Marche. Tuttavia le insurrezioni si risolsero in un massacro e la ragione era ravvisabile nel fatto che gli ufficiali, i nobili e i borghesi che muovevano un moto non avevano alcun appoggio popolare. 1.4 Da Carlo Bianco a Giuseppe Mazzini Il piemontese Carlo Bianco stese un trattato politico in cui teorizzava la guerra per bande, facendo riferimento alla disfatta subita dai francesi in Spagna negli anni 1808 e il 1814. In quella regione gli spagnoli non avevano mai affrontato in campo aperto le truppe napoleoniche, ma le avevano comunque dissanguate in una piccola guerra, che il Novecento chiamò “guerriglia” e che oggi chiameremmo “guerra asimmetrica”. Bianco osservava che il territorio italiano, prevalentemente montuoso, si prestava alla perfezione a questo tipo di strategia, fatta di agguati, imboscate, attacchi fulminei e improvvise ritirate. Il problema però restava sempre lo stesso: senza il massiccio sostegno della popolazione civile i partigiani non avrebbero avuto alcuna possibilità di sopravvivenza. Negli anni ‘20 i contadini non avevano mostrato il minimo interesse per temi come la Costituzione e la libertà di stampa e addirittura i concetti di indipendenza di democrazia erano assai lontani dalle loro prospettive. Fu l’insieme di tali questioni a spingere il genovese Giuseppe Mazzini ad elaborare nuovo programma per affrontare i problemi dell'Italia. Secondo lui il difetto più grande del fallimento delle insurrezioni era stato di essersi limitate unicamente ad ambiti regionali e locali. Mazzini pose l'accento su l'obiettivo dell'unità politica dell'Italia, cioè sulla necessità di trasformare il frammentato scenario della penisola in un solido e compatto stato nazionale. A tal proposito, nel luglio 1831, Mazzini fondò un nuovo movimento politico, la Giovine Italia, che si distinse dalle società segrete sia per il proprio obiettivo di unità nazionale sia per gli strumenti utilizzati: al posto dei fallimentari colpi di Stato, avrebbe dovuto entrare in scena come protagonista il popolo italiano. 90 1.5 Il pensiero politico di Giuseppe Mazzini La Giovine Italia espose sin da subito i suoi obiettivi: unità, democrazia e Repubblica. Mazzini inoltre guardò sempre con sospetto al comunismo di Buonarroti, di Blanqui e poi di Marx. Buonarroti era ateo e neanche Mazzini si riconosceva in alcuna chiesa, tuttavia aveva uno spirito profondamente religioso. Egli era convinto che Dio avesse assegnato all'Italia un ruolo di primaria importanza, poiché essa doveva fornire l'esempio a tutti i popoli, indicando la via della liberazione dal dominio straniero e dall'occasione. L'idea di nazione era al centro del suo pensiero, ma era molto lontano dagli eccessi di nazionalismo. A suo giudizio tutti i popoli avevano pari dignità e pari diritto alla libertà e all'indipendenza. Non a caso per ribadire questo principio egli fondò nel 1834 la Giovine Europa, un movimento che avrebbe dovuto coordinare la lotta di tutti i popoli oppressi, gettando le basi di una convivenza rispettosa della libertà e dei diritti di ciascun gruppo etnico. Una volta liberata l'Italia, Mazzini si prefiggeva di costruire uno stato unitario, repubblicano e democratico. Negli anni ‘30 del XIX secolo l'affermazione dell'Italia quale stato unitario avrebbe cancellato le entità statali esistenti da diversi secoli e l'abolizione del potere temporale del papato. La scelta repubblicana si spiegava col fatto che per Mazzini la sovranità apparteneva soltanto al popolo, che avrebbe espresso la propria volontà attraverso il suffragio universale. Mazzini fu sempre ostile al marxismo e agli altri movimenti socialisti, di cui non condivideva i presupposti materialistici e atei: senza fede religiosa non erano possibili le rivoluzioni. Egli ebbe un atteggiamento distaccato nei confronti del concetto liberale di libertà, che insisteva sui diritti dell'individuo e che considerava quest'ultimo un valore supremo. Nella concezione mazziniana il singolo individuo invece doveva adempiere a dei doveri nei confronti della propria collettività, concepita come qualcosa di sacro. Egli pertanto riteneva che il nuovo stato italiano avrebbe dovuto venire incontro alle esigenze dei lavoratori e degli operai, superando la rigida posizione dei liberali moderati, secondo cui tutte le rivendicazioni dei ceti subalterni andavano condannate e represse. 