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Riassunto Diritto Processuale Civile, aggiornato al d.lgs. 149/2022 (cd. riforma Cartabia), Dispense di Diritto Processuale Civile

Riassunto basato su due libri di testo: 1) Argomenti di Diritto Processuale Civile (di P. Biavati) e 2) La Procedura Civile in 20 Giorni (di C. Mellone). Ho riassunto 1.200 pagine in 90 pagine, dando un senso ai due libri di testo (che, in molti punti, sono caotici, prolissi e poco chiari) e rendendo il tutto in modo discorsivo, chiaro e preciso. Con il mio riassunto, l’esame si passa con un mese di studio. Voto finale: 30/30. Indice generale: 1) I principi fondamentali e i soggetti del processo civile. 2) Gli atti del processo civile. 3) Le regole generali sulla prova e i mezzi di prova del processo civile. 4) Il procedimento civile ordinario di cognizione. 5) I mezzi d’impugnazione: caratteri generali. 6) L’appello. 7) Il ricorso in cassazione. 8) Regolamento di competenza, revocazione e opposizione di terzo. 9) I procedimenti speciali (rito del lavoro, riti sommari, procedimento in camera di consiglio, arbitrato e procedimento cautelare). 10) Il procedimento esecutivo.

Tipologia: Dispense

2023/2024

In vendita dal 14/02/2024

ABE295
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Scarica Riassunto Diritto Processuale Civile, aggiornato al d.lgs. 149/2022 (cd. riforma Cartabia) e più Dispense in PDF di Diritto Processuale Civile solo su Docsity! Capitolo 1 - I principi fondamentali e i soggetti del processo civile Il processo civile rappresenta lo strumento giuridico attraverso il quale vengono risolte le controversie aventi ad oggetto questioni di diritto privato ed è regolato dal Codice di Procedura Civile che è formato da quattro libri (dedicati rispettivamente alle disposizioni generali, al processo di cognizione, al processo di esecuzione e ai procedimenti speciali). A seconda delle attività concretamente svolte in sede giudiziaria, il processo civile si distingue in: processo di cognizione, di esecuzione e cautelare. • Il processo di cognizione (disciplinato dal II libro del codice di procedura civile) è il processo principale e può essere di tre tipi: di mero accertamento (quando l’attore si limita a chiedere l’accertamento dell’esistenza del diritto da lui vantato), di condanna (quando l’attore, oltre all’accertamento, chiede al giudice anche la condanna del convenuto alla reintegrazione del diritto affermato come leso o violato) o costitutivo (quando l’attore, con la propria domanda, chiede al giudice di costituire, modificare o estinguere un rapporto giuridico). • Il processo di esecuzione (disciplinato dal III libro del codice di procedura civile) serve non ad ottenere un’accertamento (accertamento che c’è già) ma a garantire, se necessario anche con l’uso della forza, la concreta realizzazione delle dei comandi contenuti nella sentenza emessa dal giudice e, generalmente, vi si ricorre quando la parte soccombente non adempie spontaneamente ai propri obblighi. • Il processo cautelare, infine, non ha vita autonoma ma svolge una funzione strumentale rispetto al processo di cognizione e a quello di esecuzione e serve ad ottenere l’emanazione di un provvedimento idoneo a impedire che nelle more del processo di cognizione o di esecuzione il diritto oggetto dell’azione di merito subisca un pregiudizio tale da rendere inutile o infruttuoso il successivo provvedimento di merito. 1 - I PRINCIPI FONDAMENTALI DEL PROCESSO CIVILE I principi fondamentali del processo civile - che possono essere riassunti con l’espressione “giusto processo” - sono contenuti non solo all’interno del Codice di Procedura Civile ma anche della Costituzione. Tra tali principi bisogna ricordare in particolare: 1. La riserva di legge in materia processuale (sancito dall’art. 111 Cost.), nel senso che lo svolgimento del processo può essere regolamentato soltanto dalla legge o da un atto avente forza di legge. 2. Il diritto di azione e di difesa (sancito dall’art. 24 Cost.), che riconosce a tutti il diritto di accedere alla tutela giurisdizionale e quindi di agire e di difendersi in giudizio per tutelare i propri diritti. 