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RIASSUNTO DIRITTO PROCESSUALE CIVILE, Sintesi del corso di Diritto Processuale Civile

Appunti personali delle lezioni sul 2 volume di procedura civile C. MANDRIOLI A. CARRATTA, XXVI edizione

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

Caricato il 23/01/2020

martina-iannini
martina-iannini 🇮🇹

5

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Scarica RIASSUNTO DIRITTO PROCESSUALE CIVILE e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Processuale Civile solo su Docsity! Capitolo II Fase introduttiva Il procedimento di cognizione si articola in 3 fasi: a) fase di introduzione; b) fase di istruzione (articolata a sua volta nelle fasi di trattazione e istruzione in senso stretto); c) fase di decisione. La fase introduttiva ha la funzione di introdurre la causa e di realizzare il primo contatto tra i soggetti del processo. L'atto sul quale è imperniata questa fase è la domanda, proposta nelle forme dell'atto di citazione. Va tenuto presente che la procedibilità dell'atto introduttivo del processo è condizionata del previo esperimento della procedura di mediazione di cui al D.lgs. 28/2010. L'atto di citazione è un atto doppiamente ricettizio, in quanto si rivolge: a) convenuto: soggetto nei cui confronti l'attore vuol proporre la domanda; b) giudice: soggetto al quale l'attore vuole rivolgere la domanda. Duplice è la funzione dell'atto di citazione: a) citare in giudizio colui nei cui confronti è proposta la domanda (vocatio in jus); b) rivolgere al giudice la domanda di tutela giurisdizionale, previa affermazione del diritto di cui si chiede la tutela con la conseguente determinazione dell'oggetto del processo (editio actionis). Gli elementi dell'atto di citazione sono indicati nell'art. 163 c. 3 c.p.c.: 1) l'indicazione del tribunale davanti al quale la domanda è proposta: assolve la funzione di individuare il giudice al quale si propone la domanda; 2) il nome, il cognome, la residenza e il codice fiscale dell'attore, il nome, il cognome, il codice fiscale, la residenza o il domicilio o la dimora del convenuto e delle persone che rispettivamente li rappresentano o li assistono. Se attore o convenuto è una persona giuridica, un'associazione non riconosciuta o un comitato, la citazione deve contenere la denominazione o la ditta, con l'indicazione dell'organo o ufficio che ne ha la rappresentanza in giudizio: assolve la funzione di individuare sia l'attore che il convenuto; 3) la determinazione della cosa oggetto della domanda: petitum mediato; 4) l'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda, con le relative conclusioni: l'esposizione dei fatti costituisce la causa petenti mentre le conclusioni costituiscono la formulazione sintetica e globale della domanda al giudice nei suoi termini essenziali; 5) l'indicazione specifica dei mezzi di prova dei quali l'attore intende valersi e in particolare dei documenti che offre in comunicazione; 6) il nome e il cognome del procuratore e l'indicazione della procura, qualora questa sia stata già rilasciata: va posta in relazione con la facoltà, prevista dall'art. 125 c. 2 c.p.c., di ritardare il rilascio della procura alle liti fino al momento della costituzione in giudizio; 7) l'indicazione del giorno dell'udienza di comparizione; l'invito al convenuto a costituirsi nel termine di venti giorni prima dell'udienza indicata ai sensi e nelle forme stabilite dall'articolo 166, ovvero di dieci giorni prima in caso di abbreviazione dei termini, e a comparire, nell'udienza indicata, dinanzi al giudice designato ai sensi dell'articolo 168-bis, con l'avvertimento che la costituzione oltre i suddetti termini implica le decadenze di cui agli articoli 38 e 167: con i presenti inviti (a costituirsi ed a comparire all'udienza indicata) l'attore assolve l'onere della regola del contraddittorio, ponendo il convenuto nella condizione di potersi difendere, in quanto lo voglia. L'indicazione del giorno di udienza è fissata nell'atto di citazione dal difensore dell'attore mentre le udienze successive vengono fissate dal giudice. La prima barriera di preclusione a carico del convenuto è quella indicata nel n. 7 dell'art. 163 ove fa riferimento che in caso di mancata costituzione nei termini stabiliti incorrerà nella decadenze di cui agli artt. 38 e 167. Termini per comparire: nel fissare i termini rileva la necessità che l'attore nel scegliere il giorno della prima udienza non lo scelga da un lato tanto vicino da impedire al convenuto di disporre la difesa, dall'altro che non lo scelga troppo lontano da frustare l'eventuale interesse del convenuto ad accelerare i termini. L'art. 163 bic c. 1 dispone: Tra il giorno della notificazione della citazione e quello dell'udienza di comparizione debbono intercorrere termini liberi non minori di novanta giorni se il luogo della notificazione si trova in Italia e di centocinquanta giorni se si trova all'estero. Nelle cause in cui sussistono particolari ragioni di urgenza il presidente può, su istanza dell'attore e con decreto motivato in calce dell'atto originale e delle copie della citazione, abbreviare fino alla metà i termini indicati dal primo comma (art. 163 bis c. 2). Il c. 3 del presente articolo attribuisce al convenuto una facoltà: Se il termine assegnato dall'attore ecceda il minimo indicato dal primo comma, il convenuto, costituendosi prima della scadenza del termine minimo, può chiedere al presidente del tribunale che, sempre osservata la misura di quest'ultimo termine, l'udienza per la comparizione delle parti sia fissata con congruo anticipo su quella indicata dall'attore. Il presidente provvede con decreto, che deve essere comunicato dal cancelliere all'attore, almeno cinque giorni liberi prima dell'udienza fissata dal presidente. Il presidente provvede con decreto che deve essere comunicato all'attore e alle altre parti costituite almeno 5 giorni liberi prima dell'udienza fissata dal presidente nonché personalmente alle parti non costituite in un congruo termine stabilito dal presidente. I termini per comparire debbono essere osservati con riguardo all'udienza originariamente fissata, indipendentemente da eventuali successivi rinvii dell'udienza stessa a norma dell'art. 168 bis c. 4. La notificazione dell'atto di citazione: l'atto di citazione, una volta steso (almeno in 2 copie) deve essere sottoscritto dal difensore, salvo il caso in cui la parte stia in giudizio personalmente. La sottoscrizione ad opera della parte personalmente non è idonea a sostituire la sottoscrizione da parte del difensore. In tal caos la giurisprudenza considera l'atto cosi sottoscritto inesistente o insanabile. Se i convenuti sono più di uno, la notificazione deve avvenire nei confronti di tutti, con la consegna di una copia a ciascuno di essi. Su ciascuna di tali copie e sull'unico originale l'ufficiale giudiziario stende la relata di notifica. Dal momento della notifica l'atto produce i suoi effetti: a) processuali: si riconducono al fenomeno della litispendenza; b) sostanziali: sono marginali e si riconducono da un lato al fatto che la domanda non può essere accolta nel momento in cui è prodotta e dall'altro che il tempo necessario per lo svolgimento del processo non deve dare luogo ad effetti estintivi. Infatti, la prescrizione è interrotta dalla notificazione dell'atto con il quale s'inizia un giudizio, sia questo di cognizione o conservativo o esecutivo (Cass. 19932/2008). La nullità della citazione: ai sensi dell'art. 164 c. 1 c.p.c.: la citazione è nulla se è omesso o risulta assolutamente incerto alcuno dei requisiti stabiliti nei numeri 1 e 2 dell'articolo 163, se manca l'indicazione della data dell'udienza di comparizione, se è stato assegnato un termine a comparire inferiore a quello stabilito dalla legge ovvero se manca l'avvertimento previsto dal numero 7 dell'articolo 163. Lo scopo di tale disposizione è quello di evitare che non venga instaurato il contraddittorio tra le parti (vocatio in jus); Le conseguenze della presente nullità sono menzionate nei commi 2 e 3: Se il convenuto non si costituisce in giudizio, il giudice, rilevata la nullità della citazione ai sensi del primo comma, ne dispone d'ufficio la rinnovazione entro un termine perentorio. Questa sana i vizi e gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producono sin dal momento della prima notificazione. Se la rinnovazione non viene eseguita, il giudice ordina la cancellazione della causa dal ruolo e il processo si estingue a norma dell'articolo 307, comma terzo. La costituzione del convenuto sana i vizi della citazione e restano salvi gli effetti sostanziali e processuali di cui al secondo comma; tuttavia, se il convenuto deduce l'inosservanza dei termini a comparire o la mancanza dell'avvertimento previsto dal numero 7 dell'articolo 163, il giudice fissa una nuova udienza nel rispetto dei termini. Il c. 4 statuisce: la citazione è altresì nulla se è omesso o risulta assolutamente incerto il requisito stabilito nel numero 3 dell'articolo 163 ovvero se manca l'esposizione dei fatti di cui al numero 4 dello stesso articolo. Lo scopo di tale disposizione è quello di far conoscere al convenuto le doglianze che gli sono mosse, onde consentirgli di difendersi nel merito. Le conseguenze della presente nullità sono menzionate nei commi 5 e 6: Il giudice, rilevata la nullità ai sensi del comma precedente, fissa all'attore un termine perentorio per rinnovare la citazione o, se il convenuto si è costituito, per integrare la domanda. Restano ferme le decadenze maturate e salvi i diritti quesiti anteriormente alla rinnovazione o alla integrazione. Nel caso di integrazione della domanda, il giudice fissa l'udienza ai sensi del secondo comma dell'articolo 183 e si applica l'articolo 167. Quindi per i vizi concernenti la vocatio, il raggiungimento dello scopo della vocatio, rende possibile una sanatoria totale, fermi solo gli effetti maturati, mentre per i vizi attinenti l'editio, l'intrinseca incertezza dell'oggetto del giudizio, che la costituzione del convenuto non basta ad ovviare, rende necessario far salva quest'ultima eventualità. Per quanto riguarda lo svolgimento del processo successivamente alla rinnovazione o all'integrazione: in caso di rinnovazione è chiaro che le successive preclusioni si riferiscono all'atto rinnovato e alla successiva comparsa di risposta mentre nel caso di integrazione è sufficiente la nuova concessione di termini che è prevista dall'attuale art. 183 c. 6. Questa sembra essere la portata del c. 6 dell'art. 164 che richiama l'attuale comma 2 dell'art. 183 e dispone l'applicabilità dell'art. 167. Nella sola ipotesi di convenuto non costituito, se il giudice non rileva i vizi, è dubbio se i vizi divengono insanabili e rilevabili d'ufficio nei gradi successivi del processo o se sussistono possibilità di rinnovazione o di sanatoria, in applicazione del principio della conversione dei vizi di nullità in motivi di gravame. Più drastiche ancora le conseguenze di quei vizi che danno luogo alla c.d. inesistenza dell'atto di citazione (non è possibile alcuna sanatoria). Va d'altra parte osservato che, sebbene la sanatoria dei vizi prevista dalla norma in esame si riferisca ai soli vizi della citazione, non si dubita della sua applicabilità anche ai vizi della notificazione della citazione, mentre di solito non si richiede che la costituzione del convenuto debba essere tempestiva. Nel caso di citazione di più convenuti, se il vizio investe solo la vocatio in jus di alcuni di essi, i problemi che conseguono alla sua mancata sanatoria vanno risolti nel caso di litisconsorzio necessario sul fondamento dell'art. 102 c. 2 c.p.c. e nel caso di litisconsorzio facoltativo secondo le processo che è affidata talora all'organo collegiale e talora allo stesso g.i. Ai sensi dell'art. 174 c.p.c. il giudice designato è investito di tutta l'istruzione della causa e della relazione al collegio ed in base all'art. 175 c. 2 il g.i. fissa le udienze successive e i termini entro i quali le parti debbono compiere gli atti processuali. Le udienze davanti al g.i., a differenza di quelle davanti al collegio, non sono pubbliche. A desse partecipano solo i difensori delle parti nonché le parti personalmente (solo nella prima udienza di trattazione e negli altri casi stabiliti dalla legge, senza poter interloquire se non con l'autorizzazione del giudice). I provvedimenti con i quali il g.i., risolvendo possibili contrasti tra le parti, fissa le udienze, stabilisce i termini e realizza lo svolgimento dell'istruzione assumono la forma dell'ordinanza. Le ordinanze possono essere pronunciate dal g.i. in udienza oppure fuori dall'udienza a seguito di riserva che deve essere sciolta entro i 5 giorni successivi (art. 186 c.p.c.). Le ordinanze pronunciate in udienza si presumono conosciute dalla parti mentre quelle pronunciate fuori udienza debbono essere comunicate alle parti costituite, a cura del cancelliere, entro i 3 giorni successivi. Ai sensi dell'art. 177 c.p.c.: Le ordinanze, comunque motivate, non possono mai pregiudicare la decisione della causa. Salvo quanto disposto dal seguente comma, le ordinanze possono essere sempre modificate o revocate dal giudice che le ha pronunciate. Non sono modificabili né revocabili dal giudice che le ha pronunciate: 1) le ordinanze pronunciate sull'accordo delle parti, in materia della quale queste possono disporre; esse sono tuttavia revocabili dal giudice istruttore o dal collegio, quando vi sia l'accordo di tutte le parti; 2) le ordinanze dichiarate espressamente non impugnabili dalla legge; 3) le ordinanze per le quali la legge predisponga uno speciale mezzo di reclamo. La legge prevede anche l'eventualità che l'ordinanza dell'istruttore non contenga la fissazione dell'udienza successiva: per la quale eventualità l'art. 289 c.p.c. contempla la possibilità dell'integrazione del provvedimento su istanza di parte o d'ufficio nel termine perentorio di 6 mesi dalla pronuncia del provvedimento. Sezione II: comparizione e trattazione La trattazione della causa comprende tutta quell'attività preparatoria del giudizio che è compiuta dal giudice a partire dalla prima udienza e fino al momento in cui la causa è rimessa in decisione. Il primo avvio della trattazione si verifica nell'udienza che l'attore aveva indicato nell'atto di citazione. La nozione di comparizione alla quale si riferiscono gli artt. 181 e 183 non coincide con quella che, nell'art. 101 c.p.c., era intesa come generica acquisizione della presenza formale nel processo (quella che si acquisisce con la costituzione), la comparizione alla quale si riferisce l'art. 181 riguarda la presenza effettiva, all'udienza, della parte costituita, che compare a mezzo del difensore. L'art. 181 c.p.c. prende in considerazione, al primo comma, l'ipotesi che nessuna delle parti sia presente alla prima udienza e dispone: Se nessuna delle parti compare alla prima udienza, il giudice fissa un'udienza successiva, di cui il cancelliere dà comunicazione alle parti costituite. Se nessuna delle parti compare alla nuova udienza, il giudice ordina che la causa sia cancellata dal ruolo e dichiara l'estinzione del processo. Questa intenzione di rinuncia è rilevante solo in quanto riferita all'inerzia dell'attore mentre sarebbe assurdo attribuire una portata paralizzante all'inerzia del convenuto, la quale può avere rilievo solo come implicita accettazione delle conseguenze dell'inerzia dell'attore. Perciò la legge non prende in considerazione la mancata comparizione del solo convenuto, il quale se costituito resterà assente. Prende, invece, in considerazione all'art. 181 c. 2 c.p.c. la mancata comparazione del solo attore costituito: Se l'attore costituito non comparisce alla prima udienza, e il convenuto non chiede che si proceda in assenza di lui, il giudice fissa una nuova udienza, della quale il cancelliere dà comunicazione all'attore. Se questi non comparisce alla nuova udienza, il giudice, se il convenuto non chiede che si proceda in assenza di lui, ordina che la causa sia cancellata dal ruolo e dichiara l'estinzione del processo. La prima udienza: alla prima udienza il giudice, ai sensi dell'art. 182 c.p.c., è tenuto a verificare d'ufficio la regolarità della costituzione delle parti e, quando occorre, le invita a completare o a mettere in regola gli atti e i documenti che riconosce difettosi. Con questo controllo si possono evitare le conseguenze di irregolarità, o addirittura di vizi, che potrebbero compromettere la funzionalità del processo, e di cui l'una o l'altra parte potrebbe approfittare a fini dilatatori. La l. 69/09 ha ampliato il testo dell'art. 182, da un lato inserendo in esso lo strumento per ovviare anche al difetto di rappresentanza tecnica in capo al difensore e, dall'altro lato, configurando la possibilità di una sanatoria ex tunc dei vizi conseguenti al difetto della rappresentanza. Infatti, il c. 2 dispone: Quando rileva un difetto di rappresentanza, di assistenza o di autorizzazione ovvero un vizio che determina la nullità della procura al difensore, il giudice assegna alle parti un termine perentorio per la costituzione della persona alla quale spetta la rappresentanza o l'assistenza, per il rilascio delle necessarie autorizzazioni, ovvero per il rilascio della procura alle liti o per la rinnovazione della stessa. L'osservanza del termine sana i vizi, e gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producono fin dal momento della prima notificazione. A queste verifiche si aggiungono quelle più specificamente riferite alla regola del contraddittorio, alle quali si riferisce il c. 1 dell'art. 183 c.p.c.: All'udienza fissata per la prima comparizione delle parti e la trattazione il giudice istruttore verifica d'ufficio la regolarità del contraddittorio e, quando occorre, pronuncia i provvedimenti previsti dall'articolo 102, secondo comma, dall'articolo 164, secondo, terzo e quinto comma, dall'articolo 167, secondo e terzo comma, dall'articolo 182 e dall'articolo 291, primo comma. L'art. 102 c. 2 riguarda l'ordine di integrazione del contraddittorio; l'art. 164 commi 2, 3 5 riguarda l'ordine di rinnovazione, integrazione o di cancellazione; l'art. 182 riguarda le verifiche e i provvedimenti; l'art. 291 riguarda le verifiche e gli ordini di rinnovazione che precludono alla dichiarazione di contumacia. Il giudice quando pronunzia i provvedimenti di cui al primo comma, il giudice fissa una nuova udienza di trattazione (art. 183 c. 2). Questo quadro delle iniziative del giudice ai fini collaborativi con le parti si completa col potere, che l'art. 183 c. 4, attribuisce al giudice, di chiedere alle parti i chiarimenti necessari e di indicare loro le questioni rilevabili d'ufficio delle quali ritiene opportuna la trattazione. I poteri del g.i. in questa prima udienza non sono limitati a tale elencazione in quanto questo può assumere