91 1.6 Il fallimento del progetto politico democratico Tutti i tentativi insurrezionali promossi dalla Giovine Italia negli anni ‘30 negli anni ‘40 non ebbero successo. Particolarmente drammatica fu la spedizione organizzata da Attilio ed Emilio Bandiera in Calabria nel 1840-1844, due fratelli che furono catturati e giustiziati. Il popolo, che nelle intenzioni di Mazzini, avrebbe dovuto insorgere per sostenere il gruppo di militanti, non mostrò alcun interesse nei confronti delle idee di unità e di indipendenza nazionali. Carlo Pisacane, collaboratore di Mazzini, assunse posizioni coerentemente socialiste e si fece promotore di una rivoluzione che, tra i suoi obiettivi, inseriva l'abolizione della proprietà privata. Tuttavia anche la spedizione promossa dallo stesso Pisacane nel 1857 si sarebbe risolta in un totale disastro: sbarcato a Sapri con circa 300 uomini fu catturato dall'esercito borbonico e infine si uccise il 2 luglio 1857. Mazzini cercò di mascherare il suo insuccesso, elaborando un'intensa campagna ideologica basata sul concetto di martirio. In linea con la tradizione democratica, Mazzini cercava di fondare una nuova religione civile, basata sulla totale dedizione di sé stessi alla patria e alla causa dell'indipendenza nazionale. In realtà il suo progetto non riusciva a produrre alcun effetto concreto. In questo clima di sfiducia trovò spazio la proposta molto più moderata di Vincenzo Gioberti nel suo “Del primato morale e civile degli italiani”, pubblicato nel 1843. Gioberti era un sacerdote cattolico che riteneva che il futuro dell'Italia potesse trovare nel Papa una fondamentale figura di riferimento. Egli proponeva che gli Stati italiani si riunissero in un'unica federazione, guidata dal Papa. La sua speranza divenne realtà nel 1846, quando fu eletto il nuovo pontefice Pio IX. Il primo atto di governo del nuovo Papa fu un'amnistia per i prigionieri politici che fu accolta con incredibile entusiasmo dalla popolazione. Le speranze in un papato liberale crebbero ulteriormente quando nell'ottobre del 1847 lo stato della Chiesa, il Regno di Sardegna e il Granducato di Toscana incominciarono a prendere in considerazione la possibilità di procedere ad una Lega doganale, ad un mercato comune che avrebbe potuto essere la prima tappa verso una vera Federazione. 4.7 Lo Statuto albertino Non appena si diffuse la notizia della rivoluzione parigina del 1848, si manifestarono insurrezioni in diverse città d’Europa. La prima ad insorgere fu Venezia, che riuscì ad espellere gli austriaci e proclamò risorta la Repubblica veneta. Anche Milano, dopo 5 giornate di furiosi combattimenti, obbligò l'esercito asburgico alla ritirata. Per timore che esplodesse una rivoluzione anche a Torino, il re di Sardegna Carlo Alberto decise di entrare in guerra contro l'Austria, malgrado l'opposizione di alcuni dirigenti della rivoluzione milanese, tra cui Carlo Cattaneo. Quest'ultimo, studioso di problemi economici e sociali, era un convinto sostenitore della democrazia, ma non condivideva l'impostazione mazziniana. Secondo lui il modello da assumere era quello federalista, da lui considerato il solo veramente rispettoso delle differenze tra una regione e l'altra. Cattaneo, alla proposta 92 numerose repubbliche. Sul piano sociale la maggioranza della popolazione era assolutamente lontana dal potere e fu lasciata allo sfruttamento e all'asservimento ai grandi proprietari, anche se la schiavitù fu abolita negli anni ‘20 in tutta l'America Latina, tranne in Brasile e a Cuba. Tuttavia i nuovi stati erano politicamente deboli e, per questo, erano esposti al rischio di una nuova conquista da parte delle potenze europee, come la Francia e la Spagna che volevano creare un’alleanza. Nel 1823 tali minacce spinsero il presidente James Monroe a dichiarare i principi che, per circa un secolo, avrebbero guidato la politica estera degli Stati Uniti. Egli da un lato dichiarò che gli Stati Uniti non avevano alcuna intenzione di immischiarsi nei conflitti politici europei, ma al tempo stesso il presidente affermò che gli Stati Uniti non avrebbero tollerato ingerenze politiche nei continenti americani. Nessuna potenza osò mai un'impresa coloniale in America, con la sola eccezione del fallimentare tentativo di francesi che negli anni ‘60 dell'Ottocento volevano trasformare il Messico in un protettorato di Parigi. Quanto all’Inghilterra, a partire dagli anni ‘20 del XIX secolo l'intera America del Sud divenne una periferia del sistema economico che ruotava intorno a Londra, ossia una terra da cui ricavare materie prime a basso costo e un mercato illimitato per i manufatti prodotti dalla nuova industria alimentata col vapore. L'egemonia inglese durò fino alla Prima guerra mondiale; Dopo il 1918 l'Inghilterra fu soppiantata dagli Stati Uniti, ormai diventati la principale potenza industriale del mondo. 