3. Il principio della domanda (o della disponibilità della tutela giurisdizionale) che riconosce a chiunque ritenga di aver subito una minaccia o una lesione ad un proprio diritto la libertà di decidere se agire o meno in giudizio e quindi se dare inizio al processo oppure no. Tale principio (sancito dall’art. 99 c.p.c. secondo il quale “chi vuol fare valere un diritto in giudizio deve presentare domanda al giudice competente” e ribadito dall’art. 2097 c.c. in base al quale “alla tutela giurisdizionale dei diritti provvede l’autorità giudiziaria su domanda di parte”), è poi strettamente connesso con il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (vedi sotto). 4. Il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (sancito dall’art. 112 c.p.c.), che impone al giudice di pronunciarsi su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa. Infatti, da un lato, la domanda e le eventuali eccezioni presentate dalle parti circoscrivono la materia del contendere e, dall’altro, impongono al giudice di pronunciarsi entro e non oltre i limiti di tale richiesta, per non incorrere nel vizio di omessa pronuncia, ultrapetizione o extrapetizione, che rappresentano cause di nullità della sentenza (impugnabile, ai sensi dell’art. 360 n. 4 c.p.c., mediante ricorso per cassazione). La domanda di parte, quindi, oltre a fissare l’oggetto del processo delimita anche il potere-dovere decisionale del giudice. 5. Il principio del contraddittorio nello svolgimento del processo (sancito dagli artt. 24 e 111 della Costituzione e ribadito dall’art. 101 c.p.c.), in base al quale la persona contro la quale viene presentata domanda giudiziale deve essere informata dell’esistenza del processo nonché messa nelle condizioni di poter far valere le sue ragioni prima che il giudice emani la sentenza. 6. Il principio della parità tra le parti (cioè, tra attore e convenuto) in ogni stato e grado del processo (sancito dall’art. 111 Cost.), nel senso che entrambe possono ricercare e chiedere al giudice l’ammissione delle prove nonché partecipare alla loro assunzione, anche se presentate dalla controparte. 7. Il principio del giudice naturale precostituito per legge (sancito dall’art. 25 Cost., in base al quale: “nessuno può essere distolto [cioè, sottratto alla competenza] dal giudice naturale precostituito per legge”), nel senso che il giudice competente a decidere è sempre individuato dalla legge sulla base di criteri predeterminati rispetto all’insorgere della controversia (che sono la materia, il valore economico e il territorio). 8. Il principio dell’imparzialità del giudice (sancito dall’art. 111 Cost.), intesa come assoluta neutralità del giudice non solo rispetto alle parti ma anche alla questione da decidere (il giudice, infatti, deve essere “super partes” - cioè, non deve avere legami né con le parti né con la questione che è chiamato a decidere). 9. Il principio della disponibilità delle prove (sancito dall’art. 115 c.p.c.), in base al quale spetta alle parti il compito di introdurre all’interno del processo gli elementi di prova necessari a dimostrare l’esistenza dei fatti che si affermano, ricercando le prove e chiedendo al giudice l’ammissione dei relativi mezzi. In particolare, colui che agisce in giudizio per far valere un diritto (cioè, l’attore) deve dimostrare i fatti che ne costituiscono fondamento e di cui egli afferma l’esistenza; mentre colui contro il quale viene esercitata l’azione (cioè, il convenuto) deve dimostrare i fatti su cui si fonda l’eccezione (e cioè, che il diritto non è mai esistito, si è modificato oppure estinto). N.B. D’altro canto, bisogna ricordare che il codice di procedura civile prevede anche alcune eccezioni al principio del contraddittorio, ad esempio: una prima eccezione opera all’interno del procedimento cautelare dove, il giudice, quando ritiene che la convocazione della controparte possa pregiudicare l'attuazione del provvedimento cautelare, può applicare la misura cautelare con