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Riassunto di storia moderna, Schemi e mappe concettuali di Storia Moderna

riassunto dall'antico regime a Filippo II

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

2023/2024

Caricato il 06/06/2024

zaira-cancilleri
zaira-cancilleri 🇮🇹

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Scarica Riassunto di storia moderna e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Storia Moderna solo su Docsity! apitolo 6. “Le forme e le strutture di potere” - “Lo stato moderno” Lo stato moderno deve essere considerato una forma storicamente definita nel tempo e nello spazio che si è affermata inizialmente nell’Europa occidentale, agli inizi del XIX secolo, per poi essere adottata da tutti i popoli civilizzati. Esso si caratterizza come un organismo politico dotato di piena sovranità su tutto il territorio e sugli individui sottoposti alla sua sovranità, in quanto dispone del monopolio legittimo della forza, sia dall’interno, per garantire l’ordine, sia dall’esterno nei confronti degli altri stati. Nello stato moderno il sovrano punta alla massima centralizzazione. Lo stato moderno è considerato anche stato di diritto poiché regola la vita della società attraverso un ordinamento giuridico uniforme, dotato di norme astratte, generali e impersonali e assume la forma di un ente che persegue i suoi scopi in modo imparziale. Lo stato moderno è anche definito stato nazionale poiché è anche organizzazione politica della popolazione che ha maturato una coscienza della propria identità, sulla base di comuni caratteri etnici, linguistici e storico-culturali. Ma tale concezione di stato nazionale ebbe anche delle conseguenze negative: in primo luogo vi erano minoranze interne che non erano omogenee alla comunità nazionale e in secondo luogo vi era anche il tentativo di estendere il territorio verso stati che erano considerati parte della nazione. - “Lo stato di antico regime” Alcune correnti storiografiche hanno individuato nell’indirizzo assolutistico di alcune monarchie un’anticipazione di molti aspetti dello stato moderno. A queste interpretazioni si sono contrapposti quanti ritengono anacronistico utilizzare il termine stato moderno per analizzare le istituzioni della società di antico regime. Si pone quindi il problema di definire la natura e i caratteri delle dinamiche politiche che si affermarono nel corso dell’età moderna. Verso la metà del XV secolo si fece strada, in molti stati dell’Europa occidentale, un processo di rafforzamento del governo centrale, volto a limitare i “privilegi” (prerogative) della nobiltà feudale, della chiesa e delle autorità periferiche, e mirava a formare un apparato amministrativo e finanziario più solido ed efficiente. In effetti, in quegli anni la parola “Stato”, che precedentemente era utilizzata nel senso etimologico di “condizione o modo di essere”, iniziava ad assumere il significato attuale. Per quanto riguarda il concetto di sovranità nel medioevo non aveva il carattere di assolutezza; lo si definiva come summum imperium, per indicare che esso non era esclusivo ma si poneva al di sopra di una molteplicità di poteri ai quali era affidata nei vari ambiti territoriali l’amministrazione della giustizia, il mantenimento dell’ordine, la coniazione di monete, la riscossione di imposte, la chiamata alle armi. L’autorità del sovrano, quindi, non era diretta ma doveva affermarsi attraverso un sistema di mediazioni e di transazioni con i poteri subordinati, i ceti e i corpi. Al contrario, i termini essenziali del moderno concetto di sovranità erano già presenti nell’opera di Bodin che indicò come caratteristica della sovranità il potere di dare leggi senza il consenso del popolo. Inoltre, Bodin, distinse la consuetudine dalle leggi, poiché la prima si impone con il tempo e per consenso comune, mentre la seconda esprime la volontà di colui che ha l’imperium (il comando, ovvero il sovrano). Secondo questa concezione la legge sta al di sopra di tutte le altre fonti di diritto. Su queste basi si può affermare che il sovrano è legibus solutus, ovvero sciolto dalle leggi. Bodin, però, non pensava che il potere del monarca fosse illimitato poiché le sue decisioni dovevano comunque essere giuste e rispettose dei precetti del diritto naturale e della legge divina. Nello stato moderno rimase viva la tradizionale concezione patrimoniale dello stato, per cui l’autorità del sovrano si fondava sulla nozione privatistica di dominium, inteso come possesso di un certo territorio da parte di una dinastia. Di conseguenza: un territorio apparteneva ad un sovrano per diritto dinastico, per cui la linea di confine segnava appunto il limite di tale diritto, acquisito per eredità o cessione o per un trattato o per incameramento di un feudo; a questa linea si contrapponeva i limiti delle circoscrizioni ecclesiastiche e quelli di molteplici interessi privati e pubblici, di pedaggi, di balzelli, di concessioni e di privilegi. Solo dopo la Rivoluzione francese il confine assunse il significato di limite di sovranità e per questo presentò una tipica forma lineare, con la funzione di separare due comunità nazionali ben identificate. - “L’esperienza politica dell’Italia rinascimentale” Le vicende politiche italiane rappresentano un importante laboratorio dove si formarono molte delle innovazioni che si sarebbero sviluppate poi nell’organizzazione delle grandi monarchie europee. - “La concezione del potere” Nel considerare l’istituto monarchico bisogna innanzitutto tenere presente dell’aura di sacralità della quale esso era ammantato, che si esprimeva nelle forme e nei simboli con i quali il sovrano si presentava ai suoi sudditi, che dovevano esprimere obbedienza, fedeltà e devozione. Molto significativa era la cerimonia del “sacre”, ovvero la consacrazione dei re di Francia che aveva luogo tradizionalmente a Reims: l’arcivescovo di Reims ungeva il corpo del re in nove punti con l’olio della santa ampolla; il re di Francia prendeva la comunione sotto le due specie, come appunto gli ecclesiastici; l’arcivescovo metteva al quarto dito della mano destra del re l’anello, a sancire il matrimonio fra il re e il suo regno. Fondamentale era il carattere ereditario della monarchia, secondo un ordine definito dalla legge; la continuità dinastica, che esprimeva il permanere dello stato al di là della persona fisica del re, assumeva un carattere quasi mistico (come dimostrano le massime che tradizionalmente si ripetevano alla morte di ogni sovrano “il re non muore mai” oppure “il re è morto, viva il re”. La filosofia scolastica a partire da Tommaso D’Aquino aveva aggiunto alla formula “omnis potestas a Deo” (Paolo di Tarso), le parole per populum, in modo che l’origine divina del potere monarchico non fosse diretta ma mediata attraverso il popolo; questo poneva il re in una posizione di inferiorità rispetto al papa, vicario diretto di Dio. Contro queste posizioni si schierarono molti fautori del diritto divino della monarchia, i quali sostennero che il re riceve la sua corona direttamente da Dio, senza l’intermediazione del popolo. - “Dualismo istituzionale” Alle soglie dell’età moderna i regimi di tipo monocratico prevedevano al vertice un dualismo istituzionale: accanto al sovrano era affiancato da organismi rappresentativi a base cetuale che avevano nomi diversi, ad esempio in Francia erano stati generali, in Spagna erano le Cortes, stati in Germania, parlamento in Inghilterra e dieta in Polonia. In generale queste assemblee erano formate dai rappresentanti dei tre ordini: clero, nobiltà e terzo stato; in Inghilterra le camere erano invece due, ovvero la camera dei Lord (composta dai signori, quindi nobiltà e clero) e la camera dei comuni (terzo stato); in polonia fu dominata della nobiltà poiché città e clero non erano rappresentati. Questi organismi avevano il compito di assistere il re nei momenti di difficoltà e soprattutto di sostenerlo dal punto di vista finanziario, approvando le imposte che egli proponeva di stabilire, sulla base del principio per cui “quod omnes tangit, ab omnibus adprobari debet”(ciò che riguarda tutti deve essere approvato da tutti, dove “tutti” si riferiva ai ceti e non agli individui). Quindi stato→ a base cetuale. Queste assemblee rappresentavano un vero e proprio limite per l’esercizio dell’autorità di tale potere; infatti, era decisiva la periodicità di queste riunioni, che gli organismi ad ogni occasione tentarono di ottenere. Dove le monarchie riuscirono di fatto a liberarsi di queste assemblee poterono avviarsi alla costruzione di uno stato più forte; ben diversa fu la situazione nell’Europa centrale e orientale nei quali questi organismi mantennero il diritto di riunirsi con regolarità. - “La corte” Nell’età moderna si affermò la tendenza dei sovrani di stabilirsi in una dimora, che si poneva come centro della vita politica, dello stato, ovvero la corte. Il sovrano, quindi, viveva circondato innanzitutto sistema fiscale non vi era uniformità perché erano in vigore regimi diversi (ad esempio la città era privilegiata rispetto alla campagna) e pesavano esenzioni e privilegi. Per lo più le imposte dirette, gravanti direttamente sul reddito o sul patrimonio, rimasero fondate su basi largamente approssimative in quanto riscosse per testa cioè per persona o per famiglia. Nel ‘700 si ebbero i primi tentativi di razionalizzare il sistema: molti stati richiamarono nelle mani dell’amministrazione la riscossione e si tentò di realizzare un’impostazione diretta e reale, promuovendo la formazione di catasti. - “La politica estera” Nell’età medievale le relazioni fra stati erano affidate ad ambascerie occasionali, che avevano l’obiettivo di comporre contrasti o potenziali conflitti, di negoziare alleanze o di trattare specifiche questioni. Furono gli stati italiani nell’età umanistico-rinascimentale a porre le basi della diplomazia moderna, prevedendo l’invio di un rappresentante permanente presso governi stranieri (repubblica di Venezia→ diede vita ad un corpo di ambasciatori di primissimo ordine, le cui relazioni al senato erano importanti. Questo sviluppo fu reso necessario dal sistema di equilibrio instauratosi fra i principali stati della penisola dopo la pace di Lodi. Grande importanza a tale sviluppo diede il re di Francia Francesco I che aumentò il numero dei suoi agenti e inviò rappresentanti presso il sultano, in Svezia, in Danimarca, in Ungheria. Anche lo stato della chiesa inviò i suoi rappresentanti permanenti (i nunzi) presso le principali corti d’Europa. In questo periodo si posero anche le prime basi del cerimoniale e delle norme che dovevano regolare l’attività diplomatica e fu stabilito l’ordine nel quale i rappresentanti dei vari stati dovevano essere ricevuti o dovevano firmare un trattato o sedersi ad un ricevimento. - “Gli sviluppi della tecnica militare” I progressi della tecnica militare furano da un lato l’espressione delle trasformazioni sociali che caratterizzarono la transizione dal Medioevo all’età moderna e dall’altro furono il principale motivo che rese necessario un rafforzamento dell’amministrazione statale. Un aspetto centrale di quest’evoluzione fu l’uso della polvere da sparo, già nota in Occidente. Il primo elemento di novità fu la formazione di eserciti, i cosiddetti interarmi, nei quali cioè accanto alla cavalleria pesante (uomini d’arma reclutati su base feudale) era prevista la presenza di balestrieri e arcieri, a piedi e a cavallo, e nuclei di fanteria. Già allora cominciavano ad apparire i primi segni che mostravano superata la figura del cavaliere armato di lancia, spada e mazza, protetto dalla pesante armatura e dall’elmo; durante la guerra dei cento anni la cavalleria pesante francese aveva subito pesanti sconfitte. Risultò decisivo l’avvento delle fanterie→ si presentava come una fitta muraglia di picche, lunghe anche più di 5 metri, portate a due mani orizzontalmente sopra la testa da file serrate di uomini che si muovevano in formazioni compatte a forma di quadrato. Questo schieramento, che poteva contenere fino a 6000 uomini, era composto oltre che da picchieri anche da un certo numero di alabardieri ed era protetto ai fianchi da arcieri e balestrieri a piedi o a cavallo e da tiratori dotati da armi da fuoco portatili. La centralità della fanteria nella struttura degli eserciti impose una nuova forma di reclutamento → il re, mentre per mettere in campo la cavalleria pesante dipendeva da più potenti signori feudali, poteva ora liberarsi da questi vincoli e assicurarsi il monopolio delle forze militari (era necessario disporre di entrate finanziarie regolari e cospicue; obiettivo che si poteva raggiungere solo attraverso un’imposizione fiscale stabile). Le fanterie svizzere furono a lungo considerate