altri provvedimenti, tra cui quelli anticipatori (ex art 186 bis e ter). L'eventuale comparazione delle parti in prima udienza e il tentativo di conciliazione: la l. 353/90 ha introdotto l'art. 185 permettendo al giudice di raggiungere due finalità: l'acquisizione di elementi utili al fine del decidere, nel quadro della funzione dell'interrogatorio libero di cui all'art. 117 c.p.c. e l'effettuazione del tentativo di conciliazione. Ai sensi dell'art. 185: Il giudice istruttore, in caso di richiesta congiunta delle parti, fissa la comparizione delle medesime al fine di interrogarle liberamente e di provocarne la conciliazione. Il giudice istruttore ha altresì facoltà di fissare la predetta udienza di comparizione personale a norma dell'art. 117. Quando è disposta la comparizione personale, le parti hanno facoltà di farsi rappresentare da un procuratore generale o speciale il quale deve essere a conoscenza dei fatti della causa. La procura deve essere conferita con atto pubblico o scrittura privata autenticata e deve attribuire al procuratore il potere di conciliare o transigere la controversia. Se la procura è conferita con scrittura privata, questa può essere autenticata anche dal difensore della parte. La mancata conoscenza, senza giustificato motivo, dei fatti della causa da parte del procuratore è valutata ai sensi del secondo comma dell'articolo 116. Il tentativo di conciliazione può essere rinnovato in qualunque momento dell'istruzione. Quando le parti si sono conciliate, si forma processo verbale della convenzione conclusa. Il processo verbale costituisce titolo esecutivo. Tale conciliazione è giudiziale in quanto frutto di iniziative sorte e sviluppate nell'ambito del giudizio mentre ad essa si affianca la conciliazione stragiudiziale che si svolge al di fuori del giudizio, con lo scopo di prevenirlo o di definirlo. Insieme a tale possibilità si deve dare atto della possibilità prevista dall'art. 5 c. 2 D.lgs. 28/2010 che consente al giudice, anche in sede di appello, valutata la natura della causa, lo stato dell'istruzione e il comportamento delle parti, di invitare le stesse a procedere alla mediazione. Tale invito può essere fatto fino all'udienza di p.c. Solo se tutte le parti aderiscono all'invito il giudice fissa la successiva udienza alla scadenza del termine per la conclusione della procedura di mediazione (non superiore a 4 mesi) e assegna alle parti un termine di 15 giorni per presentare la domanda di mediazione davanti ad uno degli organismi di mediazione iscritti nell'apposito registro. La l. 69/13 ha introdotto l'art. 185 bis c.p.c. che attribuisce la possibilità al giudice di formulare una proposta di conciliazione: Il giudice, alla prima udienza, ovvero sino a quando è esaurita l'istruzione, formula alle parti ove possibile, avuto riguardo alla natura del giudizio, al valore della controversia e all'esistenza di questioni di facile e pronta soluzione di diritto, una proposta transattiva o conciliativa. La proposta di conciliazione non può costituire motivo di ricusazione o astensione del giudice. Si tratta di un invito che il giudice può rivolgere alle parti nel corso del giudizio di primo grado come d'appello, prima della chiusura della fase di trattazione, cioè prima dell'udienza di p.c. O, quando tale udienza non sia prevista, prima della discussione della causa, e che, una volta formulato, preclude la procedibilità dello stesso giudizio. Proprio per questa ragione il giudice fissa la successiva udienza alla scadenza del termine per la conclusione della procedura di mediazione e, quando la mediazione non è già stata avviata, assegna alle parti un termine di 15 giorni per presentare la domanda di mediazione davanti ad uno degli organismi di mediazione. La prima udienza: ai sensi dell'art. 183 c. 4 nell'udienza di trattazione ovvero in quella eventualmente fissata ai sensi del terzo comma, il giudice richiede alle parti, sulla base dei fatti allegati, i chiarimenti necessari e indica le questioni rilevabili d'ufficio delle quali ritiene opportuna la trattazione. La legge disciplina con successive collocazioni nell'iter procedimentale dapprima il regime delle nuove allegazioni e quindi il regime delle nuove istanze istruttorie e delle nuove produzione di documenti: ciò trova la sua spiegazione nel rilievo che quest'ultime sono conseguenziali e strumentali alle prime. Il regime delle allegazioni che concernono l'oggetto del processo è disciplinato dal c. 5 dell'art. 183 c.p.c.: a) proporre nuove domande o nuove eccezioni significa allargare l'oggetto del processo con l'allegazione di nuovi fatti costitutivi, oppure estintivi, modificativi o impeditivi (c.d. mutatio); b) precisare (c.d. emendatio) vuol dire rettificare la portata delle domande riguardo il petitum e la causa petendi. Per Cass. 7546/2002 la domanda dei maggiori danni di cui all'art. 1591 c.c. per ritardato rilascio di immobile locato costituisce mutatio, mentre la domanda degli ulteriori canoni maturati in corso di giudizio costituisce semplice emendatio. Resta salva, invece, l'ipotesi che la modificazione sia espressamente consentita da altre disposizioni come ad es. l'art. 1453 c. 2 con riguardo alla domanda di risoluzione del contratto in un giudizio proposto per l'adempimento. Al riguardo, la giurisprudenza ritiene che questa eccezionale modificazione non richieda l'accettazione del contraddittorio ad opera dell'altra parte e sia consentita in appello ed anche in sede di rinvio, purché sulla base dei medesimi fatti, cioè senza modificare la causa petendi. Se si mutasse il petitum o la causa petendi o entrambi questi elementi si darebbe luogo alla proposizione di una domanda nuova, il cui divieto è palesemente implicito nella norma in discorso e d'altra parte non meno palesemente imposto dalle esigenze di contraddittorio. Ferma la possibilità di proporre la domanda nuova in un nuovo processo. Non è sempre facile stabilire quando la precisazione raggiunga il livello della modificazione. La giurisprudenza ha affermato che con la precisazione non si allarga l'ambito del giudizio postulato: ciò che avviene con la modificazione quando è fondata sull'allegazione di fatti principali, nuovi anche se coordinati con quelli già allegati. Si ha mutamento della domanda quando muta il nucleo dei fatti che sono causalmente collegati con l'oggetto della domanda stessa. Un criterio che si ripete nelle massime della Cassazione è quello imperniato sull'essersi introdotto un tema di indagine nuovo (Cass. 4003/2007). Si ritiene inoltre ammissibile la proposizione di domande ed eccezioni che siano la diretta conseguenza di quelle già formulate e la modificazione in più o in meno del quantum purchè con riferimento agli stessi fatti e dunque implicite (Cass. 17977/2007). In conclusione le parti possono effettuare le precisazioni e le eventuali modificazioni in tali limiti, cosi come le allegazioni di nuovi fatti secondari o finalizzati ad eccezioni rilevabili d'ufficio, senz'altro alla prima udienza di trattazione ed anche con le eventuali memorie successive. Ai sensi dell'art. 183 c. 5: Nella stessa udienza l'attore può proporre le domande e le eccezioni che sono conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto. Può altresì chiedere di essere autorizzato a chiamare un terzo ai sensi degli articoli 106 e 269, terzo comma, se l'esigenza è sorta dalle difese del convenuto. Le parti possono precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate. Queste facoltà previste specificamente per l'attore concernono possibili esigenze difensive conseguenti alle difese del convenuto, difese che l'attore ha potuto conoscere solo con l'esame della comparsa di risposta. Ai sensi dell'art. 183 c. 6: Se richiesto, il giudice concede alle parti i seguenti termini perentori: 1) un termine di ulteriori trenta giorni per il deposito di memorie limitate alle sole precisazioni o modificazioni delle domande, delle eccezioni e delle conclusioni già proposte: tale termine si riferisce alle sole allegazioni, prevedendo solo le precisazioni e/o modificazioni delle domande, delle eccezioni e delle conclusioni già proposte; 2) un termine di ulteriori trenta giorni per replicare alle domande ed eccezioni nuove, o modificate dall'altra parte, per proporre le eccezioni che sono conseguenza delle domande e delle eccezioni medesime e per l'indicazione dei mezzi di prova e produzioni documentali: configura la possibilità di replica alle allegazioni effettuate nel primo termine. L'aggettivo “nuove” non va inteso in senso assoluto, poiché contrasterebbe col disposto del n. 1 ma limitatamente alle modificazioni dell'altra parte; 3) un termine di ulteriori venti giorni per le sole indicazioni di prova contraria: è limitato all'offerta di prova contraria. Ai sensi dell'art. 183 c. 7 Salva l'applicazione dell'articolo 187, il giudice provvede sulle richieste istruttorie fissando l'udienza di cui all'articolo 184 per l'assunzione dei mezzi di prova ritenuti ammissibili e rilevanti. Se provvede mediante ordinanza emanata fuori udienza, questa deve essere pronunciata entro trenta giorni. Le istanze possono essere state proposte e le produzioni avvenute con la citazione e con la comparsa di risposta ma al riguardo non si sono maturate preclusioni, poiché tali iniziative possono verificarsi ancora alla 1 udienza ed anche successivamente con scadenza fino a quella prevista del termine 183. In questa stessa udienza si chiude la barriera delle istanze sulle quali il g.i. può provvedere in udienza. Ai sensi dell'art. 183 c. 8: Nel caso in cui vengano disposti d'ufficio mezzi di prova con l'ordinanza di cui al settimo comma, ciascuna parte può dedurre, entro un termine perentorio assegnato dal giudice con la medesima ordinanza, i mezzi di prova che si rendono necessari in relazione ai primi nonché depositare memoria di replica nell'ulteriore termine perentorio parimenti assegnato dal giudice, che si riserva di provvedere ai sensi del settimo comma; Ai sensi dell'art. 183 c. 9: Con l'ordinanza che ammette le prove il giudice può in ogni caso - le forme accelerate della sua pronuncia non pregiudicano i diritti di difesa, ancorchè differiti, della parte che le subisce. Alla parte è lasciata l'alternativa di scegliere se attendere la sentenza, nella prospettiva di riuscire a modificare il convincimento del giudice in sede di scritture conclusionali e di ottenere cosi la revoca dell'ordinanza con la sentenza che definisce il giudizio, oppure rinunciare alla pronuncia della sentenza per appellare subito l'ordinanza che acquista l'efficacia della sentenza impugnabile. L'art. 186 quater afferma: Esaurita l'istruzione, il giudice istruttore, su istanza della parte che ha proposto domanda di condanna al pagamento di somme ovvero alla consegna o al rilascio di beni, può disporre con ordinanza il pagamento ovvero la consegna o il rilascio, nei limiti per cui ritiene già raggiunta la prova. Con l'ordinanza il giudice provvede sulle spese processuali. La richiesta può riguardare solo domande di condanna al pagamento di somme o di consegna o rilascio di cose mobili e anche immobili. La pronuncia può avvenire nella stessa o in un altra udienza o previa riserva, ma, in ogni caso, previa instaurazione del contraddittorio, con le modalità che il giudice riterrà più opportune. Nel caso di diverse domande autonome nulla sembra impedire la proponibilità e l'accoglimento con l'ordinanza ex art. 186 quater delle sole domande di condanna o di alcune di esse, previa separazione. Nel caso di domande in rapporto di pregiudizialità, la pronuncia dell'ordinanza sembra impedita dalla circostanza che l'ordinanza de qua contenga anche la pronuncia sulle spese ma è determinante anche il rilievo che la legge ha limitato i poteri decisori esercitabili con l'ordinanza alla sola condanna. A parere del Mandrioli questo non esclude che il giudice possa conoscere incidenter tantum della domanda pregiudiziale, salvi i casi nei quali sulla pregiudiziale la legge o l'esplicita domanda di una delle parti esiga con la pronunci con efficacia di giudicato. Il c. 2 dell'art. 186 quater statuisce: L'ordinanza è titolo esecutivo. Essa è revocabile con la sentenza che definisce il giudizio. Il c. 3 dell'art. 186 quater statuisce: Se dopo la pronuncia dell'ordinanza, il processo si estingue, l'ordinanza acquista l'efficacia della sentenza impugnabile sull'oggetto dell'istanza. L'eventualità alla quale questo comma si riferisce è quella che entrambe le parti si astengano dal dare impulso al processo: l'una perché appagata dalla pronuncia dell'ordinanza e l'altra perché convinta di non poter ottenere la revoca della sentenza. Il termine per l'eventuale impugnazione decorrerà dalla comunicazione dell'ordinanza che dichiara l'estinzione o dalla sentenza che pronunciasse sull'eventuale reclamo. Alla mancata impugnazione, seguirà il passaggio in giudicato della sentenza. Il c. 4 dell'art. 186 quater statuisce: L'ordinanza acquista l'efficacia della sentenza impugnabile sull'oggetto dell'istanza se la parte intimata non manifesta entro trenta giorni dalla sua pronuncia in udienza o dalla comunicazione, con ricorso notificato all'altra parte e depositato in cancelleria, la volontà che sia pronunciata la sentenza. Questo comma viene incontro all'eventualità che la parte intimata, intenzionata a proporre appello, perchè convinta di non riuscire a modificare l'orientamento del giudice, voglia evitare i tempi lunghi necessari per la pronuncia della sentenza e preferisca proporre subito impugnazione. Poiché l'impugnazione non è proponibile contro l'ordinanza la l. 263/2005 disciplina l'acquisizione dell'efficacia della sentenza impugnabile in capo all'ordinanza non più con la dichiarazione dell'intimato di rinunciare alla pronuncia della sentenza ma con l'assegnazione alla stessa parte intimata di un termine non perentorio di 30 giorni per la manifestazione della volontà opposta, ossia per la pronuncia della sentenza. Nel caso di processi cumulati soggettivamente se c'è litisconsorzio necessario, l'ordinanza pronunciata nei confronti di tutti i convenuti si trasforma in sentenza impugnabile da tutti gli intimati anche se la richiesta di prosecuzione del giudizio è effettuata da uno solo di essi. Nel caso di cumulo oggettivo, la Cassazione ha espresso un contrasto tra: a) pronunce che negano l'ammissibilità dell'ordinanza, quando le domande non sono suscettibili di separazione. Cass. 13690/2001: “Nei processi con cumulo di domande non suscettibili di separazione è inammissibile la pronuncia dell'ordinanza successiva alla chiusura dell'istruzione; peraltro il provvedimento, ove pronunciato, non è idoneo ad acquisire l'efficacia della sentenza impugnabile e, conseguentemente, è inammissibile l'appello proposto”; b) pronunce che ritengono ammissibile l'istanza nel caso di domande contrapposte e incompatibili tra loro. Cass. 2084/2002: “L'art. 186 quater c.p.c. trova applicazione anche nel caso di giudizio in cui siano cumulate una domanda principale ed una domanda riconvenzionale e l'istanza sia formulata da una sola delle parti; in tal caso sull'accertamento del giudice istruttore sui fatti costitutivi del diritto della parte istante si produrranno gli effetti della sentenza, se l'altra parte rinunzia alla sua pronuncia”; c) pronunce che ritengono ammissibile l'istanza nel caso di pronuncia solo su parte dell'istanza. Cass. 2079/2002: “L'ordinanza successiva alla chiusura dell'istruzione pronunciata solo su parte della relativa istanza, ove intervenga la rinuncia dell'intimato, acquista l'efficacia della sentenza su tutto l'oggetto dell'istanza (e non solo su quello del provvedimento), dovendosi intendere che sulla parte dell'istanza su cui il provvedimento non ha pronunciato c'è stato rigetto implicito e non omissione di pronuncia”. Il riferimento all'oggetto dell'istanza sia nel 3 che nel 4 comma ha il significato di una limitazione, nel senso che solo con riguardo alla specifica domanda di pagamento o di consegna o di rilascio, proposta con l'istanza; e ciò sia nell'ipotesi che la parte intimata si dolga della pronuncia e sia anche nell'ipotesi che la parte richiedente si dolga dell'accoglimento solo parziale della sua istanza. A seguito della decorrenza del termine il g.i. deve, prima di disporre l'archiviazione del fascicolo, verificare se permangano ancora domande sulle quali il giudice sia tenuto a pronunciarsi, nel qual caso si determina la continuazione del giudizio per la pronuncia sulle altre domande. La pronuncia dell'ordinanza ex art. 186 quater, quando sia stata pronunciato altro provvedimento provvisorio presuppone la revoca di quest'ultimo. Sezione III: l'intervento dei terzi Tra gli atti che concernono genericamente l'instaurazione del contraddittorio vanno inclusi anche quelli attraverso i quali si realizza l'intervento dei terzi nel processo. In caso di intervento volontario il terzo entra nel processo con un atto analogo a quello del convenuto (comparsa) in quanto si ritengono superflui gli elementi della citazione. Ai sensi dell'art. 267 c.p.c.: Per intervenire nel processo a norma dell'articolo 105, il terzo deve costituirsi presentando in udienza o depositando in cancelleria una comparsa formata a norma dell'articolo 167 con le copie per le altre parti, i documenti e la procura. Se il deposito della comparsa avviene in udienza le altre parti ne sono subito informate ed il contraddittorio è già instaurato anche col terzo; se ciò avviene fuori dall'udienza il contraddittorio col terzo non è ritualmente instaurato fino a quando il cancelliere non abbia dato la notizia dell'intervento alle altre parti, mediante comunicazione. Ai sensi dell'art. 268 c.p.c. l'intervento può avere luogo finché non sono precisate le conclusioni. Il terzo non può compiere atti che al momento dell'intervento non sono più consentiti ad alcuna altra parte, salvo che comparisca volontariamente per l'integrazione necessaria del contraddittorio. Di conseguenza, l'intervento successivo, possibile fino alla p.c., dovrebbe essere considerato tardivo e limitato ai casi di intervento adesivo dipendente o del colegittimato all'azione e con conseguenze che pregiudicano le sue possibilità di difesa specie sotto il profilo delle iniziative istruttorie. Rispetto all'intervento coatto, sia esso ad istanza di parte o su ordine del giudice, si ricorda che il terzo viene fatto entrare a mezzo di atto di citazione. A seguito della notificazione di tale atto, il terzo è arte del processo e può scegliere se costituirsi o restare contumace. Se l'intervento coatto avviene ad istanza di parte, il terzo deve essere posto in condizione di poter partecipare al processo, senza subire preclusioni, ossia fin dall'inizio del processo e con rispetto dei termini a comparire. Questo implica la necessità che la prima udienza venga differita o che venga fissata allo scopo, un'altra udienza dopo