decreto motivato anche senza sentire la controparte (art. 669sexies c.p.c.). In tal caso egli dovrà però fissare, con lo stesso decreto, la data di un’udienza da tenersi entro 15 giorni nella quale deciderà, nel contraddittorio tra le parti, se confermare o revocare il provvedimento. Altra eccezione è quella che opera nel procedimento di ingiunzione o monitorio (art. 633 c.p.c.), dove il giudice decide sulla domanda dell’attore senza sentire la controparte; in tal caso però il provvedimento, se favorevole all’attore, diventa pienamente efficace solo se entro un certo termine dalla notifica (generalmente, 40 giorni) la controparte non vi si oppone, instaurando un giudizio di cognizione piena in contraddittorio. In entrambi i casi anzidetti, comunque sia, la deroga al principio del contraddittorio è ammissibile in quanto si tratta di una limitazione soltanto temporanea. N.B. Il giudice, dal canto suo - come suggerito dalla stessa norma con l’espressione “salvo i casi previsti dalla legge” - può esercitare poteri probatori d’ufficio soltanto nei casi espressamente previsti dalla legge (il giudice può disporre d’ufficio ad es. l’interrogatorio informale delle parti, l’ispezione di cose e persone, l’assunzione di nuovi testimoni, ecc.). • Sono giudici di primo grado, il Tribunale (in composizione collegiale e monocratica), il giudice di pace e il Tribunale per i minorenni (che è giudice di primo grado per tutte le questioni civili riguardanti i minorenni). • Sono giudici di secondo grado, la Corte d’Appello (dinnanzi alla quale posso essere impugnate le sentenze del tribunale in composizione collegiale e monocratica e del Tribunale per i minorenni) e il Tribunale in composizione monocratica (che è giudice di secondo grado per le sentenze pronunciate dal giudice di pace). • Infine, il terzo e ultimo grado di giudizio è unico per tutto il territorio nazionale e si svolge dinnanzi alla Corte di Cassazione con sede a Roma (dinnanzi alla quale ad possono essere impugnate tutte le sentenze ma soltanto per motivi di legittimità: in altre parole, la Corte può soltanto controllare se il giudice inferiore ha applicato la legge e motivato la sentenza in modo corretto; non può condurre un esame nel merito, e cioè assumere prove o valutare l’attendibilità delle dichiarazioni di un testimone). Detto ciò, per quanto riguarda la competenza dell’organo giudicante, il giudice competente a decidere la controversia è individuato sulla base di tre criteri predeterminati dalla legge, vale a dire: la materia, il valore e il territorio. 1. competenza per materia La competenza per materia fa riferimento alla natura o oggetto della controversia e attribuisce a ciascun giudice di primo grado specifica competenza rispetto a tutta una serie di materie. In base a quanto stabilito dal codice, il giudice al quale generalmente si propongono le domande è il Tribunale, salvo i casi in cui la competenza per materia è del Giudice di pace. In particolare: • Il giudice di pace è competente per le controversie che costituiscono espressione della micro- conflittualità individuale (come ad es. per le cause relative all’osservanza delle distanze minime stabilite dalla legge nel piazzamento degli alberi e delle siepi, per le cause condominiali, per le cause relative ai rapporti tra proprietari e detentori di immobili adibiti a civile abitazione in materia di immissioni di fumo o di calore, rumori, scuotimenti e simili che superino la normale torre tollerabilità, per quelle relative ad alcuni diritti reali e per l’espropriazione di beni mobili). • Il Tribunale (che, di regola, giudica sempre in composizione monocratica, tranne che nei limitati casi previsti dall’art. 50bis c.p.c.), oltre ad essere competente per tutte le cause che non sono di competenza di altro giudice, ha competenza esclusiva rispetto ad una vasta serie di materie (come ad es. per le cause relative allo stato e alla capacità delle persone; per quelle in materia di imposte e tasse, quando non sono attribuite alla competenza della giurisdizione tributaria; per la querela di falso; per l’espropriazione di cose immobili e di crediti; per l’esecuzione forzata in forma specifica e, più in generale, per ogni causa di valore indeterminabile). 