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riassunto diritto del lavoro (con diritto sindacale) - 2023/2024., Dispense di Diritto del Lavoro

riassunto del libro di testo, integrato con appunti delle lezioni, rispettivamente: - diritto sindacale: "Diritto sindacale", Mariella Magnani, 3a edizione. - diritto del lavoro: "Diritto del lavoro", Mariella Magnani, Giappichelli, 2023, 3a edizione. Docsity non mi consente di caricare il file su diritto sindacale, per cui sono costretta ad inviarlo eventualmente in privato, ovviamente incluso nel prezzo.

Tipologia: Dispense

2022/2023

In vendita dal 09/03/2024

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Scarica riassunto diritto del lavoro (con diritto sindacale) - 2023/2024. e più Dispense in PDF di Diritto del Lavoro solo su Docsity! Capitolo I: IL RAPPORTO DI LAVORO.  Oggetto e fonti del diritto del lavoro. Tradizionalmente, il diritto del lavoro ha sempre riguardato il rapporto di lavoro subordinato, come definito nell’art. 2094 c.c., mai il lavoro autonomo ed in particolare il contratto d’opera come definito dall’art. 2222 c.c. Rispetto alla tradizionale impostazione, si sono verificati però nuovi fenomeni. Da una parte, vi è stata una proliferazione, assecondata dall’ordinamento, di tipologie di lavoro subordinato: la categoria non è più monolitica, come quando ospitava essenzialmente il rapporto di lavoro a tempo pieno e indeterminato, ma articolata al suo interno in figure contrattuali diverse (part-time, a tempo determinato, intermittente, con finalità formative), che pongono, dal punto di vista interpretativo, problemi di adattamento della disciplina generale. Dall’altra parte, si è verificata la diffusione di forme di lavoro autonomo che presentano forti assonanze con il lavoro subordinato (rapporti di collaborazione coordinata e continuativa). Con gli ultimi provvedimenti legislativi, ed in particolare con il Jobs Act, si realizza un vero e proprio riorientamento del diritto del lavoro, in particolare dallo Statuto dei lavoratori. La riforma si ispira all’idea di flexicurity, un’idea di ascendenza europea tendente a rendere più flessibile la disciplina del rapporto di lavoro e, nello stesso tempo, a rafforzare la sicurezza dei lavoratori sul piano del mercato del lavoro, sia per quanto riguarda la tutela del reddito, sia per quanto riguarda il reimpiego di chi si trova in stato di disoccupazione. L’obiettivo perseguito dal legislatore è incentivare la stipulazione del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, considerato quale “forma comune di rapporto di lavoro”.  Il rapporto di lavoro subordinato nel codice civile. Il codice civile non definisce il contratto di lavoro, ma il prestatore di lavoro subordinato (art. 2094 c.c.). La disciplina del rapporto di lavoro viene presentata come una parte della disciplina dell’impresa, di cui l’altra parte della disciplina dell’impresa, di cui l’altra parte è costituita dalla disciplina dell’imprenditore, definito nell’art. 2082 c.c. Tali elementi hanno contribuito alla prospettazione, anche in Italia, della cd teoria istituzionalistica del rapporto di lavoro: il rapporto di lavoro trarrebbe origine non da un contratto, ma dall’inserimento del prestatore di lavoro nell’impresa, vista come comunione di scopo, organizzata su base gerarchica. Tuttavia, fin dagli anni ’60 del secolo scorso, la dottrina maggioritaria italiana ha sconfessato la teoria istituzionalistica del rapporto di lavoro. Nel codice civile vi sono peraltro alcune disposizioni che confermano la natura contrattuale del rapporto di lavoro, oltre che nello stesso art. 2094 c.c., possiamo trovare tale conferma nella disposizione relativa alla prestazione di fatto con violazione di legge, di cui all’art. 2126 c.c. (la regola generale è che la nullità e l’annullamento del contratto di lavoro non producono effetto nel periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione, salvo che la nullità derivi dall’illiceità dell’oggetto o della causa).  Dunque, il rapporto di lavoro è, e rimane, un rapporto contrattuale di scambio. La peculiarità del rapporto di lavoro rispetto agli altri rapporti contrattuali di scambio è che in esso il prestatore mette in gioco, non solo il suo patrimonio, ma anche la sua persona, data l’inseparabilità della stessa dall’attività lavorativa dedotta in contratto.  Esige una disciplina speciale che tenga conto dell’inseparabilità del lavoro dalla persona umana e quindi assoggetti l’autonomia individuale a limiti particolari, nella misura richiesta dalla necessità di tutela del prestatore, in quanto contraente debole.  Di qui, il corpus normativo che va sotto il nome di diritto del lavoro, caratterizzato dall’inderogabilità in peius di gran parte delle norme che lo compongono. Nonostante le parziali estensioni anche a forme di lavoro autonomo, l’intero corpus normativo del diritto del lavoro si applica solo al lavoratore subordinato. Il problema che si presenta, quindi, è quello di definire la fattispecie della subordinazione, dal momento che l’attività di lavoro può essere dedotta anche in un contratto d’opera (art. 2222 c.c.). Ciò che distingue i due contratti non è il tipo di attività dedotta in obbligazione, ma la sua modalità. La concezione più diffusa, che risale ad un padre fondatore del diritto del lavoro italiano, Lodovico Barassi, ritiene che subordinazione equivalga ad assoggettamento del prestatore di lavoro al potere direttivo del datore di lavoro: si tratta della cd eterodirezione. Art. 2094 c.c.: “Alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore” + potere di controllo e disciplinare del datore di lavoro.  Così, è lavoratore subordinato colui che è assoggettato a un determinato orario di lavoro, percepisce una retribuzione a tempo a prescindere dal risultato, non è proprietario degli attrezzi di lavoro ma usa quelli messi a disposizione del datore di lavoro, ecc. D’altro lato, si è osservato che, in forma più o meno marcata, l’assoggettamento a direttive del committente è compatibile anche con un rapporto di lavoro autonomo (ad esempio, al contratto d’appalto, in cui il committente ha diritto di controllare lo svolgimento dei lavori e la sua ingerenza può arrivare fino alla nomina di un direttore dei lavori).  I rapporti di collaborazione coordinata e continuativa e di collaborazione eterorganizzata. Negli ultimi decenni, si è assistito al fenomeno definito come fuga dal lavoro subordinato, senz’altro, per i costi del lavoro subordinato, non solo economici ma pure normativi. Vi è stata quindi una vera e propria proliferazione dei rapporti di lavoro autonomo aventi ad oggetto una “prestazione di opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale”. È la fattispecie enucleata dal legislatore con la l. 533/1973, sulla riforma del processo del lavoro. In realtà, la figura era già stata enucleata dalla cd legge Vigorelli, la l. 741/1959, al fine di estendere erga omens gli accordi economici e i contratti collettivi, anche intercategoriali, stipulati dalle associazioni sindacali anteriormente alla data di entrata in vigore di tale legge, ai “rapporti di collaborazione che si concretino in prestazione d’opera continuativa e coordinata”. Nel 1973 essa è stata presa in considerazione a fini processuali, come si è detto, sul presupposto di un’assonanza delle esigenze di tutela col lavoro subordinato. L’assimilazione sul piano processuale non ha implicato però un’assimilazione sul piano sostanziale, della disciplina applicata. Il contratto di collaborazione coordinata e continuativa sarebbe da considerare un contratto di lavoro autonomo atipico. Con lo stesso d.lgs. 81/2015, con cui ha “abrogato” la normativa sul lavoro a progetto, il legislatore aveva sancito originariamente che la disciplina del lavoro subordinato si applicasse “anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”. La disposizione ha subito una modificazione nel senso di “prevalentemente personali”. Capitolo II: CONTRATTI DI LAVORO A TERMINE, FLESSIBILI E FORMATIVI. I. Contratti di lavoro flessibili o non standard. Già a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, il nostro ordinamento ha fatto fronte alle crescenti esigenze di flessibilità delle imprese e, talora degli stessi lavoratori, più che introducendo dosi di flessibilità funzionale, nel rapporto di lavoro a tempo pieno e indeterminato (per quanto riguarda orari, mansioni, salario, risoluzione del rapporto), attraverso l’offerta di una pluralità alternativa di rapporti di lavoro, in gran parte a termine.  Rapporti di lavoro atipici o flessibili o non standard. I contratti speciali, invece, sono stati raggruppati a seconda delle ragioni di specialità, variamente individuate:  Specialità della prestazione -> tirocinio, lavoro in prova.  Particolare posizione del lavoratore subordinato -> lavoro domestico, portierato, lavoro artistico, lavoro sportivo.  Presenza di interessi pubblici preminenti -> lavoro marittimo ed aeronautico, lavoro portuale, lavoro degli autoferrotranvieri. Il Jobs Act persegue l’obiettivo di promuovere “il contratto a tempo indeterminato come forma comune di contratto di lavoro”. II. Il contratto di lavoro a tempo determinato. Il d.lgs. 81/2015, in attuazione delle previsioni di cui all’art. 1.7 della l.d. 183/2014 (Jobs Act), riforma la disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato. La scelta maggiormente liberalizzante nei confronti del contratto a termine è stata confermata dal d.lgs. 81/2015. Con esso, da un lato, la validità della clausola appositiva del termine al contratto di lavoro non è più subordinata all’esistenza di presupposti giustificativi (cd causali) come avveniva in passato; dall’altro, la regola della giustificazione causale è stata sostituita dalla previsione di limiti soggettivi, in termini di durata massima del rapporto tra le medesime parti (oggi 24 mesi), e oggettivi, in termini di percentuale di posti di lavoro complessivi ricopribili con contratti a termine (20% del n. dei lavoratori a tempo indeterminato – clausola di contingentamento).  Se il datore di lavoro viola queste limitazioni, sanzione amministrativa. Nonostante la compatibilità della disciplina introdotta dal d.lgs. 81/2015 con l’ordinamento europeo, parte della dottrina e dell’opinione pubblica hanno ravvisato nella disciplina del contratto a termine acausale un forte incentivo alla stipulazione di contratti a termine. Con queste considerazioni si può spiegare il successivo intervento normativo in materia di contratto a tempo determinato di cui al d.l. 87/2018 – cd decreto dignità. Si propone di limitare l’utilizzo di tipologie contrattuali che nel corso degli ultimi anni hanno condotto ad un’eccessiva e allarmante precarizzazione, causata da un abuso di forme contrattuali che dovrebbero rappresentare l’eccezione e non la regola. Opera su tre fronti: 1. Ripristina l’obbligo di giustificazione causale dopo i primi 12 mesi di contratto. 