la prima (art. 269). L'iniziativa per la nuova fissazione dell'udienza da parte del g.i. è assunta dalla parte che intende chiamare il terzo e che può essere il convenuto o anche l'attore nel caso in cui l'interesse alla chiamata sorga a seguito delle difese svolte dal convenuto nella comparsa di risposta. Art. 269 c. 2: il convenuto che intenda chiamare un terzo in causa deve, a pena di decadenza, farne dichiarazione nella comparsa di risposta e contestualmente chiedere al giudice istruttore lo spostamento della prima udienza allo scopo di consentire la citazione del terzo nel rispetto dei termini dell'articolo 163-bis. Il giudice istruttore, entro cinque giorni dalla richiesta, provvede con decreto a fissare la data della nuova udienza. Il decreto è comunicato dal cancelliere alle parti costituite. La citazione è notificata al terzo a cura del convenuto. Se invece la parte che intende chiamare il terzo è l'attore la chiamata è possibile solo se l'interesse alla chiamata sia sorto dalla difese svolte dal convenuto nella comparsa di costituzione e risposta. In questo caso la richiesta di fissazione di un'udienza per la citazione del terzo, non può avvenire che alla prima udienza. Art. 269 c. 3: Ove, a seguito delle difese svolte dal convenuto nella comparsa di risposta, sia sorto l'interesse dell'attore a chiamare in causa un terzo, l'attore deve, a pena di decadenza, chiederne l'autorizzazione al giudice istruttore nella prima udienza. Il giudice istruttore, se concede l'autorizzazione, fissa una nuova udienza allo scopo di consentire la citazione del terzo nel rispetto dei termini dell'articolo 163-bis. La citazione è notificata al terzo a cura dell'attore entro il termine perentorio stabilito dal giudice. Art. 269 c. 5: Nell'ipotesi prevista dal terzo comma restano ferme per le parti le preclusioni ricollegate alla prima udienza di trattazione, ma i termini eventuali di cui al sesto comma dell'articolo 183 sono fissati dal giudice istruttore nella udienza di comparizione del terzo. Tale ipotesi si verifica solo in caso di chiamata a richiesta dell'attore. In ogni caso, sia che la citazione avvenga per la prima udienza orginaria e sia che avvenga per la nuova udienza fissata dall'istruttore, il relativo atto va depositato nel termine di costituzione dell'attore, poiché il chiamante è attore rispetto al terzo chiamato mentre quest'ultimo può, se non vuole restare contumace, costituirsi con le modalità proprie del convenuto, ossia con comparsa di risposta a norma dell'art. 166. Quando l'intervento coatto avviene per ordine del giudice, la legge non pone precisi limiti temporali. Poichè il destinatario dell'ordine del giudice non è il terzo ma le parti già presenti nel processo e più precisamente la parte che ha interesse ad evitare la cancellazione della causa dal ruolo, il meccanismo della chiamata è quello della citazione ad opera della parte più diligente (art. 270). Il terzo potrà costituirsi o restare contumace. Sezione IV: la rimessione della causa al collegio o in decisione Di vera e propria rimessione al collegio si può parlare solo con riferimento alle cause elencate nel nuovo art. 50 bis. Per le altre cause, ossia quelle attribuite al tribunale in composizione monocratica, la rimessione in decisione avviene nell'ambito del medesimo organo (g.i.) sicché può forse essere più esatto parlare di rimessione in decisione (281 bis-septies). Ai sensi dell'art. 189 c.p.c. Il giudice istruttore, quando rimette la causa al collegio, a norma dei primi tre commi dell'articolo 187 o dell'articolo 188, invita le parti a precisare davanti a lui le conclusioni che intendono sottoporre al collegio stesso, nei limiti di quelle formulate negli atti introduttivi o a norma dell'articolo 183. Le conclusioni di merito debbono essere interamente formulate anche nei casi previsti dall'articolo 187, secondo e terzo comma. La rimessione investe il collegio di tutta la causa, anche quando avviene a norma dell'articolo 187, secondo e terzo comma. La rimessione totale della causa dà luogo alla chiusura, anche se non definitiva dell'istruzione della causa, e cioè costituisce la terza sottofase dell'istruzione. Tale fase ha la funzione di ponete di passaggio alla fase decisoria. Le diverse ipotesi di rimessione totale: a) rimessione immediata, al termine della trattazione, per la decisione sul merito senza bisogno di istruzione probatoria: art. 187, Il giudice istruttore, se ritiene che la causa sia matura per la decisione di merito senza bisogno di assunzione di mezzi di prova, rimette le parti davanti al collegio. Ciò può accadere o perchè i fatti in causa siano pacifici e si discute solo di una situazione di diritto o perchè le parti non hanno offerto prove costituende; b) insorgenza di questioni preliminari o pregiudiziali che l'istruttore ritiene suscettibili di definire il giudizio: e che perciò ritiene opportuno fare oggetto di immediata rimessione totale, anziché accantonarle fino alla chiusura dell'istruzione. Tale ipotesi è prevista dai commi 2-3 dell'art. 187, Può rimettere le parti al collegio affinché sia decisa separatamente una questione di merito avente carattere preliminare, solo quando la decisione di essa può definire il giudizio. Il giudice provvede analogamente se sorgono questioni attinenti alla giurisdizione o alla competenza o ad altre pregiudiziali, ma può anche disporre che siano decise unitamente al merito; c) rimessione dopo l'avvenuto svolgimento dell'istruzione probatoria: 188, Il giudice istruttore provvede all'assunzione di mezzi di prova e, esaurita l'istruzione, rimette le parti al collegio per la decisione a norma dell'articolo seguente. La modalità di rimessione totale: a) Precisazione delle conclusioni: 189, Il giudice istruttore, quando rimette la causa al collegio, a norma dei primi tre commi dell'articolo 187 o dell'articolo 188, invita le parti a precisare davanti a lui le conclusioni che intendono sottoporre al collegio stesso, nei limiti di quelle formulate negli atti introduttivi o a norma dell'articolo 183. Le conclusioni di merito debbono essere interamente formulate anche nei casi previsti dall'articolo 187, secondo e terzo comma. La precisazione delle conclusioni è un atto orale da compiersi da ciascuna delle parti, dinanzi al g.i. Precisazione delle conclusioni significa manifestazione in modo preciso e definitivo delle conclusioni, tenendo conto degli elementi emersi durante il corso della trattazione e dell'istruzione probatoria degli eventualmente svoltasi. Il c. 2 dell'art. 189 statuisce: La rimessione investe il collegio di tutta la causa, anche quando avviene a norma dell'articolo 187, secondo e terzo comma. Nella sede di p.c. È esclusa la possibilità di offerta di nuovi mezzi di prova. L'importanza della p.c. Sta in relazione con l'esigenze del contraddittorio e, più precisamente, con l'esigenza di ciascuna parte di conoscere la formulazione definitiva e non più mutabile delle domande dell'altra parte, contando sulla definitività della formulazione. Questa esigenza di presentare una formulazione definitiva, completa e immutabile implica che la mancata riproduzione di una specifica conclusione comporta l'abbandono della domanda cui la conclusione avrebbe dovuto riferirsi (Cass. 4328/1986). Nel precisare le conclusioni, le parti possono anche rinunciare ad alcune di esse oppure diminuendo il petitum o al limite aumentarlo, nel caso di sopravvenienza di norme o fatti, ferma la causa petendi, oppure limitarsi a richiamare le conclusioni formulate in precedenza. Questo richiamo dovrà intendersi effettuato implicitamente nel caso che una parte non ottemperi all'invito di precisare le conclusioni; b) comparse conclusionali e memorie di replica: la rimessione avviene dopo la precisazione delle conclusione, quando il g.i. rimette le parti al collegio. A questo punto, la legge passa a disciplinare lo scambio tra le parti degli atti scritti nei quali si sostanzia e si riassume l'attività difensiva dei difensori. I primi e più importanti di questi atti sono le comparse conclusionali di cui dispone l'art. 190 c.p.c.: Le comparse conclusionali debbono essere depositate entro il termine perentorio di sessanta giorni dalla rimessione della causa al collegio e le memorie di replica entro i venti giorni successivi. Per il deposito delle comparse conclusionali il giudice istruttore, quando rimette la causa al collegio, può fissare un termine più breve, comunque non inferiore a venti giorni. Attraverso tale deposito avviene la comunicazione all'altra parte della copia ad essa destinata. Lo scambio cosi realizzato avviene in attuazione delle esigenze proprie del contraddittorio. Lo scambio fa si che la controparte venga a conoscenza della comparsa avversaria prima del collegio. b) prova piena e prova di verosimiglianza: quest'ultima ricorre quando il giudice si accontenta che il fatto affermato è credibile o verosimile; c) prova propriamente detta e argomento di prova: quest'ultimo offre solo elementi di valutazione di altre prove e perciò può costituire l'unico fondamento per il giudizio di fatto (es. principio di prova scritta). Onere della prova: l'art. 2697 c.c. in base alla quale l'onere probatorio è posto a carico di chi chiede il giudizio su un diritto di cui dice o afferma i fatti costitutivi. L'altra parte cercherà di provare il contrario ma si trova avvantaggiata nel senso che se non è provato l'accadimento di quei fatti, riuscirà vittoriosa sulla domanda fondata su quei fatti. Le posizioni si invertono in presenza di fatti estintivi, modificativi o impeditivi. Infatti il c. 2 dell'art. 2697 c.c. statuisce che: Chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l'eccezione si fonda. Ancora diversa è la situazione quando l'attore in accertamento negativo non invoca fatti estintivi ma si limita a negare la sussistenza di fatti costitutivi a favore della controparte che vanta il diritto; con ciò, infatti, non fa che provocare la controparte a provare il fondamento del suo vanto, sicchè l'onere della prova grava su quest'ultimo. In taluni casi è la legge stessa che si preoccupa di stabilire un certo assetto nei rapporti tra fatti da provare per un dato effetto costitutivo e fatti la cui prova contraria può impedire quell'effetto. E' quanto accade con le presunzioni legali, ossia quelle conseguenze che la legge trae da un fatto noto per risalire ad un fatto ignorato. Le presunzioni legali sono: a) juris tantum quando la legge consente all'altra parte di offrire la prova contraria; b) juris et de jure quando la legge esclude la possibilità della prova contraria. Il superamento dell'onere della prova si presenta innanzitutto con la c.d. acquisizione della prova che si sostanzia nella regola generale secondo la quale una volta che la prova sia entrata nel processo, ossia acquisita, il giudice può prescindere dal fatto che vi sia entrata per iniziatva della parte onerata o dall'altra parte o nei casi in cui è entrata per l'attività del giudice, purchè i fatti oggetto di prova siano stati allegati dalla parte che fruisce della peova. Si deroga all'onere della prova anche in caso di ispezione giudiziale. E in ultimo si deroga a tale onere in presenza di “fatti notori”, ossia quei fatti che rientrano nella comune esperienza e rispetto ai quali il 115 c. 2 enuncia che possono essere posti a fondamento della decisione senza bisogno di prova. Sezione II: i procedimenti istruttori di integrazione La consulenza tecnica consiste nell'offrire al giudice ausilio di cognizioni tecniche che il giudice non possiede. Il c.t.u. è un ausiliario del giudice. Del giudizio del c.t.u. è responsabile il giudice. A quest'ultimo spetta indicare e delimitare il compito del consulente con la formulazione dei quesiti. La nomina del c.t.u. è compiuta dal g.i. o dal collegio con l'ordinanza ai sensi dell'art. 183 c. 7 o con altra successiva ordinanza nomina un consulente, formula i quesiti e fissa l'udienza nella quale il consulente deve comparire. Possono essere nominati più consulenti solo in caso di grave necessità o quando la legge espressamente lo dispone. Il consulente può astenersi o altrimenti deve comparire all'udienza e prestare il giuramento di bene e fedelmente adempiere alle funzioni affidategli al solo scopo di far conoscere ai giudici la verità. Il c.t.u. dovrà poi depositare la relazione nel termine fissato dal giudice. Tale relazione deve poi essere trasmettere alle parti costituite nel termine stabilito dal giudice con ordinanza resa all'udienza di cui al 193. Con tale ordinanza il giudice fissa il termine entro il quale le parti devono trasmettere al consulente le loro osservazioni sulla relazione e il termine anteriore alla successiva udienza entro il quale il consulente deve depositare la relazione, le osservazioni delle parti e una sintetica valutazione della stessa. Art. 194: Il consulente tecnico assiste alle udienze alle quali è invitato dal giudice istruttore; compie, anche fuori della circoscrizione giudiziaria, le indagini di cui all'articolo 62, da sé solo o insieme col giudice secondo che questi dispone. Può essere autorizzato a domandare chiarimenti alle parti, ad assumere informazioni da terzi e a eseguire piante, calchi e rilievi. Anche quando il giudice dispone che il consulente compia indagini da sé solo, le parti possono intervenire alle operazioni in persona e a mezzo dei propri consulenti tecnici e dei difensori, e possono presentare al consulente, per iscritto o a voce, osservazioni e istanze. Art. 195: Delle indagini del consulente si forma processo verbale, quando sono compiute con l'intervento del giudice istruttore, ma questi può anche disporre che il consulente rediga relazione scritta. Se le indagini sono compiute senza l'intervento del giudice, il consulente deve farne relazione, nella quale inserisce anche le osservazioni e le istanze delle parti. La relazione deve essere trasmessa dal consulente alle parti costituite nel termine stabilito dal giudice con ordinanza resa all’udienza di cui all’articolo 193. Con la medesima ordinanza il giudice fissa il termine entro il quale le parti devono trasmettere al consulente le proprie osservazioni sulla relazione e il termine, anteriore alla successiva udienza, entro il quale il consulente deve depositare in cancelleria la relazione, le osservazioni delle parti e una sintetica valutazione sulle stesse. Sezione III: le regole generali sull'assunzione dei mezzi di prova Ai sensi dell'art. 202 c.p.c. Quando dispone mezzi di prova, il giudice istruttore, se non può assumerli nella stessa udienza, stabilisce il tempo, il luogo e il modo dell'assunzione. Se questa non si esaurisce nell'udienza fissata, il giudice ne differisce la prosecuzione ad un giorno prossimo. Dell'assunzione, alla quale possono assistere, oltre ai difensori anche le parti personalmente si redige processo verbale sotto la direzione del g.i., il quale oltre a riportare in prima persona le dichiarazioni delle parti o dei testimoni, può anche descriverne il contegno. La funzione direttiva del g.i. si estrinseca anche nel potere di pronunciarsi con ordinanza su tutte le questioni che sorgono durante il corso dell'assunzione della prova. Tale funzione trova un limite nel principio dell'impulso di parte. L'operare di tale principio si esprime nell'onere della parte richiedente di presenziare all'udienza fissata per l'inizio o la prosecuzione della prova: se essa non si presenta, il g.i. pronuncia, anche d'ufficio, ordinanza con la quale la dichiara decaduta dal diritto di far assumere la prova. Tale ordinanza di decadenza può essere revocata dall'istruttore nell'udienza successiva, a istanza di parte interessata quando il g.i. riconosca che la mancata comparizione della parte è stata cagionata da una causa non imputabile ad essa. In secondo luogo, l'operare del principio di impulso di parte si concreta nell'onere di denunciare l'eventuale vizio nell'espletamento nella prima istanza o difesa successiva ai sensi dell'art. 157 c. 2. Se il mezzo di prova dev'essere assunto all'estero, il g.i. dispone la rogatoria all'autorità estera e la relativa trasmissione per via diplomatica (204 c. 1). Sezione IV: le prove precostituite Sono documenti tutti quegli oggetti materiali che sono in qualsiasi maniera idonei a rappresentare o a dare conoscenza di un fatto. Per questa loro attitudine, i documenti vengono qui in rilievo come mezzi di prova tra i più efficaci e sicuri. Il documento più frequente è lo scritto. Il fatto rappresentato dal documento consiste nell'estrinsecazione di un pensiero concretatosi nelle parole e compiuta direttamente o indirettamente dal soggetto o dai soggetti che hanno concepito ed hanno voluto estrinsecare quel pensiero attraverso un'attività che si definisce documentazione. L'ordinamento stabilisce che si riconosce come proprio il pensiero espresso in uno scritto, sottoscrivendo tale scritto, ossia apponendovi in calce il proprio nome o una propria siglia, o firma digitale, in caso di documento informatico. Naturalmente la sottoscrizione può non essere necessaria (quando l'autore non ne contesta la provenienza) e può essere anche non sufficiente poiché potrebbe non esprimere la volontà di far proprio il pensiero manifestato nello scritto (c.d. abuso di foglio firmato in bianco). Per ottenere un maggiore margine di sicurezza, rispetto a quella offerta dalla sottoscrizione pura e semplice, circa la provenienza del pensiero espresso nello scritto, l'ordinamento si avvale di un altro strumento, ossia l'attestazione ufficiale di determinati soggetti ai quali l'ordinamento conferisce la funzione di pubblica fede. A tal fine si suole distinguere: a) atto pubblico: ai sensi dell'art. 2699 c.c. è il documento redatto, con le richieste formalità, da un notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede nel luogo dove è formato. Ai sensi dell'art. 2700 fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonché delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti. Piena prova significa efficacia probatoria assoluta ed incondizionata, nel senso che non lascia margine al giudice per una libera valutazione (prova legale). Tale norma contiene una chiarissima limitazione di tale efficacia a quegli elementi che abbiamo chiamato estrinseci: provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, momento della formazione, luogo della formazione e tutto ciò che davanti al pubblico ufficiale è stato detto o fatto. Il contenuto delle dichiarazioni è al di fuori dell'efficacia di prova legale e rientra nell'ampia e normale libera valutazione del giudice.; b) scrittura privata: scritti la cui provenienza può essere desunta dalla sottoscrizione. In tal caso manca l'attestazione del notaio e del pubblico ufficiale che sarà quindi ovviata con altri espedienti integrativi quali: riconoscimento della sottoscrizione da parte del sottoscrittore e in mancanza il riconoscimento