2. competenza per valore La competenza per valore fa riferimento, invece, al valore economico della controversia. Sotto questo profilo, in base a quanto stabilito dal codice, per le cause fino a 5.000 euro (elevati a 20.000 per le cause aventi ad oggetto il risarcimento del danno derivante dalla circolazione di autoveicoli e natanti) è competente il Giudice di pace; mentre oltre tale importo e per le cause di valore indeterminabile è competente il Tribunale. 3. competenza per territorio Quanto alla competenza per territorio, una volta individuato il giudice competente per materia e per valore, si tratta di determinare quale’è il giudice territorialmente competente a conoscere la causa. Di regola, per le persone fisiche, il giudice territorialmente competente è quello del luogo ove risiede il convenuto; mentre se il convenuto è una persona giuridica, è competente il giudice del luogo ove questa ha la sede. Tuttavia, in alcuni casi, il codice attribuisce la competenza territoriale a più uffici giudiziari (anche detti “fori concorrenti”) - ad esempio, per le cause relative a diritti di obbligazione, è competente anche il giudice del luogo in cui è sorta o in cui deve eseguirsi l'obbligazione; per le cause relative a diritti reali su beni immobili, è competente anche il giudice del luogo dove è sito l’immobile - per cui in tali casi la parte che agisce sarà libera di decidere a quale di essi presentare la domanda. Peraltro (tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge - art. 28 c.p.c), la competenza per territorio generalmente può essere anche derogata o, comunque, modificata dalle parti sia prima dell’insorgere della controversia che a controversia già insorta, in particolare: la prima ipotesi (deroga antecedente alla controversia) si ha quando le parti decidono, di comune accordo e con patto scritto, di attribuire la competenza per le eventuali controversie che dovessero insorgere tra loro in futuro a un giudice diverso da quello territorialmente competente previsto dalla legge; la seconda (deroga a controversia già insorta), invece, si ha quando l’attore radica la causa in un foro diverso da quello territorialmente competente previsto dalla legge e il convenuto non eccepisce l’incompetenza che rimane quindi fissata in quel foro (in quest’ultimo caso, quindi, l’accordo sulla modifica della competenza si forma modo implicito). Quelli appena visti sono i criteri in base ai quali, di norma, viene individuato il giudice-organo competente a conoscere una determinata causa. Tali regole, talvolta, subiscono però delle deroghe che determinano uno spostamento della competenza. Le cause modificative della competenza sono essenzialmente due, vale a dire: la connessione e la pregiudizialità. • La connessione si ha quando due o più cause, pendenti davanti a giudici diversi (per “giudici diversi” qui s’intendono giudici con la medesima competenza per materia e per valore ma una diversa competenza per territorio), hanno alcuni elementi identificativi in comune. La connessione, di regola, può essere oggettiva (quando le due o più azioni hanno in comune uno o entrambi gli elementi oggettivi, cioè la “causa petendi” e/o il “petitum”) oppure soggettiva (quando le due o più azioni hanno in comune le parti). In questi casi (ai sensi dall’art. 40 c.p.c.), onde evitare il possibile insorgere di un contrasto fra giudicati, entrambi i giudizi proseguono davanti al giudice della causa principale oppure a quello competente per la causa instaurata per prima (per cui, entrambe le cause sono decise in un solo processo, davanti allo stesso giudice). A tal fine, il giudice della causa accessoria o successivamente adito deve chiudere il processo e rimettere, con ordinanza, le parti davanti al giudice della causa principale o instaurata per prima. • La pregiudizialità, invece, si ha quando, all’interno di un medesimo processo, tra le diverse questioni che il giudice deve risolvere per addivenire alla decisione finale esiste un rapporto di priorità logico-giuridica, per cui una certa questione (detta “pregiudiziale”) deve essere risolta prima di un’altra (detta “dipendente”). Ebbene, in tal caso, di regola, al giudice basta accertare la questione pregiudiziale nei limiti in cui ciò è necessario ai fini della della decisione della causa. Tuttavia (ai sensi dell’art. 34 c.p.c.), se per volontà delle parti o per legge è necessario decidere con efficacia di giudicato una questione pregiudiziale che appartiene per materia o per valore alla competenza di un altro giudice, il giudice adito deve spogliarsi della competenza a decidere e rimettere l’intero caso a quest’ultimo (quindi, l’intero processo passa al giudice competente a conoscere la questione pregiudiziale). N.B. Comunque sia, bisogna ricordare che quando due o più cause sono connesse possono (quindi, non devono necessariamente) essere riunite (cioè, trattate congiuntamente in un unico processo davanti alla stesso giudice). Il codice (sempre all’art. 40), infatti, da un lato, stabilisce che “la connessione può essere rilevata (su istanza di parte o d’ufficio dal giudice) soltanto entro la prima udienza di trattazione” e, dall’altro, precisa che “la riunione di cause connesse non può avvenire quando lo stato avanzato della causa principale o proposta per prima non consente l'esauriente trattazione di quelle ad essa connesse”. Inoltre, talvolta, può anche insorgere una questione di competenza, cioè un contrasto tra le parti circa la competenza a decide del giudice adito dall’attore. La questione di competenza (ai sensi dell’art. 38 c.p.c.) può essere sollevata sia d’ufficio dal giudice che su eccezione della controparte - in particolare: il giudice deve rilevare l’incompetenza, a pena di decadenza, entro la prima udienza di trattazione; mentre il convenuto deve eccepirla, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta (che deve essere depositata in cancelleria almeno 70 giorni prima della prima udienza) - ed è decisa dallo stesso giudice adito dall’attore che, se ritiene l’eccezione fondata, si pronuncia con ordinanza; altrimenti, se ritiene l’eccezione infondata, si pronuncia al termine del giudizio con sentenza (con la quale, oltre che sulla competenza, decide anche nel merito). Dopodiché, se il giudice adito dichiara la propria incompetenza con ordinanza, indica all’interno dell’ordinanza stessa qual’è il giudice competente a conoscere la causa e assegna alle parti un termine per proseguire (o, come si dice in gergo, per riassumere) il processo dinnanzi al nuovo giudice. Ovviamente, la riassunzione della causa davanti al giudice competente deve avvenire nel termine fissato dal giudice adito o, in mancanza, in quello di 3 mesi dalla comunicazione dell’ordinanza con cui ha dichiarato la propria incompetenza; altrimenti, se la riassunzione non avviene nei termini, il processo si estingue per mancanza del necessario impulso di parte. Oltretutto, se l’ordinanza con cui il giudice adito dichiara la propria incompetenza non viene impugnata e la causa è riassunta nei termini davanti al nuovo giudice, la competenza di quest’ultimo diventa incontestabile: di conseguenza, egli non potrà a sua volta dichiararsi incompetente, neppure se avesse il fondato motivo di ritenere che il primo giudice ha sbagliato (a meno che la dichiarazione di incompetenza del primo giudice non riguardi la competenza per materia o per territorio inderogabile, in tal caso infatti resta salva la possibilità per il giudice a cui la causa è pervenuta di sollevare d’ufficio il regolamento di competenza). In conclusione, occorre compiere un breve accenno riguardo a due istituti previsti dal codice ad ulteriore garanzia dell’imparzialità del giudice, vale a dire l’astensione e la ricusazione del giudice. Astensione e ricusazione sono due istituti che permettono di rimuovere il giudice, già designato, in presenza di situazioni che ne compromettono l’imparzialità. In particolare: • L’astensione obbliga il giudice ad astenersi dallo svolgere le sue funzioni quando sono presenti situazioni che pregiudicano o comunque possono pregiudicare la sua imparzialità. • La ricusazione invece opera ex-post (cioè qualora il giudice non si sia astenuto) e permette le parti di chiedere la sostituzione del giudice quando questo appare come non imparziale. I motivi di astensione e ricusazione sono comuni, infatti, il giudice deve astenersi (art. 51) e le parti possono ricusarlo (art. 52), ad esempio: • se ha un interesse nel processo; • se è legato da un particolare rapporto privato con una delle parti o con uno dei difensori; • se vi è grave inimicizia tra di lui o il coniuge e una delle parti; • se ha dato consiglio a una delle parti, ha deposto in qualità di testimone o ha svolto le funzioni di magistrato in altro grado del processo; • se è tutore, curatore, procuratore o datore di lavoro di una delle parti oppure se è amministratore di un’ente, di un’associazione (anche non riconosciuta) o di una società che ha interesse nella causa. N.B. Entrambe (cioè, sia l’ordinanza che sentenza) possono essere poi impugnate con il regolamento di competenza (vedi capitolo 8). 6 - IL DIFENSORE Il difensore è il rappresentante tecnico di parte, cioè colui che assiste e rappresenta le parti durante il processo davanti al giudice e alla controparte. La rappresentanza tecnica è quel potere che permette al difensore di compiere atti processuali in nome e per conto del cliente (a meno che non si tratti di “atti personali” - cioè espressamente riservati dalla legge alla parte assistita - nel qual caso il difensore dovrà essere munito di un mandato speciale a compiere quel determinato atto) ed è conferita al difensore mediante un’apposito atto, la cd. procura alle liti - procura alle liti che è un atto a forma vincolata (in quanto dev’essere conferita con atto pubblico o scrittura privata autenticata) con il quale il cliente designa il difensore come suo rappresentante in giudizio e che può essere “generale” (vale a dire, relativa a tutte le controversie in cui la parte è o sarà coinvolta) oppure “speciale” (vale a dire, relativa soltanto a quella determinata controversia). Per quanto riguarda il rapporto tra la parte e il difensore: tra di loro esiste un rapporto “assistenziale” basato sulla fiducia. Fiducia che, nel corso della causa, può anche venire meno. Per questo motivo, il codice riconosce tanto alla parte quanto al suo difensore la facoltà di revocare e/o rinunciare all’incarico. Tuttavia, per tutelare la controparte (che, a molteplici fini, ha la necessità di sapere a chi indirizzare taluni atti del processo), il codice stabilisce che la revoca e la rinuncia non hanno effetto nei confronti dell’altra parte fino a quando la sostituzione del difensore non è effettivamente avvenuta. In tali casi, peraltro, il difensore che ha subito la revoca o ha rinunciato all’incarico ha ancora alcuni specifici doveri verso il suo ex-cliente: in primo luogo, deve informarlo di eventuali comunicazioni o atti ricevuti nel periodo antecedente alla nomina del nuovo difensore; in secondo luogo, deve restituirgli tutta la documentazione ricevuta. Per quanto riguarda invece i poteri del difensore, il codice (art. 84 c.p.c.) stabilisce che: “il difensore può compiere e ricevere, nell’interesse della parte, tutti gli atti del processo che non sono ad essa espressamente riservati” (il difensore, quindi, è una sorta di alter ego della parte). N.B. La proposizione della domanda riconvenzionale determina, quindi, una inversione dei ruoli: nel senso che - in relazione all’oggetto della domanda riconvenzionale stessa - l’attore originario diventa convenuto e il convenuto diventa attore. Comunque sia, bisogna ricordare che il convenuto non è obbligato a presentare la domanda riconvenzionale nel processo iniziato dall’attore ma è libero di proporla anche in un giudizio autonomo. Le due azioni (la domanda principale dell’attore e quella riconvenzionale del convenuto), inoltre, per poter essere trattate nello stesso processo, devono essere connesse (e cioè, avere un