2. Limita la durata massima del rapporto di lavoro tra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore, riducendola da 36 a 24 mesi. 3. Riduce da 5 a 4 il n. di proroghe consentito. Nel caso di durata superiore ovvero nelle ipotesi di rinnovo, è richiesta la sussistenza di almeno una delle seguenti condizioni: a) esigenze temporanee e oggettive, ovvero esigenze di sostituzione di altri lavoratori: b) esigenze connesse a incrementi temporanei. Sul piano formale, salvo che il rapporto di lavoro abbia una durata inferiore a 12 giorni, l’apposizione del termine al contratto deve risultare da atto scritto, a pena di inefficacia della stessa (in caso di rinnovo, ora l’atto scritto deve altresì contenere la specificazione della causale giustificativa in base alla quale il contratto è stipulato; mentre in caso di proroga, tale indicazione è necessaria solo quando il termine complessivo eccede i 12 mesi). L’apposizione del termine al contratto non è ammessa: - Per la sostituzione dei lavoratori che esercitano il diritto di sciopero. - Qualora il lavoratore venga adibito ad unità produttive nelle quali si è proceduto a licenziamenti collettivi riguardanti lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto di lavoro a tempo determinato. Il termine apposto al contratto può essere prorogato, con il consenso del lavoratore, solo quando la durata iniziale dello stesso sia inferiore a 24 mesi e per un massimo di 4 volte, a prescindere dal numero dei contratti. Qualora il n. delle proroghe sia superiore, il contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato dalla data della quinta proroga – conversione in contratto indeterminato. Sul versante della disciplina del rapporto, l’art. 25 d.lgs. 81/2015 sancisce un generale principio di parità di trattamento dei lavoratori a tempo determinato rispetto a quelli a tempo indeterminato, assicurando ai primi “le ferie, la gratifica natalizia o la tredicesima mensilità, il trattamento di fine rapporto e ogni altro trattamento in atto nell’impresa”. Si prevede, inoltre, in favore dei lavoratori assunti a tempo determinato uno specifico diritto di precedenza, volto a favorire la stabilizzazione. Al lavoratore che, presso la medesima impresa, abbia prestato attività lavorativa per un periodo superiore a 6 mesi nelle assunzioni a tempo indeterminato effettuate dal datore di lavoro entro i successivi 12 mesi con riferimento alle mansioni già espletate a termine. La norma non fonda un vero e proprio diritto di precedenza, ma solo un obbligo di risposta da parte del datore di lavoro all’eventuale richiesta del lavoratore. In tutti i casi in cui il lavoratore intenda far valere, con gli ordinari rimedi giurisdizionali, l’invalidità del termine, è tenuto ad impugnare il contratto entro 180 giorni della cessazione del singolo contratto. Nei casi in cui accerti l’invalidità del termine, il giudice condanna il datore di lavoro anche al risarcimento del danno a favore del lavoratore stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 a un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto. In mancanza di una disciplina specifica, il recesso ante tempus del contrato a determinato è ammesso, per entrambi i contraenti, solo in presenza di una giusta causa. Senza giusta causa, il risarcimento del danno subito. In caso di recesso ante tempus del datore di lavoro è dovuto al lavoratore un risarcimento commisurato alle retribuzioni che sarebbero maturate fino alla scadenza del termine. III. Il contratto di somministrazione del lavoro. Il contratto di somministrazione di lavoro risponde ad uno schema trilaterale in base al quale un’impresa di somministrazione autorizzata mette a disposizione di un altro soggetto – cd utilizzatore – uno o più lavoratori suoi dipendenti che, per tutta la durata della cd missione, svolgono la propria attività nell’interesse e sotto la direzione e il controllo dell’utilizzatore. Mezzo per adempiere alle obbligazioni scaturenti dal contratto di somministrazione è il contratto di lavoro subordinato che l’agenzia di somministrazione stipula con il lavoratore, sia a tempo determinato, per la durata della missione, sia a tempo indeterminato. La scelta del legislatore di legittimare la somministrazione era peraltro in linea con l’orientamento comunitario. Una direttiva del 2008, in particolare, si propone due finalità tra loro concorrenti: 1. Finalità occupazionale. 2. Finalità sociale. Alla luce della mutata disciplina, il ricorso alla somministrazione a tempo indeterminato è ammesso esclusivamente per i lavoratori assunti dal somministratore a tempo indeterminato e, salva diversa previsione del contratto collettivo, nel limite legale del 20% rispetto al n. di lavoratori a tempo indeterminato. Per il resto, il contratto di lavoro è soggetto alla disciplina prevista per il rapporto a tempo indeterminato, fatta eccezione per il trattamento economico dovuto al lavoratore a cui è riconosciuto il diritto ad un’indennità mensile di “disponibilità” per i periodi in cui non viene utilizzato in missione presso l’utilizzatore, determinata dal contratto collettivo. Il contratto di lavoro somministrato a tempo determinato può avere una durata massima pari a 24 mesi e deve contenere l’indicazione di una delle causali previste dall’art. 19 per il contratto a tempo determinato qualora la durata iniziale superi i 12 mesi, ovvero in ipotesi di rinnovo o proroga. Anche il limite quantitativo di utilizzazione della somministrazione a tempo determinato è stato modificato dal decreto dignità. L’art. 31 d.lgs. 81/2015 ora prevede che il n. di lavoratori assunti con contratto a termine ovvero impiegati con contratto di somministrazione a tempo determinato non possa eccedere il 30% del n. di lavoratori a tempo indeterminato.  La medesima disposizione abilita i contratti collettivi a derogare a tale previsione, mantenendo però fermo il limite, previsto per i contratti a termine, del 20% del n. di lavoratori a tempo indeterminato. Resta invece invariata la previsione per cui il termine originariamente posto al contratto è prorogabile, con il consenso del lavoratore e per atto scritto, nei casi e per la durata previsti dal contratto collettivo applicabile dal somministratore. Quanto alle tutele riconosciute ai lavoratori somministrati -> diritto a condizioni economiche e normative complessivamente non inferiori a quelle dei dipendenti di pari livello dell’utilizzatore. I lavoratori somministrati, benché dipendenti dall’agenzia, svolgono la propria attività nell’interesse e sotto la direzione e il controllo dell’utilizzatore.  Si realizza così una scissione nella titolarità dei poteri tipici del datore di lavoro: quello disciplinare è infatti in capo all’agenzia, quello direttivo e di controllo spettano, invece, all’utilizzatore. In particolare, in caso di adibizione del lavoratore a mansioni diverse da quelle dedotte nel contratto, l’utilizzatore deve darne comunicazione scritta all’agenzia di somministrazione: in caso contrario risponderà in via esclusiva per le eventuali differenze retributive o per il risarcimento del danno da adibizione a mansioni inferiori nelle ipotesi non consentite. L’utilizzatore è inoltre obbligato in solido con il somministratore a corrispondere ai lavoratore i trattamenti retributivi e a versare i relativi contributi previdenziali. In difetto di forma scritta del contratto di somministrazione, esso è nullo e i lavoratori sono considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dell’utilizzatore! Il regime dettato per l’impugnazione del contratto di somministrazione ricalca in parte quello previsto per il contratto a tempo determinato: l’impugnazione stragiudiziale deve avvenire entro 60 giorni dalla data in cui il lavoratore ha cessato di svolgere la propria attività presso l’utilizzatore. Tale impugnazione è tuttavia inefficace se non è seguita dal ricorso in giudizio entro il successivo termine di 180 giorni. La sua disciplina organica è oggi contenuta negli artt. 41ss del d.lgs. 81/2015. L’art. 41.1 ribadisce che l’apprendistato è un contratto di lavoro a tempo indeterminato finalizzato alla formazione e alla occupazione dei giovani e al secondo comma recepisce la tripartizione dell’istituto tra: 1. Primo tipo: apprendistato per la qualifica e i diploma, il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato di specializzazione tecnica superiore. Si rivolge ai giovani d’età compresa i 15 e i 25 anni. 2. Secondo tipo: apprendistato professionalizzante. 3. Terzo tipo apprendistato di alta formazione e ricerca. Il contratto di apprendistato deve essere stipulato per iscritto ai fini della prova e contenere, in forma sintetica, il piano formativo individuale definito anche sulla base di moduli e formulari stabiliti dalla contrattazione collettiva. La durata non può essere inferiore a 6 mesi. Peculiare è poi la disciplina del recesso a seconda che questo si verifichi durante o al termine del periodo di apprendistato. Il datore di lavoro può recedere dal rapporto al termine del periodo di apprendistato; nel corso del rapporto egli può recedere invece solo per giusta causa o giustificato motivo. Nel corso di un contratto di apprendistato, il licenziamento è assoggettato agli stessi limiti e alle stesse condizioni previsti per il lavoratore a tempo indeterminato. In difetto di disdetta, l’apprendista è mantenuto in servizio con la qualifica conseguita mediante le prove di idoneità e il periodo di apprendistato è considerato utile ai fini dell’anzianità di servizio del lavoratore. Questo peculiare regime di recesso da ritenere alla dottrina prevalente che in realtà il contratto di apprendistato debba essere inquadrato come contratto di lavoro a tempo indeterminato.  