tacito o l'autenticazione della sottoscrizione. L'art. 2703 c.c. dispone che si ha per riconosciuta la sottoscrizione autenticata dal notaio o da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato. Precisando che l'autenticazione consiste nell'attestazione da parte dle pubblico ufficiale che la sottoscrizione è stata apposta in sua presenza, previo accertamento dell'identità della persona che la sottoscrive. In presenza di tali elementi il legislatore non esita ad equiparare l'efficacia probatoria della scrittura privata a quella di atto pubblico. Ai sensi dell'art. 2702 c.c. la scrittura privata fa piena prova fino a querela di falso della provenienza delle dichiarazioni da chi l'ha sottoscritta, se colui contro il quale la scrittura è prodotta ne riconosce la sottoscrizione o se questa è legalmente considerata come riconosciuta. Tale efficacia riguarda la provenienza della dichiarazione mentre per quanto concerne l'intrinseco il giudice può valutarlo in piena libertà, eventualmente ricorrendo a massime di esperienza. La scrittura privata autenticata è, dunque, equiparata sotto il profilo probatorio alla scrittura privata riconosciuta. La parte contro la quale la scrittura privata è prodotta, non soltanto può disconoscere la sottoscrizione, ma è addirittura gravata dall'onere di compiere tale disconoscimento, in mancanza del quale verrebbe a subire irrimediabilmente le conseguenze del riconoscimento tacito o presunto. Altra questione è quella che concerne la sussistenza di equipollenti della sottoscrizione. Una corrente giurisprudenziale le ravvisa nella produzione in giudizio ad opera della parte che avrebbe dovuto sottoscriverla mentre taluni autori negano tale equipollenza. L'orientamento della Cassazione è nel senso che alla sottoscrizione può sopperirsi con la produzione in giudizio purché l'altro contraente non sia defunto o abbia revocato il consenso prima della produzione. Il riconoscimento tacito, in virtù dell'art. 215 c.p.c., dispone che la scrittura privata prodotta in giudizio si ha per riconosciuta: a) se la parte alla quale la scrittura è attribuita o contro la quale è prodotta è contumace, salva la disposizione dell'art. 293 c. 3; b) se la parte comparsa non la disconosce o non dichiara di non conoscerla nella prima udienza o nella prima risposta successiva alla produzione. La prima consiste nella contumacia dell'autore dello scritto o del suo avente causa ma si tratta di una disposizione la cui gravità è assai attenuata dal fatto che si consente al contumace che si costituisce tardivamente di effettuare il disconoscimento nella prima udienza o nel termine assegnatogli dal giudice. La seconda si risolve nell'introduzione di una modalità molto severa nell'esercizio del potere del disconoscimento, poiché dispone che se tale disconoscimento non viene compiuto subito, ossia nella prima udienza o nella prima risposta successiva alla produzione dello scritto, non può più essere utilmente compiuto, con l'inesorabile conseguenza che il giudice deve considerare come riconosciuta la scrittura o la sottoscrizione non tempestivamente disconosciuta. Se la parte gravata dall'onere del disconoscimento assolve tempestivamente tale onere, la legge riversa sulla parte che ha prodotto lo scritto la responsabilità della scelta tra le due alternative: rinunciare ad avvalersi dello scritto disconosciuto, che perciò rimarrà privo di ogni efficacia probatoria o insistere nel sostenere la provenienza, in contrasto col disconoscimento, affrontando il rischio dell'instaurazione di un apposito giudizio. Si tratta del giudizio di verificazione disciplinato dall'art. 216 c.p.c.: La parte che intende valersi della scrittura disconosciuta deve chiederne la verificazione, proponendo i mezzi di prova che ritiene utili e producendo o indicando le scritture che possono servire di comparazione. L'istanza per la verificazione può anche proporsi in via principale con citazione, quando la parte dimostra di avervi interesse; ma se il convenuto riconosce la scrittura, le spese sono poste a carico dell'attore. Sull'istanza di verificazione si pronuncia il collegio (220 c.p.c.): se l'esito del giudizio è affermativo, la scrittura vale ad ogni effetto come se fosse stata riconosciuta ed il disconoscente può essere condannato, con la stessa sentenza, ad una pena pecuniaria mentre se l'esito è negativo la scrittura disconosciuta rimane priva di ogni effetto probatorio. La medesima efficacia della scrittura privata viene riconosciuta al documento informatico. Con riguardo all'efficacia probatoria delle riproduzioni di documenti informatici, l'art. 23 quater equipara queste riproduzioni alle altre indicate nell'art. 2712 c.c., attribuendo loro efficacia di piena prova in mancanza di disconoscimento della conformità. Il documento informatico munito di sola firma elettronica è liberamente valutabile dal giudice. Il documento informatico sottoscritto con firma elettronica avanzata, qualificata o digitale, una volta prodotto ritualmente in giudizio, ha efficacia di piena prova della provenienza delle dichiarazioni in esso rappresentate, senza bisogno che lo stesso sia riconosciuto dalla parte contro cui è prodotto, salva l'ulteriore possibilità che sia fornita la prova dell'utilizzo abusivo del dispositivo di firma. Data della scrittura privata: l'indicazione della data non costituisce elemento essenziale della scrittura privata. La legge con riguardo alla scrittura privata lascia alle parti la più ampia autonomia nel provare il momento della documentazione e lascia al giudice altrettanta autonomia nella relativa valutazione. Diverso è invece l'orientamento del legislatore con riguardo alla c.d. data certa rispetto a terzi, ossia con riguardo all'opponibilità ai terzi della data della scrittura privata. In relazione a tale profilo solo l'autenticazione è idonea a dare la prova legale anche della data della scrittura, poiché solo in questo caso esiste l'attestazione di un pubblico ufficiale, circa la sottoscrizione avvenuta in sua presenza. Nel caso invece che la scrittura privata non sia autenticata ma riconosciuta o verificata giudizialmente, la data della scrittura non è certa ed opponibile anche ai terzi se non in quanto concorrano altri fattori idonei a dare tale certezza, quali la registrazione o la sopravvenuta morte del sottoscrittore. La regola generale in tema di efficacia probatoria è nel senso che essa fa prova contro il suo autore e non a suo favore, per l'ovvia ragione che non si dicono né si scrivono cose contro i propri interessi se non sono vere. Allargando la portata di tale regola si può affermare che la legge dispone che anche talune scritture come le carte e i registri domestici possono far prova quando enunciano espressamente un pagamento ricevuto o quando contengono l'espressa menzione che l'annotazione è stata fatta per supplire alla mancanza di titolo in favore di chi è indicato come creditore. Tale principio è applicato dalla legge con riguardo alle scritture contabili delle imprese soggette a fare riferimento a nomi o a cifre, o quando particolari circostanze lo consigliano. L'art. 232 dispone che se la parte non si presenta o rifiuta di rispondere senza giustificato motivo, il collegio, valutato ogni altro elemento di prova, può ritenere come ammessi i fatti dedotti nell'interrogatorio. Il giudice istruttore, che riconosce giustificata la mancata presentazione della parte per rispondere all'interrogatorio, dispone per l'assunzione di esso anche fuori della sede giudiziaria. In caso di litisconsorzio necessario, la confessione resa da alcuni soltanto dei litisconsorti è liberamente apprezzata dal giudice mentre in caso di litisconsorzio facoltativo, la confessione costituisce prova legale nei confronti del solo confitente, ma non nei confronti dei litisconsorti rispetto ai quali può solo essere liberamente apprezzabile. Giuramento: è una dichiarazione compiuta da una delle parti sulla verità di fatti della causa. La dichiarazione ha efficacia probatoria solo in quanto sia resa in giudizio e con particolari forme, sicchè è sempre e solo prova costituenda. Essa si contrappone alla confessione in quanto proviene dalla parte alla quale i fatti dichiarandi non nuocciono ma giovano. La legge distingue fra 2 tipi di giuramento: a) decisorio: è quello che una parte deferisce all'altra per farne dipendere la decisione totale o parziale della causa. Il giuramento può essere riferito contro la parte avversaria, sfidandola a giurare sugli stessi fatti ma in senso contrario (234 c.p.c.); b) suppletorio: è quello che è deferito d'ufficio dal giudice ad una delle parti al fine di decidere la causa, quando la domanda o le eccezioni non sono pienamente provate, ma non sono del tutto sfornite di prova. Una sottospecie di questo giuramento è quello estimatorio, ossia quello deferito al fine di stabilire il valore della cosa domandata, se non può accertarlo altrimenti. In queste ipotesi di giuramento manca l'elemento della sfida dall'una all'altra parte, poiché il giuramento è deferito d'ufficio dal giudice in sede di decisione. L'efficacia probatoria del giuramento è la più intensa che si possa immaginare perchè vincola il giudice al suo esito, il quale dichiarerà vittoriosa la parte che ha giurato e soccombente l'altra, senza che questa possa neppure essere ammessa a provare il contrario di quanto giurato. Tale vincolo rimarrebbe anche se il giuramento venisse dichiarato falso poiché per tale ipotesi, l'art. 2738 c.c. esclude espressamente la possibilità di avvalersi della revocazione che è il rimedio straordinario previsto per i casi in cui si fosse giudicato sulla base di prove riconosciute false. In questa ipotesi la parte soccombente potrà ottenere solo il risarcimento danni, purchè sia intervenuta sentenza penale per falso giuramento. In caso di litisconsorzio necessario il giuramento prestato da alcuni soltanto dei litisconsorti è liberamente apprezzato dal giudice. Non è prevista la revoca del giuramento neppure per errore o violenza, salvo il disposto degli artt. 235 e 236 c.p.c. circa i casi in cui è ammessa la revoca non del giuramento ma del deferimento o del riferimento del giuramento decisorio indipendentemente da ogni vizio di violenza. Oggetto del giuramento possono essere solo fatti rilevanti in maniera decisiva per l'esito della pronuncia su diritti disponibili. Inoltre, il giuramento non è ammesso su fatti illeciti o su contratti per la validità dei quali sia richiesta la forma scritta ad substantiam, né per negare un fatto che da un atto pubblico risulti avvenuto alla presenza del pubblico ufficiale, che ha formato l'atto stesso. Non può essere riferito se il fatto che ne è l'oggetto non sia comune ad entrambe le parti. Con riguardo al giuramento decisorio l'art. 233 c.p.c. statuisce che il giuramento decisorio può essere deferito in qualunque stato della causa davanti al giudice istruttore, con dichiarazione fatta all'udienza dalla parte o dal procuratore munito di mandato speciale o con atto sottoscritto dalla parte (può essere deferito fino all'udienza di p.c. ma non con comparsa conclusionale vedi Cass. 5971/84). Il giuramento deferito dal procuratore ad litem senza mandato speciale è inammissibile anche se la procura ad litem contempla il relativo potere (Cass. 4847/2000). Può essere deferito in appello (non all'udienza di discussione) e non su fatti la cui allegazione è preclusa in appello. Non può essere deferito in Cassazione (Cass. 434/94). In caso di litisconsorzio necessario, il giuramento deve essere riferito a terzi litisconsorti necessari. La parte che ha deferito o riferito il giuramento può tuttavia revocare il deferimento o riferimento. Al riguardo gli artt. 235 e 236 c.p.c. dispongono che tale revoca è possibile, indipendentemente da ogni vizio della volontà e come semplice esercizio dello jus poenitendi fino a quando l'avversario non abbia dichiarato di essere pronto a giurare e comunque nell'ipotesi in cui il giudice, nell'ammettere il giuramento decisorio, abbia modificato la formula proposta dalla parte. Sull'istanza, nella quale si concreta l'atto del deferimento o del riferimento, si pronuncia il g.i. con ordinanza revocabile. Ai sensi dell'art. 237 c.p.c. Le contestazioni sorte tra le parti circa l'ammissione del giuramento decisorio sono decise dal collegio. L'ordinanza del collegio che ammette il giuramento deve essere notificata personalmente alla parte. Ai sensi dell'art. 238: Il giuramento decisorio è prestato personalmente dalla parte ed è ricevuto dal giudice istruttore. Questi ammonisce il giurante sull'importanza morale dell'atto e sulle conseguenze penali delle dichiarazioni false, e quindi lo invita a giurare. Ai sensi dell'art. 239: La parte alla quale il giuramento decisorio è deferito, se non si presenta senza giustificato motivo all'udienza all'uopo fissata, o, comparendo, rifiuta di prestarlo o non lo riferisce all'avversario, soccombe rispetto alla domanda o al punto di fatto relativamente al quale il giuramento è stato ammesso; e del pari soccombe la parte avversaria, se rifiuta di prestare il giuramento che le è riferito. Il giudice istruttore, se ritiene giustificata la mancata comparizione della parte che deve prestare il giuramento, provvede a norma dell'articolo 232, secondo comma. Con riguardo al giuramento suppletorio l'art. 240 enuncia che esso può essere deferito unicamente dal collegio con l'ovvio sottinteso che nelle cause non riservate al collegio può essere deferito dall'istruttore in funzione di giudice unico. Gli artt. 242 e 243 precisano che alla prestazione del giuramento suppletorio si applicano le disposizioni relative al giuramento decisorio, esclusa la possibilità del riferimento all'altra parte. Al giuramento estimatorio si riferisce l'art. 241 c.p.c. ribadendo che esso può essere deferito dal collegio a una delle parti, soltanto se non è possibile determinare altrimenti il valore della cosa e precisando che l'organo decidente deve anche determinare la somma fino a concorrenza della quale il giuramento avrà efficacia. Testimonianza: è la narrazione dei fatti della causa al giudice compiute nel corso del processo e con determinate forme, da soggetti che non sono parti nel processo stesso (ed anzi sono estranei agli interessi in contesa) e che sono attendibili proprio in quanto e nella misura in cui provengono da terzi imparziali. La prova testimoniale si contrappone alla confessione e al giuramento proprio in relazione al fatto che proviene da un terzo imparziale e proprio su questa imparzialità poggia la sua attendibilità. La quale attendibilità non è molta sia perchè è difficile che sussista un'indifferenza assoluta e sia perchè la memoria umana è fallibile. Perciò la legge lascia al giudice la più ampia libertà di apprezzamento della prova testimoniale mentre dall'altro mostra di non contare nemmeno troppo su questa libertà di apprezzamento, in quanto continua ad assoggettare l'ammissibilità di tale prova a limiti alquanto gravi. Anzitutto, un primo ordine di limiti investe ed esclude l'impiego della prova testimoniale in quanto per determinati atti la legge fa dipendere dalla forma scritta, la validità dell'atto medesimo, sicchè per tali atti la forma scritta è richiesta ad substantiam. A parte tale disposizione, le vere e proprie limitazioni all'ammissibilità della forma testimoniale si fondano su due diversi ordini di ragioni: a) sul fatto che il contratto abbia un valore superiore a 2,58 euro. Il rigore di tale limite è limitato dalla circostanza in virtù della quale l'autorità giudiziaria può consentire la prova oltre a tale limite, tenuto conto della qualità delle parti, della natura del contratto e di ogni circostanza; b) sul fatto che la prova per testimoni abbai ad oggetto patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento: ai sensi dell'art. 2722 c.c. la prova per testimoni non è ammessa se ha per oggetto patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento, per i quali si alleghi che la stipulazione è stata anteriore o contemporanea in quanto è scarsamente probabile che tali patti non siano stati inseriti nel documento mentre, ai sensi dell'art. 2723: Qualora si alleghi che, dopo la formazione di un documento, è stato stipulato un patto aggiunto o contrario al contenuto di esso, l'autorità giudiziaria può consentire la prova per testimoni soltanto se, avuto riguardo alla qualità delle parti, alla natura del contratto e a ogni altra circostanza, appare verosimile che siano state fatte aggiunte o modificazioni verbali. Ai sensi dell'art. 2724 i suddetti limiti sono superabili e la prova per testimoni è ammessa in ogni caso: 1) quando vi è un principio di prova per iscritto: questo è costituito da qualsiasi scritto, proveniente dalla persona contro la quale è diretta la domanda o dal suo rappresentante, che faccia apparire verosimile il fatto allegato; 2) quando il contraente è stato nell'impossibilità morale o materiale di procurarsi una prova scritta; 3) quando il contraente ha senza sua colpa perduto il documento che gli forniva la prova. Ai sensi dell'art. 244 l'istanza di ammissione deve essere dedotta mediante indicazione specifica delle persone da interrogare e dei fatti, formulati in articoli separati, sui quali ciascuna di esse deve essere interrogata. La controparte potrà opporsi oppure aderire alla richiesta, eventualmente indicando altri testimoni da sentire sui medesimi articoli o capitoli. Ai sensi dell'art. 245 c.p.c. con l'ordinanza che ammette la prova il giudice istruttore riduce le liste dei testimoni sovrabbondanti ed elimina i testimoni che non possono essere sentiti per legge. La rinuncia fatta da una parte all'audizione dei testimoni da essa indicati non ha effetto se le altre non vi aderiscono e se il giudice non vi consente. Vi sono dei casi in cui il testimone ha il dovere di deporre: ciò risulta indirettamente dall'art. 255 c.p.c. che attribuisce al giudice di disporre, per la mancata comparizione, l'accompagnamento coattivo e la condanna a pena pecuniaria., salvi i casi eccezionali di impossibilità o di altre ragioni per le quali il giudice può recarsi nell'abitazione o nell'ufficio del testimone. Vi sono dei casi, invece, in cui il testimone non può deporre: incapacità a testimoniare e divieto di testimoniare. La ratio del divieto risiede nell'esistenza di situazioni che rendono presumibile una certa parzialità. All'udienza, a richiesta della parte istante, che ha l'onere di essere presente, i testimoni sono esaminati separatamente. Quindi, il g.i. provvede ad interrogare il testimone sui fatti intorno ai quali è chiamato a deporre, rivolgendogli inoltre tutte le domande che ritiene utili a chiarire i fatti medesimi. Tali domande possono essere formulate dal giudice, d'ufficio o su istanza di una delle parti, o del p.m. Ma né i difensori né il p.m. Possono interrogare direttamente i testimoni. Ai