invincibili, tant’è che vi furono molti tentativi di imitare il loro esempio; sul finire del ‘400 l’imperatore Massimiliano D’Asburgo mise in campo truppe provenienti in gran parte dalla Germania meridionale, addestrate e organizzate in modo analogo, i “lanzichenecchi”, propriamente “compagni”. Poco dopo fu la Spagna ad organizzare i “tercios” che introdussero progressivamente importanti innovazioni. Il valore dimostrato da essi era dovuto anche alla loro composizione sociale: ne facevano parte infatti molti esponenti della piccola nobiltà castigliana di modesta condizione, ovvero gli hidalgos, che accettarono di combattere a piedi e non a cavallo ed erano animati dalla fedeltà alla dinastia. Il predominio della fanteria svizzera durò solo i primi anni poiché la crescente importanza delle armi da fuoco determinò la necessità di un’altra evoluzione della tecnica militare. Lo sviluppo delle armi da fuoco, dal primitivo schioppo all’archibugio fino al moschetto, le rese sempre più maneggevoli e leggere. Per contro le operazioni di caricamento e sparo di un archibugio potevano essere apprese in poco tempo da chiunque; ciò rendeva possibile mettere in campo in tempi brevi una massa notevole di soldati. (esempio di Ariosto: cultura cavalleresca contro le armi da fuoco). Nel corso del XVI le armi da fuoco crebbero nei diversi paesi. Rimase invece a lungo il problema della lentezza dei tiri, poiché le operazioni di ricarica richiedevano almeno un minuto o due, tempo troppo lungo per fermare l’impeto delle truppe nemiche. La soluzione si ebbe alla fine del ‘500 quando l’esercito olandese mise in atto la tecnica del fuoco a salve successive→ i moschettieri si disponevano su più file in modo che, dopo che aveva sparato il primo, subentrava immediatamente il fuoco della seconda mentre i primi avevano il tempo di ricaricare protetti dai compagni. Nella seconda metà del ‘400 i progressi tecnici misero a disposizione degli eserciti dei cannoni più robusti, leggeri e precisi che diedero notevoli risultati. Contro il fuoco di queste bombarde era indifendibile il castello medievale, simbolo della nobiltà feudale, che infatti si trasformò progressivamente in una residenza di campagna, priva di valore strategico. Tuttavia, si iniziarono a costruire fortezze bastionate di forma poligonale→ sistema di difesa che comportava enormi costi. Fu abbandonata l’architettura verticale dei castelli: le mura divennero più basse e più spesse e resistenti con masse di terra; inoltre, i torrioni divennero sporgenti oltre il perimetro delle mura per controllare l’artiglieria nemica ed impedire attacchi di sorpresa. La diffusione e i perfezionamenti dell’architettura provocarono una transizione verso una guerra statica, di posizione, incentrata su lunghi assedi. Cambiò anche il mestiere del soldato: le truppe, sottoposte ad addestramento, furono composte da professionisti, mercenari. Importanti trasformazioni si ebbero anche nella guerra sui mari. Gli scontri navali rimasero a lungo legati allo schema tradizionale dello speronamento e dell’arrembaggio, che trasformava la battaglia in un corpo a corpo fra le truppe. La situazione, successivamente, cambiò con lo sviluppo della marineria a vela e soprattutto con l’uso dell’artiglieria. L’eliminazione dei problemi posti alla stabilità della nave e l’apertura nelle fiancate di portelli per i cannoni posero le premesse per l’imponente galeone, vera fortezza galleggiante. Capitolo 7. - “L’impero ottomano” L’evento più importante nella situazione politica europea all’inizio dell’età moderna fu sicuramente l’espansione dell’impero ottomano. Il primo nucleo di quest’ultimo era un piccolo emirato dell’Anatolia occidentale, retto da Osman o Othman, fondatore della dinastia che da lui prese il nome di Osmanli o Ottomani. Nel XIV secolo gli Ottomani estesero i loro domini fino a comprendere gran parte dei Balcani, tanto che nel 1388 il califfo di Bagdad riconobbe la loro potenza conferendo al sovrano il titolo di sultano. Agli inizi del XV secolo l’impero bizantino era ormai ridotto alla capitale Costantinopoli e a pochi territori circostanti. Con un attacco decisivo il sultano Maometto II “il conquistatore”, conquistò Costantinopoli, il 29 maggio del 1453, che divenne la capitale dell’impero con il nome di Istanbul (la città). La cattedrale di Santa Sofia fu trasformata in moschea. Successivamente Maometto si impadronì della Grecia, della Serbia, della Bosnia, dell’Albania, dei principati di Valacchia e Moldavia, giungendo a ridosso del regno di Ungheria. (grande impressione fece in Europa l’attacco di una squadra navale a Otranto nel 1480). L’espansione interessò anche il mar Nero che, dopo l’acquisizione del Khanato di Crimea, divenne in pratica mare dell’impero. Il sultano Selim I combatté ad est sottomettendo la Siria e sconfiggendo i mamelucchi (casta militare di origine servile che dominava in Egitto) portando così i suoi confini fino al mar Rosso. L’influenza ottomana si estese quindi sull’Egitto e sugli stati barbareschi del Nord Africa. A Selim successe Solimano I il magnifico che prese nel 1522 l’isola di Rodi e occupando Bagdad spinse il confine dell’impero fino al golfo Persico. La conquista di Belgrado (unica città serba non ancora occupata) rese concreta la minaccia di un’invasione musulmana nel cuore dell’Europa cristiana. Molto importante fu la conquista dell’Egitto, dal quale dipendevano le città sacre dell’Islam: la mecca e la medina. In tal modo i sultani acquisirono il controllo del califfato e si posero come capi spirituali di tutto l’Islam sunnita, ovvero dei musulmani ortodossi seguaci, oltre che del Corano, anche della Sunna, tradizione orale fondata sugli insegnamenti di Maometto. Alla base dell’espansionismo ottomano vi era intanto la solida struttura dell’impero, imperniata sull’autorità assoluta del sultano. Le entrate erano fornite dall’imposta pagata dai musulmani per le terre avute in concessione, dalla tassa dei non musulmani e dai dazi doganali riscossi lungo le strade e ai ponti. La giustizia, fondata sui precetti coranici, era amministrata dai giudici, i kadì, con tradizionale equilibrio e buon senso. Sul piano militare la potenza ottomana fu fondata fin dal XIV secolo sulla formazione di un esercito regolare, il cui nucleo centrale era costituito dalla fanteria dei giannizzeri (significava nuova truppa) formata da prigionieri di guerra e dalla leva coatta di bambini cristiani educati alla fede islamica e addestrati alla guerra con il divieto di sposarsi. La cavalleria dei sipahi era composta da notabili i quali, in cambio delle entrate fiscali delle terre date loro in concessione (il timar, simile al feudo occidentale), erano tenuti in caso di guerra a combattere e a fornire un determinato quantitativo di truppe. In base al diritto ottomano tutte le terre, tranne quelle riservate ai bisogni del culto, appartenevano al sultano. L’economia si basava sull’agricoltura; la cellula di base era la famiglia contadina, che riceveva in concessione dal villaggio una tenuta che non poteva vendere. Nell’insieme la condizione del mondo contadino era migliore rispetto all’Europa occidentale, sia perché le imposte statali e il prelievo da parte dei titolari dei timar erano moderati, sia per l’assenza di ogni servaggio; gli schiavi erano prigionieri di guerra cristiani. Gli abitanti delle città erano per lo più artigiani, organizzati in corporazioni. Con l’espansione nel Mediterraneo, l’impero acquisì una posizione strategica nei traffici dei prodotti di lusso che dall’Oriente arrivavano ai porti della Siria e dell’Egitto per poi essere trasportati in Europa. Nella prima metà del XVI secolo l’impero contava più d trenta milioni di abitanti, una parte notevole era formata da cristiani e vi era anche la presenza di ebrei. Nei confronti delle altre religioni gli ottomani furono sempre tolleranti e imponevano solo il pagamento prescritto del corano per la gente del Libro. Molti cristiani e anche schiavi e liberti, convertendosi all’Islam, assunsero posizioni di rilievo nell’amministrazione. Capitolo 9. “Umanesimo e Rinascimento” - “Le origini dell’umanesimo” Sviluppatosi dapprima in Italia fra ‘300 e il ‘400, il movimento umanistico perseguì un programma di radicale rinnovamento culturale e educativo incentrato sulla rinascita dei grandi modelli dell’antichità classica, con la convinzione che ciò avrebbe portato a una nuova età di progresso dopo il lungo periodo intermedio di barbarie e di ignoranza. Gli umanisti ammirarono le grandi opere della cultura greca e latina perché ritrovarono in esse il nuovo modello di formazione dell’uomo al quale doveva ispirarsi. Gli studi classici vennero definiti “humanae litterae”; da questa formula ne derivò il termine latino “humanista” che fu usato per designare colui che, ispirandosi alla lezione dei grandi maestri della cultura classica, si dedicava allo studio e all’insegnamento delle discipline umanistiche, letteratura, grammatica e retorica. Cadde il monopolio della cultura detenuto dall’autorità ecclesiastica e si formò una nuova classe intellettuale di formazione laica, solidamente inserita nel tessuto sociale urbano e desiderosa di mettere il suo sapere al servizio della vita civile. I destinatari della nuova cultura furono dunque uomini di palazzo, segretari e funzionari delle magistrature da Pico della Mirandola. Pico immagina che Dio, dopo aver dato esistenza a tutti gli esseri del creato, abbia pensato di produrre l’uomo affinché vi fosse anche qualcuno in grado di comprendere ed ammirare la ragione, la bellezza e la vastità di una cosa così meravigliosa, sennonché egli si accorse che, avendo esaurito ormai tutti i modelli possibili e avendo occupato tutti i luoghi del mondo, non aveva da dare al nuovo essere una forma e un posto prestabilito. Decise perciò di accoglierlo come “opera di natura indefinita”; l’uomo era quindi chiamato a scegliersi da solo con il suo libero arbitrio la propria forma. (tema=fondamento di tutta la civiltà rinascimentale). Dalla rivalutazione della dimensione terrena dell’uomo derivava l’aspirazione ad una società armoniosa e razionale, idea che ebbe largo spazio anche nelle composizioni letterarie. Fra queste nel 1516 da Thomas More, “Utopia”, che descrive la felice situazione sociale dell’isola di Utopia sulla base del racconto di un marinaio portoghese che l’aveva visitata nel corso dei suoi viaggi. Presso l’isola non esiste proprietà privata né denaro, tutti lavorano per sei ore e le restanti possono impiegarle per attività intellettuali; non ci sono guerre e sono tollerate tutte le religioni. Insomma, nell’isola si vive un’esistenza armoniosa e semplice. “Utopia” rappresenta la proiezione ideale di vita caro al movimento umanista. Come il nome dell’isola (=qualcosa che non esiste), tutti i nomi sono derivati dal greco e alludono alla natura ideale della società. - “La nuova concezione della natura” La rinascita della cultura antica ad opera degli umanisti riportò in auge un sapere magico, condannato dal Medioevo, come opera diabolica, che partecipò in modo significativo a quel processo di riscoperta e di valorizzazione della natura che viene individuato come momento decisivo dell’avvento della modernità. Grande fortuna ebbe la versione latina, curata da Marsilio Ficino, del “Corpus hermeneticum”, una raccolta di scritti filosofici e teologici, in essi erano esposte dottrine risalenti all’antico dio egizio Thot, identificato dai greci con Ermes. Questi testi tramandavano i principi di un sapere occulto che conteneva il segreto per dominare, attraverso arti magiche, le forze misteriose che animano il mondo. Assai diffusa, era all’epoca, l’astrologia, ovvero lo studio degli influssi che il moto degli astri ha su tutti i movimenti del mondo terreno e quindi anche sulle passioni, tendenze e caratteri degli uomini. Anche lo studio della matematica si accompagnò a lungo alla diffusa convinzione del valore simbolico e magico dei numeri, i quali, avrebbero celato un codice che conteneva la chiave per interpretare i segreti della natura. Bisogna giungere ai “Principi matematici di filosofia della natura” di Newton per individuare una definitiva frattura fra la scienza moderna e le teorie/pratiche di matrice magico-alchimista. Gli umanisti riportarono alla luce le opere di matematica, geometria, astronomia, geografia e medicina dei principali autori greci, rimettendo così in circolazione idee e problemi che rappresentarono uno stimolo per la discussione critica delle teorie dominanti nelle scuole e nelle università. Fin dal 1440 il filosofo tedesco Nicolò Cusano affermò l’idea di un universo infinito, nel quale non esiste un centro. Questa concezione metteva in discussione l’immagine del cosmo fondata sulla fisica aristotelica. La teoria di Aristotele poneva la terra immobile al centro dell’universo; quest’ultimo era racchiuso dalla sfera delle stelle fisse, il cui moto rotatorio si trasmetteva alle sfere sottostanti dei pianeti fino a quella della luna che segnava il limite del mondo celeste. Questa teoria stabiliva una diversità fra il mondo celeste e il mondo terrestre o sublunare: i corpi celesti, pianeti e stelle, erano fatti di etere, elemento trasparente, puro e inalterabile e si muovevano in un moto circolare uniforme, simbolo di perfezione, mentre il moto sublunare, composto dai 4 elementi di fuoco (aria, acqua e terra) era il regno della molteplicità e dell’imperfezione. Negando la posizione centrale e immobile della terra cadeva la convinzione che il mondo celeste e quello terreste o sublunare fossero costituiti di materie diverse: la terra non era per sua natura regno dell’imperfezione e della corruttibilità ma era parte integrante dell’universo, per cui i movimenti corrispondevano alle leggi fisiche che regolavano gli altri corpi celesti. Il contributo dell’umanesimo a questo processo di affermazione del metodo scientifico va individuato nella volontà di non accreditare alcuna affermazione o giudizio che non fossero comprovati in campo letterario dalla critica filologica e storica e dalla diretta osservazione dei fenomeni. (esempio Leonardo Da Vinci, libro pag. 171). - “Il prezzo della modernità” Il trapasso dal mondo medievale all’età che, per convenzione, definiamo moderna fu ricco di contraddizioni e di chiaroscuri. La conquista di una nuova dimensione, se da un lato liberava l’uomo dai condizionamenti religiosi che lo avevano vincolato durante il Medioevo, lo consegnava al contempo ad un’insicurezza che l’età precedente non aveva conosciuto. La mentalità medievale assegnava ad ogni uomo un posto e una funzione nella società stabiliti e riconducibili in ultimo alla volontà divina; ora invece l’uomo rivendica la propria dignità e la propria libertà di scelta nella vita terrena, ma questo lo caricava di una responsabilità prima sconosciuta, che portava con sé il crollo delle certezze. Cadeva la rassicurante immagine medievale del cosmo, chiuso e fisso nell’eterna regolarità del moto circolare uniforme: la terra con i suoi moti di rotazione e di rivoluzione, non era che un punto nell’universo infinito. Si crearono così le premesse per il superamento di alcuni principi indiscussi del pensiero medievale come: la tradizionale tendenza a conferire maggiore nobiltà alla quiete rispetto al movimento, alla stabilità rispetto al mutamento e si affermava un nuovo modo di considerare i rapporti fra il mondo celeste e quello terreno, fra uomo e natura. Non a caso molti scritti del periodo alle celebrazioni della virtù, intesa come capacità dell’uomo di dirigere gli eventi, si contrappone la fortuna, intesa, secondo i canoni della cultura classica, come fato, destino avverso, la combinazione di circostanze che ostacola i disegni dell’uomo e ne verifica gli sforzi. - “Erasmo da Rotterdam” fare dal libro. Capitolo 10. “Le scoperte geografiche e gli imperi portoghese e spagnolo” - “Uno sguardo nuovo sul mondo” Alla radice delle grandi scoperte geografiche vi furono innanzitutto esigenze di carattere economico, in particolare il desiderio di trovare una nuova via per raggiungere le Indie e mettere le mani sul lucroso commercio delle spezie. I grandi viaggi di esplorazione non possono essere compresi se non si fa riferimento al clima affermatosi in Europa grazie alla fioritura della cultura umanistica e della civiltà rinascimentale. Le opere di Eratostene, di Ipparco da Rodi, di Strabone e la “Geografia” di Claudio Tolomeo concorsero a radicare negli uomini colti dell’Europa la convinzione della sfericità della terra e stimolarono la riflessione sulle grandi questioni geografiche e astronomiche. - “L’esplorazione dell’Africa” Fu il Portogallo a dare avvio, nel XV secolo, ai viaggi dii esplorazione con una sistematica ricognizione della costa occidentale dell’Africa. Negli anni successivi i portoghesi occuparono l’isola di Madera e le Azzorre e doppiarono il capo Bojador raggiungendo in seguito la foce del fiume Senegal, la Sierra Leone e il golfo di Guinea. Fin dall’inizio un ruolo notevole in queste imprese ebbe la dinastia di Aviz, che regnava dal 1385→ consapevoli delle limitate possibilità di sviluppo agricolo del Portogallo, i sovrani si appoggiarono sui ceti mercantili favorendo le attività commerciali e le costruzioni navali. (contributo importante: il principe Enrico detto il navigatore fondò a Sagres un centro studi di astronomia, geografia e cartografia per favorire il perfezionamento delle tecniche di navigazione dei marinari portoghesi). In questa prima fase i portoghesi miravano a controllare i terminali del commercio transahariano che lungo le vie carovaniere portava oro, avorio e chiavi sulle coste occidentali del continente. Qui i portoghesi stabilirono una serie di scali commerciali che poi trasformarono in basi fortificate, a protezione dei loro traffici. Le loro navi portavano drappi, tessuti e monili di ottone, riportando in patria oro e schiavi acquistati sui mercati o frutto di razzie all’interno. La ricerca del metallo prezioso era importante per il Portogallo che aveva gravi difficoltà nella monetazione (una svolta in tal senso si ebbe quando i portoghesi arrivarono sulla costa dell’attuale Ghana che proprio per le notevoli quantità di metallo che si estraevano chiamarono “Costa d’oro”). I papi Niccolò V e Callisto III con tre bolle legittimarono le spedizioni in quanto svolgevano la missione di diffondere la fede cristiana e concessero ai portoghesi il diritto di sottomettere i musulmani e pagani (non cristiani e non musulmani) , vietando alle altre potenze di infierire nella loro attività commerciale. - “Una nuova via per le Indie” Negli anni seguenti la natura di questi viaggi di esplorazione mutò. Infatti, maturò la convinzione che fosse possibile circumnavigare l’Africa allo scopo di raggiungere le Indie via mare e acquistare le spezie direttamente dai produttori senza l’intermediazione veneziana. Questa prospettiva era allettante anche per l’aumento di prezzo delle spezie, provocato dalla crescente difficoltà dei traffici mediterranei dopo la conquista dell’impero ottomano. Le conoscenze geografiche favorirono il concepimento del progetto→ all’epoca si ignorava l’Africa subsahariana per cui si riteneva che il continente fosse molto più corto e avesse una forma tondeggiante, facile, quindi, da circumnavigare. Per primo tentò l’impresa Bartolomeu Dias che nel 1487 doppiò la punta meridionale dell’Africa, chiamata poi capo di Buona Speranza. - “L’impresa delle Indie di Cristoforo Colombo” In quegli stessi anni chiese l’udienza al sovrano portoghese il genovese Cristoforo Colombo, nella speranza di ottenere un finanziamento per l’impresa che da alcuni anni aveva concepito. Aveva una notevole esperienza marinara, poiché aveva viaggiato molto e stabilitosi a Lisbona si appassionò all’idea di sfruttare la forma sferica della terra per raggiungere, navigando verso occidente, l’Oriente, ovvero il Cipango (Giappone) e il Catai dei quali aveva parlato Marco Polo. In realtà l’impresa apparve praticabile a causa di un errore nel calcolo della circonferenza terrestre, ritenuta minore di quella reale: Colombo pensava che ci fossero fra le Canarie e il Giappone solo 60 gradi di longitudine, mentre la distanza era tre volte maggiore e inoltre calcolava che ad ogni grado corrispondessero circa 40 miglia marittime e non 60 come nella realtà. Il genovese fu ricevuto da Giovani II che però decise di non finanziare il viaggio; al contrario Colombo trovò un clima favorevole nella Spagna dei re cattolici; infatti, il 17 aprile del 1492 furono firmate le capitolazioni che stabilivano i termini di accordo: Colombo fu nominato ammiraglio del mare Oceano, viceré e governatore delle terre scoperte ed ebbe garantita una quota dell’impresa. A bordo di due caravelle (la nina e la pinta) e di una “nau”, un veliero più grande, la Santa Maria, presero il mare il 3 agosto 1492 dal porto di Palos 120 uomini fra i quali interpreti di arabo, greco ed ebraico. Effettuato un lungo scalo alle Canarie, la spedizione iniziò il viaggio ma dopo un mese, quando, secondo i calcoli, si sarebbe dovuto raggiungere il Giappone, l’equipaggio iniziò adi innervosirsi. Dopo 36 giorni di navigazione, il 12 ottobre, fu raggiunta la terra, un’isola delle Bahamas che fu chiamata San Salvador. In seguito, la spedizione toccò Cuba e Haiti, chiamata Hispaniola. Avendo fatto naufragio la Santa Maria, ritornarono solo due navi che spinte dalla tempesta giunsero a Lisbona dove Colombo fu ricevuto dal re Giovanni II. In Spagna, a Barcellona, dove si trovavano i sovrani, Colombo ricevette un’accoglienza trionfale; recò con sé come trofei della scoperta 7 indiani piumati, che portavano pappagalli e oggetti d’oro. Dopo la prima spedizione, Colombo fece altri tre viaggi dove scoprì molte isole caraibiche e giunsero fino in Costarica, Honduras Con il viaggio di Magellano l’era delle grandi esplorazioni era di fatto conclusa, anche se restavano molte zone da esplorare e si ignorava ancora l’esistenza dell’Australia. Cominciò allora l’era della conquista e della colonizzazione delle terre scoperte. Già nel 1495 un decreto dei sovrani spagnoli concesse a tutti i loro sudditi che volevano cercare fortuna nelle nuove terre il permesso di partire con l’obbligo di riservare alla corona il 10% dei beni riportati in patria e dei profitti negli scambi commerciali. La conquista fu fin dall’inizio affidata alle iniziative individuali. Gli spagnoli che arrivarono dall’Europa si insediarono in questa prima fase nelle isole caraibiche, soprattutto Haiti e Cuba, dove incontrarono popolazioni primitive. Nel contemplo fu avviata l’esplorazione della terraferma, soprattutto alla ricerca di schiavi per sostituire la popolazione indigena che fu rapidamente decimata dalle fatiche e dalle malattie. A partire dal 1513, nello Yucatan, gli spagnoli vennero per la prima volta a contatto con un popolo della civiltà antichissima ed evoluta, i maya, e cominciarono ad avere notizie dell’esistenza a Nord di un vasto e ricco impero. Iniziò, così, l’era dei conquistadores, avventurieri senza scrupoli, avidi d’oro e di gloria, che fra il 1519 e il 1550, distrussero le civiltà precolombiane assoggettando al dominio della Spagna un immenso territorio. Il primo fu Hernán Cortés, un hidalgo che aveva abbandonato gli studi in cerca di fortuna nel nuovo mondo. Ricevette dal governatore di Cuba l’incarico di verificare la veridicità delle voci sull’impero azteco e nel febbraio del 1519 partì dall’isola con 11 navi, circa 500 soldati, 16 cavalli e 14 pezzi di artiglieria. Sbarcò sulla costa messicana e fondò la città di Vera Cruz e da lì iniziò la marcia verso l’interno. Egli però mutò la natura della sua missione e assunse la carica di capitano generale della nuova colonia, facendo riferimento al re di Spagna e scavalcando l’autorità del governatore di Cuba. Egli non incontrò resistenza, anzi fu accolto come un liberatore dai popoli sottomessi dagli aztechi e così poté giungere fino alla capitale Tenochtitlàn dove fu accolto dal sovrano Moctezuma. Ma con un inganno Cortes fece prigioniero Moctezuma e lo tenne in ostaggio, costringendolo anche a pagare un ingente riscatto in oro. Cortes, infatti, si servì del prestigio del sovrano per imporre la sua autorità. Di fronte alla brutalità del popolo spagnolo crebbe l’ostilità della popolazione indigena che esplosa in una rivolta guidata da un fratello del sovrano, Cuitlàhuac. Quando Moctezuma, per le pressioni di Cortes, cercò di sedare la ribellione fu osteggiato dal suo popolo per la sua arrendevolezza e fu anche lievemente ferito. Egli morì pochi giorni dopo in circostanze rimaste oscure. Il 30 Giugno 1520 la rivolta degli aztechi costrinse il popolo spagnolo ad una fuga notturna dalla città, che costò molte perdite. Cortes si rifugiò a Tlaxloco, con la quale strinse un’alleanza, e dopo pochi mesi, riorganizzate le sue forze, ritornò nella capitale che cinse d’assedio. Per gli spostamenti nel lago al cui centro vi era la capitale, si servì di barconi assemblati sul posto. L’attacco era sostenuto da migliaia di indios, nemici degli aztechi, la cui resistenza fu piegata anche dal diffondersi dell’epidemia del vaiolo. Negli anni seguenti tutto il territorio dell’impero fu sottomesso, ciò che restava della capitale fu distrutto e sulle sue rovine fu edificata Città del Messico. Cortes nel 1522 fu nominato da Carlo V capitano generale e governatore dei territori conquistati, ma quando nel 1529 fu creato il vicereame della Nuova Spagna i suoi titoli non vennero rinnovati. Non meno straordinaria fu la caduta dell’impero inca. Le prime vaghe informazioni sulle civiltà sviluppatasi nelle Ande furono raccolte dagli spagnoli nel 1522. Queste voci giunsero a Panama all’orecchio di Francisco Pizarro. Dopo alcuni tentativi, egli ottenne nel 1529, da Carlo V, la nomina a governatore e capitano generale della provincia e partì nel gennaio 1531 da Panama con 180 uomini, 27 cavalli e alcuni archibugi alla conquista dell’impero inca. Pizarro incontrò, nel novembre del 1532, Atahualpa nella città di Cajamarca e nonostante la presenza di migliaia di soldati inca riuscì con un tranello a catturarlo. Egli tenne l’imperatore prigioniero per diversi mesi e nel frattempo avviò la ricognizione del territorio dell’impero. Gli inca tentarono di liberare Atahualpa pagando un grosso riscatto in oro, ma, ciò nonostante, Pizarro lo fece strangolare nell’agosto del 1533. Nel novembre la presa e il saccheggio della capitale Cuzco segnarono la fine dell’impero. Nel 1535 Pizarro fece costruire la Ciudad de los reyes, poi chiamata Lima, destinata a diventare la capitale del vicereame del Perù istituito nel 1542. In seguito, scoppiò un conflitto fra i due conquistadores per l’attribuzione dei territori occupati: Almagro fu sconfitto da Pizarro che lo fece giustiziare nel 1538; tre anni dopo il figlio di Almagro e alcuni suoi partigiani attuarono la vendetta pugnalando a morte Pizarro nel suo palazzo a Lima. - “La distruzione delle civiltà precolombiane” In una prima fese, un impatto notevole, ebbe sicuramente il terrore provocato dalle armature, dai cavalli e soprattutto dalle armi da fuoco, che gli indigeni non avevano mai visto. Gli spagnoli sfruttarono con grande abilità l’ostilità verso gli aztechi dei popoli da loro sottomessi. Si è visto anche come l’elevate mortalità provocata dalle malattie portate dagli europei abbia indebolito le capacità delle popolazioni indigene di opporsi alla conquista. Molto si è discusso dell’atteggiamento conciliante e timoroso tenuto da Moctezuma nei confronti di Cortes→ alcuni studi hanno ipotizzato che abbia avuto un ruolo decisivo, in tal senso, un’antica leggenda tolteca adottata dagli aztechi: secondo questo mito il re/sacerdote Quetzalcóatl, che aveva lo stesso nome del dio della civiltà, adorato come il “serpente piumato”, dopo aver insegnato la metallurgica e la scrittura sarebbe partito verso Oriente con la promessa di ritornare; Moctezuma avrebbe interpretato l’arrivo degli spagnoli come il compimento della profezia. Operò, soprattutto, la concezione fatalistica propria degli aztechi: il loro calendario prevedeva ogni anno alcuni giorni infausti nei quali si sospendeva ogni tipo di attività e tutta la loro vita era dominata dal timore di un incombente fine del mondo. Si spiega, alla luce di questa mentalità, il comportamento di Moctezuma il quale, quando ebbe la notizia dell’arrivo degli spagnoli, inviò loro dei messi per tentare di convincerli a non raggiungere la capitale. D’altra parte, è difficile anche rendere conto della inazione di decine di migliaia di soldati inca che non opposero alcuna resistenza all’arresto di Atahualpa da parte di Pizarro. A questo proposito bisogna considerare la sacralità della figura dell’imperatore, ritenuto figlio del sole: infatti, il suo arresto non poteva che essere considerato, dai suoi sudditi, come un segno divino contro il quale era inutile ogni tipo di difesa. - “L’impero spagnolo” Fino alla metà del XVI secolo una schiera di conquistadores, partiti spesso alla ricerca di un favoloso paese ricco di oro e di pietre preziose, il mitico El Dorado, assoggettò alla corona spagnola un territorio immenso che andava dalla California e dalla Florida fino al Cile; a Est il limite della sovranità spagnola era segnato dalla impenetrabile foresta amazzonica e dalle vaste pianure fra le Ande e l’Atlantico. Questo impero fu eretto in “regno delle Indie”: formalmente non si trattava di una colonia ma di un regno con lo stesso status degli altri sottoposti alla sovranità della corona spagnola. Per il governo di quei territori il sovrano fu affiancato da un Consiglio delle Indie. Il regno dipendeva amministrativamente dalla corona di Castiglia, e castigliani furono in maggior parte i coloni che vi si recarono. La struttura amministrativa fu ricalcata sulle istituzioni spagnole: furono creati due vicereami, la Nuova Spagna e il Perù. L’amministrazione della giustizia fu affidata alle audencias, tribunali regi composti da giudici inviati dalla Spagna. La colonizzazione si realizzò innanzitutto attraverso la fondazione di città, strumenti di controllo del territorio e della popolazione indigena. Esse furono modellate sullo stile della madrepatria: intorno alla piazza centrale si fronteggiavano i centri del potere, il palazzo del governatore, quello della audencia, la cattedrale, il convento di un ordine religioso o il collegio gesuitico. L’altra istituzione fondamentale dell’America spagnola fu l’encomienda. Per indurre la nobiltà spagnola a impegnarsi nella guerra contro i mori i sovrani promettevano loro lo sfruttamento dei territori che avrebbero occupato. In America le terre e i popoli conquistati erano proprietà della corona, ma il re li concedeva in usufrutto a un encomendero, un conquistador o un colono, il quale poteva esigere dagli indios dei servizi personali, o prestazioni di lavoro o tributi; in cambio egli era tenuto a proteggerli e a istituirli nella fede cattolica e a servire militarmente il sovrano se questi glielo avesse richiesto. Naturalmente la corona spagnola fu attenta a evitare la nascita di una nobiltà di tipo feudale sul modello europeo, per questo motivo l’encomendero risiedeva in città. Alla morte del titolare in genere si aveva la trasmissione dell’encomienda ai suoi eredi ma rimase il principio della proprietà della corona e non fu mai ammessa una ereditarietà di diritto. Secondo delle stime, gli spagnoli emigrati in America furono circa 250.000; il limitato numero di donne impediva una rapida crescita demografica, per cui non molto alto fu il numero dei creoli (persone nata da genitori spagnoli ma nel nuovo mondo). La composizione della popolazione fu perciò, fin dall’inizio, determinata da numerosi incroci fra i diversi gruppi etnici. Nel 1514 la corona spagnola autorizzò i matrimoni misti, ma le relazioni fra europei e donne indie, quando non furono frutto di violenza, si realizzarono per lo più per rapporti occasionali o il concubinato. Ne risultò un alto numero di meticci, che divenne la componente maggioritaria; cospicua fu anche la presenza di mulatti, nati da europei e africani, e di zampos, fra africani e indios. - “L’economia” Dopo che si fu esaurita la caccia all’oro dei primi anni, l’economia fu caratterizzata soprattutto dallo sviluppo dell’allevamento di pecore, buoi e cavalli. Minore importanza ebbe l’agricoltura: si impiantò in alcune zone, accanto alla coltivazione del mais, quella del frumento e della segale e furono portati dall’Europa anche l’orzo, il riso e varie piante da frutta. Sulle Ande si introdusse la coltivazione della vite e dell’olivo; ma furono abbandonati i sofisticati sistemi di irrigazione dei campi e questo ruppe un equilibrio secolare con conseguenze drammatiche per la popolazione. Nelle isole caraibiche si affermò la coltivazione della canna da zucchero, per la quale fu necessaria l’importazione di schiavi dall’Africa a causa della rapida estinzione della popolazione locale. Dal continente americano furono invece portati in Europa prodotti agricoli divenuti poi essenziali nell’alimentazione: mais, patata bianca e dolce, zucchine e zucca gialla, pomodoro, peperoni, girasoli, ananas e cacao. Dal nuovo mondo arrivò anche il tabacco che però si cominciò a coltivare successivamente. (anche sostanze stupefacenti come la coca che gli indios masticavano per alleviare la fatica). Mentre le spedizioni portoghesi avevano conseguito l‘obiettivo che si erano posto, gli spagnoli non riuscirono a raggiugere le Indie e dalla scoperta del continente americano non ricavarono le grandi ricchezze promesse da Colombo. La situazione mutò quando i metalli preziosi divennero la risorsa più importante del nuovo mondo e quindi la voce principale dei rapporti commerciali con la madre patria. Un impulso notevole alla produzione di argento venne dalla scoperta in Bolivia nel 1545 della ricchissima miniera di Potosì. Le norma stabilite per regolamentare e limitare l’impiego della manodopera indigena furono disattese perciò gli indios furono sottoposti a condizioni di lavoro durissime. Il trasporto in Europa delle crescenti quantità di oro e argento, provenienti dal nuovo mondo, fu organizzato attraverso un sistema di convogli scortati da galeoni. Le navi spagnole, obbligate a partire nella buona stagione per evitare il maltempo, furono esposte agli attacchi di pirati inglesi, francesi e olandesi. Vi fu una drastica diminuzione della popolazione locale dopo l’arrivo dei conquistadores; vi fu allora una vera e propria catastrofe demografica, provocata dal banale sfruttamento del lavoro degli indios, dalle violenze perpetrate ai loro danni e dalle malattie portate dagli europei contro le quali essi non avevano alcuna difesa immunitaria. Per contro dall’America giunse in Europa una malattia venerea che si manifestò già nel 1495 nell’esercito francese di Carlo VIII durante l’assedio dei castelli di Napoli: la sifilide. - “L’Evangelizzazione” Fin dall’inizio le spedizioni marittime dei portoghesi furono animate dalla volontà di diffondere la religione cristiana, un obiettivo che faceva tutt’uno con la volontà di impadronirsi delle vie di commercio e del monopolio del traffico degli schiavi. L’espansione portoghese assunse quindi il carattere di una crociata contro l’Islam che stringeva l’Europa cristiana in una morsa fra l’impero ottomano che avanzava nel Mediterraneo e gli stati musulmani che occupavano gran parte dell’Africa settentrionale. Anche nella colonizzazione del continente americano si riscontra un legame indissolubile fra motivazioni economiche e religiose. Sennonché i due stati iberici improntarono la loro missione religiosa ai principi e ai metodi che avevano caratterizzato la “reconquista” e quindi propagarono un cristianesimo animato dallo spirito di crociata, propenso cioè all’uso della forza per umanità. La concezione pessimistica dell’uomo indusse Lutero a negargli qualsiasi ruolo: per la sua natura irrimediabilmente corrotta dal peccato originale, le opere dell’uomo apparentemente meritevoli, come atti di pietà e di carità, devozione o penitenze in realtà sono inquinate dall’orgoglio, dall’ipocrisia, dell’egoismo. Emerge qui la profondità della religiosità luterana: egli non dà alcun valore a opere compiute per timore di punizione e per desiderio di ricompensa, di malavoglia o per costrizione. La salvezza è un dono di Dio. L’uomo ha in questo un ruolo passivo: poiché è la grazia divina che lo rende giusto e lo chiama alla vita eterna. Emergeva allora al centro della riflessione di Lutero la figura di Cristo, morto sulla croce per redimere l’umanità dal peccato. E il Dio dell’ira si convertiva nel Dio della misericordia che aveva inviato suo figlio in terra a farsi uomo. Era la teologia della croce, che aprì a Lutero, la porta del cielo. Fu un evento occasionale, lo scandalo delle indulgenze, a indurlo a una presa di posizione che sarebbe divenuta poi l’atto di inizio della Riforma. - “La questione delle indulgenze” Alberto di Hohenzollern, già titolare die due vescovati, ambiva a ottenere anche l’arcivescovato di Magonza; occorreva per questo una dispensa papale, che fu ottenuta con il pagamento di un’ingente somma di denaro. Il papa concesse perciò ad Alberto il permesso di lanciare nei suoi territori una campagna di vendita delle indulgenze il cui ricavato sarebbe stato diviso a metà: una parte sarebbe servita ad Alberto per restituire la somma anticipatagli dai banchieri Fugger di Augsburg (augusta), l’altra parte sarebbe servita a contribuire alla costruzione della basilica di San Pietro a Roma. Lutero non conosceva i termini di questa operazione finanziaria, ma quando vide la spregiudicatezza con la quale i predicatori cercavano di convincere la popolazione ad acquistare le indulgenze, prese posizione con la redazione in latino di 95 tesi che affisse alla porta della cattedrale di Wittemberg alla vigilia di Ognissanti del 1517. La pratica delle indulgenze si fondava sulla teoria del tesoro dei meriti dei santi: a questo patrimonio si poteva accedere, attraverso la mediazione della chiesa, per compensare le colpe dei peccatori, i quali potevano ottenere in tal modo, per sé o per i defunti, la remissione parziale o totale delle pene temporali da scontare in purgatorio. Questo beneficio era condizionato alla contrizione e all’assoluzione in confessione. L’offerta di una somma di denaro ne divenne la condizione essenziale. I predicatori incaricati da Alberto di vendere le lettere con il sigillo papale che garantivano l’indulgenza, promettevano ai fedeli non solo la remissione delle pene ma anche il perdono dei peccati e giunsero ad affermare che nel momento stesso in cui la moneta tintinnava sul fondo della cassa l’anima volava dal purgatorio in paradiso. Lutero intanto condannava le indulgenze perché creavano nel cristiano un atteggiamento sbagliato, lo incitavano a intraprendere una scorciatoia per sfuggire alle colpe, mentre ogni uomo, invece, consapevole della propria miseria di fronte alla maestà di Dio, doveva innanzitutto maturare un sincero e profondo pentimento per i propri peccati e quindi cercare e amare le pene. D’altra parte, le convinzioni maturate circa la natura corrotta dell’uomo inducevano Lutero a negare la radice stesse della pratica delle indulgenze: per lui non esisteva alcun tesoro dei meriti dei santi perché nessun uomo può avere un merito agli occhi di Dio. - “La rottura con Roma” Anche se le intenzioni di Lutero erano solo promuovere una disputa teologica fra i dotti, lo scritto suscitò nei suoi confronti un vasto consenso in tutti gli ambienti favorevoli alla riforma della chiesa e innescò reazioni che andarono ben al di là delle sue intenzioni. Un ruolo decisivo nella diffusione della riforma ebbe la stampa: i principi essenziali del pensiero di Lutero furono divulgati in forma schematica e semplificata da una massa enorme di opuscoli, libelli, manifesti che raggiunsero tutti gli strati della popolazione. Importanti furono le immagini che proposero in forma immediata, anche per la parte di popolazione che non sapeva leggere, la contrapposizione fra Lutero, raffigurato come il difensore della Germania oppressa dallo sfruttamento di Roma e il papa rappresentato come incarnazione di Satana. Negli anni seguenti Lutero elaborò le basi della sua dottrina che riassunse in tre scritti pubblicati nel corso del 1520. In queste opere rifiutava l’autorità del papa e poneva nella Sacra scrittura la sola guida della chiesa di Cristo: la riforma realizzava sul piano religioso quel ritorno alle origini che l’umanesimo aveva promosso sul piano linguistico, culturale e artistico. La parola di Dio era la sola fonte di consolazione e speranza per il cristiano. Attraverso i due principi fondamentali della sua dottrina, sola fide e sola scriptura, Lutero stabiliva un rapporto diretto e immediato fra l’individuo e la divinità, e abbatteva l’intermediazione con la chiesa sia nella via verso la salvezza sia nell’interpretazione della Bibbia. Crollavano così l’apparato istituzionale costruito dalla chiesa e la costruzione teologica della Scolastica. Furono aboliti il monachesimo e il celibato dei preti: lo stesso Lutero sposò una suora ed ebbe sei figli. Lutero ridusse anche i sacramenti, riconoscendo solo battesimo ed eucarestia, gli unici comprovati dalla sacra scrittura. Egli negò che al momento dell’elevazione le specie si trasformassero nel corpo e nel sangue di cristo, ma ritenne che cristo entrasse attraverso il sacramento in comunione con i fedeli; il corpo e il sangue di cristo erano presenti accanto al pane e al vino. In base al principio del sacerdozio universale dei credenti, (secondo Lutero tutti erano sacerdoti poiché tutti avevano ricevuto il battesimo), per cui tutti sono fratelli, cadde l’idea di un clero dotato di uno status diverso rispetto ai laici: nell’eucarestia a tutti fu concesso il calice. Inoltre, spariva il purgatorio. La reazione di Roma giunse nel luglio del 1520 con la bolla Exsurge Domine che minacciava la scomunica per Lutero se non avesse ritrattato le sue dottrine. Per tutta risposta Lutero bruciò sulla pubblica piazza la bolla e il codice di diritto canonico, atto simbolico di rifiuto dell’intera istituzione ecclesiastica. Nel frattempo, in Germania la situazione era esplosiva→ su pressione del duca Federico il saggio di Sassonia, del quale Lutero era suddito, Carlo V acconsentì ad ascoltare Lutero nella Dieta di Worms il 17 aprile 1521. Al cospetto dell’imperatore, Lutero rispose riassumendo con chiarezza i fondamenti della riforma: il richiamo all’autorità della Bibbia, unica fonte alla quale il fedele deve ispirarsi, e la libertà della coscienza individuale animata dalla fede, coscienza che impone al cristiano di conformarsi alla parola di Dio. A questo punto si profilava per Lutero la stessa sorte che era toccata, un secolo prima, a Jan Hus. Fu il suo principe Federico il saggio a salvarlo, facendolo rapire sulla via di ritorno da cavalieri mascherati che lo condussero nel castello di Wartburg, dove rimase nascosto per circa un anno. - “I rivolgimenti in Germania” Poco dopo esplosero nella società tedesca le tensioni occasionate dal diffondersi della nuova dottrina. I cavalieri ritennero che fosse giunto il momento di mettere le mani sulle proprietà ecclesiastiche, un primo passo verso il ripristino della libertà tedesca sotto gli auspici del potere imperiale. Più importanti furono gli sconvolgimenti provocati dalla guerra dei contadini che fra il 1524 e il 1525 infiammò gran parte della Germania, a partire dalla Svevia per giungere fino all’Alsazia, alla Svizzera, al Tirolo e alla Stiria. Le rivendicazioni degli insorti sono sintetizzate nei dodici articoli dei contadini di Svevia elaborati nel 1525: libera elezione dei pastori e riduzione della decima, ripristino delle tradizionali prerogative della comunità di villaggio usurpate dai signori laici ed ecclesiastici, fissazione di canoni e di servizi di lavoro giusti. Era in fondo il mondo della comunità di villaggio che provava a ripristinare la sua tradizionale autonomia e le sue consuetudini. La protesta voleva essere pacifica ma non mancarono le violenze contro chiese, monasteri e castelli. Fra i predicatori, si segnala la figura di Thomas Muntzer, discepolo di Lutero che, staccatosi dalle posizioni del maestro, aveva collegato la riforma religiosa a un profondo rivolgimento sociale che, anche attraverso l’uso della forza, stabilisse il regno della giustizia e della pace. Egli riteneva che la voce di Dio risuonasse direttamente nel cuore degli eletti; predicava l’imminente avvento in terra del regno di Cristo e predicava la comunione dei beni affinché la gente povera, libera da bisogni materiali, potesse vivere la vera chiesa spirituale. Alla rivolta pose fine nel 1525 la disastrosa sconfitta degli insorti nella battaglia di Frankenhausen, in seguito alla quale Thomas fu condannato alla decapitazione. Naturalmente Lutero prese subito le distanze dalle rivendicazioni dei contadini ed esortò i principi a “battere, picchiare” i ribelli. Questa reazione era la conseguenza delle sue convinzioni: la libertà del cristiano è solamente interiore, la realtà terrena non deve interessarlo perché egli vive nella speranza e nell’attesa di essere accolto nel regno di Cristo che avverrà dopo la fine dei tempi. Quindi il cristiano deve in ogni caso obbedienza al potere politico, poiché è stabilito da Dio per mantenere l’ordine. A queste posizioni si ispirò l’organizzazione delle comunità luterane. Rimase ferma in Lutero la distinzione fra chiesa invisibile, composta da quanti sono stati destinati da Dio alla salvezza, e la chiesa visibile, ovvero la comunità di coloro che aderiscono a una comune professione di fede. Dalla prima nessuno poteva essere certo di farne parte perché la sua composizione era nei disegni imperscrutabili di Dio; quanto alla seconda Lutero non diede troppa importanza, dal momento che è impossibile distinguere i veri dai falsi cristiani, i sinceri dagli ipocriti. La chiesa luterana divenne così una chiesa di stato, amministrata da commissioni composte da ecclesiastici e laici, che rispondevano in ultima istanza al principe territoriale o al governo cittadino. - “La polemica con Erasmo” Nella crisi gli sguardi di tutti si volsero a Erasmo, che fu da più parti incitato a intervenire. Egli tergiversò a lungo ma nel 1524 si schierò contro Lutero pubblicando un opuscolo intitolato “De libero arbitrio”→ egli attaccò Lutero proprio nel punto sul quale l’umanesimo e la Riforma si distinguevano in modo più netto: la concezione dell’uomo. Al pessimismo luterano Erasmo oppose la convinzione che la libertà di scelta dell’uomo, anche se ferita dal peccato, non è stata distrutta. Egli riteneva che, se anche per ipotesi fosse vero che l’uomo nella propria salvezza ha un ruolo passivo, non sarebbe conveniente far giungere tale verità alle “orecchie sprovvedute” del popolo. Analogamente egli giudicava utile la confessione perché tratteneva molto dal commettere il male. Alle posizioni di Erasmo, Lutero oppose con efficacia la natura popolare della riforma: la parola di Dio è per tutti, non si deve tacere la verità al popolo nel timore che possa abusarne. Anche in merito alla confessione Lutero replica che astenersi dal male solo per il timore di diversi confessare o per paura dell’inferno non aveva ai suoi occhi nessun valore, serviva solo a fare degli ipocriti e non dei veri cristiani. Erasmo si ritraeva intimorito da un mondo lacerato da conflitti sempre più aspri che stavano spaccando la cristianità, ma di contro Lutero faceva vivere il messaggio cristiano. Per lui gli sconvolgimenti, che Erasmo si sforzava di sopire, dimostravano invece che era finalmente rinato lo spirito di cristo crocifisso, destinato a creare scandalo. Nell’ultima replica a Lutero, Erasmo affermò i motivi che lo avevano indotto a non schierarsi con la riforma: “io non mi sono mai staccato dalla Chiesa cattolica…io sopporto questa chiesa finché non ne vedrò una migliore”. Questa ostinata volontà di non rompere con Roma non ebbe un esito felice: da un lato fu accusato dai protestanti di non avere saputo, o voluto trarre le conseguenze dal suo cristianesimo evangelico; dall’altro egli rimase sempre per Roma un cripto-eretico, colui che aveva deposto le uova che poi aveva covato Lutero. - “La riforma nella Svizzera tedesca: Zwingli” Ulrich Zwingli fu il più importante riformatore della Svizzera tedesca. Egli aveva già maturato l’aspirazione a un ripristino della semplicità evangelica quando l’esempio di Lutero lo spinse a mettersi sulla via della riforma, che assunse ben presto caratteri originali rispetto a quella promossa dal riformatore tedesco. Ben diverso era il contesto nel quale egli operò: Zurigo era una città ricca, con una colta borghesia, impegnata nell’attività mercantile e finanziaria, ed era governata da un’oligarchia patrizia (famiglie che pur non essendo nobili ricoprivano cariche di governo) che controllava il Consiglio civico. Fu l’appoggio di quest’ultimo che Zwingli poté smantellare l’edificio della Chiesa cattolica e stabilire in città il culto riformato. A Zurigo quindi la riforma fu opera del consiglio cittadino: questo corrispondeva al profondo legame che Zwingli stabilì con la città. Tutti i principali aspetti della sua azione riformatrice si ricollegavano all’umanesimo di impronta erasmiana e in particolare alla radicale antitesi fra carne e spirito, fra invisibile e visibile. Proprio perché la fede è spirituale e deve prescindere dagli aspetti materiali, egli abolì le immagini sacre e la musica: il tempio zwingliano si presenta come austero, nudo e disadorno. Il razionalismo umanistico lo portò a negare ogni presenza ingiusti, non da parte dei singoli sudditi, ma su iniziativa delle magistrature inferiori. Non mancarono polemiche e contrasti con le autorità cittadine. Per parte sua Calvino non amò mai particolarmente Ginevra: gli fu completamento estraneo il patriottismo di Zwingli. La sua azione riformatrice si legò in modo indissolubile alla città anche perché si impose come principale garante della sua autonomia: Ginevra. - “Il caso di Serveto” Il concetto di chiesa militante proprio di Calvino spiega bene le ragioni della grande intransigenza da lui mostrata nei confronti degli oppositori e dei dissidenti. Le posizioni contrarie alla dottrina ortodossa erano considerate da lui uno strumento di Satana per combattere la gloria di Dio e per minare l’unità e la forza della chiesa. In questa prospettiva si spiega l’esecuzione capitale di Miguel Serveto→ era un medico spagnolo che aveva divulgato in precedenza posizioni contrarie al dogma della trinità. Di passaggio a Ginevra, fu riconosciuto e denunciato e dopo un processo bruciato vivo nel 1553 per anabattismo e antitrinitarismo. La sentenza fu formalmente emessa da un magistrato civile, il Piccolo consiglio, ma Calvino, interpellato come teologo, si pronunciò a favore della condanna capitale. L’episodio innescò un’aspra polemica fra il riformatore e numerosi dissidenti, che criticarono l’uso della violenza in materia di fede, contrario allo spirito di Cristo. - “Geografia della Riforma” La diffusione del luteranesimo in Germania fu sicuramente favorita dal fatto che esso dava la possibilità ai principi di confiscare le ingenti proprietà della chiesa e ai feudatari ecclesiastici di secolarizzare i loro beni dando vita con essi a dei principati laici. La guerra dei contadini segnò un arresto della sua espansione in Germania per il timore di rivolgimenti sociali che si diffuse nella nobiltà e nella borghesia cittadina. Convinto che la corona imperiale gli assegnasse la missione universale di ripristinare l’unità della cristianità, Carlo V si impegnò con ogni mezzo per superare la divisione religiosa della Germania, che rappresentava del resto un oggettivo fattore di indebolimento della sua azione politica. Dopo aver sconfitto la Francia e ottenuto il controllo dell’Italia, egli minacciò la dieta di Spira del 1529 di rimettere in vigore gli editti contro il luteranesimo approvati alla dieta di Worms. Si alzò una protesta di sei principi e di 14 città che avevano aderito alla riforma. Entrò in uso allora il nome di protestanti per i seguaci delle nuove dottrine. L’anno seguente alla dieta di Augusta il principale collaboratore di Lutero, Filippo Melantone, presentò una versione particolarmente moderata dei principi della teologia luterana, la “confessio augustana”. Caduta ogni possibilità di accordo per l’intransigenza dei teologici cattolici, i principi luterani rifiutarono l’invito di Carlo V a sottomettersi e si unirono nel 1531 nella lega di Smalcalda, guidata da duchi di Sassoni e di Assia. Il luteranesimo si stabilì anche nell’Europa settentrionale, dove dl 1397 l’unione di Kalmar aveva istituito un legame personale fra i tre regni di Danimarca, Norvegia e Svezia. Il passaggio alla riforma di queste regioni fu dovuto in origine a motivazioni soprattutto politiche, legate alla volontà dei sovrani di incamerare i beni della chiesa e di controllare le nomine ecclesiastiche. Nel 1523 la Svezia si sollevò contro il re di Danimarca Cristiano II, che si era reso responsabile nel 1520 del massacro dei suoi oppositori a Stoccolma, e si dichiarò indipendente affidando la corona a Gustavo Vasa. Il nuovo sovrano si impadronì dei beni del clero e nel 1527 favorì la costituzione della prima chiesa nazionale protestante. Nel 1525, in seguito a unna insurrezione, il re di Danimarca Cristiano II fu costretto a fuggire e perse il trono in favore dello zio, il duca di Schleswig-Holstein, re col nome di Federico I. Sotto il suo successore, Cristiano II, di fede protestante, il luteranesimo fu proclamato nel 1536 religione di stato. La chiesa luterana fu imposta con la forza alla Norvegia e all’Islanda, rimaste legate al cattolicesimo; la Norvegia fu privata dello status d regno formalmente indipendente e ridotta a provincia danese. Esauritasi l’espansione del luteranesimo, l’ala marciante della riforma divenne il calvinismo. - “La nascita della Chiesa anglicana” In Inghilterra l’influenza del luteranesimo coinvolse in una prima fase solo ristretti ambienti intellettuali. Anche in Inghilterra quindi il distacco dalla chiesa di Roma fu originato da cause esclusivamente politiche. Nell’atto di supremazia del 1534 Enrico VIII si attribuì il titolo di capo supremo della chiesa anglicana. Sotto il suo regno le uniche novità significative furono la soppressione dei conventi e l’introduzione della Bibbia in volgare. Solo, in seguito, la Chiesa anglicana si aprì all’influenza delle dottrine protestanti. Nella seconda metà del Cinquecento, sotto il lungo regno di Elisabetta I si sviluppò nella società inglese una corrente ispirata alla tradizione calvinista che per il suo rigoroso moralismo fu chiamata puritanesimo. - “La riforma radicale” Con il nome di riforma radicale si disegna un insieme di gruppi, di sette, di conventicole e anche di esperienze individuali che portarono alle estreme conseguenze il principio di un ripristino del cristianesimo evangelico. *L’anabattismo Il primo tema sul quale si realizzò un distacco delle correnti radicali dalle chiese stabilite fu il battesimo, che avrebbe dovuto essere praticato non ai fanciulli ma agli adulti. I gruppi che seguirono questa indicazione furono chiamati anabattisti, ovvero ribattezzatori, termine improprio perché per loro non si trattava di una ripetizione del battesimo in quanto ritenevano non valido quello praticato ai bambini. La questione era delicata poiché implicava il problema dell’assetto della comunità; quest’ultima attraverso il battesimo dei fanciulli trasmette di generazione in generazione la fede comune e quindi si radica in un territorio, fino a identificarsi con l’intera società: il cristiano in tal senso entra volontariamente a far parte della comunità. Si forma in tal modo non una chiesa ma una setta, un gruppo di pochi individui che insieme aspirano alla perfezione della vita cristiana. La condotta morale era il principale requisito per essere accolto in queste comunità, mentre minore importanza si dava alle questioni dottrinali. Era un cristianesimo etico che si traduceva in una vita austera, caratterizzata da sobrietà nel mangiare e nel bere, mitezza, umiltà, onestà, rettitudine, temperanza. Gli anabattisti prendevano a esempio Cristo per morire con lui al peccato e risorgere come lui a nuova vita. In tal senso essi tendevano a far conciliare la Chiesa visibile e quella invisibile, ponendosi in terra come il nuovo popolo di Dio. Ciò li portava naturalmente a una radicale separazione dalla società, che essi consideravano regno di satana: gli anabattisti non assumevano cariche pubbliche, non giuravano e rifiutavano l’uso della forza; questa, infatti, è praticata dallo stato, istituito da Dio per punire i peccatori ma è abborrita dalla chiesa dei santi, nella quale vige la mitezza di Cristo ed è prevista come sola punizione per i reprobi l’esclusione dalla comunità. In questi gruppi, riviveva lo spirito delle prime comunità cristiane, perseguitate dalle autorità e costrette a professare la loro fede in clandestinità. In effetti sugli anabattisti si abbatté una spietata repressione che essi, fedeli fino all’ultimo all’esempio di Cristo, subirono con rassegnazione. Molti anzi videro nel martirio la suprema testimonianza della loro santità. L’ostilità nei loro confronti fu motivata anche dalle istanze di rinnovamento sociale di cui essi si fecero portatori, esprimendo, attraverso i richiami al Vangelo, il malessere dei ceti più poveri e l’aspirazione a una società più giusta. L’idea di formare in terra dei gruppi che prefigurano il regno di Cristo può far scattare a un certo punto la tentazione di passare all’azione per stabilire subito un nuovo ordine fondato sullo spirito del Vangelo. In questo clima si sviluppò il profetismo, che trovava facile esca in un’età attraversata da profonde inquietudini non solo religiose ma anche politiche e sociali. Accadde cos’ che Hoffmann annunziò la venuta di Cristo a Strasburgo nel 1533 e la punizione degli empi, nonché il proprio imprigionamento; egli effettivamente morì in carcere. Ma l’anno seguente gli anabattisti decisero di abbandonare il pacifismo che li aveva sempre caratterizzati e ricorsero alla forza per instaurare il regno dei santi: individuarono la nuova Gerusalemme nella città renana di Munster dove abbatterono l’oligarchia dominante e stabilirono un regime teocratico sostenuto dai ceti popolari. Luterani e cattolici furono espulsi e fu proclamata la comunione dei beni e la poligamia. Dopo un lungo assedio la città cadde e fu colpita da una durissima repressione da parte dei cattolici e luterani congiunti. L’episodio discreditò a lungo il movimento anabattista. Questo fu riorganizzato in seguito da Menno Simons, i cui seguaci furono detti mennoniti; essi vissero nell’attesa del regno di Cristo ma non ritennero leciti i tentativi di promuoverlo nell’immediato, rimanendo fedeli al principio per cui al cristiano è consentito usare le sole armi spirituali. L’anabattismo si diffuse rapidamente in Svizzera, Germania, nella città di Strasburgo e di Augusta e nel Tirolo, in Boemia, in Slovenia, nei Paesi Bassi e anche in Italia. Esso si radicò nei ceti popolari, soprattutto urbani, ma annoverò fra le sue fila anche intellettuali, ecclesiastici, mercanti e professionisti. L’intensificarsi delle repressioni indusse molte comunità anabattiste a cercare rifugio nell’Europa orientale, in Moravia, in Transilvania e fino a quando non vi fu restaurato il potere della Chiesa cattolica, in Polonia. *Razionalismo e spiritualismo La Riforma radicale si presenta come un universo quanto mai composito e diversificato. Ulteriori difficoltà nella comprensione di alcune posizioni dottrinali derivano dalla pratica molto diffusa del nicodemismo, concetto introdotto da Calvino per stigmatizzare il comportamento di coloro che, come Nicodemo, il fariseo che visitò di notte cristo per non farsi riconoscere come suo seguace, aderivano formalmente nei paesi cattolici alla chiesa ufficiale dissimulando la loro fede ormai ispirata ai principi della Riforma. Tutto il mondo della riforma radicale risentì dell’influenza dell’umanesimo erasmiano: la si riconosce in particolare nel razionalismo e nello spiritualismo, spesso congiunti insieme in una prospettiva critica che finiva col dissolvere la granitica identità dogmatica che si erano date le nuove chiese uscite dalla riforma. Si sviluppò una certa indifferenza per le questioni dottrinali, che portava a restringere il più possibile le verità essenziali per la salvezza: il trentino Jacopo Aconcio proponeva un credo formato di poche semplici verità fondamentali, nel quale avrebbero potuto riconoscersi tutte le chiese cristiane e giudicava invece indifferenti i vari aspetti particolari delle professioni di fede, affermando che i contrasti dottrinali e lo spirito di persecuzione erano attizzati ad arte da satana per seminare zizzania nell’orto di cristo. Queste forme di indifferentismo dogmatico evolvevano in un assoluto soggettivismo, che svalutava le cerimonie esteriori e rifiutava ogni vincolo di ortodossia e ogni autorità, aprendo la strada al superamento del concetto stesso di Chiesa in favore di una religiosità interamente vissuta e risolta nella coscienza individuale. Il razionalismo di derivazione umanistica indusse molti a mettere in discussione lo stesso dogma della trinità, elaborato dai concili di Nicea e di Costantinopoli, per il quale nell’unica natura o essenza della divinità coesistono tre persone distinte, il padre il figlio e lo spirito santo. Un altro filone di antitrinitarismo si sviluppò dal pensiero di un membro di un’illustre famiglia senesi di giureconsulti, Lelio Sozzini, nome latinizzato in Socini, che viaggiò a lungo in Europa e morì a Zurigo; egli dissolse il dogma trinitario inclinando verso una posizione di assoluto monoteismo. Capitolo 14. “L’età della Controriforma” - “Riforma cattolica o Controriforma?” Il termine Controriforma entrò in uso per designare il processo attraverso il quale un territorio passato alla fede protestante era ricondotto con forza all’obbedienza nei confronti di Roma. In seguito, il concetto si ampliò e indicò non solo l’azione di contrasto ma anche l’opera di rinnovamento della Chiesa cattolica culminata nel concilio di Trento. Restava comunque un residuo del significato originario, vale a dire l’idea che si fosse trattato di una reazione alla rivolta innescata da Lutero. Questa Nel 1541 il cardinale Contarini cercò al colloquio di religione di Ratisbona di negoziare con Melantone una formula comune sul piano teologico. Con il fallimento di questo tentativo si chiuse di fatto il periodo transitorio nel quale la rottura della cristianità non sembrava ancora incolmabile e definitiva e fu giocoforza scegliere fra due ortodossie ormai chiaramente definite. L’anno seguente Paolo III promosse la stretta repressiva reclamata dal cardinale Carafa. Nacquero così nel 1542 la congregazione cardinalizia del Sant’Uffizio o dell’Inquisizione presieduta dal papa con il compito di riorganizzare e dirigere dal centro la rete dei tribunali inquisitoriali istituiti nel Medioevo. Questa decisione degnò una vera svolta: fu sempre più difficile assumere posizioni intermedie o sfumate, di mediazione o di compromesso. - “Il concilio di Trento” Nel dicembre del 1545 si aprì finalmente a Trento il concilio tanto atteso, indetto da Paolo III. Si stabilì che avevano diritto di voto, oltre ai vescovi, anche i generali degli ordini mendicanti, mentre non votavano i consulenti, ovvero teologi e canonisti. Alla prima sessione era presente una rappresentanza quasi esclusivamente italiana. Carlo V suggerì di non trattare per prime le questioni teologiche ma di promuovere innovazioni sul piano morale e disciplinare, nella speranza di un compromesso con le Chiese protestanti. Questa linea era condivisa da alcuni vescovi che erano sensibili a un ripristino dello spirito evangelico. Ma queste posizioni furono sconfitte: il concilio decise già nella prima fase di affrontare le questioni teologiche e chiuse la porta ad ogni dialogo. La decisione di spostare il concilio a Bologna fu un nuovo motivo di conflitto fra il papa e Carlo V. il concilio si riaprì a Trento nel 1551 sotto il nuovo papa Giulio III Del Monte ma fu nuovamente sospeso nel 1552 per la ripresa della guerra. Nel 1555 il quadro mutò con l’elezione del cardinale Gian Pietro Carafa, papa con il nome di Paolo IV. Egli perseguì una politica di accentramento e di rafforzamento del primato del papa, fondato in particolare sulla centralità dell’Inquisizione, della quale il Carafa era stato il vero artefice. Egli utilizzò spregiudicatamente il tribunale e fece imprigionare con l’accusa di eresia il cardinale milanese Giovanni Morone, che uscì da Castel Sant’Angelo solo alla morte del pontefice e intendeva colpire anche il cardinale Pole che sfuggì alle accuse perché si trovava in Inghilterra dove morì nel 1558. La morte di Paolo IV fu accolta con gioia dalla popolazione romana che assaltò le carceri del Sant’Uffizio e liberò i prigionieri. Il nuovo papato Pio IV Medici fece segnare una svolta rispetto alle linee del predecessore, i cui nipoti furono processato e condannati a morte. Sotto il suo pontificato poté svolgersi l’ultima fase del concilio, anche la più intensa. I decreti tridentini condannarono come eretiche le dottrine delle chiese protestanti e riaffermarono contro le tesi luterane il valore delle opere ai fini della salvezza e l’eguale importante della tradizione rispetto alla Scrittura come fonte di verità; per quanto concerna la Bibbia, il testo latino di Girolamo fu confermata come edizione ufficiale e i fedeli furono obbligati ad attenersi all’interpretazione della Chiesa; il concilio ribadì la dottrina cattolica sul numero (sette), sulla natura e sulla validità dei sacramenti e riguardo all’eucarestia confermò la trasformazione delle specie nel corpo e nel sangue di Cristo; contro il principio del sacerdozio universale dei credenti, agli ecclesiastici fu mantenuto uno status distinto rispetto al laicato; inoltre fu definita la dottrina delle indulgenze e furono ribaditi l’esistenza del purgatorio e il culto dei santi e della Madonna. Il concilio provvide anche a un rinnovamento morale e disciplinare della compagine ecclesiastica. Per la formazione del clero furono istituiti seminari, aperti anche ai figli dei poveri. I parroci furono tenuti a registrare i battesimi e matrimoni per controllare l’adempimento da parte dei fedeli dei precetti religiosi. Nella restaurazione della funzione pastorale della Chiesa un ruolo centrale fu riconosciuto ai vescovi, ai quali fu imposto il divieto di cumulare più benefici e l’obbligo di risiedere nella diocesi e di visitarla ogni due anni presentando una dettagliata relazione a Roma. - “L’affermazione dell’assolutismo papale” La scelta di Trento, principato vescovile in terra italiana ma compreso nei confini dell’impero, volle essere una soluzione di compromesso rispetto alle richieste di un concilio non sottoposto all’autorità romana. Di fatto attraverso i cardinali il papa mantenne uno stretto controllo sullo svolgimento dei lavori. Uno degli ultimi decreti stabilì che tutte le decisioni prese dal concilio riguardo alla riforma dei costumi e alla disciplina ecclesiastica dovevano essere interpretate in modo che fosse sempre “salva l’autorità della Sede Apostolica”. Fu creata infatti, in seguito la Congregazione del concilio, che si riservò ogni decisione riguardante l’interpretazione e l’attuazione dei decreti conciliari. Dalla crisi religiosa del Cinquecento la Chiesa di Roma uscì con una struttura rigorosamente gerarchizzata, della quale il papa era il monarca assoluto. - “La riorganizzazione dello Stato della Chiesa” Il sacro collegio o Concistoro, allargato fino al numero di 70 cardinali, fu progressivamente privato della sua funzione di organo supremo del governo della Chiesa. Al suo posto al vertice della struttura di potere furono istituite le congregazioni cardinalizie dipendenti direttamente dal papa, fissate da Sisto V Peretti nel numero di quindici, sei dedicate all’amministrazione dello Stato (esempio: acqua, strade, università) e nove addette al governo spirituale della Chiesa (Sant’Uffizio dell’Inquisizione, indice, concilio); nel 1622 si aggiunse la Congregazione “De Propaganda fide” (per la propagazione della fede) che si occupava di dirigere l’azione missionaria per la conversione dei popoli non cristiani. Il cardinale, posto al vertice della gerarchia ecclesiastica e dell’amministrazione statale, si trasformò in un alto burocrate, esperto di diritto canonico, impegnato nella gestione degli affari ecclesiastici. Lo Stato della Chiesa si dotò insomma di una complessa macchina burocratica votata ad amministrare insieme i problemi temporali e spirituali, che risultavano congiunti in modo indissolubile nella figura del pontefice, insieme sovrano di uno Stato e capo della cattolicità. Il papato acquisì un notevole prestigio come dimostra la riforma del calendario giuliano realizzata da papa Gregorio XIII. Per eliminare le differenze accumulatesi nei secoli rispetto all’anno solare, furono cancellati 10 giorni. - “La figura del vescovo” Un segnale importante del rinnovamento cattolico fu l’affermazione di una nuova generazione di vescovi che si impegnarono a mettere in atto i principi approvati al concilio, ispirandosi al modello offerto da Carlo Borromeo. Questi abbandonò la curia per assumere nel 1565 la carica di arcivescovo di Milano, dove esercitò il suo ministero pastorale con fermezza e con zelo religioso, dando prova di grande rigore morale nella guida del clero e dei fedeli e di un’assoluta intransigenza nella condanna al rogo di streghe ed eretici; per difendere le prerogative della sua carica non esitò a scontrarsi con l’autorità politica. Tuttavia, il centralismo papale impedì una piena realizzazione della centralità della figura del vescovo. In effetti la curia esercitò un penetrante controllo sugli ordinari diocesani e ne limitò in vario modo la capacità di governo delle diocesi; la larga autonomia di cui godevano gli ordini regolari, in particolare francescani e domenicani, e il ruolo da essi svolto nella predicazione e nella confessione toglievano spazi ai vescovi nella cura delle anime; soprattutto la repressione dell’eresia da parte delle congregazioni cardinalizie dell’Indice e dell’Inquisizione finiva spesso per ridimensionare o vanificare il ruolo dei vescovi, ridotti al ruolo di esecutori delle direttive della curia e di guardiani dell’ortodossia. - “La Chiesa postridentina” A partire dalla crisi religiosa del Cinquecento si determinò anche nel mondo cattolico una profonda evoluzione della spiritualità. In tal senso, centrale fu il sacramento della confessione. La consolazione della coscienza che i protestanti trovavano nell’accostarsi direttamente alla parola di Dio fu offerta ai cattolici dalla confessione. Nel Medioevo quest’ultima era stato un rito collettivo al quale l’intera comunità si sottoponeva in determinate occasioni (a Pasqua obbligatoriamente); nell’età moderna si compì un’individualizzazione del sacramento, che dovette fornire una risposta specifica alle angosce e ai turbamenti del singolo fedele di fronte al peccato e aprirgli il cuore alla speranza. Si affermò così una religiosità più moderna. Di conseguenza cambiò anche il modo di vivere l’eucarestia; nacque allora la pratica della comunione frequente, attuata ad esempio dai gesuiti ma poi diffusasi anche nella popolazione, giacché come l’uomo ogni giorno ha bisogno del cibo per sopravvivere così l’anima deve frequentemente nutrirsi del cibo spirituale a consolazione della coscienza afflitta e mortificata dal peccato. La confessione non aveva solo la funzione di dare sollievo al peccatore ma era anche un fondamentale strumento di controllo, l’orecchio attraverso il quale la Chiesa conosceva gli orientamenti e i sentimenti della massa di fedeli. Il confessore era dunque anche giudice: chi confessava di avere letto libri proibiti non riceveva l’assoluzione ma era invitato a denunciare all’inquisitore la provenienza dei libri, le circostanze nelle quali li aveva avuti e gli eventuali complici. Si determinava così un intreccio anomalo fra il foro interno della coscienza (confessione) e il foro esterno (l’Inquisizione), fra la liberazione dal peso del peccato e la delazione. - “L’opera dell’Inquisizione” L’Inquisizione fu un potente strumento di potere: dai suoi ranghi pervennero al pontificato, papa Pio V Ghislieri e Sisto V Peretti che portarono a compimento la lotta all’eresia e la centralizzazione delle istituzioni romane. Attraverso il tribunale del Sant’Uffizio l’ala intransigente della curia riuscì a promuovere al vertice della Chiesa romana una vera resa dei conti con le istanze riformatrici; incapparono nei rigori del tribunale alcuni vescovi che a Trento avevano discusso in maniera aperta e conciliante delle posizioni luterane. In effetti, l’Inquisizione fu un’istituzione tipicamente italiana, in cui l’obiettivo principale dei processi era l’abiura (rinunzia libera, vincolata da giuramento) dell’inquisito; la condanna a morte colpiva o gli eretici impenitenti, che si rifiutavano di abiurare, o i cosiddetti relapsi, che dopo l’abiura ricadevano nell’errore. L’Inquisizione riuscì a estirpare dal suolo italiano ogni traccia dell’infezione ereticale. Fu distrutta tutta la rete dei gruppi anabattisti nell’Italia centro-settentrionale. Il culmine della lotta all’eresia si ebbe durante il pontificato di Pio V. Furono sterminati anche i valdesi stabilitisi in Calabria nel XIII secolo. Una presenza protestante rimase solo perché sopravvissero le comunità delle valli del Piemonte, nucleo della chiesa evangelica valdese, presente oggi su tutto il territorio. - “Gli eretici italiani” I dissidenti religiosi italiani aderirono alle nuove chiese generate dalla riforma, tant’è che molti esuli assunsero in esse ruoli anche di notevole rilievo. Tuttavia, per altri aspetti della riforma presentò in Italia caratteri specifici, che portarono molti suoi esponenti a scontrarsi con le istituzioni del mondo protestante fino a porsi come eretici rispetto a tutte le chiese in quanto critici in ogni forma di disciplina professionale. Alla radice di questa originalità vi fu sicuramente il forte legame con la tradizione umanistica, che orientò molti ambienti verso le posizioni della riforma radicale, e li indusse a seguire percorsi di perfezionamento spirituale che si ponevano al di fuori di tutti gli steccati erette dalle varie confessioni stabilite. Emblematica fu la vicenda di Bernardino Ochino, il quale si scontrò con la rigorosa ortodossia delle Chiese riformate elvetiche e dovette lasciare Zurigo per rifugiarsi in Polonia e poi in Moldavia, dove morì. Fra i motivi di dissenso rispetto alle chiese protestanti particolare rilievo ebbe il rifiuto dell’uso della forza in materia di fede: non a caso gli italiano furono in prima linea nelle aspre critiche rivolte a Calvino in occasione del rogo di Serveto. - “Il disciplinamento della società” A partire dal 1580 la congregazione del Sant’Uffizio rivolse progressivamente la sua attenzione verso nuove competenze (la bestemmia, il rispetto del digiuno e l’astinenza da cibi proibiti, la sfera dei costumi sessuali) e infine intensificò la lotta contro la stregoneria, che già in precedenza aveva dato luogo a diversi processi. La caccia alle streghe interessò nell’età moderna molte zone dell’Europa, sia nei paesi cattolici sia in quelli protestanti e fu condotta anche dalle autorità laiche. Perseguendo la stregoneria l’Inquisizione si trovò di fronte al persistere di elementi di paganesimo o di credenze superstiziose e magiche nella religiosità delle masse, o soprattutto rurali. L’attenzione a questi - “Il re prudente” Filippo II era molto diverso dal padre; egli aveva un senso altissimo della sua autorità. Formatosi in Spagna fece il suo apprendistato all’ombra del padre, che gli affidò precocemente responsabilità politiche. Caratteristica centrale della sua personalità fu una religiosità tanto sentita quanto chiusa e intollerante. Tornato in Spagna nel 1559, decise di spostare la corte a Madrid, piccola cittadina di nemmeno 10.000 abitanti, posta esattamente al centro della penisola, e fece costruire un importante e cupo edificio, insieme monastero e palazzo reale, dedicato al martire San Lorenzo, l’Escorial, che divenne la sua residenza preferita. Egli governò quindi dal suo gabinetto di