2. L’EGEMONIA INGLESE IN ASIA 2.1 La Compagnia delle Indie orientali e il dominio dell’India Intorno alla metà dell'Ottocento due paesi costituivano il centro dell'economia britannica: India e Cina. Nel 1757 un esercito della Compagnia delle Indie orientali sconfisse a Plassey il sovrano del Bengala, l'attuale Bangladesh, e fornì alla Compagnia stessa una base territoriale e stabile: a partire da quel momento il Bengala sarebbe stato il principale punto di forza da cui la potenza britannica si sarebbe estesa al resto della dell'India. Più tardi la sconfitta francese avrebbe permesso alla Gran Bretagna di essere l'unica potenza europea presente in quell'immensa regione. Intorno al 1820 la compagnia controllava direttamente il 42% dell'intero territorio indiano e il 62% degli abitanti del paese. Metà dell'india era governata da sovrani indigeni, ma questi erano ormai sottomessi gli inglesi. Il governo inglese in realtà non era ancora ufficialmente impegnato negli affari indiani. Dal 1820 la situazione si capovolse, in quanto la Compagnia delle Indie si trasformò nel principale strumento di esportazione dei manufatti industriali inglesi, la cui diffusione in India avrebbe rovinato l'artigianato locale e collocato l'India in una condizione di soggezione economica. Alcuni aspetti della realtà culturale indiana erano profondamente diversi dalle usanze cristiane e ciò suscitò profondo scandalo in Inghilterra. Ciò scosse l'opinione pubblica la quale organizzò una vasta campagna di evangelizzazione e cristianizzazione dell'India, le cui abitudini tradizionali erano giudicate barbare. Una pratica che destava particolare orrore era l'infanticidio femminile diffuso per ragioni prevalentemente economiche. Quando la famiglia non possedeva beni sufficienti per fornire alla futura sposa una dote adeguata al suo rango, la neonata veniva uccisa. Gli inglesi detestavano anche il “sati”, l'immolazione di una vedova sulla pira funebre. Solo nel Bengala morirono tra il 1813 e il 1825 circa 7941 95 donne sul rogo. Fra le caste più alte il sacrificio della vedova un’elevata fedeltà, mentre tra i gruppi più poveri era un modo per liberarsi di una figura socialmente debole. 2.2 La rivolta di Sepoy in India Nella loro campagna contro l'infanticidio e contro il sati, inglesi trovarono spesso il sostegno dei principi indiani che erano stati lasciati in carica. I settori dell'opinione pubblica inglese utilizzarono il mito dei thugs, termine con il quale si designava un gruppo di adepti alla dea Kali, accusati di strangolare le loro vittime, prima di offrirle in sacrificio alle loro divinità. William Sleeman, ufficiale dell'esercito e magistrato, pubblicò numerosi articoli scandalistici per denunciare questo aspetto delle barbarie indiane. Nel 1838 aveva catturato e processato 3266 thugs, 1400 dei quali furono impiccati o deportati. L'azione di Sleeman fu presentata come la lotta della civiltà europea contro una religione selvaggia, feroce e malvagia. Numerosi indiani restarono profondamente feriti dal disprezzo che gli inglesi nutrivano verso la loro cultura. Il malcontento si diffuse in primo luogo all'interno dell'esercito della Compagnia delle Indie, che era composto quasi esclusivamente da soldati indigeni, detti sepoys. Non si trattava per nulla di uomini poveri, ma di indù o musulmani che, per tradizione, erano dediti all'attività guerriera. Profondamente legati alle proprie tradizioni, questi soldati si ribellarono in massa nel 1857. Il pretesto che scatenò l'insurrezione fu di carattere religioso: si sparse la voce che le nuove cartucce assegnate ai sepoys fossero state oliate con il grasso di origine animale, anzi di suino. Siccome si trattava di alimenti impuri, i sepoys dapprima si rifiutarono di usare le munizioni incriminate, poi si ribellarono ai loro ufficiali inglesi. La stampa britannica cercò di minimizzare la portata di quegli eventi. Per domare la rivolta fu necessario l'intervento dell'esercito regolare inglese. La situazione fu ristabilita dopo spargimenti di sangue. A partire dal 1858 il governo britannico scelse una linea di dominio più abile e diplomatica: per prima cosa assunse il compito di amministrare direttamente l'India, cosicché i funzionari dello Stato sostituirono quelli della Compagnia, nel prelievo delle imposte e nell'amministrazione della giustizia. Infine nel 1877 la regina Vittoria fu proclamata imperatrice delle Indie. In questo modo per la prima volta il dominio inglese non fu più messo in discussione fino agli anni ‘20 del Novecento. 