sensi dell'art. 254 c.p.c. se vi sono divergenze tra le deposizioni di due o più testimoni, il giudice istruttore, su istanza di parte o d'ufficio, può disporre che essi siano messi a confronto. Ai sensi dell'art. 257 c.p.c. se alcuno dei testimoni si riferisce, per la conoscenza dei fatti, ad altre persone, il giudice istruttore può disporre d'ufficio che esse siano chiamate a deporre. Il giudice può anche disporre che siano sentiti i testimoni dei quali ha ritenuto l'audizione superflua a norma dell'articolo 245 o dei quali ha consentito la rinuncia; e del pari può disporre che siano nuovamente esaminati i testimoni già interrogati, al fine di chiarire la loro deposizione o di correggere irregolarità avveratesi nel precedente esame. Gli eventuali vizi nella deduzione, ammissione e assunzione dei testimoni sono sanati se non eccepiti subito dalla parte interessata, sicchè in caso di decadenza, la conseguente sanatoria è rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del processo. La giurisprudenza ha precisato che in ogni caso la nullità eventualmente non sanata non incide sulla validità della sentenza se non sui punti in cui si fonda sulla prova nulla. L'art. 257 bis disciplina la testimonianza scritta: Il giudice, su accordo delle parti, tenuto conto della natura della causa e di ogni altra circostanza, può disporre di assumere la deposizione chiedendo al testimone, anche nelle ipotesi di cui all'articolo 203, di fornire, per iscritto e nel termine fissato, le risposte ai quesiti sui quali deve essere interrogato. Il giudice, con il provvedimento di cui al primo comma, dispone che la parte che ha richiesto l'assunzione predisponga il modello di testimonianza in conformità agli articoli ammessi e lo faccia notificare al testimone. Il testimone rende la deposizione compilando il modello di testimonianza in ogni sua parte, con risposta separata a ciascuno dei quesiti, e precisa quali sono quelli cui non è in grado di rispondere, indicandone la ragione. Il testimone sottoscrive la deposizione apponendo la propria firma autenticata su ciascuna delle facciate del foglio di testimonianza, che spedisce in busta chiusa con plico raccomandato o consegna alla cancelleria del giudice. Quando il testimone si avvale della facoltà d'astensione di cui all'articolo 249, ha l'obbligo di compilare il modello di testimonianza, indicando le complete generalità e i motivi di astensione. Quando il testimone non spedisce o non consegna le risposte scritte nel termine stabilito, il giudice può condannarlo alla pena pecuniaria di cui all'articolo 255, primo comma. Il giudice, esaminate le risposte o le dichiarazioni, può sempre disporre che il testimone sia chiamato a deporre davanti a lui o davanti al giudice delegato. Tale istituto ha fatto discutere in dottrina in quanto questo si pone in palese contrasto con le esigenze del contraddittorio e i principi del giusto processo, i quali vogliono che ogni atto del processo diverso dagli atti ontologicamente solo di parte, si svolga nel contraddittorio tra le parti e sotto il controllo del giudice terzo e imparziale. L'ispezione giudiziale: è uno dei mezzi di prova che il giudice può esperire d'ufficio. Esso è lo strumento col quale si acquisisce l'efficacia probatoria di cose, luoghi, o corpi di persone, ossia di oggetti che non essendo acquisibili al processo come documenti, possono solo essere fatti materia di osservazione. Ai sensi dell'art. 118 c.p.c. Il giudice può ordinare alle parti e ai terzi di consentire sulla loro persona o sulle cose in loro possesso le ispezioni che appaiono indispensabili per conoscere i fatti della causa, purché ciò possa compiersi senza grave danno per la parte o per il terzo, e senza costringerli a violare uno dei segreti previsti negli articoli 351 e 352 del codice di procedura penale. Se la parte rifiuta di eseguire tale ordine senza giusto motivo, il giudice può da questo rifiuto desumere argomenti di prova a norma dell'articolo 116, secondo comma. Il g.i. fissa il tempo, il luogo e il modo dell'ispezione, al quale procede personalmente o assistito, ove occorre dal ctu. Ai sensi dell'art. 261 c.p.c. il giudice può determinare su quei luoghi o con riferimento a quelle cose o persone la riproduzione dinamica di un determinato fatto allo scopo di accertare se quel fatto sia o possa essersi verificato in un dato modo (esperimento giudiziale). Ai sensi dell'art. 262 c.p.c. nel corso dell'ispezione o dell'esperimento il giudice istruttore può sentire testimoni per informazioni e dare i provvedimenti necessari per l'esibizione della cosa o per accedere alla località. Può anche disporre l'accesso in luoghi appartenenti a persone estranee al processo, sentite se è possibile queste ultime, e prendendo in ogni caso le cautele necessarie alla tutela dei loro interessi. Rendimento dei conti: ha la struttura di un autentico procedimento idoneo a condurre non solo alla prova ma senz'altro all'accertamento circa la situazione del conto ed eventualmente perfino ad un ordine di pagamento del saldo. L'esigenza alla quale tale istituto va incontro sorge ogni qual volta un soggetto sia tenuto a rendere un conto ad un altro soggetto. Ai sensi dell'art. 263 c.p.c. Se il giudice ordina la presentazione di un conto, questo deve essere depositato in cancelleria con i documenti giustificativi, almeno cinque giorni prima dell'udienza fissata per la discussione di esso. Se il conto viene accettato, il giudice istruttore ne dà atto nel processo verbale e ordina il pagamento delle somme che risultano dovute. L'ordinanza non è impugnabile e costituisce titolo esecutivo. riconoscerlo e insieme ne chiedono l'eliminazione. In tal caso non vi sarà il bisogno di instaurare il contraddittorio. Ai sensi dell'art. 288: Se tutte le parti concordano nel chiedere la stessa correzione, il giudice provvede con decreto. Se è chiesta da una delle parti, il giudice, con decreto da notificarsi insieme col ricorso a norma dell'articolo 170, primo e terzo comma, fissa l'udienza nella quale le parti debbono comparire davanti a lui. Sull'istanza il giudice provvede con ordinanza, che deve essere annotata sull'originale del provvedimento. Se è chiesta la correzione di una sentenza dopo un anno dalla pubblicazione, il ricorso e il decreto debbono essere notificati alle altre parti personalmente. Le sentenze possono essere impugnate relativamente alle parti corrette nel termine ordinario decorrente dal giorno in cui è stata notificata l'ordinanza di correzione. L'art. 287 c.p.c. estende il procedimento di correzione anche alle ordinanze, purchè non revocabili ma la stessa ratio sussiste anche per i decreti non revocabili. L'art. 289 c.p.c. prevede l'istituto dell'integrazione: I provvedimenti istruttori, che non contengono la fissazione dell'udienza successiva o del termine entro il quale le parti debbono compiere gli atti processuali, possono essere integrati, su istanza di parte o d'ufficio, entro il termine perentorio di sei mesi dall'udienza in cui i provvedimenti furono pronunciati, oppure dalla loro notificazione o comunicazione se prescritte. L'integrazione è disposta dal presidente del collegio nel caso di provvedimento collegiale e dal giudice istruttore negli altri casi, con decreto che è comunicato a tutte le parti a cura del cancelliere. Capitolo VI Le vicende anormali del processo Riunione: si verifica nell'eventualità che la stessa causa sia proposta dinanzi a giudici diversi. AI sensi dell'art. 273 c.p.c. Se più procedimenti relativi alla stessa causa pendono davanti allo stesso giudice, questi, anche d'ufficio, ne ordina la riunione. Se il giudice istruttore o il presidente della sezione ha notizia che per la stessa causa pende procedimento davanti ad altro giudice o ad altra sezione dello stesso tribunale, ne riferisce al presidente, il quale, sentite le parti, ordina con decreto la riunione, determinando la sezione o designando il giudice davanti al quale il procedimento deve proseguire. Quindi se i procedimenti pendono dinanzi al medesimo g.i. sarà quest'ultimo a disporre la riunione, altrimenti la riunione sarà predisposta dal presidente del tribunale. Connessione: si ha quando si ritiene opportuno che le cause siano trattate dinanzi al medesimo giudice. L'istituto è disciplinato dall'art. 274 c.p.c. analogamente a quanto statuito dall'art. 273 c.p.c. in tema di riunione. L'unica differenza con la riunione, risiede nel fatto che la connessione dà luogo solo ad un'eventuale opportunità, e non necessità, di trattazione congiunta. Dato che la trattazione congiunta è un'opportunità, può accadere che rispetto a cause connesse si riveli la necessità di separazione. Processo in contumacia: la contumacia è la situazione di inattività unilaterale nell'ambito del principio della disponibilità della tutela, che consegue al mancato esercizio del potere-onere di costituzione di una parte e che va dichiarata previa verifica dei suoi presupposti. L'ulteriore svolgimento del processo dopo questa dichiarazione dà luogo al c.d. processo contumaciale. La contumacia è una situazione di fatto, ossia la situazione nella quale si viene a trovare una parte che, dopo aver proposto la domanda o dopo esser stata regolarmente citata non si costituisce neppure alla prima udienza. La legge distingue 2 ipotesi: a) se la parte che dovrebbe essere dichiarata contumace è l'attore: la legge richiede che il convenuto dichiari esplicitamente di voler proseguire il processo mentre in caso contrario si verifica subito la cancellazione della causa dal ruolo e l'estinzione; b) se la parte che dovrebbe essere dichiarata contumace è il convenuto: la legge si preoccupa dell'eventualità che la sua mancata costituzione possa essere dipesa dal difetto di conoscenza dell'instaurazione della causa per irregolarità della notificazione. Perciò la legge dispone che il giudice istruttore verifichi d'ufficio la regolarità di quest'ultimo atto, e, ove rilevi un vizio, ne disponga la rinnovazione entro un termine perentorio. Se neppure dopo la nuova notificazione il convenuto si costituisce, il g.i. lo dichiara contumace. La rinnovazione della notificazione impedisce ogni decadenza, compresa quella relativa al termine per l'impugnazione mentre la mancata attuazione dell'ordine di rinnovazione della notificazione conduce alla cancellazione della causa dal ruolo con ogni ulteriore conseguenza (art. 291 c.p.c.). Nel processo in contumacia vi è la particolarità che alcuni atti caratterizzati dal fatto che, introducono a carico della parte contumace oneri particolarmente pesanti e che normalmente non vanno notificati in quanto la parte costituita ne viene a conoscenza tramite il difensore, nel processo contumaciale andranno notificati alla parte personalmente. Tali atti sono ai sensi dell'art. 292 c.p.c.: a) L'ordinanza che ammette l'interrogatorio o il giuramento; b) le comparse contenenti domande nuove o riconvenzionali. La Cassazione include tra le domande nuove: l'appello incidentale, domanda risarcitoria ex art. 96 c.p.c., e la domanda di risoluzione del contratto nel giudizio iniziato per l'adempimento previsto dall'art. 1453 c. 2 c.c. L'inosservanza di tale regola dà luogo a una nullità relativa deducibile solo dal contumace successivamente costituitosi, il quale può limitarsi a rifiutare il contraddittorio su quella domanda (Cass. 4762/93) mentre se è dedotta in appello comporta secondo un orientamento rimessione al primo giudice ai sensi dell'art. 354 c.p.c. mentre secondo un altro orientamento più recente la pronuncia in merito da parte del giudice di appello. L'art. 292 c.p.c. specifica, inoltre, che le altre comparse si considerano comunicate con il deposito in cancelleria e con l'apposizione del visto del cancelliere sull'originale. Tutti gli altri atti non sono soggetti a notificazione o comunicazione. Le sentenze sono notificate alla parte personalmente. La legge, inoltre, si preoccupa di facilitare al contumace l'ingresso, sia pure tardivo, nel processo, consentendogli la costituzione tardiva in ogni momento fino all'udienza in cui la causa è rimessa al collegio, e ciò col deposito di una comparsa con la procura ed i documenti o con la comparizione in udienza. Il contumace può disconoscere le scritture private prodotte contro di lui. Ai sensi dell'art. 294 c.p.c. Il contumace che si costituisce può chiedere al giudice istruttore di essere ammesso a compiere attività che gli sarebbero precluse, se dimostra che la nullità della citazione o della sua notificazione gli ha impedito di avere conoscenza del processo o che la costituzione è stata impedita da causa a lui non imputabile. Il giudice, se ritiene verosimili i fatti allegati, ammette, quando occorre, la prova dell'impedimento, e quindi provvede sulla rimessione in termini delle parti. Se, invece, il contumace che si costituisce tardivamente non chiede o non ottiene la rimessione in termini non può che accettare il processo nello stato in cui si trova, con la conseguenza che non può compiere attività già precluse alle parti. Sospensione del processo: la sospensione del processo consiste in un arresto dell'iter processuale a causa di un determinato evento e fino alla cessazione di questo. La sospensione, di regola, non si verifica automaticamente ma a seguito di un provvedimento del giudice solo nei gradi di merito (esclusa la Cassazione) e non più dopo la precisazione delle conclusioni. Tale provvedimento consegue: a) all'istanza concorde delle parti: tale sospensione è detta volontaria e può essere disposta dal g.i. per un periodo non superiore a 3 mesi e può avvenire solo una volta, purchè sussistano giustificati motivi; b) al rapporto di pregiudizialità: la decisione della causa in corso va sospesa quando dipende dalla soluzione di altra controversia già pendente da decidersi dallo steso o da altro giudice. La giurisprudenza della Cassazione è prevalentemente orientata per la completa autonomia tra processo penale e processo civile, salve le ipotesi di cui all'art. 75 c. 3 c.p.p. E comunque a condizione che la sentenza penale possa avere efficacia nel processo civile (Cass. 10054/2009). Quindi il giudice deve sospendere la causa (perciò la sospensione è necessaria e non facoltativa e va disposta d'ufficio) ogni qual volta valuta che sussista il presupposto che la legge esprime con le parole “dalla cui definizione dipende la decisione della causa” (Cass. 6572/2000). Quando la questione pregiudicante appartiene alla cognizione del giudice civile la pronuncia può essere evitata quando è possibile la pronuncia incidenter tantum o quando sussistono altri particolari strumenti di tutela provvisoria, nonché quando è possibile la riunione delle cause. Non può essere evitata quando la legge rende necessaria la pronuncia con efficacia di giudicato sulla questione pregiudiziale o quando la riunione non è possibile. L'organo che dispone la sospensione è quello decidente. Occorre prendere atto che le pronunce della Cassazione su regolamenti proposti avverso provvedimenti di sospensione, da un lato sembrano propendere indirettamente per la forma dell'ordinanza per il provvedimento di sospensione mentre dall'altro lato escludono l'ammissibilità del regolamento avverso provvedimenti che negano la sospensione necessaria. Il provvedimento di sospensione va comunicato dal cancelliere sia per la decorrenza del termine sia per la riassunzione. Un caso particolare di sospensione è quello configurato dall'art. 337 c. 2 c.p.c. La particolarità sta nell'eventualità che sulla questione pregiudiziale sia già intervenuta una sentenza. Se tale sentenza passa in giudicato, il giudice della questione pregiudicata dovrà adeguarsi ad essa ma se è impugnata, il giudice della questione pregiudicata può sospendere il processo in attesa della pronuncia sull'impugnazione. Ai sensi dell'art. 298 c.p.c. Durante la sospensione non possono essere compiuti atti del procedimento. La sospensione interrompe i termini in corso, i quali ricominciano a decorrere dal giorno della nuova udienza fissata nel provvedimento di sospensione o nel decreto di cui all'articolo precedente. Tra questi casi particolari di sospensione rientra anche quello che consegue all'eventuale pronuncia di non manifesta infondatezza dell'eccezione di illegittimità costituzionale di una norma di legge. Se il provvedimento di sospensione contiene già la fissazione di un'udienza oltre il periodo di sospensione, non c'è problema. Per l'ipotesi contraria l'art. 297 c.p.c. dispone Se col provvedimento di sospensione non è stata fissata l'udienza in cui il processo deve proseguire, le parti debbono chiederne la fissazione entro il termine perentorio di tre mesi dalla cessazione della causa di sospensione di cui all'articolo 3 del codice di procedura penale o dal passaggio in giudicato della sentenza che definisce la controversia civile o amministrativa di cui all'articolo 295. Nell'ipotesi dell'articolo precedente l'istanza deve essere proposta dieci giorni prima della scadenza del termine di sospensione. L'interruzione: gli eventi che danno luogo all'interruzione sono fatti che compromettono l'effettività del contraddittorio in ogni fase del giudizio di merito, con l'esclusione della fase di Cassazione, nella quale opera l'impulso d'ufficio. La legge attraverso l'istituto in esame blocca il processo congelandolo in una totale stasi destinata a durare fino a quando, per iniziativa dell'una o dell'altra parte, non sia ristabilita l'effettività del contraddittorio, e comunque non oltre un periodo di 3 mesi, il cui eventuale decorso senza la restaurazione del contraddittorio darebbe luogo all'estinzione. Gli eventi che danno luogo all'interruzione del processo sono elencati nell'art. 299 c.p.c.: a) morte della parte ed eventi ad essa assimilabili (es. morte presunta, estinzione della persona giuridica); b) perdita della capacità processuale della parte per effetto dell'interdizione, inabilitazione e dichiarazione di assenza o quando si controverta su rapporti giuridici patrimoniali, della dichiarazione di fallimento; c) la morte o la perdita della capacità processuale del rappresentante legale della parte; d) cessazione della rappresentanza legale (es. raggiungimento della maggiore età o revoca dell'interdizione): si deve precisare che non è causa di interruzione la cessazione della rappresentanza volontaria e della rappresentanza organica. Se l'evento interruttivo si verifica prima che la parte colpita dall'evento si sia costituita, l'interruzione si verifica immediatamente, come conseguenza automatica dell'evento, ed indipendentemente dal provvedimento col quale viene dichiarata. Ciò si spiega se si ricorda che prima della costituzione non è presente nel processo il difensore – procuratore della parte, ossia un soggetto in grado di suggerire alla parte stessa le iniziative più opportune, comprese quelle che potrebbero rendere superflua l'interruzione. Perciò in tali casi l'interruzione deve operare automaticamente. Il che non impedisce che l'interruzione divenga superflua se l'evento interruttivo sia seguito immediatamente dalla ricostruzione dell'effettività del contraddittorio; ciò che può avvenire o con la costituzione spontanea di coloro ai quali spetta di proseguire il processo o con la loro citazione in riassunzione ad opera dell'altra parte. Diversa è la situazione che si determina quando l'evento interruttivo si verifica dopo che la parte che subisce l'evento si sia costituita in giudizio a mezzo di procuratore. In questo caso, c'è un procuratore costituito il quale, da un lato conosce la situazione del processo e, dall'altro lato, è in grado di prendere contatto con le persone alle quali spetta di proseguire il processo. Per tali motivi la legge condiziona l'interruzione al fatto che il procuratore dichiari in udienza l'evento interruttivo. L'art. 300 c.p.c. aggiunge che dal momento di tale dichiarazione o notificazione, il processo è interrotto, salvo che avvenga la costituzione volontaria o la riassunzione a norma dell'articolo precedente. Se il procuratore non compie la dichiarazione dell'evento, il processo prosegue nei confronti della parte che ha subito l'evento, fosse anche defunta, mentre il procuratore assume su di sé la responsabilità conseguente alla mancata interruzione, nell'ipotesi che tale comportamento non sia concordato con coloro ai quali spetta di proseguire il processo. Se l'evento interruttivo riguardasse la parte contumace, il processo si interromperebbe non immediatamente e neppure a seguito di una dichiarazione di un procuratore ma dal momento in cui il fatto interruttivo è documentato dall'altra parte o è notificato o è certificato dall'ufficiale giudiziario nella relazione di notificazione di uno dei provvedimenti di cui all'art. 292 c.p.c. Secondo la Cassazione la dichiarazione non può utilmente avvenire negli scritti conclusionali perchè in tal caso avrebbe finalità solo informative e perciò non produce effetto se non nel caso di riapertura dell'istruzione. Se invece si verifica durante la decorrenza del termine per impugnare, il termine stesso resta interrotto. Se l'evento interruttivo colpisce una delle parti in cause scindibili cumulate per litisconsorzio facoltativo, l'interruzione deve avvenire solo con riguardo al procedimento di cui è parte il soggetto colpito dall'evento, senza che sia necessaria la separazione delle cause riguardanti altri soggetti. Nei casi in cui l'evento interruttivo colpisce il difensore-procuratore, la mancanza del difensore rende impossibile una intermediazione con le persone alle quali spetta di proseguire il processo. Perciò in tali casi l'art. 301 c.p.c. dispone che l'interruzione avviene automaticamente come nei casi di cui all'art. 299, salva la facoltà della parte rappresentata di delegare altro difensore. La prosecuzione del processo si verifica per effetto della ricostruzione dell'effettività del contraddittorio che si verifica attraverso 2 eventualità: a) costituzione spontanea: 302, Nei casi previsti negli articoli precedenti la costituzione per proseguire il processo può avvenire all'udienza o a norma dell'articolo 166. Se non è fissata alcuna udienza, la parte può chiedere con ricorso al giudice istruttore o, in mancanza, al presidente del tribunale la fissazione dell'udienza. Il ricorso e il decreto sono notificati alle altre parti a cura dell'istante; b) citazione in riassunzione: 303, Se non avviene la prosecuzione del processo a norma dell'articolo precedente, l'altra parte può chiedere la fissazione dell'udienza, notificando quindi il ricorso e il decreto a coloro che debbono costituirsi per proseguirlo. In caso di morte della parte il ricorso deve contenere gli estremi della domanda, e la notificazione entro un anno dalla morte può essere fatta collettivamente e impersonalmente agli eredi, nell'ultimo domicilio del defunto. Le impugnazioni Il potere di impugnazione è uno dei poteri che costituisce esercizio di una azione. E' in facoltà della parte esercitare o meno questo potere: se lo esercita introduce la nuova fase del giudizio, la quale a sua volta può essere eventualmente seguita da un'ulteriore fase fino all'esaurimento delle possibili impugnazioni. Se la parte non esercita il potere di impugnazione, si potrà dire che essa compie, attraverso un'implicita rinuncia all'impugnazione, una sostanziale accettazione del provvedimento. Esaurita la serie di impugnazioni, l'ultima pronuncia avrà il carattere dell'incontrovertibilità. La serie delle impugnazioni contro la sentenza assolve ad una duplice funzione: a) da un lato quella di soddisfare, in ragionevole misura, l'esigenza di riesame del giudizio; b) dall'altro lato quella di conseguire, attraverso l'esaurimento della serie limitata delle possibilità di riesame, l'incontrovertibilità della pronuncia e quindi la relativa certezza che costituisce il risultato tipico del giudizio di cognizione. Il fenomeno dell'incontrovertibilità è quello che l'art. 324 c.p.c. chiama cosa giudicata formale. Da tale fenomeno discende l'ulteriore fenomeno per il quale l'accertamento passato in giudicato fa stato alle parti (2909 c.c. cosa giudicata sostanziale). L'efficacia immediatamente esecutiva è stata estesa a tutte le sentenze di 1° grado. Ciò risulta anche dall'art. 337 c. 1 che enuncia la regola, in base alla quale l'esecuzione della sentenza non è sospesa per effetto dell'impugnazione di essa, salve le disposizioni degli artt. 283, 373, 401 e 407 c.p.c. Condizioni delle impugnazioni: anche l'impugnazione ha le sue “condizioni dell'azione”: a) esistenza di un provvedimento; b) interesse ad agire: si presenta come interesse ad impugnare. La finalità dell'impugnazione è quella di ottenere la modificabilità di un provvedimento. Tale interesse ad impugnare normalmente nasce dalla soccombenza ma può manifestarti anche nelle seguenti situazioni: - interesse in capo alla parte totalmente vittoriosa nel merito, ma soccombente su una questione pregiudiziale come quella di giurisdizione (c.d. soccombenza teorica). (Cass. 3102/99); - interesse nel caso di impugnazione del convenuto che in primo grado aveva aderito alla domanda o si era rimesso sulla giustizia (Cass. 9684/98); - interesse ad impugnare in capo ad entrambe le parti rispetto alla sentenza che pronuncia l'estinzione o rispetto alla sentenza inesistente; - interesse ad impugnare nel caso in cui dal passaggio in giudicato della sentenza possa derivare un pregiudizio pratico per la parte vittoriosa (Cass. 10486/2009); - interesse ad impugnare nei casi in cui l'attore, soccombente nel merito, abbia visto risolta in suo favore una questione preliminare di rito rilevabile d'ufficio che, se risolta diversamente, gli consentirebbe la riproposizione della domanda; - dell'istituto, pacificamente riconosciuto dalla giurisprudenza, dell'impugnazione incidentale subordinata e condizionata rispetto a pronunce preliminari o pregiudiziali in senso non ostativo e per la riproposizione dell'eccezione di giudicato interno (Cass. 15362/2008); c) solo i soggetti che furono parti del giudizio hanno la legittimazione ad agire (legittimazione ad impugnare); d) provvedimento impugnabile secondo la legge (c.d. obiettiva impugnabilità del provvedimento). Il difetto di uno di questi requisiti deve condurre ad una pronuncia sul processo cha per contenuto la negazione della stessa possibilità dello svolgimento della fase di impugnazione e che si suol chiamare pronuncia di inammissibilità dell'impugnazione. Il giudizio di impugnazione può distinguersi in 2 momenti: a) giudizio rescindente: è quello che contiene la critica alla decisione impugnata e tende a demolirla; b) giudizio rescissorio: è quello che, dopo la suddetta critica ed in conseguenza della demolizione della decisione impugnata che sia stata eventualmente compiuta in sede rescindente, tende a sostituire ad essa una nuova decisione. Classificazione delle impugnazioni: le impugnazioni vengono classificate e distinte secondo diversi criteri: a) riguardo alla ragione dell'impugnazione: un provvedimento può essere affetto da un errore processuale (error in procedendo) o dalla violazione di una norma di diritto sostanziale (error in judicando). Oppure il provvedimento può essere semplicemente ingiusto, ossia non affetto da errori di diritto ma ingiusto nel suo contenuto, in quanto si assume che esso costituisca il risultato di un'ingiusta valutazione delle prove. b) vizio di nullità come ragione dell'impugnazione: le nullità si possono far valere con l'appello nel caso in cui la nullità riguardi una sentenza di 1° grado, mentre la nullità delle sentenza di 2° grado o comunque non appellabili possono essere fatte valere solo con il ricorso per Cassazione. Qualora il vizio non sia fatto valere con le modalità e nei termini propri dell'impugnazione, il conseguente esaurimento della possibilità dell'impugnazione stessa determina la sanatoria del vizio, in quanto codesto esaurimento dà luogo all'incontrovertibilità propria della cosa giudicata. c) con riguardo all'attitudine a determinare la cosa giudicata: la distinzione tra i mezzi che condizionano il passaggio in giudicato e che sono detti ordinari ed i mezzi che sono proponibili indipendentemente dal passaggio in giudicato del provvedimento (c.d. straordinari). La ragione d'essere di quest'ultimi mezzi di impugnazione sta nel fatto che il legislatore ha ritenuto opportuno consentire, sia pure eccezionalmente, di far valere elementi turbativi del giudizio, che possono essere conosciuti e venire in rilevo anche a distanza di molto tempo (revocazione straordinaria) o situazioni particolari che conseguono a posizioni soggettive diverse da quelle delle parti (opposizione di terzo). Elementi o situazioni che rendono impossibile il far dipendere la relativa impugnazione da un termine rigorosamente prefissato, anche rispetto al suo momento di inizio. Termini e decadenza dell'impugnazione: con riguardo alla funzione di condizionare il passaggio in giudicato della sentenza, la tecnica di cui l'ordinamento si serve consiste nell'assoggettare i mezzi di impugnazione ad un termine perentorio, nel senso che la decorrenza di tale termine senza che l'impugnazione sia stata proposta dà luogo alla decadenza dell'impugnazione stessa e quindi, al passaggio in giudicato della sentenza. Rispetto ai mezzi di impugnazione ordinari il termine è di 30 giorni per l'appello e la revocazione mentre per il ricorso per cassazione e per la revocazione contro le sentenze della Cassazione è di 60 giorni e decorre dalla notificazione della sentenza a istanza della controparte. Agli effetti della decorrenza del termine, non sussistono equipollenti alla notificazione della sentenza neppure in ipotesi di implicita conoscenza legale, salvo il caso dell'acquiescenza e quello, almeno secondo un orientamento della Cassazione, di notificazione di altro mezzo di impugnazione contro la stessa sentenza e con riguardo alla notificazione di un lodo. La notificazione va effettuata, agli effetti della decorrenza del termine, a istanza della parte che vuole fare decorrere il termine, al procuratore costituito per l'altra parte o presso lo stesso procuratore. La notificazione al procuratore costituito non tollera equipollenti neppure nel caso di elezione di domicilio in luogo diverso (Cass. 11093/98) e neppure nel caso di notificazione alla parte nel suo domicilio reale (Cass. 1069/00). Se i procuratori sono più di uno, il termine inizia a decorrere dalla notifica al primo di essi, anche se non domiciliatario (Cass. 5759/04). Se il procuratore è defunto dopo la rimessione in decisione e prima della notificazione, la notificazione va effettuata alla parte personalmente; se il procuratore è stato cancellato dall'albo prima della notificazione questa è inesistente; se il procuratore ha rinunziato al mandato la notifica è valida, salva la possibilità della rimessione in termini. La notificazione eseguita ad un procuratore diverso è inesistente mentre è nulla la notificazione al procuratore costituito effettuata in luogo diverso dallo studio dove aveva eletto domicilio. Nei confronti del contumace la notificazione va effettuata personalmente ed è idonea a far decorrere il termine breve. E' invece idonea a far decorrere il termine la notifica della sentenza alla parte costituita personalmente, ancorchè effettuata nel domicilio eletto in forma esecutiva insieme col precetto (Cass. 15176/2000). I mezzi straordinari, invece, non impediscono il passaggio in giudicato proprio perchè il termine per la loro proposizione (che è il medesimo termine di 30 giorni, salvo però il caso dell'opposizione di terzo di cui al 1 comma dell'art. 404 c.p.c.) non può incominciare a decorrere da un momento predeterminato ma coincide con un evento che può verificarsi anche molto tempo dopo la notificazione della sentenza o non verificarsi affatto. Può accadere che durante la decorrenza del termine, si verifichi uno di quegli eventi che l'art. 299 c.p.c. prevede come causa di interruzione. Per tale ipotesi l'art. 328 c.p.c. dispone che il termine sia interrotto e che il nuovo termine decorra dalla rinnovazione della notificazione della sentenza. Secondo un orientamento della cassazione la norma riguarda entrambi i contendenti mentre un altro più recente orientamento ritiene che l'interruzione del termine giova solo alla parte che ha subito l'evento interruttivo. La rinnovazione può essere effettuata agli eredi collettivamente e impersonalmente nell'ultimo domicilio del defunto. In questi casi l'impugnazione va effettuata nei confronti del successore. In mancanza di notificazione della sentenza, un termine di decadenza dell'impugnazione decorre dalla pubblicazione della sentenza. Si tratta di un termine più lungo pari a 6 mesi. Tale disposizione non si applica nei confronti del contumace che dimostra di non aver avuto conoscenza del processo per nullità della citazione o della notificazione e per nullità della notificazione di quegli atti per i quali l'art. 292 c.p.c. richiede la notificazione personale al contumace. Se dopo 6 mesi dalla pubblicazione della sentenza non notificata si verifica uno degli eventi previsti dall'art. 299 c.p.c., il termine lungo è prorogato per tutte le parti di 6 mesi dal giorno dell'evento. Ai sensi dell'art. 330 se nell'atto di notificazione della sentenza, la parte ha dichiarato la sua residenza o eletto domicilio nella circoscrizione del giudice che l ha pronunciata, l'impugnazione deve essere notificata nel luogo indicato; altrimenti si notifica, ai sensi dell'art. 170, presso il procuratore costituito o nella residenza dichiarata o nel domicilio eletto per il giudizio. Lo stesso vale anche nel caso di impugnazione nel termine lungo. Alla parte contumace la notifica va effettuata personalmente (art. 292 c.p.c.). Se uno degli eventi interruttivi di cui all'art. 299 c.p.c., si verifica dopo la pubblicazione della sentenza, l'effetto interruttivo non incide più sul processo, ma sul termine e le modalità per la proposizione dell'impugnazione, secondo il disposto dell'art. 328 c.p.c. e conseguentemente sull'individuazione del soggetto destinatario della notificazione, che deve essere sempre il soggetto attualmente legittimato. Se la parte vittoriosa è defunta dopo la notificazione della sentenza l'impugnazione può essere notificata nei luoghi indicati dall'art. 330 c. 1, collettivamente e impersonalmente agli eredi della parte defunta (330 c. 2). Quando manca la dichiarazione di residenza o l'elezione di domicilio, e, dopo un anno dalla pubblicazione della sentenza, l'impugnazione, se è ancora ammessa dalla legge, si notifica a norma degli art. 137 e ss. (330 c. 3). Infine, dall'impugnazione si può anche decadere anche indipendentemente dalla decorrenza di qualsiasi termine, per effetto dell'acquiescenza, consistente nell'accettazione espressa della sentenza o nell'accettazione che è implicita nel compimento di atti incompatibili con la volontà di avvalersi dell'impugnazione non ancora proposta. L'impugnazione parziale implica acquiescenza alle parti della sentenza non impugnata, con la conseguenza che su tali atti scende il giudicato (art. 329 c. 2). La decadenza dell'impugnazione dà luogo all'inammissibilità dell'impugnazione. L'impugnazione dichiarata inammissibile non può essere riproposta anche se non è decorso il termine fissato dalla legge: è questa la c.d. consumazione dell'impugnazione. In caso di omissione di alcune attività che la legge configura come atti di impulso necessari successivi alla proposizione dell'impugnazione (improcedibilità dell'impugnazione). Pluralità delle parti e pluralità d'impugnazioni: una delle fondamentali preoccupazioni del legislatore è quella di mantenere unitario il giudizio di impugnazione contro la stessa sentenza. Perciò la legge, da un lato, per il caso della pluralità di parti vuole che al giudizio di impugnazione partecipino tutti coloro che furono parti nel giudizio di primo grado, salvi i casi in cui siano possibili delle pronunce separate (c.d. cause scindibili) mentre dall'altro lato vuole che tutte le impugnazioni proponibili contro una medesima sentenza ad opera delle due o più parti, che parteciparono alla precedente fase siano proposte nello stesso processo. In caso di pluralità di parti occorre distinguere: 1) ipotesi in cui la pluralità non sussisteva nel giudizio che ha condotto alla pronuncia impugnata: la pluralità in sede di impugnazione può conseguire alla successione di una parte deceduta o estinta a favore di più soggetti, i quali all'impugnazione dovranno partecipare tutti, quali litisconsorti necessari; 2) ipotesi in cui la pluralità sussisteva già nel grado precedente: è dalla legge ricondotta a due situazioni: a) la sentenza è stata resa in causa inscindibile o in cause tra loro dipendenti: la legge esige che anche il giudizio di impugnazione si svolga nei confronti di tutte le parti che hanno partecipato alla precedente fase (art. 331 c.p.c.). Il fenomeno dà luogo ad un vero e proprio fenomeno di litisconsorzio necessario anche quando tale necessità non sussisteva in primo grado. Per l'ipotesi in cui tale impugnazione non sia stata proposta nei confronti di tutte le parti, l'ordine, da parte del giudice d'integrazione del contraddittorio, con la fissazione del termine nel quale l notificazione deve essere fatta ed eventualmente all'udienza di comparizione. Se tale ordine non viene osservato, ne consegue l'inammissibilità dell'impugnazione; b) se la sentenza è stata resa in cause scindibili: per l'ipotesi in cui l'impugnazione sia stata proposta solo da alcune delle parti o solo nei confronti di alcune di esse, anziché disporre l'ordine di integrazione del contraddittorio, si limita a disporre l'ordine di notificare l'impugnazione anche alle parti nei cui confronti l'impugnazione stessa non sia già preclusa, con la fissazione del termine entro cui la notificazione deve essere effettuata ed eventualmente dell'udienza di comparizione. Ciò allo scopo di consentire a quelle parti l'eventuale partecipazione, anche alla fase d'impugnazione. Poichè in questi casi è essenziale, non l'effettiva partecipazione, ma l'eliminazione della possibilità che contro la stessa sentenza si svolgano diversi giudizi di impugnazione, la sanzione prevista è quella della sospensione del processo fino a quando le altre parti rimaste estranee, siano decadute dall'impugnazione, tenendo conto anche del fatto che l'impugnazione proposta contro una parte soltanto fa decorrere, nei confronti dello stesso soccombente, il termine per proporla contro le altre parti. Ai sensi dell'art. 333 c.p.c. la parte cosi provocata se vuole impugnare la sentenza ha l'onere di impugnarla nello stesso processo. Ne deriva che il tema dell'unità del giudizio di impugnazione si concentra sull'esame dell'eventualità che la parte contro cui è stata proposta l'impugnazione, o nei cui confronti sia avvenuta l'integrazione del contraddittorio o la notificazione di cui all'art. 332 c. 1, intenda a sua volta impugnare la sentenza. La prima regola è quella contenuta nell'art. 335 c.p.c. secondo cui tutte le impugnazioni proposte separatamente contro la stessa sentenza debbono essere riunite, anche d'ufficio in un solo processo. Tale principio si estrinseca anche in un'ulteriore regola: ai sensi dell'art. 333 la nuova impugnazione deve essere proposta, a pena di decadenza, in via incidentale nello stesso processo e, precisamente, nel primo atto di ingresso nel giudizio di impugnazione. In pratica la natura incidentale dell'impugnazione, che non sussiste nei casi di impugnazione adesiva, viene in rilievo nell'ulteriore regola codificata dall'art. 334 c.p.c. secondo la quale le parti contro le quali è stata proposta impugnazione e quelle chiamate ad integrare il contraddittorio a norma dell'art. 331 possono proporre impugnazione incidentale anche quando per esse è decorso il termine o hanno fatto acquiescenza della sentenza. La ragione di ciò sta nell'opportunità di consentire alla parte parzialmente soccombente, che sarebbe disposta ad accettare la sentenza solo nell'ipotesi che l'accetti anche l'altra parte, di attendere le decisioni di quest'ultima senza preoccuparsi della decorrenza del termine. Ma è ovvio che l'impugnazione incidentale tardiva non ha più ragione d'essere quando l'impugnazione principale è divenuta inammissibile. E perciò la legge dispone che essa perda efficacia. La giurisprudenza suole anche limitare l'ammissibilità dell'impugnazione incidentale tardiva anche Anche in grado di appello, l'atto di citazione non produce effetti se non è sottoscritto e notificato. La notificazione dell'atto di citazione d'appello (da effettuarsi nei modi dell'art. 330 c.p.c.) è l'atto che va compiuto prima della scadenza del termine per impugnare e che impedisce la relativa decadenza. Il primo atto difensivo dell'appellato è la comparsa di risposta, che ha le stesse caratteristiche del medesimo atto nel giudizio di primo grado. In essa si deve proporre l'eventuale appello incidentale. L'art. 343 c.1 precisa che ciò deve avvenire, a pena di decadenza, all'atto di costituzione in cancelleria ai sensi dell'art. 166. L'appello incidentale offre l'unica possibilità di impugnazione della sentenza da parte dell'appellato. Se l'interesse a proporre appello incidentale sorge dall'impugnazione proposta da altra parte che non sia l'appellante principale. Tale appello si propone nella prima udienza successiva alla proposizione dell'impugnazione stessa (343 c. 2). Ciò che ragionevolmente implica la concessione di un termine e il rinvio della trattazione. D'altra parte l'appello incidentale può essere condizionato all'evento della conferma o del rigetto del capo della sentenza impugnato in via principale. Non è invece ammissibile l'appello incidentale dell'appellante principale contro l'appello incidentale dell'appellato. La costituzione delle parti, disciplinata dall'art. 347 dispone che la costituzione in appello avviene secondo le forme e i termini per i procedimenti davanti al tribunale. L'appellante deve inserire nel proprio fascicolo copia della sentenza appellata. Il cancelliere provvede a norma dell'articolo 168 e richiede la trasmissione del fascicolo d'ufficio al cancelliere del giudice di primo grado. La fase di trattazione si svolge, nel giudizio davanti alla Corte d'appello, tutta innanzi al Collegio mentre nel giudizio davanti al tribunale dinanzi al giudice monocratico. L'art. 350 c.p.c. continua nei commi successivi statuendo nella prima udienza di trattazione il giudice verifica la regolare costituzione del giudizio e, quando occorre, ordina l'integrazione di esso o la notificazione prevista dall'articolo 332, oppure dispone che si rinnovi la notificazione dell'atto di appello. Nella stessa udienza il giudice dichiara la contumacia dell'appellato, provvede alla riunione degli appelli proposti contro la stessa sentenza e procede al tentativo di conciliazione ordinando, quando occorre, la comparizione personale delle parti. L'inammissibilità e l'improcedibilità dell'appello, come anche l'estinzione del giudizio di appello, vanno pronunciate con sentenza, perchè hanno in comune la grave conseguenza che l'appello dichiarato inammissibile o improcedibile o estinto diviene non più proponibile neppure nell'ipotesi che non fosse decorso il termine di legge, sicchè la sentenza di primo grado passa in giudicato mentre nel caso della nullità dell'atto di appello, tale conseguenza non si verifica fino a quando non sia decorso il termine per impugnare. L'inammissibilità va pronunciata in tutti i casi in cui viene proposto appello dopo la decadenza per decorrenza del termine o per acquiescenza o in difetto di una o più delle condizioni per impugnare o con la formulazione dell'atto d'appello senza il rispetto dell'onere di specifica motivazione di cui al c. 1 dell'art. 342 ed inoltre nel caso di mancata ottemperanza all'ordine di integrazione del contraddittorio di cui all'art. 331 c.p.c. L'improcedibilità va dichiarata anche d'ufficio, pur essendo l'appello ammissibile, ed essendo avvenuta l'iscrizione a ruolo, l'appellante non si sia costituito nei termini o, pur essendosi costituito, non sia comparso alla prima udienza. In tal caso l'organo decidente dichiara l'improcedibilità solo dopo aver fissato, con ordinanza non impugnabile, un'altra udienza, della quale il cancelliere dà notizia all'appellante, e dopo che neppure in tale udienza l'appellante sia comparso (348 c. 2). Se l'improcedibilità non venisse dichiarata non sembra che la tempestiva costituzione dell'appellato con accettazione del contraddittorio possa sanare il vizio, poiché la mancata costituzione dell'appellante toglie il rilievo al comportamento dell'altra parte mentre la mancata costituzione di entrambe le parti dà luogo alla cancellazione della causa con onere di riassunzione entro 3 mesi. Ai sensi dell'art. 348 bis (introduce il filtro in appello) Fuori dei casi in cui deve essere dichiarata con sentenza l'inammissibilità o l'improcedibilità dell'appello, l'impugnazione è dichiarata inammissibile dal giudice competente quando non ha una ragionevole probabilità di essere accolta. Il primo comma non si applica quando: a) l'appello è proposto relativamente a una delle cause di cui all'articolo 70, primo comma; b) l'appello è proposto a norma dell'articolo 702-quater. Dunque alla prima udienza il giudice competente per l'appello può procedere a questa dichiarazione di inammissibilità con ordinanza perché ritiene, in maniera discrezionale e sulla base di una valutazione meramente prognostica, che l'appello proposto, inteso nella sua interezza, non sembra presentare, prima facie, elementi per poter essere accolto. Esso trova applicazione anche per l'appello nel rito del lavoro e in quello locatizio. Per quanto riguarda poi le modalità attraverso le quali si perviene a questa pronuncia di inammissibilità per mancanza di ragionevole probabilità di accoglimento, l'art. 348 ter dispone: All'udienza di cui all'articolo 350 il giudice, prima di procedere alla trattazione, sentite le parti, dichiara inammissibile l'appello, a norma dell'articolo 348-bis, primo comma, con ordinanza succintamente motivata, anche mediante il rinvio agli elementi di fatto riportati in uno o più atti di causa e il riferimento a precedenti conformi. Il giudice provvede sulle spese a norma dell'articolo 91. L'ordinanza di inammissibilità è pronunciata solo quando sia per l'impugnazione principale che per quella incidentale di cui all'articolo 333 ricorrono i presupposti di cui al primo comma dell'articolo 348-bis. In mancanza, il giudice procede alla trattazione di tutte le impugnazioni comunque proposte contro la sentenza. Quando è pronunciata l'inammissibilità, contro il provvedimento di primo grado può essere proposto, a norma dell'articolo 360, ricorso per cassazione. In tal caso il termine per il ricorso per cassazione avverso il provvedimento di primo grado decorre dalla comunicazione o notificazione, se anteriore, dell'ordinanza che dichiara l'inammissibilità. Si applica l'articolo 327, in quanto compatibile. Quando l'inammissibilità è fondata sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della decisione impugnata, il ricorso per cassazione di cui al comma precedente può essere proposto esclusivamente per i motivi di cui ai numeri 1), 2), 3) e 4) del primo comma dell'articolo 360. La disposizione di cui al quarto comma si applica, fuori dei casi di cui all'articolo 348-bis, secondo comma, lettera a), anche al ricorso per cassazione avverso la sentenza d'appello che conferma la decisione di primo grado. La nuova disposizione che nelle intenzioni del legislatore avrebbe dovuto portare ad un'accelerazione dei giudizi di appello, suscita non poche perplessità. E questo, non tanto perchè di fatto limita l'accesso all'appello, essendo noto che il doppio grado di giurisdizione nel merito non ha fondamento costituzionale per il processo civile quanto piuttosto per i presupposti e le modalità di decisione che essa individua: a) in primo luogo, essa definisce impropriamente come dichiarazione di inammissibilità una pronuncia che attiene alla valutazione prognostica del giudice di infondatezza nel merito dell'appello proposto; b) in secondo luogo, questa decisione nel merito viene fondata su un valutazione discrezionale, prima facie, benchè si tratti di fatto della decisione nel merito dell'appello proposto; c) in terzo luogo, questo preventivo vagli nel merito con decisione immediata non viene ammesso per gli appelli che presentino, sulla base della medesima valutazione prima facie, una ragionevole probabilità di essere fondati, di fatto determinando una disparità di trattamento di situazioni processuali sostanzialmente identiche. Inoltre l'art. 348 ter limita e non poco il potere di impugnazione del provvedimento. Stranamente silente è l'art. 348 ter sui rimedi avverso l'ordinanza dichiarativa dell'inammissibilità dell'appello per ragionevole probabilità di non accoglimento. In realtà, occorre riconoscere che, stante la natura decisoria e definitiva avverso la stessa deve comunque ammettersi l'esperibilità del ricorso per cassazione, garantito dall'art. 111 c. 7 Cost. A fortiori, l'esperibilità del ricorso per cassazione va ammessa ove la parte ritenga che il giudice d'appello abbia emesso l'ordinanza in questione senza che ne sussistessero i presupposti previsti dall'art. 348 bis: in tal caso, l'applicazione del tradizionale orientamento giurisprudenziale della prevalenza della sostanza sulla forma del provvedimento porta ad assimilare l'ordinanza, dal punto di vista sostanziale, ad una sentenza d'appello e come tale sottoponibile al ricorso per cassazione. Sempre alla prima udienza, il collegio provvede con ordinanza all'istanza di sospensione dell'esecuzione o dell'efficacia esecutiva della sentenza di primo grado di cui all'art. 283 ed è comunque condizionata alla sussistenza dei gravi e fondati motivi che si ritengono comprensivi anche del fumus e quindi della probabilità di accoglimento dell'appello anche in relazione alla possibilità di insolvenza di una delle parti. Il provvedimento sull'istanza di sospensione dell'efficacia esecutiva o dell'esecuzione è pronunciato dal giudice d'appello alla prima udienza con ordinanza non impugnabile. Poichè però tra la notificazione della citazione in appello e la data della prima udienza deve decorrere il termine a comparire e poiché d'altra parte la pronuncia sulla sospensione può risultare urgente, il codice prevede la possibilità di una pronuncia anticipata da chiedersi dopo la costituzione con autonomo ricorso al presidente del collegio o al tribunale. Ai sensi dell'art. 351 c. 3: Il presidente del collegio o il tribunale, con decreto in calce al ricorso, ordina la comparizione delle parti in camera di consiglio, rispettivamente davanti al collegio o davanti a sé. Con lo stesso decreto, se ricorrono giusti motivi di urgenza, può disporre provvisoriamente l'immediata sospensione dell'efficacia esecutiva o dell'esecuzione della sentenza; in tal caso all'udienza in camera di consiglio il collegio o il tribunale conferma, modifica o revoca il decreto con ordinanza non impugnabile. c. 4: Il giudice, all'udienza prevista dal primo comma, se ritiene la causa matura per la decisione, può provvedere ai sensi dell'articolo 281-sexies. Se per la decisione sulla sospensione è stata fissata l'udienza di cui al terzo comma, il giudice fissa apposita udienza per la decisione della causa nel rispetto dei termini a comparire. Per evidenti finalità acceleratorie viene introdotta anche nel processo civile la decisione in forma semplificata in sede cautelare. Già conosciuta nel processo amministrativo. Poichè la trattazione si svolge davanti all'organo decidente, il quale può provvedere a disporre consulenze tecniche e all'ammissione dei mezzi di prova senza necessità di passare alla fase della rimessione in decisione, nulla impedisce la potenziale applicabilità della disciplina di cui all'art. 183 c.p.c.. La decisione: l'art. 352 dispone che esaurita l'attività prevista negli articoli 350 e 351, il giudice, ove non provveda a norma dell'articolo 356, invita le parti a precisare le conclusioni e dispone lo scambio delle comparse conclusionali e delle memorie di replica a norma dell'articolo 190; la sentenza è depositata in cancelleria entro sessanta giorni dalla scadenza del termine per il deposito delle memorie di replica. Se l'appello è proposto alla corte di appello, ciascuna delle parti, nel precisare le conclusioni, può chiedere che la causa sia discussa oralmente dinanzi al collegio. In tal caso, fermo restando il rispetto dei termini indicati nell'articolo 190 per il deposito delle difese scritte, la richiesta deve essere riproposta al presidente della corte alla scadenza del termine per il deposito delle memorie di replica. Il presidente provvede sulla richiesta fissando con decreto la data dell'udienza di discussione da tenersi entro sessanta giorni; con lo stesso decreto designa il relatore. La discussione è preceduta dalla relazione della causa; la sentenza è depositata in cancelleria entro i sessanta giorni successivi. Se l'appello è proposto al tribunale, il giudice, quando una delle parti lo richiede, dispone lo scambio delle sole comparse conclusionali a norma dell'articolo 190 e fissa l'udienza di discussione non oltre sessanta giorni dalla scadenza del termine per il deposito delle comparse medesime; la sentenza è depositata in cancelleria entro i sessanta giorni successivi. Quando non provvede ai sensi dei commi che precedono, il giudice può decidere la causa ai sensi dell'articolo 281-sexies. Ai sensi dell'art. 356: Ferma l'applicabilità della norma di cui al numero 4) del secondo comma dell'articolo 279, il giudice d'appello, se dispone l'assunzione di una prova oppure la rinnovazione totale o parziale dell'assunzione già avvenuta in primo grado o comunque dà disposizioni per effetto delle quali il procedimento deve continuare, pronuncia ordinanza e provvede a norma degli articoli 191 e seguenti. Quando sia stato proposto appello immediato contro una delle sentenze previste dal numero 4 del secondo comma dell'articolo 279, il giudice d'appello non può disporre nuove prove riguardo alle domande e alle questioni, rispetto alle quali il giudice di primo grado, non definendo il giudizio, abbia disposto, con separata ordinanza, la prosecuzione dell'istruzione. Infine, occorre tener presente che con riferimento alle cause pendenti in grado d'appello e non ancora assunte in decisione, le parti hanno la possibilità di chiedere al giudice, con istanza congiunta, il trasferimento della causa in sede arbitrale, sempre che la stessa non abbia ad oggetto diritti indisponibili e non verta in materia di lavoro, previdenze e assistenza sociale. La sentenza di appello sostituisce quella di primo grado. Tale principio subisce delle eccezioni nei casi in cui il vizio di nullità sia talmente grave da far ritenere che il giudice di primo grado e la relativa sentenza sia addirittura inesistente. In tal caso il giudizio di primo grado deve ritenersi come non avvenuto e il principio del doppio grado di giurisdizione impone che il la causa venga rimessa al giudice di primo grado perché il giudizio possa svolgersi in entrambi i suoi gradi . L'art. 353 dispone: Il giudice d'appello, se riforma la sentenza di primo grado dichiarando che il giudice ordinario ha sulla causa la giurisdizione negata dal primo giudice, pronuncia sentenza con la quale rimanda le parti davanti al primo giudice. Le parti debbono riassumere il processo nel termine perentorio di tre mesi dalla notificazione della sentenza. Se contro la sentenza d'appello è proposto ricorso per cassazione, il termine è interrotto. L'art. 354 dispone: Fuori dei casi previsti nell'articolo precedente, il giudice d'appello non può rimettere la causa al primo giudice, tranne che dichiari nulla la notificazione della citazione introduttiva, oppure riconosca che nel giudizio di primo grado doveva essere integrato il contraddittorio o non doveva essere estromessa una parte, ovvero dichiari la nullità della sentenza di primo grado a norma dell'articolo 161, secondo comma. Il giudice d'appello rimette la causa al primo giudice anche nel caso di riforma della sentenza che ha pronunciato sull'estinzione del processo a norma e nelle forme dell'articolo 308. A questi casi tassativi, deve aggiungersi quello previsto dall'art. 353 c. 1, ossia il caso in cui il giudice d'appello riconosca esistente la giurisdizione negata al primo giudice. Dato che l'elencazione dei casi nei quali il giudice d'appello rimette la causa al giudice di primo grado è tassativa negli altri casi opera la conversione dei vizi in motivi di gravame e il giudice d'appello deve giudicare sul merito. Se il giudice d'appello dichiara la propria incompetenza, l'appellante può fruire della translatio iudici a condizione che l'organo adito sia un giudice di secondo grado. Anche il giudizio di appello può chiudersi per rinunzia che dà luogo al passaggio in giudicato della sentenza. Sezione terza: La Cassazione Il ricorso per Cassazione è un mezzo di impugnazione che, come l'appello, è ordinario, nel senso che la possibilità della sua proposizione impedisce il passaggio in giudicato ma a differenza dell'appello non ha effetto devolutivo nel senso che non introduce una rinnovazione di giudizio. E' un giudizio a critica vincolata in quanto con esso si possono far valere solo errori nel procedere o nel giudicare. L'esame degli errori denunciati costituisce un giudizio rescindente in quanto tende all'eventuale Cassazione della sentenza impugnata, di solito esaurisce l'attività di giudizio in sede di cassazione per lasciare l'eventuale giudizio rescissorio ad un altro giudice, ossia il giudice di rinvio; mentre solo eccezionalmente, ossia quando non risultino necessari ulteriori accertamenti, può effettuare direttamente anche il rescissorio. La Cassazione è giudice di sola legittimità, ciò spiega perché il ricorso per cassazione non abbia alcun effetto sospensivo né devolutivo, ciò anche in correlazione con la normale efficacia esecutiva Ai sensi dell'art. 371 c. 2: La parte alla quale è stato notificato il ricorso per integrazione a norma degli articoli 331 e 332 deve proporre l'eventuale ricorso incidentale nel termine di quaranta giorni dalla notificazione, con atto notificato al ricorrente principale e alle altre parti nello stesso modo del ricorso principale. Anche in Cassazione può essere eccepito per la prima volta il difetto di litisconsorzio necessario col conseguente ordine di integrazione, nell'ipotesi di cause inscindibili e che può essere pronunciato anche in camera di consiglio. Con riferimento all'ordine di integrazione del contraddittorio, l'art. 371 bis afferma: Qualora la Corte abbia ordinato l'integrazione del contraddittorio, assegnando alle parti un termine perentorio per provvedervi, il ricorso notificato, contenente nell'intestazione le parole «atto di integrazione del contraddittorio», deve essere depositato nella cancelleria della Corte stessa, a pena di improcedibilità entro venti giorni dalla scadenza del termine assegnato. Può accadere che il resistente, pur essendo risultato vittorioso, sia rimasto soccombente su una questione pregiudiziale di rito o preliminare di merito o che alcune eccezioni non siano state esaminate, in quanto assorbite nella pronuncia favorevole. In tali situazioni, il resistente, in quanto vittorioso, non avrebbe interesse a proporre ricorso incidentale ma deve farsi carico dell'eventualità che l'accoglimento del ricorso principale lo ponga nella condizione di dover riproporre tali questioni pregiudiziali o preliminari. Per venire incontro a questa esigenza, senza costringere il resistente a porre in discussione le basi di una sentenza che gli dà ragione, la giurisprudenza ha elaborato l'istituto del ricorso incidentale condizionato, che è in sostanza un ricorso incidentale destinato ad essere preso in considerazione dalla Cassazione solo nell'ipotesi di accoglimento del ricorso principale. In tale fase non opera l'interruzione. Fase di decisione: La causa viene infatti discussa oralmente in unica pubblica udienza davanti al collegio, che è da 5 giudici. Ai sensi dell'art. 376 c. 1: Il primo presidente, tranne quando ricorrono le condizioni previste dall’articolo 374, assegna i ricorsi ad apposita sezione, che verifica se sussistono i presupposti per la pronuncia in camera di consiglio ai sensi dell’articolo 375, primo comma, numeri 1) e 5). Se la sezione non definisce il giudizio, gli atti sono rimessi al primo presidente, che procede all’assegnazione alle sezioni semplici. L'art. 377 specifica che: Il primo presidente, su presentazione del ricorso a cura del cancelliere, fissa l'udienza o l'adunanza della camera di consiglio e nomina il relatore per i ricorsi assegnati alle sezioni unite. Per i ricorsi assegnati alle sezioni semplici provvede allo stesso modo il presidente della sezione. Dell'adunanza cosi fissata viene poi data notizia agli avvocati delle parti almeno 20 giorni prima perché possano predisporre una memoria scritta che hanno la facoltà di depositare in cancelleria non oltre 5 giorni prima di quello dell'udienza e perchè possano predisporre la discussione orale. All'udienza gli avvocati delle parti svolgono oralmente le loro difese, quindi il p.m. Espone pure oralmente le sue conclusioni motivate. Non sono ammesse repliche, salva solo la facoltà di presentare, nella stessa udienza, brevi osservazioni scritte sulle conclusioni al p.m. Quindi la Corte si ritira in camera di consiglio per deliberare subito la sentenza. Ai sensi dell'art. 390 c.p.c. La parte può rinunciare al ricorso principale o incidentale finché non sia cominciata la relazione all'udienza, o siano notificate le conclusioni scritte del pubblico ministero nei casi di cui all'articolo 380-ter. L'adesione delle altre parti produce l'effetto di evitare che la Corte condanni il rinunciante alle spese. L'art. 374 c.p.c. indica i casi in cui la Corte di Cassazione si pronuncia a Sezioni Unite: La Corte pronuncia a sezioni unite nei casi previsti nel n. 1) dell'articolo 360 e nell'articolo 362. Tuttavia, tranne che nei casi di impugnazione delle decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, il ricorso può essere assegnato alle sezioni semplici, se sulla questione di giurisdizione proposta si sono già pronunciate le sezioni unite. Inoltre il primo presidente può disporre che la Corte pronunci a sezioni unite sui ricorsi che presentano una questione di diritto già decisa in senso difforme dalle sezioni semplici, e su quelli che presentano una questione di massima di particolare importanza. Se la sezione semplice ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite, rimette a queste ultime, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso: non si tratta di una sorta di subordinazione della sezione semplice alle S.U., poiché nulla impone alla prima di giudicare secondo i principi delle S.U. Il vincolo c'è, ma, come è stato rilevato è un vicolo solo negativo, nel senso che l'eventuale divergenza determina solo la necessità di reinvestire della questione ancora una volta le S.U., le quali potrebbero anche mutare orientamento accogliendo le eventuali argomentazioni critiche della sezione semplice. Va ricordato che se nel ricorso presentato sono presenti motivi di competenza delle sezioni semplici insieme con motivi di competenza delle S.U., queste possono decidere l'intero ricorso se lo ritengono opportuno o dopo aver deciso i motivi di propria competenza, rimettere con ordinanza alla sezione semplice la causa per la decisione degli ulteriori motivi. Ai sensi dell'art. 375 c.p.c. La Corte, sia a sezioni unite che a sezione semplice, pronuncia con ordinanza in camera di consiglio quando riconosce di dovere: 1) dichiarare l’inammissibilità del ricorso principale e di quello incidentale eventualmente proposto, anche per mancanza dei motivi previsti dall’articolo 360; 2) ordinare l'integrazione del contraddittorio o disporre che sia eseguita la notificazione dell'impugnazione a norma dell'articolo 332 ovvero che sia rinnovata; 3) provvedere in ordine all'estinzione del processo in ogni caso diverso dalla rinuncia; 4) pronunciare sulle istanze di regolamento di competenza e di giurisdizione; 5) accogliere o rigettare il ricorso principale e l’eventuale ricorso incidentale per manifesta fondatezza o infondatezza. Con tale articolo si è introdotto il meccanismo del filtro nell'avvio dei ricorsi per cassazione. Si tratta di un meccanismo imperniato sull'istituzione di un'apposita sezione (376) alla quale è affidato il compito di una graduale e articolata valutazione delle diverse possibilità di incanalare i singoli ricorsi nelle possibili vie dell'inammissibilità e, dall'altro, della pronuncia in camera di consiglio. Ai sensi dell'art. 360 bis Il ricorso è inammissibile: 1) quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l’esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l’orientamento della stessa; 2) quando è manifestamente infondata la censura relativa alla violazione dei princìpi regolatori del giusto processo. L'art. 376 prevede la prima assegnazione dei ricorsi all'apposita sanzione per la verifica di sussistenza dei presupposti per la pronuncia in camera di consiglio prevista dall'art. 375 c. 1 n. 1 e 5, ossia quelli previsti per i casi di prevedibile inammissibilità o di prevedibile accoglimento o rigetto per manifesta fondatezza e infondatezza. Se tale verifica è negativa, non resta che l'assegnazione alle sezioni semplici. Se la verifica è positiva i primi due commi dell'art. 380 bis dettano la disciplina dell'iter col quale si predispone e si svolge il giudizio in camera di consiglio (Il relatore della sezione di cui all’articolo 376, primo comma, primo periodo, se appare possibile definire il giudizio ai sensi dell’articolo 375, primo comma, numeri 1) e 5), deposita in cancelleria una relazione con la concisa esposizione delle ragioni che possono giustificare la relativa pronuncia. Il presidente fissa con decreto l’adunanza della Corte. Almeno venti giorni prima della data stabilita per l'adunanza, il decreto e la relazione sono notificati agli avvocati delle parti i quali hanno facoltà di presentare memorie non oltre cinque giorni prima, e di chiedere di essere sentiti, se compaiono). Il successivo comma 3 prende in considerazione l'ipotesi che la camera di consiglio non si sia pronunciata per l'inammissibilità del ricorso e stabilisce che: il relatore nominato ai sensi dell’articolo 377, primo comma, ultimo periodo, quando appaiono ricorrere le ipotesi previste dall’articolo 375, primo comma, numeri 2) e 3), deposita in cancelleria una relazione con la concisa esposizione dei motivi in base ai quali ritiene che il ricorso possa essere deciso in camera di consiglio e si applica il secondo comma. Infine, il comma 4 prende in considerazione l'ipotesi che neppure quest'ultima verifica abbia esito positivo, e per tale ipotesi dispone il rinvio della causa alla pubblica udienza. Ai sensi dell'art. 384 c.p.c. la corte enuncia il principio di diritto quando decide il ricorso proposto a norma dell'art. 360 c. 1 n. 3 e in ogni altro caso in cui decidendo su altri motivi del ricorso, risolve una questione di diritto di particolare importanza. La cassazione può: a) dichiarare inammissibile o improcedibile il ricorso: La dichiarazione d'inammissibilità o d'improcedibilità del ricorso o il rigetto del ricorso stesso, come anche la dichiarazione di estinzione del processo per rinuncia al ricorso danno luogo al passaggio in giudicato della sentenza impugnata. Il terzo comma dell'art. 384 ha introdotto una nuova eventualità: quella in cui la Cassazione intende porre a fondamento della sua decisione rilavata d'ufficio: Se ritiene di porre a fondamento della sua decisione una questione rilevata d'ufficio, la Corte riserva la decisione, assegnando con ordinanza al pubblico ministero e alle parti un termine non inferiore a venti e non superiore a sessanta giorni dalla comunicazione per il deposito in cancelleria di osservazioni sulla medesima questione. Un caso del tutto particolare di rigetto del ricorso è quello che la Corte effettua quando ravvisa un errore nella motivazione in diritto che non ha influito sul dispositivo, sicchè quest'ultimo è conforme al diritto. In tal caso, l'economia dei giudizi suggerisce l'inopportunità di cassare una sentenza, perciò la Corte si dovrà limitare a correggere la motivazione, senza bisogno di stimolare il contraddittorio tra le parti; b) dichiarare l'estinzione del processo per avvenuta rinuncia o la cessazione della materia del contendere; c) rigettare il ricorso per difetto dei motivi o per la loro infondatezza; d) statuire sulla giurisdizione, accogliendo o meno il ricorso e determinando, quando occorre il giudice competente: in caso di pronuncia sulla giurisdizione la causa dovrà essere riassunta davanti al nuovo giudice nel termine di 3 mesi dal passaggio in giudicato della sentenza mentre in caso di statuizione sulla competenza potrà essere riassunta nei termini dell'art. 50: in mancanza si verifica l'estinzione, che non toglie efficacia alle sentenze che regolano la competenza; e) accogliere il ricorso e conseguentemente: - cassare il provvedimento impugnato statuendo sulla competenza; - cassare senza rinvio: quando riconosce che il giudice che ha pronunciato il provvedimento cassato, ed ogni altro giudice, difetta di giurisdizione ed in ogni altro caso in cui ritiene che la causa non poteva essere proposta o il processo proseguito, nonché per la violazione delle norme sulla competenza; - cassare con decisione sul merito: quando accoglie il ricorso e non occorrono ulteriori accertamenti di fatto; - cassare con rinvio: quando accoglie il ricorso e occorrono ulteriori accertamenti di fatto; - rimettere la causa al giudice di primo grado: quando la Corte riscontra una nullità del giudizio di primo grado, per la quale il giudice d'appello avrebbe dovuto rimettere la causa al primo giudice; - rimettere la causa al giudice che avrebbe dovuto pronunciare sull'appello: quando , nelle ipotesi di cui all'art. 348 ter c. 3 e 4, la Corte abbia accolto il ricorso per motivi diversi da quelli indicati dall'art. 382. Le sentenze della Corte di cassazione non sono impugnabili in alcun modo, attesa la loro funzione di ultimo controllo di legalità nell'iter che determina l'introvertibilità del giudicato. Le sole eccezioni riguardano, da un lato, i vizi di inesistenza che consentano la proposizione dell'actio nullitatis e dall'altro lato la revocazione e l'opposizione di terzo (art. 391 ter). L'art. 391 bis prevede la correzione degli errori materiale e afferma che: Se la sentenza o l'ordinanza pronunciata ai sensi dell'articolo 375, primo comma, numeri 4) e 5) pronunciata dalla Corte di cassazione è affetta da errore materiale o di calcolo ai sensi dell'articolo 287 ovvero da errore di fatto ai sensi dell'articolo 395, numero 4, la parte interessata può chiederne la correzione o la revocazione con ricorso ai sensi degli articoli 365 e seguenti da notificare entro il termine perentorio di sessanta giorni dalla notificazione della sentenza, ovvero di un anno dalla pubblicazione della sentenza stessa. Sul ricorso per correzione dell'errore materiale pronuncia con ordinanza. Sul ricorso per revocazione pronuncia con ordinanza se lo dichiara inammissibile, altrimenti rinvia alla pubblica udienza. La pendenza del termine per la revocazione della sentenza della Corte di cassazione non impedisce il passaggio in giudicato della sentenza impugnata con ricorso per cassazione respinto. In caso di impugnazione per revocazione della sentenza della Corte di cassazione non è ammessa la sospensione dell'esecuzione della sentenza passata in giudicato, né è sospeso il giudizio di rinvio o il termine per riassumerlo. Giudizio di rinvio: riguarda il rinvio prosecutorio e il rinvio restitutorio e si svolge davanti al giudice al quale la Cassazione ha rimesso la causa. L'art. 392 c.p.c. dispone che: La riassunzione della causa davanti al giudice di rinvio può essere fatta da ciascuna delle parti non oltre tre mesi dalla pubblicazione della sentenza della Corte di Cassazione. La riassunzione si fa con citazione, la quale è notificata personalmente a norma degli articoli 137 e seguenti. L'atto di citazione si notifica personalmente con i consueti atti successivi compresa la costituzione con l'onere di produrre la sentenza di Cassazione ad iniziativa della parte che ha interesse alla prosecuzione del giudizio e nei confronti di tutti coloro che furono parti del giudizio di cassazione. Se la riassunzione non avviene nel termine perentorio di 3 mesi dalla pubblicazione della sentenza, il giudizio si estingue. Il rinvio si sostanzia nel divieto di ripetere l'errore logico della sentenza cassata, ciò che può aprire la via ad un riesame dei fatti ai fini di una valutazione complessiva, nel quale il giudice di rinvio non è vincolato da ipotesi interpretative eventualmente prospettate dalla Cassazione, sebbene debba comunque giustificare il proprio convincimento secondo lo schema implicitamente o esplicitamente enunciato dalla Cassazione. Si tratta, quindi, di una fase rescissoria rispetto al giudizio della Cassazione nel quadro della formazione progressiva del giudicato. Ai sensi dell'art. 394 c.p.c. in sede di rinvio si osservano le norme stabilite per il procedimento davanti al giudice al quale la Corte ha rinviato la causa. In ogni caso deve essere prodotta copia autentica della sentenza di cassazione. Le parti conservano la stessa posizione processuale che avevano nel procedimento in cui fu pronunciata la sentenza cassata. Nel giudizio di rinvio può deferirsi il giuramento decisorio, ma le parti non possono prendere conclusioni diverse da quelle prese nel giudizio nel quale fu pronunciata la sentenza cassata, salvo che la necessità delle nuove conclusioni sorga dalla sentenza di cassazione. Innanzi al giudice di rinvio possono essere riproposte anche le questioni che in sede di merito erano state ritenute assorbite e sulle quali non è intervenuta pronuncia esplicita, ma non le questioni del tutto nuove, ancorchè di diritto; possono d'altra parte essere proposte le eccezioni fondate su di fatti nuovi non allegabili nelle precedenti fasi di giudizio e che potrebbero fondare la revocazione. Il giudizio di rinvio compie la sua pronuncia con sentenza. Naturalmente anche la sentenza del giudice di rinvio è impugnabile con nuovo ricorso per cassazione, essendo viziata, laddove non conforme a quanto deciso dalla Cassazione, da un error in procedendo. Tutto ciò riguarda il c.d. rinvio prosecutorio che consegue alla cassazione per violazione di norme per vizio di motivazione. Questa disciplina è in realtà riferita a quel giudizio di rinvio che consegue alla cassazione per errori in procedendo di cui all'art. 360 n. 4 e che è inclusa nell'art. 383 c. 1 là dove indica le ipotesi di rimessione al giudice di rinvio. Cioè per un giudizio che, in questo caso, viene definito restitutorio per la sua portata restitutoria, ossia si concreta in un passo indietro per correggere l'error in procedendo e sostituire l'attività processuale successiva a tale errore. Sezione quarta: La revocazione La revocazione è un mezzo d'impugnazione a carattere eccezionale che può aggiungersi o sovrapporsi alla normale serie delle impugnazioni costituita dall'appello o dal ricorso per
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