I tirocini. Il tirocinio è uno strumento che compendia in sé una duplice funzione: formativa e occupazionale. Esso, tuttavia, non configura un contratto di lavoro subordinato. A differenza dei contratti formativi, e in particolare dell’apprendistato, in cui la formazione integra la causa del contratto di lavoro comunque ascrivibile allo schema delineato dell’art. 2094 c.c., nel tirocinio la formazione costituisce l’oggetto e la finalità di uno strumento non identificabile alla stregua di un contratto. Il contratto di lavoro non esiste, potendo semmai collocarsi sullo sfondo, come possibile prospettiva. Esso consiste in un periodo di orientamento al lavoro e di formazione senza che si configuri un rapporto di lavoro. Si distinguono diverse tipologie di tirocinio: - Tirocini formativi e di orientamento: sono finalizzati alla transizione dei giovani, neodiplomati o neolaureati, verso il mondo del lavoro. - Tirocini di inserimento (o reinserimento): sono finalizzati alla collocazione o ricollocazione di soggetti in età di lavoro inoccupati, disoccupati. - Quelli in favore di persone svantaggiate (es. disabili, richiedenti asilo, titolari di protezione internazionale). La durata massima del tirocinio non può essere superiore a 12 mesi. Il trattamento economico spettante al tirocinante stabilisce il diritto ad una congrua indennità = importo non inferiore a 300€ lordi mensili. VI. Lavoro occasionale. È un istituto lavoristico del tutto speciale in quanto caratterizzato da un’innovativa modalità di remunerazione di attività saltuarie, spesso eseguite in nero. A fronte di queste attività, si sono ideate modalità semplificate di erogazione del corrispettivo e di versamento dei contributi, attraverso buoni dotati di valore nominale in misura fissa – cd voucher. Le continue modifiche legislative apportate alla disciplina del lavoro occasionale indicano l’esistenza di una certa polemica sull’opportunità di farvi ricorso per il timore che un uso troppo allargato costituisca uno stimolo verso la destrutturazione del mercato del lavoro e dunque la sua precarizzazione. Esistono due fattispecie di prestazione occasionale: 1. Libretto Famiglia (libretto nominativo prefinanziato): cui possono ricorrere le persone fisiche, non nell’esercizio di attività professionale o d’impresa, ma rese nell’ambito di “piccoli lavori domestici”. Ciascun Libretto Famiglia contiene titoli di pagamento, il cui valore nominale è fissato in 10€, utilizzabile per compensare prestazioni di durata non superiore a 1h. 2. Contratto di prestazione occasionale: cui possono ricorrere gli altri utilizzatori fino a 10 dipendenti e le p.a. La misura minima oraria del compenso è pari a 9€. Sarà l’INPS a provvedere al pagamento attraverso accreditamento sul conto corrente bancaria. A differenza di quanto previsto per il Libretto Famiglia, l’obbligo di comunicazione all’INPS della prestazione è preventivo. In via generale, la prestazione di lavoro occasionale è soggetta anzitutto a limiti di natura quantitativa: il compenso annuale per il prestatore non può essere infatti superiore a 5.000€ con riferimento alla totalità degli utilizzatori e a 2.500€ per le prestazioni rese in favore del medesimo utilizzatore. Il ricorso al lavoro occasionale presuppone inoltre la registrazione di entrambe le parti del rapporto su una piattaforma informatica gestita dall’INPS, per le operazioni di erogazione e di accreditamento dei compensi del prestatore attraverso un sistema di pagamento elettronico. Esiste anche un divieto di carattere generale: non possono infatti essere acquisite prestazioni di lavoro occasionale da parte dei soggetti con i quali l’utilizzatore abbia in corso o abbia cessato da meno di 6 mesi un rapporto di lavoro subordinato o di collaborazione coordinata e continuativa. VII. I contratti di lavoro flessibile nella p.a. Nel pubblico impiego, il lavoro a tempo determinato e le forme di lavoro flessibile hanno una disciplina speciale. Le stipulazione di contratti flessibili è ammessa solo per comprovate esigenze “di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale”, a meno che non sussista uno specifico divieto, come nel caso del lavoro intermittente e della somministrazione a tempo indeterminato. A differenza di quanto previsto per il lavoro privato, la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori da parte delle p.a., con forme di lavoro flessibile, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato, ma solo al risarcimento dei danni. Cap. III: MANSIONI, POTERE DIRETTIVO & IUS VARIANDI.  Oggetto del contratto di lavoro. Tra gli elementi del contratto, definiti in verità dal legislatore come “requisiti” dello stesso nell’art. 1325 c.c., vi sono, oltre all’accordo delle parti, la causa, la forma (ove prescritta dalla legge, pena nullità) e l’oggetto. L’oggetto del contratto è rappresentato dalle prestazioni che le parti reciprocamente si promettono in funzione dell’assetto di interessi tra le stesse intervenuto. Nel caso del contratto di lavoro le prestazioni sono, dal lato del lavoratore, l’attività lavorativa – cd mansione - e, dal lato del datore di lavoro, la retribuzione. Le mansioni rivestono notevole importanza, perché servono innanzitutto per inserire il lavoratore nello schema di classificazione professionale previsto dalla legge e dai contratti collettivi. Il codice civile, al primo comma dell’art. 2095 c.c., dispone che i prestatori di lavoro subordinato si distinguono in “dirigenti, quadri, impiegati ed operai”.  Impiegato vs operaio. Il decreto del 1924 qualifica come impiegato colui che svolge “attività professionale, con funzioni di collaborazione tanto che di ordine, eccettuata, pertanto, ogni prestazione che sia semplicemente mano d’opera”. Nella definizione data dal legislatore ci sono almeno tre elementi ritenuti qualificanti: la collaborazione, la professionalità e la non manualità.  Scarso valore discretivo, in quanto anche gli operai collaborano con l’imprenditore. Infatti, l’art. 2094 c.c. dispone che è lavoratore subordinato chi si obbliga a collaborare nell’impresa alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore.  Dunque, la collaborazione non è criterio di per sé dirimente. Vi è poi da considerare il criterio della professionalità = abitualità, non occasionalità. Sotto questo profilo, non è meno professionale la prestazione dell’operaio rispetto a quella dell’impiegato. Infine, è da considerare il requisito dell’intellettualità -> eccettua dal suo campo di applicazione le prestazioni di semplice mano d’opera. Questo criterio poteva dispiegare qualche funzione molto tempo fa quando esisteva una grande massa di analfabeti.  Il criterio di qualificazione (non privo di criticità): sarebbe rilevante il tipo di collaborazione richiesta al prestatore di lavoro che, per l’impiegato, deve implicare un minimo livello di autonomia e discrezionalità. Per contro, i dirigenti, sia dal punto di vista delle funzioni che esercitano, sia dal punto di vista normativo, restano categoria differenziata rispetto agli altri prestatori di lavoro. Essi costituiscono l’alter ego dell’imprenditore o sono preposti alla direzione dell’intera impresa o di un ramo importante e autonomo di questa, essendo provvisti a tal fine di piena autonomia nell’ambito delle direttive generali dell’imprenditore.  Alto grado di fiduciarietà. Il profilo di disciplina differenziata più significativo concerne il licenziamento: i dirigenti non sono assoggettati alla disciplina limitativa dello stesso cui sono assoggettati gli altri lavoratori subordinati. Dal punto di vista legale, per i dirigenti vige ancora il regime del recesso ad nutum. I contratti collettivi hanno tuttavia introdotto regole di stabilità convenzionale, richiedendo la giustificatezza del licenziamento in mancanza della quale il datore di lavoro sarà tenuto ad un’indennità definita dagli stessi contratti collettivi. Per quanto riguarda l’adibizione a mansioni superiori, la nuova disciplina prevede che il lavoratore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta e che l’assegnazione diviene definitiva “salvo diversa volontà del lavoratore, ove la medesima non abbia avuto luogo per ragioni sostitutive di altro lavoratore in servizio, dopo il periodo fissato dai contratti collettivi o, dopo 6 mesi continuativi”.  Rispetto alla formulazione precedente, è stato inoltre ampliato il periodo di tempo necessario per la maturazione de diritto alla promozione automatica. Il vecchio testo precisava, poi, che tale diritto non maturava nel caso in cui l’adibizione a mansioni superiori fosse stata disposta per sostituire un lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto. Nel nuovo testo si fa invece riferimento solo alla sostituzione di un altro lavoratore in servizio, con ciò delineando una fattispecie più ampia di esclusioni (si pensi alla sostituzione dei lavoratori in ferie).  Il trasferimento del lavoratore. Ai sensi dell’ottavo comma dell’art. 2103 c.c., il lavoratore può essere trasferito da un’unità produttiva ad un’altra in presenza di “comprovate” ragioni tecniche, organizzative e produttive. La giurisprudenza ha chiarito che il controllo giudiziale non può estendersi al merito delle scelte imprenditoriali, ma è limitato all’accertamento dell’effettiva presenza delle ragioni addotte e del nesso causale tra queste e il trasferimento del lavoratore. Cap. IV: IL POTERE DI CONTROLLO.  Il fondamento normativo. Se il potere direttivo del datore di lavoro è il potere di impartire direttive per lo svolgimento della prestazione dedotta in contratto, allora il potere di controllo può definirsi come la facoltà di verifica dell’esatto adempimento delle obbligazioni dedotte nel contratto di lavoro. Il codice civile contempla il potere direttivo e quello disciplinare del datore di lavoro, ma non menziona espressamente il potere di controllo. Nondimeno, gli interpreti hanno sempre ritenuto implicito il potere di controllo in quello direttivo e disciplinare: senza il potere di controllo, infatti, quello direttivo sarebbe ineffettivo e non potrebbe esercitarsi quello disciplinare, poiché il datore di lavoro non sarebbe in grado di rilevare e provare eventualmente in giudizio le condotte illecite del lavoratore.  I limiti del potere di controllo. La l. 300/1970, in un’ottica di contemperamento tra esigenze e di funzionalità e di efficienza dell’impresa e di tutela della dignità e della riservatezza del lavoratore, ha posto limiti a siffatto potere, vietandone le modalità più invasive. Le norme più rilevanti sono contenute negli artt. 2, 3, 4, 5, 6 e 8 del titolo I, dedicato appunto alla tutela “Della libertà e dignità del lavoratore”. L’art. 2 St. lav. limita l’impiego, da parte del datore, delle guardie giurate, ai soli fini di tutela del patrimonio aziendale, con espresso divieto di vigilanza sull’attività lavorativa e divieto di accesso ai locali dove si svolge tale attività. L’art. 3 St. lav. rafforza il contenuto dell’art. 2 St. lav., imponendo al datore la preventiva comunicazione ai lavoratori dei nominativi e delle mansioni specifiche del personale addetto alla vigilanza dell’attività lavorativa (diversi dalle guardie giurate). È stato tuttavia affermato che i limiti discendenti dagli artt. 2 e 3 non possono essere invocati qualora il controllo sia preordinato a rilevare condotte illecite del lavoratore (non in sé l’esatto adempimento dell’obbligazione del lavoratore) – controlli difensivi.  I controlli a distanza e la normativa sulla privacy. L’art. 3 St. lav. deve essere letto in connessione con l’art. 4 St. lav. che porta la rubrica “Impianti audiovisivi e altri strumenti di controllo”.  La norma è obsoleta: l’evoluzione tecnologica ed in particolare l’informatizzazione hanno comportato la compenetrazione della possibilità di controllo negli stessi strumenti di lavoro.  Modificata dal d.lgs. 151/2015, per cui gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti da cui derivi la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale e possono essere installati previo accordo collettivo stipulato dalla r.s.u. o r.s.a. La novità del riformato art. 4 si ha soprattutto nel secondo comma, il quale esclude espressamente la necessità dell’accordo sindacale ovvero dell’autorizzazione dell’Ispettorato del lavoro in relazione agli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione e agli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze. In verità, a dronte del fatto che l’impiego di una strumentazione dalla quale può derivare anche un controllo a distanza dell’attività dei lavoratori rappresenta ormai la norma nella gran parte delle realtà produttive, il legislatore del 2015 ha ritenuto di spostare la tutela, dal piano della raccolta dei dati, a quello della loro utilizzazione. Il terzo comma dell’art. 4 sancisce infatti espressamente la possibilità di utilizzare i dati ricavati “a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro”, solo qualora siano state osservate le disposizioni in tema di tutela del diritto alla riservatezza, e sempreché i lavoratori siano stati previamente informati. La giurisprudenza ha sempre escluso i cd controlli difensivi, ma a seguito della novella del 2015, parte della dottrina ha tuttavia ritenuto che tali controlli siano ora soggetti ai limiti ex art. 4 St. lav., richiedendo dunque l’accordo sindacale o l’autorizzazione ispettiva.  Le visite personali di controlli & gli accertamenti sanitari. L’art. 6 St. lav. vieta le visite personali di controllo, cioè le perquisizioni, fuorché nelle ipotesi in cui “siano indispensabili ai fini della tutela del patrimonio aziendale”. In questi casi, possono essere effettuate solo a condizione che siano eseguite all’uscita dei luoghi di lavoro, che siano salvaguardate la dignità e la riservatezza dei lavoratori e che avvengano con sistemi di selezione automatica (-> per campione). L’art. 5 St. lav. limita il potere di controllo del datore nei confronti del lavoratore assente per malattia o infortunio. In particolare, il primo comma stabilisce che “sono vietati accertamenti da parte del datore di lavoro sull’idoneità e sull’infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente”. Infatti, ai sensi del secondo comma, “il controllo delle assenze per infermità può essere effettuato soltanto attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti”, qualora il datore di lavoro lo richieda.  Quindi, il datore di lavoro non può effettuare controlli direttamente o per tramite di personale medico da lui incaricato (cd medici di fabbrica).  Il divieto di indagine sulle opinioni dei lavoratori. L’art. 8 St. lav. fa divieto al datore di lavoro di effettuare indagini sulle opinioni politiche, religiose e sindacali del lavoratore, nonché su tutti gli aspetti della persona del lavoratore che non sono rilevanti ai fini della valutazione della sua attitudine professionale, sia al fine dell’assunzione, sia nel corso del rapporto di lavoro, per fini discriminatori. In generale, il divieto di indagini sulle opinioni tutela la sfera privata del lavoratore, confermando che la sua subordinazione è solo “tecnica”, limitata cioè allo svolgimento della prestazione lavorativa. Sono dunque irrilevanti fatti e comportamenti personali (es. stili di vita, tipo di abbigliamento), sempreché non possano incidere sull’attitudine professionale del lavoratore. Cap V: IL POTERE DISCIPLINARE.  Il fondamento normativo. Altro potere unilaterale del datore di lavoro è quello disciplinare, che trova proprio fondamento nell’art. 2106 c.c.. La norma stabilisce che l’inosservanza, da parte del lavoratore, degli obblighi previsti nei due articoli precedenti (artt. 2104 c.c. – obbligo di diligenza e obbedienza + 2015 c.c. – obbligo di fedeltà) “può dar luogo all’applicazione di sanzioni disciplinari, secondo la gravità dell’infrazione e in conformità delle norma corporative” -> oggi questo riferimento si intende normalmente come effettuato ai contratti collettivi cd di diritto comune. Ai sensi dell’art. 2104 c.c. – obbligo di diligenza e di obbedienza, il lavoratore deve usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall’interesse dell’impresa e da quello superiore della produzione nazionale. Deve, inoltre, osservare le disposizioni per l’esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall’imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende. Ai sensi dell’art. 2105 c.c. – obbligo di fedeltà, il prestatore di lavoro non deve trattare affari per conto proprio o di terzi in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa o farne uso in modo da poter arrecare ad essa pregiudizio.  Responsabilità disciplinare & contrattuale del lavoratore. La responsabilità disciplinare non assorbe quella contrattuale, perché le due forme di responsabilità rispondono ad interessi diversi. Il risarcimento del danno per inadempimento è finalizzato a reintegrare il patrimonio del datore di lavoro; la responsabilità disciplinare, invece, presiede al buon funzionamento dell’organizzazione produttiva (il datore può applicarli entrambi).  I limiti del potere disciplinare. Il primo limite del potere disciplinare è di natura sostanziale ed è posto dall’art. 2106 c.c.: si tratta della necessaria proporzionalità tra gravità della sanzione e gravità dell’infrazione. Lo Statuto dei lavoratori ha introdotto, poi, ulteriori limiti più penetranti e di natura sia sostanziale sia procedimentale. L’art. 7 St. lav.: non possono essere disposte sanzioni disciplinari che comportino mutamenti definitivi del rapporto (trasferimento del lavoratore o la sua retrocessione). Inoltre, la stessa norma introduce limiti quantitativi delle sanzioni irrogabili: in particolare, la multa non può essere disposta per un importo Sezione II: IL TEMPO DI LAVORO.  La durata della prestazione di lavoro. L’oggetto del contratto, dal punto di vista quantitativo, è individuato dall’orario di lavoro, definito come “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni”. In mancanza di diversa indicazione nel contratto individuale, si deve intendere quale orario normale quello di cui nel d.lgs. 66/2003, vale a dire 40h settimanali, ovvero il minor orario fissato dai contratti collettivi. Nel caso in cui il lavoratore non osservi l’orario di lavoro è da considerare inadempiente ai suoi obblighi contrattuali. Per le prestazioni di lavoro rese oltre l’orario convenuto, entro il limite delle 250h annue, si usa il termine “lavoro straordinario”, per lo svolgimento del quale è necessaria l’accordo tra le parti, trattandosi di modificazione contrattuale. Nel caso in cui i contratti collettivi prevedono come obbligatoria una certa quota di lavoro straordinario, il datore di lavoro può pretendere dal lavoratore lo svolgimento di lavoro straordinario senza necessità del suo consenso e l’eventuale rifiuto del lavoratore costituisce inadempimento contrattuale. Non si possono superare, ogni 7 giorni, le 48h, comprese le ore di lavoro straordinario (-> max. settimanale 8h). Il ricorso al lavoro straordinario è consentito in relazione a casi di eccezionali esigenze tecnico-produttive, di forza maggiore o per eventi particolari collegati alle attività produttive.  Nel caso di lavoro straordinario è dovuta al lavoratore, in considerazione della maggiore penosità della prestazione lavorativa, una maggiorazione retributiva, che è determinata dai contratti collettivi o di riposi compensativi.  La disciplina legislativa dell’orario di lavoro. L’art. 36 Cost., al secondo comma, prevede che la durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge e, al terzo comma, che il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite e non può rinunziarvi. Il d.lgs. 66/2003 contiene una disciplina generale esaustiva della materia: sono infatti regolati tutti gli aspetti dell’orario di lavoro, tra cui la durata normale e quella massima della prestazione, il lavoro straordinario e notturno, le paure, i riposi settimanali e le ferie, nonché l’apparato sanzionatorio per il caso di superamento dei limiti. Poche materie, come l’orario di lavoro, ineriscono così strettamente all’organizzazione aziendale -> non è un caso che il d.lgs. 66/2003 operi numerosi rinvii, e consenta ampia facoltà derogatoria delle disposizioni legali ai contratti collettivi di ogni livello.  I riposi. È interessante sottolineare come la normativa attuale disciplini la durata massima della giornata lavorativa non direttamente, ma solo indirettamente attraverso la previsione della durata minima del riposo: esso deve essere di almeno 11h ogni 24h, da fruire in modo continuativo. Qualora l’orario di lavoro giornaliero ecceda il limite di 6h, il lavoratore deve beneficiare di un intervallo (o pausa) di 10’. In base al terzo comma dell’art. 36 Cost., il lavoratore ha diritto al riposo settimanale, da intendersi come periodo di riposo di almeno 24h consecutive ogni 7 giorni lavorativi, di regola in coincidenza con la domenica. Sempre in base all’art. 36 Cost., il lavoratore ha diritto ad un periodo di ferie annuali, determinato in misura non inferiore a 4 settimane.  Principio di irrinunciabilità delle ferie: il mancato godimento delle ferie – che deve avvenire per almeno 2 settimane entro l’anno di maturazione e, per le due restanti, nei 18 mesi successivi all’anno di maturazione medesimo – dà luogo ad un’obbligazione risarcitoria del lavoratore a carico del datore di lavoro. Cap. VII: LE OBBLIGAZIONI DEL DATORE DI LAVORO. Sezione I: L’OBBLIGAZIONE RETRIBUTIVA.  La retribuzione. La retribuzione costituisce l’oggetto della principale obbligazione del datore di lavoro. Tuttavia, presenta peculiarità connesse al carattere personale della prestazione lavorativa e al coinvolgimento durevole del lavoratore nell’organizzazione produttiva. Nel contratto di lavoro, il nesso di corrispettività tra le prestazioni subisce alterazioni significative, tassativamente previste (es. malattia, infortunio, gravidanza e puerperio) e in altre ipotesi di sospensioni brevi (es. permessi sindacali, per motivi di studio). L’obbligazione retributiva connota il contratto di lavoro subordinato come rapporto giuridico a titolo oneroso e, perciò, lo differenzia da altri rapporti che si presumono a titolo gratuito o semigratuito (lavoro volontario o stage).  