2.3 I commerci con la Cina La seconda grande regione asiatica che si scontrò con l'Inghilterra fu l'impero cinese, che alla fine del Settecento era ancora forte e fiorente, ma conteneva numerosi fattori di crisi. Il primo di questi riguardava sicuramente il numero elevatissimo della popolazione, che passò da 200 milioni nel 1762 a 313 milioni nel 1794, per poi diventare 410 milioni nel 1850. Dal 1644 l'immenso territorio dell'impero era governato dalla dinastia Qing (o Manciù), una dinastia considerata straniera dalla maggior parte dei cinesi colti, perché proveniva dalla remota regione settentrionale della Manciuria. Tale accezione negativa si era diffusa soprattutto nella Cina del Sud, dove si concentrava la produzione e la vendita di tutte le merci che, a partire dal Settecento, i mercanti olandesi e inglesi conquistavano in grandi quantità e trasportavano in Europa. Si trattava di tè, rabarbaro, sete, porcellane. Per tutti 96 questi beni gli europei versavano ai mercanti cinesi enormi quantità di argento, quindi il commercio con la Cina era ampiamente deficitario. Ai cinesi non interessavano né i manufatti tessili né altra merce prodotta in Occidente. Il rapporto con la Cina era tutto basato sull’ importazione in Europa di determinati prodotti, pagati in denaro contante o meglio in metallo pregiato e non era affatto un processo di scambio alla pari. Il governo imperiale temeva che l'affermazione di un gruppo sociale dinamico come quello dei mercanti causasse disordini all'interno della società cinese, che era tradizionalmente organizzata su due livelli, o meglio su una classe di funzionari colti e raffinati (detti mandarini) che dirigeva l'immensa massa dei contadini. Di conseguenza l'imperatore limitò al minimo gli scambi con gli occidentali, che potevano operare solo nel porto di Canton. Nel 1793 il governo di Londra inviò un'ambasceria a Pechino, chiedendo l'apertura di altri porti al commercio inglese, ma ricevette un rifiuto netto. Va segnalato inoltre che l'immenso impero asiatico si considerava il centro del mondo e quindi secondo la loro mentalità il dialogo culturale con i non cinesi era del tutto inutile, mentre i contatti economici con il mondo esterno non erano essenziali per la prospettiva del paese. La situazione iniziò a modificarsi all'inizio dell'Ottocento, quando i mercanti inglesi della Compagnia delle Indie iniziarono a introdurre in Cina l'oppio, una droga prodotta in India, dal cui mercato illecito si ricavavano ingenti somme di denaro. 2.4 La guerra dell’oppio L'oppio era conosciuto e utilizzato in Cina da tempo immemorabile, divenendo un vero e proprio fenomeno di massa. L'immissione di questa merce straniera aveva provocato conseguenze gravissime, che spinsero il governo imperiale ad assumere misure drastiche e radicali. Innanzitutto nel 1839 a Canton vennero sequestrate e bruciate 1300 tonnellate di droga. La Marina britannica rispose attaccando le coste cinesi nell'estate del 1840. L'imperatore cinese, spaventato dalla potenza militare inglese, accettò di giungere ad un , che fu firmato ufficialmente a Nanchino nel 1842. Il trattato prevedeva la libertà di commerciare con gli stranieri per tutti i mercanti cinesi che volessero farlo, l'apertura di cinque porti alle navi occidentali, la cessione all'Inghilterra dell'isola di Hong Kong, il pagamento di un'indennità di 21 milioni di dollari per l'oppio distrutto e per le spese di guerra. Inoltre furono fissati i dazi massimi che il governo cinese poteva imporre alle merci straniere: in pratica i manufatti industriali inglesi furono collocati facilmente in Cina. Per la Cina fu l'inizio di una lunga fase di sfruttamento delle sue ricchezze da parte delle principali potenze europee. Nel 1851 la crisi si accentuò ed esplose in tutta la Cina del Sud una grande rivolta finalizzata ad istituire il “celeste Regno della grande pace”. Fra i motivi della rivolta si erano diffuse delle credenze cristiane di matrice millenaristica capaci di affascinare e trascinare alla lotta milioni di contadini affamati e disperati. Questa guerra civile sconvolse per diversi anni i ritmi della vita agricola, aggravando la carestia e la penuria alimentare. Le vittime complessive durante i 15 anni di guerra furono 20 milioni. 97
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved