Scarica RIASSUNTO DIRITTO CANONICO e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Canonico solo su Docsity! CAPITOLO V: IL CORPUS DELLE FONTI DIVINE UMANE 1. La Chiesa come ordinamento giuridico 1.1. L’ordinamento come esperienza di vita. - Per Capograssi la funzione sociale di un ordinamento giuridico è quella per cui ciascuno di noi esce da sé stesso, dalla sua individualità, dal suo mondo che uso di singolo individuo, per partecipare in una realtà comune che può essere la vita della chiesa, di uno stato, di un'associazione di vario tipo, la quale diventa parte integrante di sé a tal punto da far convergere il proprio scopo in quello comune di tale istituzione o associazione. In quest’ottica si capisce che il diritto non dovrebbe essere qualcosa di estrinseco, lontano da noi e dalla vita; piuttosto esso riveste una funzione sociale rilevantissima. Far parte di un ordinamento è espressione della libertà del soggetto, ma anche dell'esigenza del soggetto di partecipare attivamente a una realtà sociale più ampia per poter realizzare le proprie aspirazioni. Simone Weil (1940-43), pensatrice religiosa francese ha notato che nell'esperienza umana dei singoli c'è un forte bisogno di “radicamento”. La Weil afferma che ad ogni essere umano occorrono, anzi, radici multiple: abbiamo bisogno di ricevere quasi tutta la vita morale, spirituale e intellettuale tramite gli ambienti di appartenenza. Il rapporto fra noi è la realtà, in qualche modo, non è così diretto immediato ma risulta essere impedito: questo ci dà il senso del bisogno umano di appartenenza. Esso si può esprimere a diversi livelli di due punti Il Borgo, il quartiere, la famiglia, la scuola, le associazioni come ambiente sociale, ecc.; la chiesa come comunione di persone, comunità di fede, di speranza, di carità; lo Stato come comunità sociale e politica fondato sulla condivisione di una tavola di valori comuni. Alla base degli ordinamenti in cui si inserisce l'individuo vi deve sempre essere il requisito della libertà e la pratica di una forma concreta e significativa di esperienza. In questo senso ogni singolo ordinamento riflette un aspetto rilevante dell'esperienza individuale e sociale: se faccio il calciatore devo rispettare l'ordinamento sportivo e se, allo stesso tempo, sono battezzato nella chiesa cattolica farò parte anche dell'ordinamento canonico. Dal momento che l'esperienza ci mostra una pluralità di forme di vita associata che sono in relazione tra loro, ne segue una serie di implicazioni: 1) il riconoscimento della molteplicità degli ordinamenti giuridici; 2) la distinzione tra ordinamenti originali e sovrani (quali sono la Chiesa e lo Stato) e ordinamenti derivati ed autonomi; 3) la loro stretta reciproca connessione e, quindi, la loro limitazione In quanto ogni ordinamento non vive isolato dagli altri ma è stretto raccordo. Ogni singolo ordinamento non è una totalità perché collegato ad altri ordinamenti adesso esterni. L’ordinamento della chiesa può e deve essere comparato, per distinguerlo dagli altri ordinamenti, tanto nella sua articolazione quanto nella sua finalità. Scrive sempre Capograssi che “il fine della chiesa, il suo realizzarsi per atti spirituali di adesione, tutta la sua economia sacramentale, e la invisibile grazia di cui è segno, rendono perlomeno singolare i suoi rapporti giuridici, la norma, il rapporto tra la norma è il soggetto, la stessa realtà delle sue “cose” che l'ordinamento prende in considerazione, la necessaria severità delle sue sanzioni, e la necessaria indulgenza delle sue pene, il sistema delle sue nullità; insomma quel suo avere a che fare alla fine con la parte più profonda e delicata dello spirito del soggetto, quel suo avere a che fare con soggetto nella parte per così dire meno sociale è più profonda della sua personalità (perché volta verso l’esterno, tutto questo porta e segna una profonda e quasi incolmabile differenza con i sistemi giuridici degli altri ordinamenti”. Senza entrare nei dettagli, possiamo limitarci a notare che in esso vi sono tutti gli elementi comuni degli altri ordinamenti (atti, rapporti, mezzi, scopi giuridici, norme, sanzioni, pene), ma questi assumono un ruolo e una funzione per molti aspetti differenti da quelli di un ordinamento secolare. 1.2. Il rapporto con gli altri ordinamenti. - Nella pluralità degli ordinamenti, lo Stato e la chiesa hanno una caratteristica peculiare: pur essendo diverse differenti, pur agendo per scopi differenti, non possono però non essere in relazione e condizionarsi tra loro. La specificità dell’ordinamento canonico sta nel fatto che esso, per sua natura e struttura, si propone, da un lato, di raccogliere l’intera esperienza umana, al di là di tutte le differenze di tipo sociale, nazionale, economico e,dall'altro, di abbracciare la vita di Ciascun individuo nella più intima e peculiare fisionomia singolare. L'ordinamento della chiesa, peraltro, include, in un certo modo, tutti gli ordinamenti, e quindi anche quello dello Stato che unifica le esperienze temporali. In questo senso l'ordinamento canonico viene a trovarsi, in un rapporto allo spazio e al tempo, in una posizione assai particolare o meglio eccezionale. La sua natura è, in apparenza, contraddittoria: al pari della chiesa, esso è calato, inserito, inquadrato nel tempo e nello spazio ma, il medesimo momento trascende il tempo e lo spazio. Quindi la Chiesa si pone in un rapporto particolare con lo spazio il tempo dell'esperienza umana: né oltrepassa le dimensioni usuali e ordinarie. La chiesa, nel suo mistero, come Vedremo, è strettamente congiunta con la vicenda del genere umano; per cui il destino della Chiesa è coestensivo alle sorti del genere umano. 1.3. Esperienza e istituzione nella Chiesa. - Si è detto che la chiesa è in se stessa un ordinamento, e crea un ordinamento nella storia. Anzi, pretende di essere l'ordinamento degli ordinamenti, volendo comprendere, sotto il profilo spirituale e come sua finalità ultima, tutte le possibili manifestazioni ed espressioni dell'umanità. L’ordinamento si inquadra sempre in un’istituzione, anzi tende a coincidere con essa. Secondo Santi Romano il diritto designa anzitutto un ordinamento nella sua completezza ed unità, cioè è un'istituzione; In secondo luogo un complesso di precetti (norme e disposizioni particolari) connessi, ma che non sono effetto dell' istituzione. Dunque le “istituzioni” non sono scorporabili dai significati simbolici e dalle concezioni di valore che i suoi membri le attribuiscono. 2. Il sistema delle fonti: profili comparativi Questa premessa era necessaria per avvicinarsi al problema delle fonti su cui si basa l'ordinamento canonico ea cui il canonista rivolge propriamente la sua attività interpretativa. La visione normativistica propria del diritto codificato si limitava a distinguere le fonti di produzione (gli organi o autorità che producono il diritto) dalle fonti di cognizione (i luoghi dove rinvenire le enunciazioni normative). La dottrina giuridica attuale adotta un concetto meno formalistico di fonte, certamente più adatto per l'ordinamento canonico, in quanto comprende, oltre ai testi scritti, anche intenzioni, azioni, comportamenti rilevanti, ecc., così come fa posto ai fattori storici o religiosi che hanno contribuito al sorgere di istituzioni o prassi giuridiche. Il complesso di principi, dottrine, norme, comportamenti pratici, istituti e strutture contenuti nel Nuovo Testamento sono stati trasmessi, in forme diversamente qualificate, nell'ordinamento Canonico, mediante l'organo attivo della tradizione della Chiesa nei secoli. Nel diritto ebraico Dio è considerato l'autore della Legge. Lo stesso vale, e in modo ancor più forte, per il diritto islamico. In sintesi: l'elemento proprio che distingue gli ordinamenti delle tre grandi religioni monoteistiche (ebraismo, cristianesimo e islam) rispetto agli ordinamenti secolare deriva dalla affermazione che esiste e ha valore assoluto, al di sopra di ogni normazione umana, una legge proveniente da Dio stesso chiamata diritto divino. E’ una cosa inconcepibile per gli ordinamenti laici e per la diffusa mentalità secolarizzata del mondo occidentale, che concepisce le leggi come opera umana del tutto modello modellabile dalla volontà di chi detiene il potere. Rispetto poi agli altri diritti sacri, il diritto canonico presenta una notevole differenza. Mentre nel diritto islamico e nel diritto ebraico la legge divina non è integrabile con norme umane e si può solamente adattare al mutare del tempo con l'arte della giurisprudenza, nell'ordinamento canonico il diritto divino è affiancato dal diritto umano della chiesa, che ha il compito di interpretarlo, integrarlo, attuarlo. L’ordinamento canonico si presenta dunque come un sistema complesso perché dotato di fonti diverse, di valore diseguale, dipendenti da molteplici organi di produzione del diritto. La fonte principale principale, sovraordinata a tutte le altre, risiede nel diritto divino che da Francisco Suàrez (1612) viene suddiviso il naturale positivo. Accanto al diritto divino abbiamo il diritto umano, che non è da identificare con il diritto secolare o con il diritto naturale ma, come vedremo, si riferisce al diritto prodotto dalla Chiesa, ovvero dagli organi ecclesiastici a ciò deputati. 3. Il diritto divino positivo Il diritto divino positivo è “prodotto”, cioè comunicato da Dio stesso mediante la rivelazione. Le fonti di cognizione del diritto divino sono la Bibbia e la tradizione apostolica. storico. Il diritto naturale non è così evidente in “natura” perché questo termine è fortemente equivoco e ambiguo. Per Tommaso il diritto naturale è un concetto o costruzione della ragione. E’ insito nella natura delle cose e degli uomini, ma è la ragione che deve portarlo alla luce. La legge naturale è dunque un ordine o un ordinamento costituito dalla ragione che ci aiuta a capire le leggi fondamentali della vita e del cosmo. Ad esse si perviene non per via deduttiva ma induttiva, partendo prima di tutto dall’analisi delle inclinazioni naturali. Il sistema di Tommaso è articolato su più piani. Alla base di tutto vi è la lex aeterna, la legge di Dio, valida fin dall'eternità per Dio stesso e che l'uomo conosce solo per partecipazione, mediante l'uso della ragione nella forma della lex humana, la quale a sua volta si divide in naturale e positiva. Ne segue che, per Tommaso, qualunque legge positiva trova il suo fondamento Nella legge naturale, la quale rinvia la legge eterna. “La legge naturale si definisce perciò come una partecipazione alla legge eterna. Essa è mediata, da una parte, dalle inclinazioni della natura, espressioni della sapienza creatrice, e, dall’altra parte, dalla luce della ragione umana che la interpreta e che è essa stessa una partecipazione creata alla luce dell’intelligenza divina”. La legge naturale si può definire quindi un “prendere parte” in senso attivo alla legge stessa di Dio, un diventare legislatori di sé mediante l'uso della ragione. 6.4. La “regola aurea”. - Il punto di forza del diritto naturale è il suo fondamento universale, testimoniato dai contenuti analoghi delle differenti culture. Se mettiamo a confronto i testi della Sapienza cinese, buddista, ebraica, greca e cristiana potremmo concludere che esiste un sottofondo comune fra le differenti culture che si accorda su alcuni principi generalissimi. La cultura umana preristiana e cristiana ha scolpito in una regola aurea il criterio generale di condotta di ognuno: Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te, accompagnato preceduto dalla massima Fai il bene ed evita il male. Ecco qui la quintessenza del diritto naturale. In esso sono impliciti i grandi principi del diritto come tale: la reciprocità delle azioni, l'uguale dignità delle persone, la tutela del bene. Per la sua stessa essenza universale, il diritto naturale governa le relazioni dell'uomo con la natura, gli animali, gli altri uomini, le società, gli stati e le loro relazioni. Pensiamo agli sviluppi odierni dell’ecologia e all'elaborazione di nuove tipologie di crimini contro l'umanità del diritto internazionale. 6.5. La variabilità del diritto naturale. - Ovviamente questo senso di “ciò che è giusto” varia entro certi termini tra gli individui e i popoli nella storia. Benché abbia una essenza immutabile, è il risultato di una valutazione umana che si approfondisce nel corso della storia. Il carattere dinamico del diritto naturale, sia sul piano conoscitivo sia sul piano normativo, viene preso dalla ragione e dalla coscienza anche mediante gli apporti della filosofia e delle Scienze. Ne viene che, quanto più ci si allontana dai principi generalissimi e si scende nel dettaglio, tanto più l'indeterminazione della legge naturale aumenta e il giudizio della persona diventa specifico. 6.6. Legge positiva e legge naturale. - La dottrina di Tommaso D'Aquino fissa anche il rapporto tra la legge naturale e la legge positiva umana. Innanzitutto, la legge naturale precede ogni norma positiva e ne costituisce la base ultima. Poi, la legge naturale costituisce il criterio differenziale delle stesse leggi positive. Se una legge positiva non è coerente con il suo fondamento nella legge naturale, essa è corruzione della legge. La Chiesa deduce che le leggi degli Stati contrari alla legge naturale non devono essere accolte e che è doveroso fare l’obiezione di coscienza. L’ultimo corollario del diritto naturale è che adesso sono vincolati tutti coloro che hanno acquistato la discrezione (la capacità di distinguere il bene dal male) e l'uso della ragione. Dunque per la chiesa anche gli agnostici, i non credenti, gli atei e credenti in altre religioni sono obbligati dalla legge naturale. 7. La legge morale e la coscienza. - “Ogni volere discorde della ragione, sia retta che erronea, è sempre peccaminoso”. Tommaso arriva dunque a dire che, quando l'uomo va contro la ragione, fa qualcosa di male. Per Tommaso e per la Chiesa l'uomo, partecipando della libertà di Dio con l'uso della ragione, è legge di sé stesso. La traduzione ultima di questa costruzione è che la coscienza di ognuno è la legge suprema a cui attenersi, e questo come conseguenza del fatto che la legge naturale s'identifica con la ragionevolezza. Agire secondo ragione vuol dire agire secondo coscienza. 7.1 Coscienza e autorità. - Qual è il rapporto tra coscienza morale e autorità? La dottrina Cattolica tradizionale ragionava in questi termini: il potere della coscienza deriva dalla autorità divina che la partecipa a coloro a cui ha comunicato la sua potestà di legiferare ossia la chiesa e lo stato. Il Concilio Vaticano II ha riaffermato e modo assai esplicito il primato della coscienza. E la dottrina canonistica postconciliare non ha esitato ad ammettere che “anche rispetto alla legislazione ecclesiastica umana è infatti prospettabile un conflitto tra la norma astratta, valida per la generalità dei casi, e la coscienza del fedele, che, nel concreto della situazione in cui vive, avverta, in recta coscientia, il dovere di tenere un comportamento contrario a quello normativamente previsto; di continuare ad obbedire “magis Deo quam hominibus” [A Dio piuttosto che agli uomini]. 7.2. Il problema della coscienza erronea. - Per Tommaso d’Aquino e i teologi moralisti la coscienza va seguita anche quando è erronea, perché ciascun essere reagisce convinto di agire bene. La Chiesa afferma che, se qualcuno sbaglia avendo seguito la propria retta coscienza, è scusato. In definitiva, la coscienza retta egli stanza ultima del giudizio e della decisione morale. Per fare questo occorre però che essa sia pervenuta soggettivamente ad un giudizio certo sulla decisione da prendere. La dottrina cattolica afferma che la coscienza erronea va concepita come un elemento momentaneo di un processo più generale che porta la persona a conoscere la verità, perché la ragione manda alla verità e l'uomo deve mantenersi sempre aperto ad essa, ricercarla con tutte le sue forze. In un momento della sua vita l'uomo può sbagliare ma cercando la verità potrà autocorreggersi. Solo in questo senso la coscienza è criterio ultimo della legge naturale e della legge umana della chiesa. L’impostazione di Tommaso D'Aquino si rivela importante perché evita due concezioni diametralmente opposte, se adottate in modo autonomo l'una dall'altra. La prima dice che ciascuno è legge a se stesso. Tutte le posizioni sarebbero allora giustificate. E’ un’opzione soggettivistica e relativistica. La seconda afferma che le leggi di diritto naturale hanno un contenuto oggettivo e che, quindi, esiste un ordine delle cose vincolante ciascun essere umano, il quale obbliga ad agire in modo conforme ad esso. Non è che allora l'uomo si ritrova ad essere incatenato ha una struttura che non gli permette di essere libero? Al contrario: la legge naturale si pone come una via di sintesi tra i due poli dell'oggettività dei valori, che di per sé viene avvertita come estranea alla persona, e della valorizzazione dell'autonomia soggettiva, che rischia di decadere in un atteggiamento relativistico. 8. Il diritto umano: le fonti di cognizione. - Abbiamo detto che una delle caratteristiche del diritto canonico, posto a confronto con gli altri diritti sacri, sia riposta nella duplicità delle fonti normative: non solo divine ma umane. Accanto al diritto divino (naturale e positivo) e alle varie forme della Tradizione, troviamo anche un diritto umano emanato dall’autorità ecclesiastica. Il diritto umano è costituito principalmente dalle leggi ecclesiastiche, integrate datti come i decreti generali. Come vedremo, tali leggi possono essere generali, particolari o speciali. La legislazione comune vigente nella Chiesa Latina e orientale è stata raccolta in due codici di diritto canonico, di cui diremo. Ma va subito precisato che la legge Canonica non si esaurisce in essi. Al di fuori dei codici canonici vigenti troviamo, di chiamate dagli stessi in vario modo, costituzioni apostoliche e, specificatamente dedicate a normare singole istituzioni o processi speciali, regolamenti di vario tipo, norme speciali, istruzioni, motu propri, ecc., nonché norme complementari. Diamo qualche cenno sul codice previgente per comprendere meglio il significato dei codici del 1983 e del 1990. Il Codex iuris canonici del 1917 segna il passaggio da un diritto canonico di portata generale ma sempre fondato sulla concretezza, a un diritto canonico fondato sul fattispecie astratte. Il codice del 1917 riguarda la sola chiesa Latina e tratta solo il diritto in senso stretto, non dei riti e delle cerimonie. Tuttavia le sue norme riguardano, di fatto, tutti gli ambiti della vita della chiesa. Lo conferma la struttura dei suoi cinque libri che ricalca l'architettura romanistica: Norme Generali, Persone, Cose, Processi, Delitti e pene. Con i cambiamenti della società e della chiesa intervenuti a seguito del Concilio Vaticano II Si rende necessaria un'opera di revisione del codice del 1917, la quale, ha portato alla promulgazione da parte di Giovanni Paolo II del Codex iuris canonici del 1983 vigente per la chiesa Latina. Essa abroga il precedente codice, cerca di tradurre le novità del Vaticano II nella concezione della chiesa e intende essere un “completamento” delle deliberazioni conciliari, le quali avevano un carattere eminemente pastorale e necessitavano di essere tradotte in termini giuridici. Rispetto al codice del 1917, la struttura del codice del 1983 presenta sette libri così articolati: norme Generali, il popolo di Dio, la funzione di insegnare della chiesa, la funzione di santificare della chiesa, i beni temporali della chiesa, le sanzioni nella chiesa, i processi. Accanto al codice latino rinnovato, nei decenni successivi al Vaticano II e anche per effetto del riconoscimento della “pari dignità” delle chiese cattoliche orientali a quella Latina, si perviene, nel 1990 alla promulgazione del Codex canonum Ecclesiarum Orietalium. Il codice dei canoni delle chiese orientali, da un lato, risolve positivamente il secolare problema di tutelare l'autonomia le chiese orientali rimaste o ritornare in comunione con Roma, dall'altro intende valorizzare il patrimonio disciplinare, liturgico e spirituale dell' Oriente Cristiano. La sua importanza risiede nel fatto che i due codici, quello latino e quello orientale, sono riconosciuti, nella loro complementare diversità, componenti essenziali ed egualitari dell'ordinamento Canonico della chiesa universale. Inoltre i due codici canonici vengono posti in un rapporto di complementarità e, al tempo stesso, di correlazione con i documenti del Vaticano II. Da un lato i codici chiarificano, precisano e completano gli atti conciliari; dall'altro la loro interpretazione resta un dipendente dai principi ecclesiologici del Concilio. 9. Relazioni tra diritto divino e diritto umano Per comprendere la peculiarità e il funzionamento dell'ordinamento Canonico, è essenziale definire l'articolazione che sussiste tra diritto divino e diritto umano. Mentre il diritto divino va considerato sovraordinato, costitutivo, immutabile e definitivo, il diritto umano si presenta subordinato, integrativo, variabile, relativo. Il diritto divino è sovraordinato rispetto al diritto umano: non solo lo precede e possiede un valore assoluto, ma ne rappresenta il motivo ispiratore e direttivo. Il diritto umano altro non dovrebbe essere se non la coerente concretizzazione e integrazione dei principi del diritto divino. Il diritto umano riveste un carattere subordinato e complementare ed è determinato dal diritto Divino sia in negativo, sia in positivo. In definitiva, in diritto Divino non ha una funzione circoscritta, non è una semplice parte del sistema delle fonti e neppure si riduce a una clausola - limite diretta a fissare le possibilità di autodeterminazione nel campo del diritto canonico. Al contrario il diritto Divino costituisce il fondamento dogmatico del diritto canonico, possiede una portata generale non limitata ad alcun campo, è fonte di ispirazione sempre rinnovata del diritto umano e ne influenza tutta la fenomenologia, in quanto deve plasmare tutto l'ordinamento della chiesa. Abbiamo anche qualificato il diritto divino come definitivo, nel senso che è un patrimonio di verità, di fede e di morale, la cui sostanza non subirà incrementi, anche se la sua coscienza è soggetta ad approfondimenti. Diversa è la norma di diritto umano, di carattere relativo, che la chiesa può e deve modificare, sopprimere, ripristinare, o creare ex novo, secondo le esigenze dei tempi o le trasformazioni sociali, culturali ed economiche per provvedere il miglior modo al bene spirituale dei fedeli e alla riforma dei suoi organi e membri. 10. Relazioni tra diritto universale, diritto particolare e diritto proprio Per diritto universale s’intendono le leggi ecclesiastiche comuni a tutti i fedeli; esse sono emanate dal Papa o dal Collegio Episcopale congregato in concilio ecumenico. Per diritto particolare s’intendono le leggi ecclesiastiche relative a una chiesa particolare che si identifica con la diocesi o con gli altri organismi ad essi assimilati o una specifica comunità di fedeli; esse sono date dal vescovo diocesano, dalla Conferenza Episcopale, dai concili particolari. Il diritto proprio o speciale sorge dal principio della “giusta autonomia” che l'autorità della chiesa riconosce alle famiglie o istituti religiosi col nome giuridico di esenzione dalla giurisdizione ordinaria (c. 586 CIC). Esso è costituito, innanzitutto, dalla Regola di vita, la quale fissa l'ideale spirituale di vita e i principi generali dell'ordine o istituto religioso, dal Codice fondamentale o Costituzione che definisce in modo concreto le 2. Diritto scritto e non scritto. - Da sempre il diritto è diviso in ius scriptum e ius non scriptum; quest'ultimo, inoltre, nell'antropologia e nella storia precede sempre il primo o lo accompagna in varie forme. 2.1 La consuetudine canonica. - Nell’ordinamento Canonico il diritto non scritto trova una sua peculiare espressione nel valore che è dato dalla consuetudine (cc. 23-28). Essa è sempre stata considerata una fonte normativa che viene dal “basso” ossia dal popolo di Dio aggregato in comunità a particolari come la diocesi, gli istituti religiosi, ecc. Per il diritto canonico la consuetudine non è fonte paritetica. Si evince che nella chiesa esistono due modi di produzione del diritto: 1) la legge o ius scriptum (che è un elemento riflesso e formale, la cui base c'è la volontà di un'autorità); 2) la consuetudine o ius non scriptum (che ha un carattere spontaneo e naturale, ed è prodotta da una comunità piuttosto che da un autorità). Presupposti perché una consuetudine possa costituire una fonte del diritto canonico solo: (1) azioni ripetute frequentemente e a lungo (requisito materiale) che (2) siano ragionevoli e non vadano contro il diritto divino naturale o positivo (requisito della rationabilatas), (3) poste da una comunità capace, almeno, di essere oggetto passivo di una legge (requisito della comunità), e (4) diretta e realizzare un fine (requisito dell’animus communitatis). La consuetudine secundum legem è “la migliore interprete delle leggi” (c.27). Però il diritto canonico ammette anche, in casi eccezionali, l’efficacia di una consuetudine prater e contra legem (mai contraria al diritto divino). Per avere valore la consuetudine contro fuori il diritto canonico deve essere razionale, e dunque non riprovata espressamente dal diritto, e venire un servata per almeno 30 anni continui e completi (a meno che non di un’approvazione speciale dal legislatore). Sono richiesti 100 anni o il requisito della immemorabilitas, allorché si tratti di una consuetudine contro una legge che disponga di una clausola prohibente consuetudine future (c. 26). 2.2 La legge canonica, il precetto e il consiglio. - Il concerto di legge Canonica non trova definizione me nel codice previgente del 1917 né in quello in vigore del 1983. 2.2.1. I caratteri intrinseci della legge sono stati identificati, da Isidoro di Siviglia a Tommaso D'Aquino passando per Graziano, nella ragionevolezza del suo contenuto ossia nei caratteri della Giustizia, verità, idoneità ed osservabilità nonché nella finalità verso il bene comune della chiesa. Tra questi diversi elementi quello di fondamentale importanza per il diritto canonico è appunto la ragionevolezza (rationabilitas), in quanto funge da criterio selettivo della conformità sostanziale della legge, della consuetudine e di tutti gli atti della potestà di governo emanate dall'autorità ecclesiastica, ai dettami del diritto divino naturale e divino nonché ai principi generali dell'ordinamento della chiesa. L’ecclesologia del Vaticano II ha modificato la concezione della legge canonica sia in rapporto ai fini (per la nuova centralità acquisita Dalla Chiesa), sia in rapporto alle sue fonti di produzione (per la rivalutazione del principio di collegialità episcopale), lasciando però aperto il problema di come valorizzare l'apporto della comunità dei fedeli alla creazione della norma. 2.2.2 I caratteri estrinseci della legge. - Il primo elemento costitutivo è che la legge è una norma generale vincolante. Essa va pertanto distinta dai precetti e dai consigli, che riguardano essenzialmente la sfera morale, per cui chi la viola non è tenuto a rispondere di fronte al tribunale ecclesiastico. Mentre la legge presuppone una subordinazione del destinatario rispetto all'autorità che la emana, tale rapporto gerarchico può non sussistere nel consiglio e l'eventuale obbedienza è spontanea e non coatta. La legge promana poi da un'autorità dotata di potestà legislativa, mentre il precetto deriva dal potere esecutivo; la legge è generale, perpetua e astratta; il precetto è particolare, temporaneo e concreto. Precetto, definito infatti dal codice come singolare, e il decreto con cui alla persona o a determinate persone si comanda qualcosa da fare o da mettere in modo diretto è legittimo, specialmente per rendere cogente l'osservanza della legge (c. 49). La nozione di precetto finisce per comprendere nell'ordinamento della chiesa una varietà di atti non facilmente tipicizzati. Esso trova infatti una peculiare declinazione da parte di coloro che detengono il c.d. potere dominativo pubblico: pensiamo ai rapporti tra superiori e fedeli sudditi negli istituti di vita consacrata e nelle Società di vita apostolica, tra superiori e candidati al sacerdozio nei seminari, tra parroci e fedeli nelle parrocchie e nelle associazioni. In ogni caso il precetto, Da un lato, travalica la legge o la concretizza in una forma nuova, personale e circostanziata, dall'altro Si attua anche in ambito differente dalla legge, perché si attua in foro interno allo scopo di promuovere efficacemente la santificazione di qualche fedele da parte di chi ne detiene la cura. Il II carattere esterno della legge riguarda la competenza del legislatore.Tale requisito è determinato sia dalla materia che dalla persona. Infatti può legiferare solo chi, in base alla propria autorità, detenga la potestà legislativa, e solo nelle materie e alle persone in essa ricomprese. Occorre Inoltre esistenza di una comunità capace di ricevere la legge. L’attività legislativa non può mai essere rivolta ad un singolo ma deve riferirsi ad una diocesi o a un'istituzione equivalente. L’ultimo elemento estrinseco della legge canonica è la promulgazione. Poichè la legge è un comando generale e obbliga permanentemente i soggetti passivi ai quali è applicata, è necessario che il suo contenuto sia diffuso e reso noto in maniera sufficientemente adeguata affinché essa possa essere osservata correttamente. A partire dal gennaio 1909 la Santa Sede ha modificato la forma di promulgazione delle leggi adeguandosi all'uso della maggior parte degli stati con la creazione di una Gazzetta Ufficiale della Santa Sede, gli Acta Apostolicae Sedis, tuttora in latino. Per leggi canoniche di carattere universale la vacatio legis e di regola di 3 mesi dalla data apposta negli Acta. Al contrario, per le leggi di diritto particolare è lasciato al singolo legislatore la scelta di determinare il modo di promulgazione e cominciano ad obbligare, per la maggiore facilità con cui sono fatte conoscere, dopo un mese dalla pubblicazione, salva diversa disposizione. Considerando i diversi elementi, si può pervenire finalmente ad una definizione estrinseca della legge Canonica come di 1) una prescrizione generale che viene emanata da 2) una autorità ecclesiastica competente, 3) per una cerchia di persone destinate a riceverla e 4) promulgata in modo sufficientemente adeguato. Come conseguenza del principio di adeguatezza della legge per i destinatari fu introdotto lo ius remostrandi da parte della Comunità. La rimostraza comporta la sospensione della legge per la comunità che ha presentato il reclamo; Il papa è obbligato a pronunciarsi e il suo silenzio né implica l'accoglimento. Il ius remostrandi non è dunque una supplica, con la quale si chiede una concessione di grazia, ma un vero e proprio diritto a favore dei soggetti passivi della legge ecclesiastica dinanzi ad un provvedimento inopportuno guardato per la comunità dei fedeli. Non può ricorrere a tale diritto un singolo fedele, ma solo l'ordinario come rappresentante della comunità destinataria della legge. 3. Obbligatorietà ed efficacia della legge canonica. 3.1 I destinatari della legge canonica. - L’obbligatorietà della legge Canonica Dipende dalle sue caratteristiche di diritto Divino o umano. E’ necessario distinguere, quanto all'efficacia, tra: 1. Leggi divine di carattere naturale, che obbligano indistintamente tutti gli uomini; 2. Leggi Divine di diritto positivo, che obbligano tutti i battezzati a prescindere dalla chiesa di appartenenza ( cattolici, protestanti, ortodossi, ecc.); 3. Leggi meramente ecclesiastiche all'osservanza delle quali, secondo il c.11 sono tenuti solo i “battezzati nella chiesa cattolica o in essa accolti” e non gli “acattolici”. 3.2 L’efficacia della legge canonica. - Il diritto canonico regola, inoltre, le particolari condizioni di fatto che influiscono sull’applicazione della legge canonica, e che ne limitano o ne negano l’efficacia nei confronti dei suoi destinatari. Queste condizioni possono riguardare: 1) il luogo ove si trova il fedele; 2) il tempo in cui accade il fatto disciplinato dalla norma; 3) la capacità intellettuale e volitiva del soggetto passivo della legge. Il diritto canonico presuppone la territorialità della legge, che ovviamente ha significato solo con riferimento alle leggi particolari, giacché le leggi universali obbligano tutti i battezzati nella chiesa cattolica. La presunzione di territorialità avviene in rapporto al domicilio e al quasi domicilio. Anche per il diritto canonico vale, in rapporto al tempo in cui si verifica il fatto disciplinato dalla norma, il principio di irretroattività della legge, salvo diversa disposizione legislativa (c. 9). Occorrono tre condizioni cumulative per essere sottoposti alle leggi puramente ecclesiastiche: 1) il battesimo nella chiesa cattolica, 2) un sufficiente uso della ragione, tale da poter percepire, in una certa misura, i valori contenuti nell’obbligazione, 3) Laver compiuto il settimo anno di età (c. 11). In base alla seconda condizione, si presume che i malati mentali non siano soggetti alle leggi ecclesiastiche. Invece l’imputabilità del fedele si presume solo a partire dal compimento dei 16 anni di età (c. 1323, n.1). 3.3. La cessazione della legge canonica o dell’obbligo di essa. - La legge Canonica può accettare, al pari delle leggi civili, prima di tutto, per intervento dell’autorità. Come indica il c.20, il legislatore può abrogare una legge: 1) con la promulgazione di una nuova che revoca in modo espresso la precedente o che, 2) essendo contraria ad essa, la revoca tacitamente, oppure 3) con il riordino dell'intera materia da essa trattata. Lo stesso avviene nel caso di una consuetudine riprovata dal diritto (c. 24). In via eccezionale la legge Canonica, anche se irritante o inabilitante, cessa anche automaticamente, e quindi senza alcuna previsione dell'autorità, nel caso del dubbio di diritto (c. 14a). Vi sono poi cause oggettive o soggettive rispetto alla legge Canonica che ne implicano la perdita del carattere vincolante (il che significa che la sua trasgressione non è punibile). In questi casi non cessa la legge bensì cessa l’obbligo che scaturisce da essa. Questo può venire per un singolo o per diversi destinatari senza contraddire il carattere generale della legge Canonica, per effetto di un atto dell'autorità oppure senza necessità di una previsione legislativa, normativa o applicativa. Nel primo caso rientrano gli istituti di dispensa e del privilegio; sul secondo influiscono tre fattori: 1) l’ignoranza, 2) l’errore, 3) il dubbio e due cause esimenti o scusanti: l’impossibilità e il grave incomodo. 3.4 Leggi irritanti e inabilitanti. - Nella chiesa gli atti contrari alla legge meramente eclesiastica, sebbene illeciti, non necessariamente sono Nulli. Ne deriva che la nullità degli atti contrari alla legge si configura come un'eccezione. Da qui la distinzione, di due specie di leggi canoniche: irritanti e inabilitanti (c. 10). Le leggi irritanti comportano e individuano un atto di forme dalla previsione di legge che, per volontà del legislatore, è anche automaticamente nullo. Le leggi inabilitanti comportano invece l'inefficacia dell'atto perché la legge stessa ha stabilito l'inabilità del soggetto che lo pone in essere. Si tratta di uno strumento legislativo di carattere preventivo e l'eccezionale, diretto a tutelare sia il bene comune della chiesa da eventuali abusi, sia il fine ultimo Della salvezza dei singoli Fedeli. Entrambe le tipologie di leggi possono essere dirette o indirette,a seconda che determinino direttamente la nullità o lo facciano derivare dalla mancanza di requisiti formali. Va Tuttavia osservato che la legge Canonica, in via di principio, non è irritante e che il codice vigente, in ottemperanza al terzo principio di revisione della codificazione del 1917, al limite auto i casi di nullità o di invalidità a quelli veramente necessari in relazione al particolare valore dell'oggetto, del bene pubblico della chiesa e della disciplina ecclesiastica. Il c. 51 §1 stabilisce che nelle leggi irritanti e inabilitanti l'ignoranza e l'errore come cause disobbliganti “non impediscono l'effetto delle medesime” leggi, salvo che non sia previsto espressamente il contrario. 3.5. L’ignoranza, l’errore, il dubbio. - L’ignoranza è la mancanza di conoscenza o di consapevolezza della legge, anche temporanea, mentre l’errore è il possesso di una conoscenza distorta è sbagliata. I due stati soggettivi dell'ignoranza e dell'errore sono considerati insieme, al pari dell' inavvertenza (la mancanza di conoscenza a causa di dimenticanza o disattenzione), in quanto producono gli stessi effetti giuridici. Il diritto canonico non considera inderogabile il principio per cui ignorantia legis non excusat, in virtù del fatto che la rigidità nell'applicazione della legge deve essere sempre moderata e contemperata dal fine ultimo dell'ordinamento. Quindi l’ignorantia legis in qualche caso si può presumere iuris tantum (c.15 §2), in altri casi deve essere provata e, in campo penale, se è colpevole comporta la non punibilità del soggetto che ignorava di violare una norma (c.1323 §2). Tra le cause di supplicanti del soggetto passivo delle leggi si distinguono vari tipi di ignoranza e di errore. Riprendendo il linguaggio antico della teologia morale nel codice si distingue ancora tra ignoranza invincibile e ignoranza vincibile. La prima si ha quando il fedele, pur avendo impiegato tutto l'impegno e il discernimento, Non può essere vinta o schiacciata. Dunque essa è sempre incolpevole. L’ignoranza vincibile si configura diversamente a seconda che il soggetto avverta l'obbligo morale di acquistare la condizione necessaria affinché non si violi la legge, e a seconda che invece non si adoperi per uscire dalla sua condizione. In conclusione: la ragione e la volontà devono giudicare gli atti del fedele; se mancano entrambe per deficienza, il fedele non è ritenuto responsabile, Mentre se all'uso della ragione ma non ha messo in atto 4.3. La ratio boni perficiendi. - Con il concilio Vaticano II si è passati a una visione rivolta all’apprezzamento di quanto l’uomo, come singolo o nelle formazioni sociali, è capace di fare per il bene comune. Il concilio ha consacrato la nuova attitudine della Chiesa verso la società moderna, riconoscendo i valori positivi che essa ha saputo creare accanto ai disvalori e alle contraddizioni che ha generato. Di conseguenza la Chiesa ha anche modificato la priorità dei criteri da adottare nel giudizio sulle azioni umane. È stato affiancato dunque un altro principio, detto della ratio boni perficiendi, vale a dire il motivo del bene da conseguire. Dopo tale concilio si fa appello a tutti gli uomini di buona volontà con la consapevolezza che, accanto all’utilità spirituale dei singoli, ciascuno deve perseguire il bene comune della società, inteso come il complesso delle condizioni della vita sociale che rendono possibile ai singoli come ai gruppi di raggiungere la propria perfezione. Il nuovo asse comune fra la Chiesa e l’umanità è stato individuato nella difesa del valore della dignità umana e dei diritti fondamentali dell’uomo. Sulla base di questi principi, la Chiesa viene a prediligere la funzione pastorale e allarga il suo campo di intervento indiretto alle materie sociali. I fedeli sono chiamati ad estendere la loro attività di apostolato dalla sfera strettamente religiosa a quella sociale. La ratio boni perficiendi non opera, a differenza della ratio peccati, quale criterio formale di giudizio delle situazioni del fedele né si presenta come una nuova forma di giurisdizione di tipo spirituale da parte della Chiesa, anche se comporta un allargamento degli interventi magisteriali in materia sociale. La regola di agire per il bene proietta le responsabilità del cristiano verso una salvezza non solo individuale ma sociale. 4.4. La utilitas ecclesiae. - I canonisti fin dal medioevo hanno elaborato due concetti, la necessitas e l’utilitas, in funzione della flessibilità dell’ordinamento canonico. Il ricorso alla necessitas legittimava il rilassamento della legge canonica a vantaggio del bene dei singoli fedeli; l’utilitas lo legittimava in vista del bene della Chiesa. Già Gregorio VII in un momento critico per la Chiesa dominata dalla simonia e dal concubinato dei chierici, si era avvalso del criterio della utilità della Chiesa (utilitas communis) per impiegare mezzi straordinari al fine di risolvere situazioni di particolare gravità. Nei secoli successivi il papato ha continuato a ricorrere a questo principio per adattare la propria azione di intervento ai mutamenti storici. Dove trova massima importanza il principio dell’utilitas Ecclesiae è nelle modalità di esercizio del primato papale. Il sommo pontefice giudica e determina, secondo le necessità della Chiesa, il modo col quale questa cura deve essere attuata, sia in modo personale, sia in modo collegiale. Lo spirito santo aiuta la Chiesa a conoscere questa necessitas ed il romano pontefice, ascoltando la voce dello spirito nelle chiese, cerca la risposta e la offre quando e come lo ritiene opportuno. 5. Gli istituti della flessibilità canonica. - La legge canonica non può mai essere considerata qualcosa di assoluto. Non vale il principio dell’ordinamento civile secondo cui lo scopo è il rispetto della legge (dura Lex sed Lex). Nell’ordinamento canonico la legge diventa un mezzo in rapporto al fine della salvezza. Il fondamento teologico di questa inversione di posizione della legge risiede nel principio dell’incarnazione, il dogma centrale della fede cristiana. Come Cristo si è fatto uomo per redimere il genere umano, così la Chiesa si deve adattare all’umanità, fatta di persone tra loro diverse per condurla alla salvezza. La varietà umana fa sì che L’ordinamento canonico modelli le proprie leggi sulle persone. 5.1. L’aequitas canonica.- Salvo eccezioni, l’ordinamento canonico introduce un principio generale superiore alla legge, chiamato aequitas canonica, il quale riveste il valore di norma fondamentale di tutto il sistema. Tale principio fonda e riassume tutte le tecniche di flessibilità della legge. È il criterio regolativo Sulla base del quale deve essere posto qualsiasi giudizio ecclesiastico e ogni provvedimento canonico. Il ruolo dell’aequitas canonica consiste: 1) nel rappresentare il modello divino della giustizia e della misericordia applicato all’ambito del diritto; 2) Nel rendere possibile la personalizzazione della norma rispondendo al principio dell’incarnazione; 3) Nel fondare una serie di strumenti o istituti che permettono all’autorità e al giudice ecclesiastico di rendere flessibile l’applicazione della legge canonica. L’equità canonica si basa su un fondamento biblico-teologico che è quello che introduce la dimensione della misericordia accanto a quella della giustizia. Il giudice ecclesiastico o il legislatore ecclesiastico, dunque, non deve applicare la legge il più duramente possibile: la deve applicare con dolce misericordia (misericordia= entrare dentro la situazione del prossimo, capirne la persona, rendersi partecipi degli altri), bisogna applicare la giustizia tenendo conto della dinamica della persona che deve essere giudicata. Si possono distinguere cinque funzioni dell’aequitas nell’ordinamento canonico. 1) presupposto della flessibilità canonica. L’equità canonica va anteposta a tutte le leggi per essere in grado di plasmare la materia dura della fattispecie astratta con cui esse si presentano. 2) Funzione suppletoria. L’equità canonica funge anche come fonte formale del diritto canonico Suppletorio. In quelle cose sulle quali non si trova un espresso diritto, si procede con equità, sempre tendendo alla soluzione più benevola, tenendo conto delle persone, dei motivi, dei tempi e delle circostanze. Dunque, là dove non c’è una legge espressa si applica l’equità canonica. Con la codificazione del diritto canonico i margini di applicazione dell’equità canonica per supplire nelle lacune del diritto sono stati ridimensionati, anche se resta richiamato tale principio. 3) Funzione correttiva. Quando l’applicazione di una legge al caso concreto comporti conseguenze nocive, essa può essere corretta dall’equità canonica, in vista del bene delle anime, e per evitare un male peggiore. 4) Funzione applicativa. L’equità canonica implica la valutazione degli elementi di fatto o di diritto presenti nel caso concreto, allo scopo di assumere una decisione consona, cioè corrispondente alla salvezza dell’anima. 5) Funzione evolutiva. L’equità canonica può operare anche in funzione di aggiornamento del diritto canonico. 5.2. La dispensa. - La dispensa si ispira al concetto di flessibilità dell’ordinamento canonico e consiste nell’esonero dall’osservanza di una legge puramente ecclesiastica in un caso particolare; può essere concessa da coloro che godono di potestà esecutiva entro i limiti della loro competenza oppure dai soggetti che hanno tale potestà in forza di una delega legittima. La dispensa ha natura amministrativa (non è un atto di deroga o abrogazione). 5.3. Il privilegio. - Nel diritto canonico il privilegio è una grazia in favore di determinate persone, sia fisiche sia giuridiche, accordata per mezzo di un atto peculiare. La sua natura sembra essere quella di un atto amministrativo ma in realtà ha un’indole legislativa, quella di una legge privata concessa con un’intenzione benevola. Consiste nell’attribuzione di una situazione favorevole o Più favorevole in rapporto a quanto fissato dal diritto comune. Può essere concesso dal legislatore, o dall’autorità esecutiva a cui il legislatore abbia conferito tale potestà. Può essere personale, se è concesso direttamente a persone fisiche o morali; reale o locale se concesso all’ufficio, dignità o ad un luogo. Dopo il Vaticano II Il privilegio deve concorrere al bene comune della Chiesa in situazioni nelle quali sia difficile o impossibile ricorrere a norme generali. 5.4. La dissimulazione e la tolleranza. - Questi due istituti nascono dalla necessità della Chiesa di far fronte a situazioni di palese e diffusa inosservanza di una legge canonica. L’autorità ecclesiastica non reagisce sempre allo stesso modo verso i delitti: in alcuni casi li reprime con apposite pene, ma in altri li affronta tollerandoli o dissimulandoli. L’autorità ecclesiastica compie tali scelte per la ragione fondamentale che tollerare i mali può ovviare in taluni casi alla possibile insorgenza di mali ancora peggiori. I criteri che ispirano tali istituti sono principalmente quelli della diversità di luogo e di tempo. Una legge del Romano pontefice può avere una diversa efficacia, a seconda dei diversissimi territori interessati; pratiche disciplinari un tempo tollerate possono essere successivamente vietate in relazione alle esigenze del bene spirituale dei fedeli e/o all’utilità e al bene comune della Chiesa. La dissimulazione comporta una finta ignoranza, un mostrare di ignorare per astenersi da sanzioni, ma non dà mai luogo ad un diritto. Ha un carattere provvisorio. La dissimulazione non viene resa nota dall’autorità ecclesiastica, può riguardare anche leggi del diritto naturale e non lo scusa nella coscienza. La tolleranza presuppone la cognizione dei comportamenti tollerati e attribuisce ai soggetti un diritto di persistere in tali atti. È una regolamentazione in linea di massima definitiva, che alla medesima pubblicità della legge. La tolleranza non può estendersi al diritto naturale e scusa nella coscienza. Nella dissimulazione l’atto è, e rimane, antigiuridico; avviene successivamente all’atto antigiuridico e non dà un diritto. Con la dispensa, che normalmente precede l’atto, la Chiesa sospende l’efficacia di una norma in rapporto a casi specifici e concede un diritto ma il suo oggetto non può intaccare il diritto divino naturale. CAPITOLO VII LA CHIESA REALTÀ COMPLESSA 1. I mutamenti dal Vaticano I al Vaticano II. - Il concilio Vaticano II È considerato un fatto storico di enorme importanza, che ha influito su una molteplicità di aspetti.dal punto di vista della storia dei concili ecumenici, È stato il 21º e quello che ha visto il numero più alto di partecipanti. La decisione di convocare il concilio viene presa dal Papa Giovanni XXIII nel 1959. L’idea di fondo è quella di aggiornare il patrimonio sempre costante della fede cristiana con una presentazione della sua forma in senso pastorale. Nessun nuovo dogma, nessuna condanna, ma dialogo della Chiesa con le esigenze e le aspirazioni dell’uomo moderno. Il concilio Vaticano I aveva proclamato due dogmi. Il primo definisce il primato assoluto del vescovo di Roma su tutte le chiese e la qualificazione del suo potere come supremo, immediato, pieno e universale. Il Papa rappresentava l’apice di una piramide gerarchica che aveva i fedeli laici alla base. L’altro dogma proclama l’infallibilità del Papa, un privilegio che impedisce a quest’ultimo di errare grazie all’assistenza dello spirito Santo alla Chiesa e al suo capo. L’infallibilità del Papa è però circoscritta sia dall’ambito della verità di fede e di morale, sia dalla formalità di parlare in modo ufficiale dalla cattedra di San Pietro per proclamare un dogma. A fianco di questo magistero straordinario, esiste il magistero ordinario che si esprime nelle encicliche, negli altri documenti e discorsi ufficiali del Papa e dei vescovi, che implica un religioso ossequio da parte dei fedeli. Per capire le affermazioni del Vaticano I è essenziale collegarle con il Syllabus, un elenco degli errori moderni condannati dalla Chiesa. Dal rifiuto di principi filosofici e politici, il Syllabus derivava tali conclusioni: 1) L’idea dello Stato confessionale, per cui il cattolicesimo doveva essere l’unica religione possibile dello Stato; 2) La negazione della libertà religiosa, per cui le altre religioni non dovevano essere permesse dallo Stato, ma solo tollerate; 3) Il rifiuto della libertà di coscienza, per cui le coscienze si devono adeguare al magistero della Chiesa e obbedire alla gerarchia nei diversi campi in cui esso si esplica. Con il Vaticano II si passa da una concezione verticistica della Chiesa ad una concezione in senso orizzontale: i fedeli di Cristo, distinti nei diversi stadi di vita e nelle funzioni loro proprie, sono posti al centro del popolo di Dio. Il Papa i vescovi sono chiamati a servire e non a dominare i fedeli. Si passa da una concezione della chiesa dove tutti i poteri sono accentrati nella Chiesa di Roma, a una concezione della Chiesa universale che si costituisce in rapporto con le chiese particolari. Inoltre cambia il rapporto tra la Chiesa e il mondo moderno, oggetto di uno dei principali documenti del Vaticano II, la costituzione Gaudium et spes. Da un atteggiamento negativo verso il mondo moderno, si passa ad affermare che la Chiesa apprende dall’umanità e dalla storia. Si ammette che la vita della Chiesa sia profondamente segnata dalla presenza del peccato nei suoi uomini. Inoltre si valuta in termini positivi la democrazia partecipativa e la realtà degli Stati costituzionali, affermando, per la prima volta nella chiesa, il valore della libertà deliziosa anche per i non cristiani e ammettendo la presenza di germi di verità nelle altre religioni. Con questo documento la Chiesa si apre alla collaborazione con le altre religioni. Infine, il Vaticano II ammette e tutela la legittima autonomia delle realtà temporali. 2. La Chiesa e le chiese: il movimento ecumenico. - L’ultimo concilio ecumenico in ordine di tempo è anche il primo che si è proposto il ristabilimento dell’unità dei cristiani, divisi in tante chiese e confessioni. La Chiesa ha sempre considerato errata tanto l’opinione che Cristo abbia fondato più comunità ecclesiastiche aventi parità o diversità di diritti, quanto l’opinione che essa sia formata da diversi gruppi parziali la cui somma formerebbe la cristianità. Al contrario Cristo ha pregato per l’unità organica della Chiesa e gli apostoli hanno affermato con la massima decisione la necessità della integrità della fede. Con il Vaticano II, mentre prima si proclamava che fuori della Chiesa non vi è salvezza, si riconosce che nelle altre chiese e nelle comunità ecclesiali, tutte separate dalla Chiesa cattolica, sussistono elementi fondamentali di verità e di santificazione che rendono possibile stabilire diversi gradi e livelli di appartenenza all’unica chiesa per accedere in via ordinaria ai beni della grazia divina e della salvezza. E da questo principio teologico derivano diverse ripercussioni giuridiche. Intanto L’identificazione nel sacramento del battesimo del basamento comune su cui edificare il principio della comunione, sebbene imperfetta, con la Chiesa cattolica. Ogni fedele che ha ricevuto validamente il battesimo diventa titolare di diritti e di doveri. Inoltre lo svincolo amento dei battezzati fuori della Chiesa cattolica dalla soggezione alle leggi puramente ecclesiastiche in forza del fatto che essi non sono pienamente incorporati in essa. In terzo luogo un diverso modo di regolare il rapporto con le altre chiese a seconda del grado di condivisione dei tre elementi connotanti l’appartenenza alla Chiesa cattolica (professione di fede, medesimi sacramenti, rispetto del governo ecclesiastico). L’ultima implicazione dei gradi di appartenenza alla Chiesa concerne il tema della communicatio in sacris, vale a dire della disciplina intesa a regolare l’accesso ai sacramenti da parte dei fedeli appartenenti a chiese non cattoliche. Se la piena comunione con la Chiesa cattolica è giudicato dal Vaticano II un requisito esterno necessario, tuttavia resta pur sempre un fattore relativo ai fini della pena incorporazione nella chiesa di Dio ossia all’appartenenza alla salvezza. A questo scopo è necessario che il fedele perseveri nella carità e mantenga l’apertura interiore all’azione dello spirito Santo. La conclusione che se ne trae è che occorre distinguere l’aspetto giuridico e l’aspetto mistico dell’appartenenza alla Chiesa. 5.8. Governo gerarchico-sinodale. - Tali elementi sembrano contrapporsi ma in concreto si intersecano e si completano nella realtà complessa della Chiesa. Dà un lato abbiamo il potere gerarchico che rinvia a un fondamento di origine divina, dall’altro abbiamo la struttura si morale-collegiale che rinvia rispettivamente a un cammino comune e alle modalità si modali delle decisioni da parte di membri del collegio. Mi segue di ogni riduzione della costituzione della Chiesa all’uno o all’altra dimensione conosce verso una visione unilaterale di essa. 6. Le funzioni di santificare, insegnare e governare. - Il Vaticano II ha proceduto anche a reinquadrare le funzioni pubbliche esercitate dalla Chiesa. La Chiesa ha ricevuto da Cristo tre funzioni corrispondenti al suo triplice ufficio di santificare, insegnare e governare. La funzione di insegnare deriva dalla missione di custodire fedelmente e approfondire il deposito della fede vale a dire le verità rivelate per la salvezza. Da qui il dovere e il diritto della Chiesa di annunciare queste verità di fede come anche i principi morali relativi all’ordine sociale, senza condizionamenti da parte dei poteri umani e con i mezzi che essa ritiene più opportuni. Tale funzione spetta a tutti i fedeli che partecipano della funzione profetica di Cristo e quindi hanno il diritto-dovere di ricevere e di professare la verità di fede. Destinatari dell’insegnamento della Chiesa sono tutti gli uomini. La funzione di santificare, chi è prima di tutto un rendimento di lode e di gloria Dio, si esplica in modo peculiare nella liturgia o culto pubblico integrale il quale si realizza con riti approvati dall’autorità della Chiesa, in presenza della comunità dei fedeli: celebrazione dei sacramenti e dei sacramentali. L’opera di santificazione comprende l’intera attività del fedele. Soggetti di questa funzione sono ancora tutti i fedeli secondo la condizione, funzione il ministero di ciascuno. La funzione di governare nella Chiesa concerne un potere esercitato in modo autoritativo per fini spirituali nei riguardi dei fedeli i quali devono obbedienza verso i legittimi pastori. 7. I soggetti giuridici: persone fisiche e persone giuridiche. - Nel codice del 1983 si parla della persona, aggiungendo la specificazione dei diritti e dei doveri che competono ai cristiani, tenuto presente la loro condizione di laici, chierici e consacrati (ovvero ai fedeli).l’assunzione della nozione sostanziale di persona non risolve legislativamente la questione se ogni essere umano sia soggetto dell’ordinamento canonico, anche se il nuovo codice attribuisce ai non battezzati una maggiore capacità di agire in giudizio. Si sono sviluppate al riguardo due soluzioni dottrinali: la prima Che fa discendere posizioni giuridiche soggettive sono dal battesimo o perlomeno ordinata adesso, condizionate dall’appartenenza e dalle posizioni rivestite dal fedele nella Chiesa; la seconda che riconosce ad ogni uomo, anche solo concepito, una posizione e capacità giuridica derivante dal diritto divino naturale e dalla missione universale disabilità della Chiesa. 7.1 Le persone fisiche. - La capacità di agire delle persone fisiche nella chiesa è condizionata da vari fattori. Si diviene maggiorenni al compimento dei 18 anni, e da quel momento la capacità di agire è piena, eccetto nei casi di leggi inabilitanti. Il luogo di origine può essere differente da quello della nascita fisica ed è determinato dal domicilio comune dei genitori o da quello della madre. Il domicilio indica la residenza stabile o in una parrocchia o in una diocesi, e può essere volontario o legale. Il quasi-domicilio si acquista alle stesse condizioni di fatto ed intenzione, ma per un periodo di tempo minimo di tre mesi.il diritto canonico ammette la possibilità di più domicili e quasi-domicili in luoghi diversi per tre mesi all’anno, con l’effetto di avere più parroci e vescovi i propri. I vincoli familiari, che hanno un ruolo decisivo in materia di impedimenti matrimoniali, sono di tre tipi: 1) consanguineità tra persone che discendono dallo stesso capostipite in linea retta o il linea con laterale; 2) Affinità con i parenti del coniuge; 3) Adozione secondo la legge civile che produce l’equiparazione ai figli naturali. Il rito di appartenenza alla Chiesa latina o alle chiese orientali, ha un carattere personale e non territoriale, ed è determinato dal battesimo. Se questo è ricevuto prima dei 14 anni, il rito adottato è quello dei genitori. Se uno dei due genitori non è di rito latino è richiesto il comune accordo per la scelta di esso; in caso di disaccordo vale il rito di appartenenza del padre. 7.2. Le persone giuridiche. - Nell’ordinamento canonico sono presenti enti a base personale o patrimoniale. Ogni persona agisce non solo come individuo, ma in relazione con gli altri con cui si associa per dare vita a un soggetto che ha una propria autonomia. Questi aggregati sociali personificati hanno rivestito una particolare rilevanza nella storia del diritto canonico. Nell’ottocento alcuni grandi giuristi hanno attribuito a Innocenzo IV L’invenzione della teoria della personalità giuridica, che in realtà è stata sviluppata dalla dottrina successiva, non solo canonistica. Il codice vigente distingue due tipi di persone giuridiche sulla base del loro modo di essere o del modo di agire. 1) Per il primo tipo riprende la distinzione della tradizione canonica medievale fra due tipi di persone giuridiche: universitates personarum a base personale (corporazioni) e universitates rerum a base reale, destinate al perseguimento di un determinato fine (fondazioni, istituzioni). Le prime, formate da almeno tre persone, rispetto al modo di esercizio dell’ente possono essere collegiali (perché prevedono il concorso di tutti nell’assunzione di decisioni), oppure non collegiali (perché non vi è alcun concorso nelle decisioni da parte dei membri ma solo delle persone legittimamente competenti).le seconde, formate da un complesso di beni materiali o anche spirituali, sono fondazioni autonome che, una volta costituite in persone giuridiche, possono essere governate da uno o più persone fisiche o anche da un’altra persona giuridica a base personale. 2) La seconda distinzione verte sulle persone giuridiche pubbliche e private. Un’eccezione è la persona morale, tali soggetti, di derivazione divina, rappresentano una realtà istituzionale precedente all’ordinamento stesso e quindi possiedono soggettività per la loro stessa natura. Le persone giuridiche di diritto pubblico sono costituite dalla competente autorità ecclesiastica a norma di diritto per conseguire un fine connesso alla missione istituzionale della Chiesa. Svolgono la loro attività a nome della Chiesa per guidare la comunità in vista del bene pubblico. Le persone giuridiche pubbliche possono essere costituite ipso iure e o per decreto dell’autorità competente, mentre quelle private solo per decreto che ne fissa l’ammissione.quelle pubbliche possono essere disciplinate dal diritto universale o particolare o da uno statuto, mentre quelle private sono regolate solo dagli statuti. Quelle pubbliche impegnano nella loro azione l’istituzione ecclesiastica, quelle private agiscono in nome proprio e sotto l’esclusiva responsabilità dei loro membri. Quelle pubbliche agiscono sotto il controllo dell’autorità competente che le ha erette E i loro beni sono qualificati ecclesiastici e vengono regolati dal codice e dei loro statuti, mentre i beni di quelle private sono regolati solo dei loro statuti. Elemento comune è lo svolgimento della loro attività negli ambiti delle opere di pietà, di apostolato o di carità spirituale o temporale. 7.3. L’autonomia privata. - Adesso viene riconosciuto l’ambito dell’autonomia privata mediante la possibilità dei fedeli di porre in essere fra loro patti normativi regolati da determinate norme tipiche, quali gli statuti delle associazioni a base personale e le fondazioni. I fedeli laici Per loro libera iniziativa possono fondare associazioni e determinarne il fine; inoltre, possono darsi norme canoniche, anche se si richiede in tal caso un intervento graduato dell’autorità ecclesiastica competente ai fini del loro riconoscimento. Nel codice vigente si instaura un parallelismo tra il fenomeno della personalità giuridica e il fenomeno dell’associazionismo. Le associazioni private sono istituite mediante un privato accordo fra i fedeli, sono dirette e precedute da loro stessi secondo le disposizioni dei singoli statuti, restano private anche se raccomandate o approvate ai fini dell’ottenimento della personalità giuridica canonica privata dell’autorità ecclesiastica. Nel caso in cui non intendano ottenere la personalità giuridica vale per esse una speciale disciplina rivolta a responsabilizzare I suoi membri consociati. In ogni caso i beni ecclesiastici di queste associazioni private restano assoggettati alla normativa statutaria. Le associazioni pubbliche di fedeli sono erette dalla autorità ecclesiastica, agiscono sotto l’alta direzione di essa e sono sempre costituite persona giuridica pubblica. Il loro scopo è di perseguire fini riservati all’autorità ecclesiastica. 8. Diritti e doveri comuni dei fedeli. - Il riconoscimento dello statuto giuridico comune dei fedeli è una novità del Vaticano II. Vi sono varie differenze tra i diritti dei cittadini nello Stato democratico e costituzionale e quelli dei fedeli nella Chiesa. 1) Nello Stato costituzionale i diritti preesistono e per questo possono definirsi anche originari, perché inseriscono alla persona e nascono con la cittadinanza variamente regolata per legge; nella chiesa i diritti sono attribuiti tramite il battesimo e quindi derivati. 2) Nello Stato costituzionale la preesistenza dei diritti fa sì che essi siano irrinunciabili e abbiano un valore assoluto; nella Chiesa questi diritti sono rinunciabile e possono anche essere limitati o sospesi, in vista di un bene spirituale considerato assoluto e superiore. 3) Nello Stato costituzionale i diritti dei cittadini sono indipendenti da alcun obbligo corrispettivo; nella chiesa invece i diritti sono sempre correlativi, cioè legati ai doveri. 4) Nello Stato costituzionale i diritti sono fini a se stessi; nella chiesa sono comunque legati al bene della Chiesa, oltre che ai diritti degli altri fedeli e ai doveri verso gli altri. 5) Nello Stato i diritti sono sovrani, mentre nella Chiesa i diritti dei fedeli sono moderati dalla Chiesa. Dunque ciascun fedele non può rivendicare per sé in modo assoluto questi diritti e doveri. Sono piuttosto diritti e doveri tra loro correlativi fissati in funzione dell’attuazione piena da parte di ciascun fedele della propria funzione della Chiesa. La differenza sostanziale fra gli ordinamenti democratici e l’ordinamento canonico e data non solo dalla correlatività quanto dalla Preminenza dei doveri rispetto ai diritti.nella prospettiva della salvezza, cui tende la norma canonica, dovere primario del fedele e mantenere la comunione con la Chiesa, mediatrice di salvezza, restare fedeli alla verità e condurre una vita santa, realizzare la quale ogni fedele hai il dovere di usufruire dei beni spirituali della parola di Dio e dei sacramenti. Preminenza dei doveri rispetto ai diritti.nella prospettiva della salvezza, cui tende la norma canonica, dovere primario del fedele e mantenere la comunione con la Chiesa, mediatrice di salvezza, restare fedeli alla verità e condurre una vita santa, per realizzare la quale ogni fedele ha il dovere di usufruire dei beni spirituali della parola di Dio e dei sacramenti. I diritti dei fedeli che sono strettamente collegati alla salvezza del fedele e alla missione della Chiesa, si possono inquadrare all’interno dei tria mùnera. 1) in rapporto al munus sanctificandi di tutti i fedeli troviamo sanciti tali diritti: - ricevere i sacramenti e la parola di Dio che è il diritto supremo dei fedeli e che presuppone la comunione con la Chiesa; - Partecipare alla liturgia secondo il proprio rito; - Scelta del metodo di vita spirituale; - Libera scelta dello stato di vita. 2) in rapporto al munus regendi nella Chiesa sono indicati i diritti di: - promuovere e sostenere l’apostolato, vale a dire l’annuncio del Vangelo con proprie iniziative concrete e anche senza il riconoscimento ufficiale dell’autorità competente; - Libertà di associazione: fondare, aderire e dirigere liberamente associazioni private che si propongono fini di carità o di pietà oppure l’incremento della vocazione cristiana nel mondo (non è necessario che l’associazione assuma la qualifica di associazione cattolica). - Manifestare ai sacri pastori e rendere noto agli altri fedeli il proprio pensiero sul bene della Chiesa in modo proporzionato alla scienza, alla competenza e al prestigio di cui godono, salvo una serie di limitazioni (integrità dei costumi, rispetto verso i pastori, ecc.) 3) In rapporto alla munus docendi troviamo il diritto di: - ricevere una educazione cristiana; - Godere della giusta libertà di ricerca nelle scienze sacre che comprende anche la libertà di manifestare con prudenza il loro pensiero su ciò di cui sono esperti, conservando il dovuto rispetto nei confronti del magistero della Chiesa. - Presentare le proprie necessità spirituali alla gerarchia. Si afferma il diritto di petizione dei fedeli singoli, ossia di presentare istanze ai pastori della Chiesa circa i bisogni e desideri per migliorare ed elevare la propria vita di fede e quella della Chiesa che appartengono. Tra i diritti dei fedeli va compresa anche la libertà nelle materie temporali. Diversi canonisti poi hanno opportunamente avanzato l’idea che il diritto al buon governo sia un diritto fondamentale del fedele. Infine, l’elenco dei diritti citato dal codice è palesemente incompleto, sia perché altrove si fa riferimento ad altri diritti, sia perché questi sono diritti e doveri comuni, cui fanno seguito diritti e doveri particolari relativi allo stato di vita o condizione canonica. Mancano elementi di protezione tanto per la tutela dei diritti, quanto per favorire un effettivo esercizio e sviluppo degli stessi. CAPITOLO VIII GLI STATI DI VITA DEL CRISTIANO E IL MATRIMONIO Il tema degli stadi di vita il diritto canonico richiama una determinata concezione dell’esistenza umana. La visione cristiana della persona insiste sulla sua natura di creatura e quindi sull’importanza del suo rapporto di dipendenza da Dio e dagli altri. Tale visione sostiene l’idea di vocazione cioè di una chiamata che presuppone un atto elettivo proveniente dall’amore di Dio, e quindi vede la vita come un dono che esige una risposta da parte dell’uomo. Perciò il cristianesimo considera ogni creatura umana qualcosa di unico e la vita come una risposta alla chiamata divina per sviluppare i doni naturali, che gli sono stati dati con l’aiuto della grazia divina. Questa chiamata si esplicita, dopo il battesimo e la confermazione, nella scelta dello stato di vita e nell’impegno a imitare la perfezione di Cristo inteso anche quale modello di umanità. 1. Gli stati di vita. - Strettamente connessa con quella personale è la dimensione sociale della vocazione. Tutti i fedeli, in quanto membri del corpo di Cristo, con i loro diversi carismi vivono in un rapporto organico gli uni con gli altri. Ma ciascuno in una condizione stabile, o status, cioè la posizione giuridica del singolo individuo. Il processo storico che ha condotto alla configurazione attuale degli stati di vita nella chiesa è stato lungo e complesso. In sostanza, dal VI al XII secolo Si passa da una concezione della Chiesa organizzata secondo compiti e funzioni a un’altra organizzata secondo una stratificazione di status e ordines. Tommaso d’Aquino distingue fra status inteso quale condizioni personali permanente, causa e fonte di determinati diritti e doveri per diritto divino e umano, e ordo inteso come il complesso degli strati sociali che formano una società. Solo nel 1947, con Pio XII, viene giuridicamente riconosciuta la possibilità che anche i laici possano consacrarsi a Dio al pari dei religiosi nei nuovi istituti secolari. Questa diversità di stati di vita un’articolazione ineguale di funzioni, la struttura della Chiesa prevede una forma di vita che ha un carattere carismatico, perché proviene da impulsi dello spirito Santo (vita consacrata). La Chiesa si deve impegnare a fornire tutela giuridica del carisma degli istituti di vita consacrata. L’autorità ecclesiastica non può né modificare gli elementi fondamentali né ordinare alcunché che vada contro le loro costituzioni. Da qui il riconoscimento per gli istituti religiosi del diritto a una giusta Autonomia di vita, specialmente di governo, mediante la quale abbiano nella Chiesa una propria disciplina e possano conservare integro il proprio patrimonio. Lo stato di vita consacrata è contraddistinto da una particolare modalità di esistenza cristiana, che consiste nella scelta di una forma di vita il più possibile conforme a quella di Cristo. Si tratta dell’imitatio Christi mediante la pratica dei tre consigli evangelici della povertà, castità e obbedienza. Non si tratta né di leggi né di precetti, ma di una risposta autonoma e personale all’invito del Vangelo. Per entrare in questo stato di vita si deve seguire la forma giuridica richiesta. È necessario l’impegno solenne assunto di osservarli stabilmente, adeguandosi in tutto alle costituzioni dell’istituto medesimo. Il diritto interviene solamente in funzione protettiva e conservativa del carisma. La funzione dei tributi è quella di produrre nella volontà un vincolo Permanente e quasi abituale. Ne viene che, nella vita consacrata, i precetti legali si trasformano in precetti vitali E la regola si identifica con la forma di vita dettata dal fondatore. Per la Chiesa la vita consacrata assume il valore della testimonianza escatologica: se vissuta autenticamente, vuole anticipare su questa terra quella perfezione umana che è riservata nel regno di Dio, per la gioia di vivere e imitare l’amore di Dio, non per un senso elevato del sacrificio e della rinuncia. La pratica della castità non è interpretata come la privazione di un diritto e di un bene umano bensì come un dono dello spirito in vista della dedizione senza limiti al prossimo. Il consiglio della povertà evangelica presuppone una povertà di spirito che ti conosce Dio datore di ogni bene: la sua pratica dovrebbe stimolare nel consacrato un impegno a favore della solidarietà, della giustizia e dei poveri. Infine, l’obbedienza evangelica implica spirito di dedizione e servizio ai compiti fissati dei superiori, e non è da confondere con il servilismo verso l’autorità. 4.2. La professione religiosa e i suoi effetti giuridici. - La professione religiosa è l’atto pubblico con cui un fedele abile si impegna nelle mani del superiore dell’istituto di vita consacrata, dove il candidato intende entrare davanti a Dio e alla Chiesa, a consacrarsi a Dio. Essa è costituita da tre elementi inseparabili e conseguenziali quali: 1) L’emissione dei voti pubblici; 2) La consacrazione a Dio mediante la Chiesa; 3) L’incorporazione nell’istituto. L’assunzione dei tre consigli evangelici avviene mediante una Promessa deliberata e libera fatta addio chiamata voto. Il diritto canonico riprende il significato biblico di voto quale consacrazione di una persona addio e lo qualifica, insieme con il giuramento, come uno degli atti di culto ossia come un modo attraverso il quale una persona riconosce interiormente la superiorità e la sovranità di Dio e accetta pure il compimento della sua volontà. Il voto deve avere per oggetto un bene effettivamente raggiungibile, in quanto proporzionato alle capacità morali e fisiche della persona, e più alto rispetto a quel che si è o si ha. Il voto può essere: 1) pubblico, sia accettato dal legittimo superiore il nome della Chiesa e indipendentemente dalla sua emissione in pubblico, altrimenti è privato; 2) Solenne o semplice, a seconda che abbia effetti inabilitanti o invalidanti (ma il codice vigente ha ormai assimilato questi due tipi); 3) Personale o reale, secondo l’oggetto della promessa. L’emissione dei voti pubblici indica non solo la donazione del fedele a Dio per il servizio della Chiesa e per la redenzione del mondo davanti al legittimo superiore ma anche la sua incorporazione nell’istituto. Il consacrato assume anche tutti i diritti e i doveri corrispondenti e al tempo stesso si sottopone all’obbedienza della gerarchia. Tra il consacrato e l’istituto si viene a creare una sorta di contratto sinallagmatico. Da una parte l’istituto all’obbligo di fornire ai membri i mezzi materiali e spirituali necessari per vivere in modo congruo e poter espletare il proprio ministero, nonché garantire ad essi l’assistenza e le cure sanitarie necessarie. Dall’altra il membro trasferisce ad esso i frutti del proprio lavoro o industriosità, nonché i beni acquisiti a titolo di pensione, assicurazione e sussidio, tutti beni che diventano ecclesiastici. Il voto di povertà ha svariati effetti giuridici. Con esso il consacrato non perde la proprietà dei beni ma si autolimita a goderne solo l’uso o l’usufrutto in dipendenza dai superiori. Dopo la professione perpetua gli è fatto obbligo altresì di redigere il testamento in forma civilmente valida. Norme più stringenti valgono per i consacrati che fanno voti perpetui e per quelli che li emettono in un istituto religioso che, per sua natura, richiede la rinuncia totale ai propri beni. 4.3 Le tipologie dello stato di vita consacrata. - Gli ordini religiosi si sono andati differenziando nella storia, a seconda del carisma del loro fondatore, delle esigenze della testimonianza cristiana e dei bisogni della Chiesa. Il codice vigente riordina la materia introducendo una triplice classificazione all’interno degli istituti di vita consacrata: 1) istituti religiosi, i cui fedeli e mettono la professione dei voti di obbedienza, di povertà e di castità in forma pubblica e hanno l’obbligo di condurre vita fraterna in comunità separate dal mondo secolare. 2) Istituti secolari, i cui fedeli non cambiano la condizione canonica di laico o di chierico, si impegnano a osservare i consigli evangelici con voti privati, non hanno obbligo di vita comune, si impegnano nell’attività apostolica a seconda della loro condizione. 3) Le società di vita apostolica formate da fedeli che, senza voti religiosi perseguono il fine apostolico loro proprio e conducono vita fraterna in comunità.in esse ognuno fa la sua professione secondo le costituzioni delle società, che determinano di volta in volta il grado di impegno nel rispettare i consigli evangelici. Possono essere di genere maschile o femminile, clericale o laicale. La differenza fra i tre istituti è nella graduazione nell’impegno della professione, del rispetto dei voti e dei generi di vita. 5. Il matrimonio canonico. - I modi di concepire l’essenza e la natura del matrimonio variano a seconda delle religioni e della civiltà. Il cristianesimo concepisce il matrimonio come una libera scelta fra l’uomo e la donna posti sullo stesso pari e, al tempo stesso, una condizione laica di vivere la grazia divina. Fondata dal creatore e dotata di leggi proprie, l’intima Comunità di vita e di amore coniugale si stabilisce attraverso il patto coniugale cioè con Irrevocabile consenso coniugale. Questo vincolo sacro ordinato al bene dei coniugi, dei figli e della società stessa non dipende dall’arbitrio umano perché è Dio stesso è l’autore del matrimonio che è dotato di molteplici beni e fini; questi sono i principi del matrimonio canonico. 5.1. La duplice natura. - Il primo problema è quello della natura del matrimonio. La Chiesa ritiene che il matrimonio sia un patto o contratto naturale (connaturato all’uomo e alla donna) intuibile e comprensibile da tutti, se contratto validamente, nei battezzati diviene Sacramento senza mutare gli elementi e la struttura che lo formano. L’aspetto sacramentale non aggiunge nulla alla sostanza dell’atto e del rapporto matrimoniale; I battezzati apri la via a un aiuto ulteriore della grazia divina per accrescere di una peculiare stabilità le proprietà essenziali del matrimonio. Quindi i non battezzati che si sposano per la Chiesa stabiliscono fra loro un vincolo sacro; i battezzati che contraggono matrimonio beneficiano anche del supplemento della grazia che rafforza il matrimonio soprattutto quanto alla unità e indissolubilità. Perciò nel matrimonio diritto naturale diritto divino positivo si intersecano e si fondono in un tutt’uno. 5.2. La definizione. - Il codice attuale afferma che “il patto matrimoniale con cui l’uomo e la donna stabiliscono tra loro la comunità di tutta la vita, per sua natura ordinata al bene dei coniugi e alla procreazione ed educazione della prole, tra i battezzati è stato elevato da Cristo signore alla dignità di sacramento” (c. 1055). Con il concilio la visione contrattualistica è, se non è esclusa, almeno superata. La maturazione della visione personalistiche (ossia della concezione del matrimonio come impegno personale dei coniugi scaturenti da un comune e solidale progetto di vita) è stata anche una reazione alla manualistica e alla giurisprudenza rotale che aveva puntato tutto sul profilo giuridico-contrattualistica del matrimonio, e ne aveva fatto una sorta di scambio di corpi fra i due coniugi in vista della procreazione ed educazione della prole. Il c. 1055 s’inizia con riferimento al patto matrimoniale (matrimoniale foedus) posto al centro della concezione del matrimonio. Il matrimonio è inteso dunque come un patto o promessa che si attua e si perfeziona tra l’uomo e la donna e che esige una relazione di fedeltà e di unicità come la fede in Dio. Per la Chiesa l’unione degli animi, l’affetto reciproco, l’amore sono requisiti necessari per accedere al matrimonio, ma non costituiscono l’essenza del matrimonio sia perché non sono elementi o fattori giuridicamente qualificabili, sia perché non impegnano la volontà dei coniugi di restare reciprocamente fedeli.solo l’incontro fra le volontà dei nubendi E il consenso irrevocabile che essi si scambiano formano l’essenza del matrimonio. Il consortium totius vitae (comunità di tutta la vita) rappresenta il rapporto continuativo dell’atto matrimoniale posto in essere dal patto. Il matrimonio nasce dalla decisione presa a monte di voler costruire un progetto comune. Consortium vuol dire partecipare insieme alla stessa sorte, non solo alla stessa vita, perché la vita è imprevedibile. Questo significato deriva dal diritto romano: il matrimonio è uno dei consorzi attraverso i quali si partecipa ad un qualcosa di comune. Il totius vitae va inteso nel duplice senso temporale e specificativo: presuppone l’accettazione e la condivisione dei vari aspetti della personalità del coniuge. Per la Chiesa cattolica il matrimonio è inscindibile dalla famiglia, la quale presuppone un progetto comune di vita fondato su una relazione triadica (i due partner, i figli, le relazioni della famiglia con la società). 5.3. I fini. - A proposito del problema dei fini, il primo codice introduceva una gerarchia di scopi: fine primario la procreazione e l’educazione della prole; fine secondario il rimedio per l’attrazione sessuale, e il reciproco aiuto. Nel codice vigente c’è l’aggiunta di un nuovo elemento: il bene dei coniugi. Esso viene equiparato ai fini considerati primari. 5.4. L’oggetto del consenso. - L’oggetto del consenso matrimoniale consiste nella donazione reciproca di se stessi. Se non vi fosse l’apertura alla procreazione verrebbe meno uno dei fini essenziali del matrimonio: i canonisti tuttavia affermano che, anche senza figli, il matrimonio resta valido. La donazione reciproca non però limitata alla finalità procreativa, ma anche al diritto della comunione di vita dei coniugi in ogni suo aspetto. 5.5. Le proprietà. - Le leggi proprie del matrimonio fanno riferimento a due proprietà essenziali: unità e l’indissolubilità. Con l’unità si intende il carattere esclusivo e unico del rapporto che si pone in essere fra il marito e la moglie: si vogliono negare sia la poligamia, sia la poliandria. Con l’indissolubilità si afferma la permanenza del vincolo matrimoniale che può cessare solo con la morte di uno dei due coniugi. Entrambe queste proprietà sono considerate dalla Chiesa di diritto divino naturale. 5.6. Il sistema matrimoniale. - Tutto l’edificio del diritto canonico tre colonne portanti: la capacità, il consenso, la forma. Esse possono desumersi dal c. 1057, §1: L’atto che costituisce il matrimonio è il consenso delle parti manifestato legittimamente tra persone giuridicamente abili. 5.6.1. Capacità. - La Chiesa ha individuato 12 impedimenti, ossia elementi e circostanze di fatto di diritto che rendono inabile una persona a contrarre matrimonio provocandone la nullità o invalidità. Essi possono suddividersi in base alla loro natura. Gli impedimenti di diritto divino non sono dispensabili: 1) L’età, quando incide sulla capacità di contrarre; 2) L’impotenza a compiere l’atto sessuale o la copula; 3) Il vincolo sacro di un precedente matrimonio o del celibato o di un voto perpetuo; 4) La consanguineità. Gli impedimenti di diritto umano sono dispensa abili: dall’ordinario, come l’età inferiore a quella fissata, oppure riservati alla sede apostolica. In base alla loro tipologia gli impedimenti si possono classificare in tre categorie: capacità personali; fatti criminosi e vincoli familiari. Il diritto canonico concepisce l’impedimento di consanguineità in linea retta tra tutti gli ascendenti e i discendenti, sia legittimi e naturali, mentre nella linea con laterale esso agisce fino al quarto grado compreso. L’impedimento di affinità si instaura con il matrimonio tra ogni coniuge e i parenti dell’altro e sussiste in qualunque grado. Una problematica emergente con i processi migratori sono i matrimoni misti (tra battezzati di cui uno nella Chiesa cattolica e l’altra in un’altra chiesa) e i matrimoni di religione diversa (tra battezzato nella chiesa cattolica e non battezzato). Per i primi si richiede l’obbligatorietà della forma canonica per la validità del matrimonio. Per i secondi l’impedimento può essere superato tramite dispensa, laddove sussista una giusta e ragionevole causa e si verificano condizioni tali da evitare il pericolo per la fede del coniuge cattolico e dei figli. 5.6.2. Consenso. - Il consenso è l’elemento generatore o la causa efficiente del matrimonio, ciò che produce il matrimonio. Il consenso viene definito come l’atto della volontà con cui l’uomo e la donna con patto irrevocabile danno e accettano reciprocamente se stessi per costituire il matrimonio. Si presuppone che l’atto di volontà sia libero (non dovuto a coazione fisica o morale), privo di difetti e di vizi (errore o dolo), reale (non simulato), reciproco (occorre che vi sia da entrambi i nubendi) e intenzionalmente perpetuo (riferito a tutta l’esistenza fisica dell’altro coniuge). La figura intellettiva e volitiva è tenuta presente dal diritto canonico in tutta la struttura dell’istituto matrimoniale e, di conseguenza, comporta la nullità dell’atto in presenza di ignoranza, di difetto o di vizi del consenso. Il diritto canonico non si limita a richiedere la capacità intellettiva e volitiva ma anche la capacità psichica di poter assumere su di sé gli oneri coniugali. Diventano per il diritto canonico rilevanti ed invalidanti l’atto matrimoniale tutte quelle forme di disturbi della personalità che possono compromettere gravemente l’adempimento delle relazioni coniugali essenziali. Principi di diritto naturale che rendono nullo il matrimonio rispettano la struttura dell’agire