Fonti: art. 36 Cost. In base al mero principio consensualistico tipico dei contratti, per la quantificazione del compenso sarebbe sufficiente l’accordo delle parti per un ammontare determinato o determinabile. Tuttavia, in un rapporto a poteri asimmetrici, qual è il rapporto di lavoro subordinato, sarebbe agevole per la parte forte, facendo leva sul bisogno di reddito altrui. Manca in Italia una legge che imponga un salario minimo legale. Ci fu una l.d. nel 2014, che delegava il Governo all’introduzione del compenso orario minimo, ma non fu mai esercitata. Le difficoltà dell’introduzione anche in Italia di un salario minimo legale sono di carattere essenzialmente politico, legate al timore che essa comprima il ruolo dell’autonomia collettiva nella fissazione dei salari. Si aggiunge, da parte dei critici di questa idea, che, pur in mancanza di una legislazione sui minimi salariali, vi sarebbe una “via italiana” al salario minimo legale, rappresentata dall’applicazione giurisprudenziale dell’art. 36 Cost.: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Nell’applicazione giurisprudenziale, il criterio della sufficienza è stato svalutato o, se si preferisce, assorbito dal criterio della proporzionalità. Per la determinazione del livello retributivo conforme al precetto costituzionale, i giudici prendono a riferimento, quale criterio orientativo, le retribuzioni previste dal contratto collettivo della categoria o dal settore produttivo. Ciò implica, non solo che i principi di sufficienza e proporzionalità assumono carattere variabile in base al settore e alla qualifica rivestita dal singolo lavoratore, ma che, si determina una prevalenza del requisito della proporzionalità rispetto a quello della sufficienza. Occorre altresì precisare che non tutti gli elementi retributivi previsti dai contratti collettivi integrano il cd minimo costituzionale, ma solo la cd paga base (ovverosia i minimi tabellari determinati dai contratti collettivi nazionali con riferimento alle diverse qualifiche), nella quale è stata inglobata la cd indennità di contingenza e la tredicesima mensilità. Deve comunque trattarsi delle retribuzioni previste dal contratto collettivo della categoria inerente l’attività del datore di lavoro, a prescindere dal fatto che questi applichi un altro contratto collettivo – “Si determina secondo l’attività effettivamente esercitata dall’imprenditore”. Le retribuzioni fissate dai contratti collettivi costituiscono parametro di riferimento da cui i giudici possono tuttavia discostarsi, con idonea motivazione.  In caso di deroga peggiorativa, da parte del contratto individuale di lavoro, alla retribuzione costituzionalmente dovuta, la relativa clausola è da ritenersi nulla e automaticamente sostituita dalla norma dell’art. 36 Cost. Ulteriore fonte di disciplina in materia è l’art. 37 Cost., che sancisce, a parità di lavoro, il diritto della donna lavoratrice e dei minori ad avere le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore.  La corrispettività nel rapporto di lavoro. La corrispettività presenta, nell’ambito del rapporto di lavoro, caratteristiche peculiari rispetto a quella propria degli altri contratti sinallagmatici, in ragione del carattere personale della prestazione lavorativa.  Il datore di lavoro è tenuto a corrispondere al lavoratore assente il trattamento retributivo. Il diritto alla retribuzione è riconosciuto, infatti, per i lavoratori che si riuniscono in assemblea (nei limiti di 10h annue) e per i dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali, che beneficiano di permessi retribuiti per l’espletamento del loro mandato. L’obbligo retributivo permane, inoltre, nei confronti dei lavoratori studenti, che hanno diritto alla fruizione di permessi giornalieri retribuiti per sostenere le prove d’esame (art. 10 St. lav.). La giurisprudenza, a partire dagli anni ’80, ha concluso che la determinazione dell’ammontare della retribuzione da assumere quale base di calcolo di un determinato istituto si risolve in un problema interpretativo delle formule utilizzate dal legislatore o delle clausole die contratti collettivi.  Tendenza verso la liberalizzazione della cd retribuzione-parametro (rinvenibile nella disciplina del TFR).  Le forme di retribuzione. Quanto alle forme di retribuzione, esse sono descritte dall’art. 2099 c.c. e sono: 1. Retribuzione a tempo: (la prevalente) è determinata in ragione della durata della prestazione di lavoro. 2. Retribuzione a cottimo: determinata in funzione dei risultati prodotti dal lavoratore. Le forme retributive non a tempo, includendo sempre un elemento di aleatorietà, si pongono in potenziale contrasto con la garanzia costituzionale della retribuzione proporzionata e sufficiente ex art. 36 Cost.: per questa ragione, i contratti collettivi, là dove la prevedano, le configurano come una semplice integrazione della retribuzione fissa calcolata a tempo. Accanto a previsioni dedicate a determinati settori e a particolari categorie di lavoratori, la normativa è informata a taluni principi comuni, indicati nel titolo I del decreto. La specificazione del precetto generale dell’art. 2087 c.c. si compone di tre elementi fondamentali, secondi i quali l’obbligo di sicurezza viene dunque scomposto in una serie di puntuali adempimenti: 1. Programmazione della sicurezza: il datore è anzitutto chiamato ad effettuare la valutazione dei rischi connessi allo svolgimento della prestazione lavorativa, cui segui la redazione di apposito documento di valutazione dei rischi (DVR). 2. Procedimentalizzazione degli obblighi. 3. Partecipazione dei lavoratori e/o dei loro rappresentanti: da cui derivano precisi obblighi (es. osservare le misure di igiene e sicurezza adottate in azienda; usare in modo corretto i dispositivi di protezione individuale forniti; segnalare eventuali deficienze del sistema di prevenzione; sottoporsi a controlli sanitari). La violazione di tali obblighi dà luogo a responsabilità disciplinare. Alla luce dell’interpretazione giurisprudenziale prevalente, l’obbligo di sicurezza ex art. 2087 c.c. può dirsi anzitutto funzionale all’adempimento del cd principio della massima sicurezza tecnologicamente possibile. L’art. 2087 c.c. detta un principio di autoresponsabilità del datore che, anche indipendentemente da specifiche disposizioni normative, è chiamato a porre in essere tutti gli accorgimenti e le misure necessarie a evitare il verificarsi di lesioni di beni primari come la salute e l’integrità fisica.  L’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni. La tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro è garantita anche sul piano previdenziale, attraverso la previsione di un’assicurazione sociale obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali, gestita dall’INAIL. Essa trova il proprio fondamento nell’art. 38.2 Cost.: “I lavoratori hanno diritto che siano preveduti e assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”. La previsione di tale obbligo assicurativo ha lo scopo di indennizzare i lavoratori addetti a lavorazioni potenzialmente pericolose dai pregiudizi alla loro capacità psico-fisica, verificatisi in occasione o in conseguenza della prestazione lavorativa e indipendentemente dalla colpa del datore di lavoro nella causazione dell’evento. Nell’ambito di applicazione dell’assicurazione sociale obbligatoria, il datore di lavoro è infatti esonerato dalla responsabilità civile per infortunio o malattia professionale, a meno che il fatto da cui essi derivano costituisca un reato perseguibile d’ufficio, per il quale sia intervenuta una condanna penale a suo carico. In tale ipotesi, l’INAIL ha diritto al regresso nei confronti del datore. Quanto al tipo di pregiudizio indennizzabile, accanto al danno patrimoniale in senso stretto, consistente nella perdita di capacità lavorativa, la giurisprudenza vi ha progressivamente ricompreso il danno non patrimoniale sub specie di danno biologico, derivante cioè dalla violazione del diritto alla salute ex art. 32 Cost. La giurisprudenza ha ampliato la nozione di danno non patrimoniale fino a ricomprendervi ogni pregiudizio (biologico, morale ed esistenziale) conseguente alla violazione di diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla costituzione -> danno da demansionamento, da molestie sessuale, da mobbing (verticale e/o orizzontale. Importa una lesione alla dignità personale del lavoratore -> danno non patrimoniale cd esistenziale). Capitolo VIII: LA SOSPENSIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO. La sospensione è annoverata fra le vicende del rapporto di lavoro (-> sospensione dell’obbligazione lavorativa). Nell’ambito delle sospensioni tipizzate dalla legge vi sono: - Sospensioni per cause inerenti al prestatore di lavoro. - Sospensioni per cause inerenti all’impresa. Sezione I: LE SOPENSIONI PER CAUSE INERENTI AL PRESTATORE DI LAVORO.  L’art. 2110 c.c. I casi più rilevanti di sospensione per motivi attinenti alla sfera del lavoratore sono quelli di cui all’art. 2110 c.c.: malattia, infortunio, gravidanza e puerperio. Il principio comune è la conservazione del rapporto di lavoro per il periodo stabilito dalla legge + la conservazione del reddito.  Malattia e infortunio. La nozione lavoristica di malattia comprende le sole affermazioni morbose che comportano un’incapacità lavorativa e che rendono dunque temporaneamente inabile il lavoratore allo svolgimento delle mansioni assegnate. All’evento morboso è collegata una serie di adempimenti: il lavoratore è infatti obbligato, anzitutto, a comunicare tempestivamente la sua assenza dal lavoro. In secondo luogo, deve giustificare l’assenza mediante l’invio al datore dell’attestazione della malattia rilasciata dal medico curante. Il lavoratore, ai fini dell’effettuazione della visita ispettiva, ha l’obbligo di reperibilità in determinate fasce orarie (9-13 e 15-18 per i lavoratori del settore pubblico; 10-12 e 17-19 per il privato), pena decadenza dal trattamento economico previsto in caso di malattia, e ferma restando la responsabilità disciplinare. Con riferimento al trattamento economico in caso di malattia, permane una distinzione legale tra operai e impiegati. Per gli operai è prevista un’indennità, erogata dall’INPS (dall’INAIL in caso di infortunio) e anticipata dal datore di lavoro, con decorrenza dal 4° giorno successivo all’evento. Gli impiegati, invece, già in base alla disciplina legislativa hanno diritto alla retribuzione a carico del datore di lavoro, in misura integrale per un certo periodo e parziale per quello successivo.  Problema delle malattie reiterate: superato il cd comporto per sommatoria è ammissibile il licenziamento, altrimenti no. L’insorgere di una malattia nel corso delle ferie ne interrompe il decorso, dal momento che essa impedisce la reintegrazione delle energie psico-fisiche del lavoratore cui le ferie sono preordinate. Nel caso di infortunio, ovvero riconducibile a cause di servizio, il relativo trattamento economico è posto a carico dell’INAIL: 60% della retribuzione giornaliera, elevato al 75% a partire dal 91° giorno di inabilità. E la conservazione del posto di lavoro permane fino alla guarigione del lavoratore, certificata da tale Istituto.  È considerato infortunio sul lavoro anche l’infortunio in itinere, ovverosia l’infortunio “occorso durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello di lavoro”.  Maternità & congedi parentali. Le donne lavoratrici sono beneficiarie di una peculiare tutela nel corso della gravidanza e puerperio – d.lgs. 151/2001. Il decreto riconosce alla lavoratrice (madre naturale) un congedo di maternità di durata complessiva pari a 5 mesi:  Congedo pre-parto: fruibile nei 2 mesi antecedenti la data presunta del parto.  Congedo post-parto: spetta nei 3 mesi successivi alla nascita del figlio. Alle lavoratrici assenti dal lavoro per maternità spetta un’indennità giornaliera pari all’80% della retribuzione normale, posta a carico dell’INPS (grava sul datore l’obbligo di anticiparla). Il congedo post-parto, per i primi 3 mesi di vita del figlio, spetta anche al padre – congedo di paternità – seppur limitatamente ad alcune ipotesi tassative (morte/grave infermità della madre o abbandono, nonché affidamento esclusivo al padre). È prevista un’indennità pari a quella prevista per il congedo di maternità. Nel tentativo di incentivare una maggiore condivisione del ruolo genitoriale, il d.lgs. 105/2022 ha inserito una nuova disposizione nel d.lgs. 151/2001. Essa prevede un congedo “obbligatorio” di paternità, vale a dire che il padre lavoratore, dai 2 mesi precedenti la data della presunta del parto ed entro i 5 mesi successivi, si astenga dal lavoro per un periodo di 10 giorni lavorativi, non frazionabili ad ore, da utilizzare anche in via non continuativa. È prevista un’indennità giornaliera, a carico dell’INPS, pari al 100% della retribuzione.  Il rifiuto del diritto di congedo di paternità obbligatorio determina l’irrogazione in capo al datore di lavoro di una sanzione pecuniaria. Nell’intento di consentire ad entrambi i genitori di conciliare il lavoro con la cura dei figli, il legislatore riconosce anche congedi parentali a ciascun genitore, per ciascun figlio, nei suoi primi 12 anni di vita. In caso di godimento da parte di entrambi i genitori, il limite complessivo non può superare i 12 mesi. Il genitore in congedo parentale beneficia di un’indennità, a carico dell’INPS, pari al 30% della retribuzione per un periodo di 6 mesi.  Altri casi di sospensione. Con riferimento ai lavoratori disabili, si riconosce agli stessi, in caso di aggravamento delle condizioni di salute o significative variazioni dell’organizzazione del lavoro incompatibili con la prosecuzione dell’attività lavorativa, il diritto alla sospensione non retribuita del rapporto di lavoro fino a che permanga siffatta incompatibilità. Un diritto alla conservazione del posto, senza corresponsione della retribuzione, spetta, altresì, qualora il lavoratore, avente almeno 5 anni di servizio presso lo stesso datore di lavoro, richieda la sospensione del rapporto di lavoro per usufruire di congedi per la formazione, per un periodo non superiore di 11 mesi, continuativo o frazionato, nell’arco dell’intera vita lavorativa. La sospensione del rapporto di lavoro può derivare anche dall’assunzione di funzioni pubbliche elettive (parlamentari o per enti locali). Essi hanno diritto ad un’aspettativa non retribuita per l’intera durata del mandato. Sezione II: LE SOSPENSIONI DIPENDENTI DALL’IMPRESA.  Le modificazioni del quantum della prestazione lavorativa. Può accadere che, per far fronte a situazioni di crisi dell’impresa o di fluttuazione di mercato, l’imprenditore sospenda dal lavoro i lavoratori ovvero ne riduca l’orario. Nel caso di licenziamento nullo perché determinato da motivi sindacali, politici, religiosi si ritenevano applicabili le regole del diritto comune: di conseguenza, il licenziamento era inidoneo ad estinguere il rapporto di lavoro. Ad analoga conclusione si perveniva per il licenziamento viziato nella forma. Il campo di applicazione della l. 604/1966 era limitato ai datore di lavoro che impiegassero 35+ dipendenti (con la conseguenza che, al di sotto dei 36 dipendenti, continuava ad applicarsi il regime del recesso ad nutum). Nel 1970 è entrato in vigore lo Statuto dei lavoratori e, con esso, la norma baricentrica in tema di licenziamenti individuali, ovvero l’art. 18 St. lav.  Con lo Statuto dei lavoratori, si passa ad un regime di stabilità cd obbligatoria ad un regime di stabilità reale: in tutti i casi di illegittimità del licenziamento, il datore di lavoro era tenuto alla reintegrazione nel posto di lavoro oltre che a corrispondere al lavoratore un risarcimento del danno, commisurato all’ultima retribuzione globale di fatto e da commisurare a tutte le retribuzioni cui il lavoratore avrebbe avuto diritto dalla data del licenziamento fino a quella dell’effettiva reintegrazione. Il regime di cui all’art. 18 St. lav. si applicava, per le imprese industriali e commerciali, unicamente alle unità produttive con 15+ dipendenti e alle imprese agricole con 5+ dipendenti. La ratio della limitazione risiedeva nell’intento di non gravare le imprese di minori dimensioni di oneri economici eccessivi, oltre che di evitare tensioni nell’ambiente di lavoro, inevitabili in piccole unità ove lavoratore e datore di lavoro operano a stretto contatto. Con la l. 108/1990 il legislatore ha ulteriormente ridotto l’ambito del recesso ad nutum, che resta applicabile unicamente al lavoratore domestico, ai dirigenti, ai lavoratori in possesso dei requisiti pensionistici e ai lavoratori in prova. La legge ha esteso, altresì, il campo di applicazione dell’art. 18 St. lav.: esso si applica non solo nelle unità produttive con 15+ dipendenti, ma anche ai datori di lavoro che occupano, nel complesso, 60+ dipendenti, a prescindere dal numero dei dipendenti dell’unità produttiva. Un’innovazione di rilievo è rappresentata dalla previsione per cui il lavoratore, in luogo della reintegrazione, può optare per un’indennità sostitutiva, pari a 15 mensilità della retribuzione globale di fatto. Sempre in chiave mantenutiva del previgente regime, la l. 108/1990 ha rimodulato l’indennità, ora ricompresa tra 2,5 e 6 mensilità di retribuzione. La l. 92/2012 – legge Fornero – ha profondamento modificato la disciplina sanzionatoria dei licenziamenti, in particolare l’art. 18 St. lav., soprattutto restringendo i casi di applicazione della tutela reintegratoria, sostituita da una tutela indennitaria. Il legislatore ha scelto di mantenere inalterato il regime di stabilità obbligatoria. Sul piano processuale, la legge ha previsto un rito speciale, finalizzato ad una celere definizione di tale controversie. Il passaggio della tutela reintegratoria alla tutela indennitaria si è avuto, tuttavia, con più decisione, con il cd Jobs Act – d.lgs. 23/2015. All’esito, dunque, dell’ultima e tormentata stagione di riforme, il licenziamento risulta caratterizzato da un duplice regime sanzionatorio: l’uno, applicabile ai rapporti di lavoro instaurati anteriormente al 7 marzo 2015; l’altro applicabile ai rapporti di lavoro instaurati a partire da tale data.  I licenziamenti individuali. Giusta causa: non solo fatti integranti un inadempimento degli obblighi contrattuali, ma anche comportamenti esterni al rapporto di lavoro, tali da ledere il vincolo fiduciario sussistente tra datore di lavoro e lavoratore e perciò impeditivi della regolare prosecuzione del rapporto.  Poiché la subordinazione del lavoratore comporta un vincolo che investe, non l’intera persona del prestatore, bensì la sola esecuzione della prestazione lavorativa, questi non può essere sanzionato per circostanze estranee all’adempimento contrattuale, salvo che non si ripercuotano sull’aspettativa di esatto adempimento. Giustificato motivo: ai sensi dell’art. 3 della l. 604/1966, integra:  Soggettivo -> "notevole (da individuare nel grado di colpa del lavoratore) inadempimento degli obblighi contrattuali” da parte del prestatore di lavoro.  Oggettivo -> “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”. In linea teorica, la norma non fa alcun riferimento alla necessità di una situazione di crisi aziendale, tanto che dovrebbe considerarsi legittimo anche un licenziamento per giustificato motivo oggettivo finalizzato all’incremento dei profitti. Il problema principale che si è posto, e si pone tuttora, in giurisprudenza riguarda i limiti del sindacato giurisdizionale nell’accertamento del giustificato motivo oggettivo del licenziamento. È opinione largamente prevalente che il giudice non possa sindacare nel merito l’opportunità o la convenienza della scelta produttiva od organizzativa dell’imprenditore -> “Il controllo giudiziale è limitato esclusivamente, in conformità ai principi generali dell’ordinamento, all’accertamento del presupposto di legittimità”.  Effettività della ragione adottata: deve essere verificata la coerenza del licenziamento rispetto alle scelte produttive ed organizzative.  Repechage: oltre all’effettività, la giurisprudenza chiede che il datore di lavoro assolva al cd obbligo di repechage (ripescaggio). Il licenziamento si ritiene assistito da un giustificato motivo solo quando non vi sia alcuna possibilità di reimpiego del lavoratore nell’organizzazione produttiva, attraverso l’adibizione del lavoratore a mansioni diverse. L’onere della prova è in capo al datore di lavoro. Consente al datore di lavoro di adibire unilateralmente il lavoratore a mansioni inferiori.  Forma e procedura del licenziamento. Il licenziamento deve essere intimato in forma scritta e con contestuale comunicazione dei motivi, pena la sua inefficacia. In caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, se si rientra nel campo di applicazione dell’art. 18 St. lav., esso deve essere preceduto da una comunicazione preventiva, effettuata dal datore di lavoro all’ITL, al fine di giungere ad una auspicabile soluzione conciliativa. Per i nuovi rapporti costituiti dal 7 marzo 2015 è esclusa l’applicazione di siffatta procedura! In caso di resipiscenza del datore di lavoro, la revoca del licenziamento, purché effettuata entro il termine di 15 giorni dalla comunicazione dell’impugnazione del licenziamento. La revoca consente eccezionalmente di rimuovere l’effetto estintivo con diritto del lavoratore alla retribuzione maturata nel periodo precedente.  I licenziamenti collettivi. Disciplina distinta della l. 223/1991. Il diritto comunitario prevede in materia il necessario, preventivo coinvolgimento del sindacato e dell’autorità amministrativa competente nei diversi ordinamenti, al fine della legittima irrogazione dei licenziamenti collettivi. Più precisamente, esso prescrive l’adozione di procedure di informazione e consultazione del sindacato e di informazione dell’autorità pubblica competente, preventive all’adozione del licenziamento: la loro finalità è di cercare di evitare o di ridurre il n. dei licenziamenti programmati, che potrebbero avere un pesante impatto economico-sociale sulla situazione occupazione locale. Delinea una procedura, molto dettagliata, che pone numerosi e specifici obblighi in capo al datore di lavoro. Licenziamento collettivo: riduzione di personale per “riduzione o trasformazione di attività o di lavoro”, che coinvolga almeno 5 lavoratori nell’arco di 120 giorni. Fasi: I. Prima di effettuare un licenziamento collettivo, il datore di lavoro deve esperire una procedura di informazione sindacale, comunicando la propria intenzione alle rappresentanze sindacali aziendali, costituite ai sensi dell’art. 19 St. lav. II. Esame congiunto circa la possibilità di ridurre il n. dei licenziamenti divisati. La procedura deve esaurirsi entro 45 giorni dalla comunicazione dell’impresa. III. In mancanza di accordo, segue una fase davanti all’autorità amministrativa, in cui ancora si cerca di trovare un accordo. Se neppure in questa sede le parti raggiungo un accordo, il datore può comunque procedere all’intimazione dei licenziamenti, ovviamente in forma scritta. L’art. 5 della l. 223/1991 indica anche i criteri per la scelta dei lavoratori da licenziare -> esigenze tecnico- produttive ed organizzative, anzianità di servizio e carichi di famiglia (priorità logica del criterio delle esigenze tecnico-produttive e organizzative).  Ambito di applicazione. Il campo di applicazione della l. 223/1991 è limitato ai datori di lavoro con 15+ dipendenti. Per i datori di lavoro di minori dimensioni, si applicherà semplicemente la l. 604/1966. Con la l. 234/2021, il legislatore ha previsto ulteriori obblighi in capo al datore di lavoro con almeno 250 dipendenti, che non si trovino in situazione di squilibro economico-finanziario e intendano procedere al licenziamento di almeno 50 lavoratori a seguito della chiusura di un’attività produttiva.  Si tratta di una procedura ulteriore, che non sostituisce l’ordinaria procedura! Più precisamente, è fatto obbligo al datore di lavoro di comunicare l’intenzione di procedere alla chiusura del sito produttivo alle r.s.a. nonché alle sedi territoriali dei sindacati di categoria comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale. Contestualmente, la comunicazione deve essere inviata alle regioni interessate e al Ministro del Lavoro. Il datore di lavoro deve presentare agli stessi soggetti destinatari della comunicazione preventiva, entro 60 giorni, un piano finalizzato a limitare le conseguenze occupazionali ed economiche della chiusura programmata.  Il regime sanzionatorio del licenziamento invalido per i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015. La l. 92/2012 ha profondamente modificato l’art. 18 St. lav. sola anzianità di servizio del lavoratore. Non realizza né un adeguato ristoro del danno patito dal lavoratore, che non dipende dalla sola anzianità di servizio, né un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare illegittimamente.  Indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro. Al lavoratore è comunque attribuita la facoltà di optare per l’indennità sostitutiva alla reintegrazione.  I vizi formali e procedurali. Una tutela indennitaria ridotta è prevista dal d.lgs. 23/2015 nell’ipotesi in cui il licenziamento sia intimato con violazione del requisito di contestuale motivazione scritta del licenziamento + indennità (non assoggettata a contribuzione previdenziale) di importo non inferiore a 2 e non superiore a 12 mensilità.  La Corte costituzionale, con la sentenza 150/2020, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, limitatamente alle parole “di importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio”, ricalcando in gran parte le argomentazioni svolte nella sentenza 194/2018.  Il giudice, nel determinare l’ammontare dell’indennità, dovrà tenere “conto innanzitutto dell’anzianità di servizio, che rappresenta la base di partenza della valutazione e, in chiave correttiva, potrà ponderare anche altri criteri desumibili dal sistema, quali la gravità delle violazioni e anche il n. degli occupati, le dimensioni dell’impresa, il comportamento e le condizioni delle parti”, al fine di adeguare la tutela alle particolarità del caso concreto.  L’offerta di conciliazione. Il d.lgs. 23/2015 ha introdotto una nuova e diversa procedura di conciliazione applicabile ad ogni tipo di licenziamento. Entro i termini di impugnazione stragiudiziale del licenziamento, il datore di lavoro può offrire al lavoratore, un importo pari a 1 mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, e comunque non inferiore a 3 e non superiore a 27 mensilità, mediante assegno circolare. L’accettazione dell’assegno da parte del lavoratore comporta che il rapporto di lavoro si intende definitivamente estinto.  I rimedi al licenziamento illegittimo per i piccoli datori. Anche a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. 23/2015, i licenziamenti illegittimi intimati dai datori di lavoro di minori dimensioni sono sanzionati in modo più blando rispetto a quelli intimati dai datori di lavoro di maggiori dimensioni. Da un lato, è esclusa l’applicazione della reintegrazione nell’ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto contestato al lavoratore; dall’altro lato, l’ammontare dell’indennità è dimezzato (e in ogni caso non può superare le 6 mensilità)! Occorre precisare, altresì, che, in caso di licenziamento discriminatori, nullo e intimato in forma orale, anche per i datori di lavoro di minori dimensioni trova applicazione, ai sensi del d.lgs. 23/2015, la tutela reintegratoria piena.  Il regime sanzionatorio del licenziamento collettivo. Il d.lgs. 23/2015 prevede che, salve le ipotesi in cui il licenziamento collettivo difetti dalla forma scritta (reintegratoria piena), si applica il regime di tutela indennitaria, tra un minimo di 6 e un massimo di 36 mensilità. Le sentenze della Corte costituzionale, 194/2018 e 150/2020 incidono indubbiamente su uno degli aspetti qualificanti del d.lgs. 23/2015, vale a dire la predeterminazione dell’ammontare dell’indennità spettante al lavoratore in caso di licenziamento privo di giusta causa o di giustificato motivo ovvero viziato per motivi formali.  Viene così attribuita al giudice un’ampia discrezionalità, tra l’ammontare minimo e l’ammontare massimo fissato dalla legge.  La specialità del regime dei dipendenti pubblici. L’unica ipotesi in cui trova ancora applicazione il regime di reintegrazione nel posto di lavoro in tutti i casi di invalidità del licenziamento concerne i pubblici dipendenti. Con il d.lgs. 75/2017, che, modificando l’art. 63 del d.lgs. 165/2001, ha previsto espressamente che il giudice, con la sentenza con la quale annulla o dichiara nullo il licenziamento, condanna l’amministrazione alla reintegrazione nel posto di lavoro e ad un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per il periodo dal giorno del licenziamento fino a quello della reintegrazione e comunque in misura non superiore alle 24 mensilità. Si tratta, dunque, di una disciplina speciale e universale, a prescindere non solo dal tipo di vizio del licenziamento, ma anche dalle dimensioni dell’amministrazione in cui il lavoratore opera ed anche dalla sua categoria professionale. Capitolo X: LA TUTELA DEI DIRITTI DEL LAVORATORE.  La disciplina delle rinunce e delle transazioni. Una norma baricentrica del diritto del lavoro è l’art. 2113 c.c. relativo alle rinunce e alle transazioni del lavoratore sull’inderogabilità in peius del contratto collettivo da parte del contratto individuale (il contratto collettivo perderebbe la sua funzione economico-sociale).  Art. 2113.1 c.c.: “Le rinunzie e le transazioni, che hanno per oggetto diritto del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi non sono valide”. Si ritiene che il tipo di invalidità cui fa riferimento il primo comma sia l’annullabilità. La rinuncia è un atto unilaterale, ritenuto normalmente non recettizio ed irrevocabile, con cui il lavoratore dismette un proprio diritto. Bisogno distinguere tra:  Momento genetico (del diritto): negozio in deroga -> la rinuncia, traducendosi in realtà in una deroga a norma imperativa, è radicalmente nulla – proposito della cd rinuncia preventiva del diritto.  Momento funzionale: negozio dispositivo -> la rinuncia, posta in essere nel momento funzionale, cioè nel momento di attuazione del rapporto, quando il diritto è già maturato, è semplicemente annullabile. Ratio: il lavoratore, trovandosi in una situazione di debolezza contrattuale, avrebbe un’attenuata capacità volitiva rispetto al datore di lavoro. L’ultimo comma dell’art. 2113 c.c. sancisce l’inapplicabilità di quanto previsto dallo stesso art. nel caso di conciliazione: le rinunce e le transazioni poste in essere in sede di conciliazione giudiziale, in sede di conciliazione amministrativa, ovvero in sede sindacale, sono inoppugnabili, dunque perfettamente valide. Anche l’assistenza da parte del proprio avvocato costituisce idonea garanzia del fatto che il lavoratore rinunci o transiga con piena consapevolezza.  La prescrizione nel rapporto di lavoro. Vi sono due tipo di prescrizione: 1. Presuntiva: incide sull’onere della prova dell’adempimento dell’obbligazione. Incombe sul creditore dimostrare il contrario. 2. Estintiva: quella che viene normalmente in rilievo, in base alla quale il decorso del tempo determina l’estinzione del diritto. La prescrizione ordinaria è decennale. Ex art. 2948 c.c. il diritto alla retribuzione e alle indennità concesse alla cessazione del rapporto si prescrive in 5 anni. Il problema di maggior rilievo concerne l’individuazione del momento in cui comincia a decorrere il termine di prescrizione: per la regola generale, la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere. Riguardo ai crediti di lavoro, non dal momento della maturazione del diritto, ma dalla cessazione del rapporto di lavoro. La Corte di cassazione ha recentemente preso posizione sulla questione con la sentenza 24246/2022: essa ha escluso che decorra la prescrizione in costanza di rapporto di lavoro; e ciò a ragione del fatto che all’applicazione automatica della reintegrazione per ogni tipo di vizio si è sostituito un regime di tutele diversificato a seconda delle varie ipotesi di licenziamento, di modo che non può escludersi che l’impossibilità di predeterminare ex ante il tipo di ristoro dovuto possa trattenere il lavoratore dal rivendicare i propri crediti durante il rapporto di lavoro, per il timore di essere licenziato. Pur essendo la prescrizione dei crediti di lavoro quinquennale, residuando nel diritto del lavoro, casi in cui opera la prescrizione ordinaria decennale. Questi casi concernono crediti diversi da quelli di natura retributiva ed in particolare il diritto al risarcimento del danno per omesso versamento dei contributi previdenziali. Le sentenze della Corte costituzionale in tema di decorrenza del termine di prescrizione riguardano esclusivamente la prescrizione quinquennale, e non anche quella decennale; ne deriva, dunque, che, nelle residuali ipotesi in cui opera il regime della prescrizione ordinaria, essa decorre in costanza del rapporto.  La decadenza. Oltre che per prescrizione, i diritti del lavoratore possono estinguersi anche per decadenza: a differenza della prima, la decadenza trova applicazione soltanto là dove prevista dalla legge o dall’autonomia privata, purché non renda eccessivamente difficile l’esercizio del diritto.  Se la clausola di decadenza renda eccessivamente difficile l’esercizio del diritto, essa è nulla. La decadenza è insuscettibile di interruzione o sospensione: l’esigenza di certezza giustifica una maggior compressione della posizione del titolare del diritto. Capitolo XII: LE TUTELE NEL MERCATO DEL LAVORO. Sezione I: I SERVIZI PER L’IMPIEGO. La legislazione dell’ultimo periodo, in particolare il Jobs Act, è ispirata all’idea di flexicurity, concetto di ascendenza europea, tendente a spostare le tutele dal piano del rapporto di lavoro a quelle del mercato del lavoro: i singoli hanno sempre più bisogno di sicurezza dell’occupazione piuttosto che di sicurezza del posto. Il nostro Paese è sempre stato caratterizzato da deboli servizi per l’impiego dei disoccupati e degli inoccupati e da politiche di sostegno del reddito frammentarie, costruite, più che sullo stato di bisogno del disoccupato, sulla capacità di pressione dei gruppi professionali più forti. In più, è sempre stata ostacolata anche dai mutamenti intervenuti in ambito costituzionale in relazione al riparto di competenze legislative tra Stato e Regioni in materia di lavoro. La riforma del titolo V ha attribuito alla competenza concorrente Stato-Regioni la materia della “tutela e sicurezza del lavoro”. In merito, è prevalsa l’interpretazione, avallata anche dalla Corte costituzionale, secondo cui la disciplina dei rapporti interprivati, ovverosia diritto del rapporto di lavoro e diritto sindacale, quale parte dell’ordinamento civile, è riservata alla competenza esclusiva statale, mentre alla competenza concorrente Stato-Regioni è attribuita la disciplina dell’organizzazione e del funzionamento del mercato del lavoro ed in particolare i servizi per l’impiego. A fronte del fallimento di questo quadro istituzionale, il legislatore, con la l. 183/2014, ha delegato il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi finalizzati al riordino della normativa in materia di servizi per l’impiego. In base alla delega, è stato emanato il d.lgs. 150/2015 che ha riformato la normativa sui servizi per l’impiego, ponendo nuovamente al centro dell’organizzazione del mercato del lavoro il Ministero del lavoro, il quale si avvale di un organismo denominato Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro (ANPAL). Il decreto istituisce una “Rete nazionale dei servizi per le politiche del lavoro”, costituita dall’Amministrazione centrale, le Regioni e i loro Centri per l’impiego. Si attribuisce al Ministero del lavoro il ruolo di indirizzo (triennale) politico e la specificazione dei livelli essenziali delle prestazioni (liveas), previa intesa in sede di Conferenza. L’ANPAL, quale ente dotato di personalità giuridica, autonomia organizzativa, regolamentare, amministrativa, contabile, costituisce il fulcro dell’operazione di ricentralizzazione dei servizi per i lavoro. Tra le sue principali funzioni vi sono il coordinamento dei servizi per il lavoro, del collocamento dei disabili e delle politiche di attivazione dei lavoratori disoccupati. Ai lavoratori disoccupati il Centro per l’impiego propone la stipulazione di un patto di servizio personalizzato (PSP), avente ad oggetto, da un alto, le misure specifiche che esso si impegna ad erogare al lavoratore e, dall’altro, gli obblighi in capo a quest’ultimo. Rientra tra le politiche attive anche l’assegno di ricollocazione, consistente in una somma, determinata in funzione del profilo personale di occupabilità, spendibile presso i Centri per l’impiego. Anch’esso è sottoposto al principio di condizionalità: esso è infatti concesso a condizione che il beneficiario abbia stipulato con il Centro per l’impiego il patto di servizio personalizzato.  Gli incentivi all’assunzione. L’intervento pubblico sul mercato del lavoro non si limita alla predisposizione delle strutture e alla regolazione dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro, ma prevede incentivi all’assunzione per i datori di lavoro e stimoli di vario genere in capo ai lavoratori. L’ordinamento prevede una gamma di incentivi economici – solitamente sgravi contributivi – in caso di assunzioni, preferibilmente a tempo indeterminato, che hanno carattere temporaneo o permanente, a seconda delle esigenze contingenti del mercato del lavoro e della disponibilità finanziaria. Il sistema si presenta, tuttavia, disorganico, in ragione del fatto che non sono chiare né le priorità né le motivazioni che giustificano i divari di entità e di durata dei vari incentivi economici riconosciuti ai beneficiari. Dunque, il d.lgs. 150/2015 contiene un capo intitolato “Riordino degli incentivi”, che si pone come obiettivo la loro trasparenza ed omogenea applicazione.  Il collocamento dei disabili. Da lungo tempo, il nostro ordinamento è caratterizzato da una normativa vincolistica, volta a favorire l’inserimento al lavoro dei disabili. La materia è ora disciplinata dalla l. 68/1999 che cerca di realizzare forme di collocamento mirato dei disabili – che tenga conto cioè delle attitudini degli stessi e del tipo di esigenze professionali delle imprese – promuovendone l’inserimento e l’integrazione nel mondo del lavoro attraverso appositi servizi di sostegno. Alcune modifiche a questa legge sono poi state apportate dal d.lgs. 151/2015. La legge elenca varie categorie di soggetti beneficiari: gli invalidi civili in età lavorativa affetti da minorazioni fisiche o psichiche che comportino una riduzione della capacità lavorativa superiore al 49%; gli invalidi al lavoro con grado di invalidità superiore al 33%; le persone non vedenti e sordomute; gli invalidi di guerra + soggetti non disabili ma che il legislatore ritiene meritevoli di particolare protezione sociale -> orfani, coniugi superstiti di coloro che siano deceduti per causa di lavoro, di guerra o di servizio; profughi italiani rimpatriati.  Sono soggetti all’obbligo di assunzione i datori di lavoro che occupano almeno 15 dipendenti e la quota di posti di lavoro riservata ai disabili varia al variare del n. dei dipendenti (es. 1 da 15 a 35; 2 da 36 a 50). La legge prevede comunque agevolazioni per i datori di lavoro che assumono disabili, la cui durata non può eccedere un periodo di 36 mesi: si prevede un incentivo economico, corrisposto dall’INPS, pari al 70% della retribuzione mensile lorda imponibile per ogni lavoratore disabile che abbia una riduzione della capacità lavorativa superiore al 79% -> a scendere. Sezione II: LA PROTEZIONE DEL REDDITO IN CASO DI DISOCCUPAZIONE e INOCCUPAZIONE.  Tutele per disoccupazione involontaria, ASPI, NASPI e DIS-COLL. Il sistema di tutela contro la disoccupazione involontaria è stato profondamente rivisitato dalla l. 92/2012 che, nell’ottica di eliminare differenziazioni di trattamento non giustificate e di elevare l’ammontare dell’indennità ordinaria di disoccupazione, ha istituito un unico schema assicurativo, l’Assicurazione Sociale per l’Impiego (ASPI), prevedendo al contempo il venir meno dell’indennità di mobilità. Si trattava di un’indennità di disoccupazione particolarmente favorevole, per entità e durata, spettante ai lavoratori licenziati da imprese rientranti nel campo di applicazione dell’intervento straordinario della Cassa integrazioni (dunque, imprese medio-grandi del settore industriale). L’ASPI è stata rimodellata dal Jobs Act, con il d.lgs. 22/2015 e sostituita con la Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego (NASPI). Essa è condizionata, oltre che dallo stato di disoccupazione involontaria, anche da requisiti di anzianità contributiva del lavoratore beneficiario, differenziandosi dall’ASPI perché la durata della prestazione viene parametrata sulla contribuzione versata. La NASPI spetta ai lavoratori che hanno perso involontariamente la propria occupazione e presentano congiuntamente una serie di requisiti: - Disoccupazione involontaria. - Essere in grado di far valere almeno 13 settimane di contribuzione nei 4 anni precedenti l’inizio del periodo di disoccupazione. - Essere in grado di far valere 30 giorni di lavoro effettivo nei 12 mesi precedenti l’inizio del periodo di disoccupazione. L’indennità NASPI è pari al 75% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali percepita dal lavoratore negli ultimi 4 anni e si riduce del 3% ogni mese a decorrere dal 6° mese di fruizione. L’aspetto più significativo, accanto alla omogeneizzazione dei trattamenti e all’adeguamento di entità e durata, è la sottoposizione della NASPI al principio di condizionalità: i beneficiari del trattamento di disoccupazione devono stipulare con il centro per l’impiego competente il patto di servizio personalizzato e rispettare gli obblighi in esso individuati (es. frequenza di corsi di formazione, partecipazione alle iniziative di orientamento, accettazione di un’offerta di lavoro congrua). Anche i lavoratori con rapporti di collaborazione coordinata e continuativa hanno diritto ad un’indennità di disoccupazione – cd DIS-COLL. L’ammontare è pari al 75% del reddito mensile e la sua durata max. è stata estesa a 12 mesi.  Le tutele in caso di inoccupazione. Il sistema di ammortizzatori sociali si è arricchito, solo recentemente, di misure finalizzate a tutelare anche gli inoccupati, ovverosia coloro che non hanno mai svolto attività lavorativa in alcuna forma, autonoma o subordinata, e siano alla ricerca di un’occupazione. Si tratta di misure volte a contrastare la povertà, ma che hanno come caratteristica distintiva l’obbligo per il soggetto interessato di attivarsi al fine dell’inserimento o reinserimento nel mondo del lavoro. Dapprima vi fu il Reddito di inclusione (ReI), sostituito nel 2019 dal Reddito di cittadinanza, destinato unicamente a soggetti in situazione di povertà/disagio sociale, e sottoposto al principio di condizionalità. L’istituto, grandemente controverso nel dibattito politico, è stato abolito dal 1° gennaio 2024. Esso consisteva in una somma di denaro di importo variabile, che non può superare i 780€ mensili, erogata dall’INPS attraverso Carta di pagamento per l’acquisto di beni e servizi. Capitolo XIII: I DATORI DI LAVORO NON IMPRENDITORI.  Il lavoro con i provati non imprenditori. Mentre per le generali tutele previste dal codice civile non si sono posti particolari problemi di compatibilità, è stato lo stesso legislatore, nelle leggi speciali, a disciplinare in modo differenziato il rapporto di lavoro con datore non imprenditori, generalmente escludendo i lavoratori dipendenti da determinate tutele, in ragione della particolarità dei rapporti.  Lavoro domestico: ha per oggetto l’opera svolta per il funzionamento della vita familiare, la cui disciplina prevede ancora oggi la possibilità del licenziamento ad nutum.  Organizzazioni di tendenza: caratterizzate dal fine ideologico, per le quali la tutela contro i licenziamenti subisce delle deroghe, anche se ha esteso lo stesso regime di tutela in caso di licenziamento invalido dettato per gli altri datori di lavoro, e perfino la tutela reintegratoria.
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