lavoro, dove esaminava quotidianamente le pratiche che gli passavano i suoi segretari, sulle quali apponeva le sue osservazioni e correzioni fino alla decisione finale. Le sue scelte politiche furono tormentate, anche a causa di scrupoli religiosi: convinto di dover rendere conto a Dio dei suoi atti, egli quando i problemi implicavano un caso di coscienza si consultava con i suoi confessori o con i teologi di corte. È divenuto corrente l’appellativo di “re prudente”, che è stata interpretato in modi diversi, come espressione di saggezza e coscienziosità, ovvero come sintomo di irresolutezza. Ha pesato molto sulla sua figura la morte del figlio don Carlos, che egli fece arrestare a causa dei vizi e dei difetti del suo carattere; il principe morì in carcere ma non fu avvelenato per volere del padre. Filippo ebbe quattro mogli, dall’ultima delle quali, la nipote Anna d’Austria, ebbe poi l’agognato erede, il futuro Filippo III. - “L’acquisizione della corona portoghese” La morte del giovane re del Portogallo, Sebastiano I aprì la strada a Filippo II per ottenere la corona portoghese. A Sebastiano successe il fratello, il vecchio cardinale Enrico. Alla sua morte, nel 1590, Filippo intervenne in armi e si fece riconoscere come erede della corona degli Aviz. In tal modo la Spagna acquisì anche il controllo dell’impero coloniale portoghese; Filippo adottò allora orgogliosamente il motto “Non sufficit orbis “(non basta il mondo). Il Portogallo conservò la sua struttura istituzionale e le sue leggi. - “La Spagna imperiale” Si parla di un sistema imperiale spagnolo anche in ragione della grande estensione territoriale dei suoi possedimenti e soprattutto della grande potenza militare e finanziaria. Filippo mirò innanzitutto ad accrescere la potenza spagnola e non esitò a scontrarsi con il pontefice per difendere le prerogative dello stato: egli si espose alla pubblicazione della bolla di Pio V “In coena domini” (1568) che minacciava la scomunica ai sovrani che non avessero rispettato le prerogative della Chiesa. I territori sottoposti alla sovranità di Filippo II, la cui amministrazione era delegata a viceré o governatori, conservarono le proprie distinte identità giuridiche e istituzionali: ciò che li univa era la fedeltà alla dinastia regnante. La struttura di governo era imperniata sul sistema di consigli. Si trattava di organi collegiali, di composizione variabile, con funzioni consultative, che preparavano delle consulte in base alle quali il re prendeva le sue decisioni. Il più importante era il Consiglio di Stato, competente per la politica estera e per gli affari di maggior rilevanza, nel quale sedevano anche esponenti della grande nobiltà. Gli altri erano competenti per materia (l’Inquisizione, guerre, finanze) o per territorio (Castiglia, Aragona, Italia, Indie, Fiandre, Portogallo). Di questi organi facevano parte soprattutto i “Letrados”, funzionari di origine non nobile che avevano studiato diritto. Nei consigli competenti per territorio erano presenti esponenti delle classi dirigenti locali, che avevano il compito di rappresentarne le richieste e di difenderne le prerogative. Filippo II affrontò molte questioni specifiche in organismi informali, le giunte (juntas), con pochissimi collaboratori fidati. - “Le finanze” La Spagna poteva contare grazie alle miniere americane su un costante flusso di metalli preziosi. Questi però non ricoprivano mai più del 25% delle entrate. La lentezza della riscossione rendeva indispensabile il ricorso alle anticipazioni di banchieri e finanzieri (fiamminghi, tedeschi e genovesi) nella forma di asientos, prestiti a breve termine e ad alto tasso di interesse garantiti da future entrate. La bancarotta del 1557 consisteva nella riconversione forzosa dei prestiti a breve (asientos) in prestiti a lungo termine, gli juros, che davano un interesse minore ed erano di fatto perpetui per cui non comportavano la restituzione del capitale. Le bancarotte divennero una costante della storia spagnola: 1557, 1575, 1596, 1607, 1627 e quattro fra il 1647 e il 1662. - “L’unità della fede” In una Spagna in cui coesistevano lingue, culture e realtà sociali assai diverse l’unità religiosa era essenziale per dare coesione e solidità al sistema e insieme per legittimare la missione della dinastia che lo reggeva; garantire tale unità divenne perciò una vera ossessione. Di qui il ruolo centrale che assunse nel regno di Filippo II l’Inquisizione, l’unica istituzione veramente comune ai vari domini, che controllava anche la stampa. Già dall’inizio del suo regno la scoperta di alcune comunità protestanti diede occasione a diversi “auto da fé” (atto di fede), cerimonie pubbliche nelle quali si consegnavano gli eretici a morte al braccio secolare per l’esecuzione. In seguito, la persecuzione si abbatté sui moriscos, musulmani che erano stati obbligati a convertirsi al cristianesimo, numerosi nella regione di Granada. Dapprima essi furono colpiti dal divieto di usare la loro lingua e i loro costumi, poi da misure vessatorie che peggiorarono la loro condizione economica. Nel 1568 esplose la rivolta: i moriscos si rifugiarono sui monti delle Alpujarras combattendo con imboscate. La repressione comportò la deportazione forzata in varie zone della Spagna. Infine, nel 1609 tutti i moriscos furono espulsi dal regno. Non meno intransigente fu l’atteggiamento nei confronti degli ebrei convertiti, i marrani o conversi. L’Inquisizione cercò ogni indizio che potesse far sospettare una falsa conversione. Ma soprattutto prevalse il principio, di chiara importanza razzista, per cui non contava la fede religiosa ma il sangue: misure discriminatorie colpirono chiunque non potesse dimostrare la “limpieza de sangre”. - “Lepanto” In linea con lo spirito di crociata della reconquista si poneva anche il conflitto nel Mediterraneo con la potenza ottomana. Il sultano Salim II attaccò l’isola di Cipro, possedimento di Venezia; nel contemplo il bey di Algeri, vassallo del sultano, riconquistò Tunisi. Si formò allora una lega santa alla quale aderirono Venezia, il papa, l’ordine dei cavalieri di Malta, il duca di Savoia, Genova e Filippo II. Le esitazioni di quest’ultimo ritardarono la risposta cristiana, per cui nel frattempo Cipro fu presa dagli ottomani. La flotta cristiana, comandata da don Giovanni di Austria, un figlio naturale di Carlo V, il 7 ottobre 1571 riuscì a infliggere alla flotta turca una grave sconfitta a Lepanto; 30.000 turchi furono fatti prigionieri e migliaia di schiavi cristiani liberati. I suoi esiti furono inferiori alle attese perché emersero ancora una volta le divergenze fra Venezia e Filippo II. Questi mirava soprattutto a combattere le azioni di pirateria nel Mediterraneo occidentale ma non intendeva impegnarsi in favore di Venezia, la quale firmò con gli ottomani una pace separata con la quale rinunciò a Cipro e si garantì la ripresa dei commerci con l’Oriente. Nel 1578 anche la Spagna stipulò una tregua con l’impero ottomano. - “La rivolta dei Paesi Bassi” Delle diciassette province chiamate Paesi Bassi alcune appartenevano all’eredità borgognona, altre erano state acquisite da Carlo V; erano state formalmente unite ma erano di fatto autonome: ogni provincia aveva un proprio governatore e inviava rappresentanti agli stati generali che si occupavano soprattutto di questioni fiscali e militari. Filippo II nominò governatrice la sorellastra Margherita, moglie del duca di Parma Ottavio Farnese. I problemi insorsero quando Granvelle volle intensificare la lotta all’eresia con l’introduzione dell’Inquisizione. La presenza di un tribunale straniero dotato di pieni poteri rappresentava una grave limitazione dei privilegi delle province, che tradizionalmente si governavano autonomamente. Di qui la reazione dei ceti dirigenti, della nobiltà e patriziati urbani che ottennero la destituzione del Granvelle il 5 aprile dì 1566 un gruppo di nobili fiamminghi si presentò in armi al palazzo della reggente a Bruxelles per presentare una petizione che chiedeva l’abolizione dell’Inquisizione. In questa occasione qualcuno si lasciò sfuggire l’espressione “gueux” (pezzenti) riferita con disprezzo ai latori della petizione; gli insorti adottarono orgogliosamente questo appellativo che divenne il loro distintivo. La reggente fu obbligata a sospendere le leggi contro gli eretici. Filippo II inviò le truppe comandate dal duca d’Alba che promossero una durissima repressione con centinaia di condanne a morte, fra le quali quella del conto di Egmont. Fu l’inizio della rivolta, capeggiata da Guglielmo di Orange, che era riuscito a fuggire in Germania. I ribelli, naturalmente, non erano in grado di contrastare sul campo il potente esercito spagnolo e dovettero subire una serie di durissimi assedi. Molto efficace fu invece l’azione della flotta corsara dei “pezzenti di mare” che, controllando le coste, obbligò gli spagnoli a rifornire l’armata per la lunga e costosa via di terra, da Genova attraverso lo stato di Milano e la Francia contea. Alla fine del 1572 comunque resistevano solo le province di Zelanda e Olanda, che nominarono governatore Guglielmo d’Orange. Questi l’anno seguente decise di convertirsi al calvinismo. - “Le guerre di religione in Francia” La morte di Enrico II nel 1559 aprì un lungo periodo di debolezza dell’istituzione monarchica. A questo si aggiunse il problema della divisione religiosa. Da tempo, infatti, si erano formate in Francia numerose comunità di calvinisti, chiamati ugonotti. Nonostante la repressione promossa da Enrico II, che portò a numerose condanne a morte del Parlamento, i calvinisti francesi si erano dati una solida organizzazione e nel 1559 celebrarono in clandestinità a Parigi il primo sinodo nazionale. Il calvinismo trovava proseliti (proselitismo= chi cerca di convertire o coinvolgere altri individui ad una certa dottrina) principalmente nelle grandi città, fra professionisti, artigiani, officiers, commercianti ma si giovò di una massiccia adesione dell’alta aristocrazia: si calcola che più di un terzo dei nobili aderì al calvinismo. Senza dubbio la religione riformata fu per la nobiltà francese un’occasione per approfittare della debolezza della monarchia per riconquistare spazi di iniziativa politica e consolidare il proprio primato sociale. Si schierarono, a fianco dei calvinisti, la regina di Navarra, Giovanna d’Albret, moglie di Antonio di Borbone, primo principe del sangue, e la famiglia Montmorency-Chantillon, alla quale apparteneva il vero capo politico degli ugonotti, l’ammiraglio Gaspard de Coligny. A difesa dell’ortodossia cattolica era invece schierata la potente famiglia dei Guisa, originaria della Lorena. A Enrico successe il figlio maggiore Francesco II, sposato con Mary Stuart; in questo periodo il governo fu nelle mani del duca di guisa, zio della regina. Morto Francesco salì al trono il fratello Carlo IX che aveva appena dieci anni, per cui il potere fu assunto in qualità di reggente dalla madre Caterina dei Medici. Donna abile e di forte carattere, dovettero destreggiarsi fra le varie fazioni della nobiltà, desiderosa di riprendersi il potere ai danni della corona e perseguì una politica di concordia religiosa. A tal fine concesse ai calvinisti il culto privato entro le mura urbane e quello politico fuori delle città. Il provvedimento suscitò la violenta reazione cattolica, culminata nella strage di una folla di ugonotti che stavano celebrando i loro riti da parte delle truppe del duca di Guisa. Il massacro di Vassy fu l’atto di inizio delle guerre di religione che durarono 36 anni e si svolsero attraverso otto fasi. Per bilanciare lo strapotere dei Guisa fece molte concessioni agli ugonotti, che ottennero così nella pacificazione di Saint-Germany del 1570 la libertà di coscienza, la libertà di culto, dove era concessa prima e in due città per provincia e soprattutto il possesso di quattro piazzeforti, fra le quali La Rochelle. Seguì un notevole rafforzamento del partito protestante: l’ammiraglio Coligny fu ricevuto a corte e acquisì un notevole ascendente su Carlo IX; a conferma del peso politico del partito ugonotto fu concordato il matrimonio fra la sorella del re Margherita e il calvinista Enrico di Borbone, divenuto re di Navarra. La questione assumeva un’importanza europea, perché Coligny sembrava voler dare alla politica estera del regno un indirizzo nettamente antispagnolo. Si sviluppò così la reazione dei Guisa, dietro la quale vi era il consenso di Caterina, convinta che occorresse bilanciare l’eccessiva forza degli ugonotti. Fu organizzato così un attentato contro Coligny che però rimase solamente ferito da un colpo di archibugio. Nello sconcerto generale, suscitato da questo episodio, i Guisa decisero di farla finita con
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