legame sotto il profilo del “petitum” o della “causa petendi”). N.B. Nell’ambito del processo civile (così come d’altronde in quello penale e amministrativo) le parti infatti, di regola, non possono presentarsi e difendersi in giudizio da sole ma devono avvalersi del patrocinio di un difensore (l’avvocato appunto). La parte può difendersi da sola soltanto nei (pochi) casi espressamente previsti dalla legge, ciò può avvenire ad es. se si tratta di una persona abilitata ad esercitare l’ufficio di difensore (un avvocato, quindi, può anche difendersi da solo in una controversia personale); davanti al giudice di pace, se il valore della controversia non supera i 1.100 euro o se il giudice, tenuto conto della natura ed entità della causa, l’autorizza; e nel rito del lavoro, quando il valore della causa non supera i 129 euro. N.B. Infine bisogna ricordare che, dietro alla procura, tra il difensore e il suo assistito esiste un ulteriore legame che assume la forma del contratto d’opera intellettuale con il quale, l’avvocato (che ovviamente deve essere abilitato a svolgere la professione forense), s’impegna a svolgere la propria attività con diligenza; mentre il cliente s’impegna a remunerarlo (remunerazione che dev’essere preventivata dall’avvocato e poi va fissata di comune accordo con il cliente). 7 - IL LITISCONSORZIO E L’INTERVENTO DI TERZI Nel processo civile, talvolta, può anche accadere che la controversia coinvolga una pluralità di soggetti. La pluralità di parti nel processo può essere originaria o successiva: quando è originaria, si parla di litisconsorzio; quando è successiva, si parla invece di intervento di terzi. I. Il litisconsorzio Il litisconsorzio si ha quando il processo comincia o deve cominciare con più parti e può essere “necessario“ o “facoltativo”. • Il litisconsorzio è necessario (art. 102 c.p.c.) quando la causa ha ad oggetto un rapporto sostanziale tra più soggetti, per cui il relativo processo deve necessariamente coinvolgere più parti (ciò avviene ad es. quando la domanda tende alla costituzione o modificazione di un rapporto plurisoggettivo unico oppure all’adempimento di una obbligazione indivisibile comune a più soggetti). In questi casi, infatti, se il processo coinvolgesse soltanto alcune persone la decisione giudiziale sarebbe inammissibile, in quanto il giudizio deve essere proposto da o nei confronti di tutte le parti. Pertanto, se il giudice rileva la mancanza di un liticonsorte necessario, ordina alle parti di integrare il contraddittorio, e cioè di chiamare in giudizio la parte dimenticata (il cd. “liticonsorte pretermesso”), entro un termine perentorio; dopodiché, siccome il processo non può essere validamente avviato o proseguito fino a quando tutti i liticonsorti necessari non sono stati regolarmente chiamati in giudizio, se nessuna delle parti vi provvede, il giudice ne dichiara immediatamente l’estinzione. • Il litisconsorzio facoltativo (art. 103 c.p.c), invece, è legato alla presenza di situazioni di connessione tra cause diverse - connessione che può essere “propria” (quando le azioni hanno in comune l’oggetto o il titolo della domanda) o “impropria” (quando la decisione dipende, in tutto o in parte, dalla soluzione delle stesse questioni) - ed incide sulla competenza territoriale del giudice (che può essere modificata). La differenza rispetto al litisconsorzio necessario è netta: infatti, mentre nel litisconsorzio necessario vi è una sola causa con più parti, in quello facoltativo vi sono più cause che possono (quindi, non devono necessariamente) essere trattate congiuntamente in un unico processo davanti allo stesso giudice. Peraltro, in quest’ultimo caso, il giudice può anche disporre la separazione delle cause se ritiene che l'avvenuta riunione possa ritardare o rendere più gravoso il processo oppure se ciò gli viene richiesto da tutte le parti in causa. II. L’intervento di terzi L’intervento di terzi si ha quando le parti aumentano a processo già iniziato (e cioè, quando alle parti originarie se ne aggiungono altre i cd. “terzi”). L’intervento del terzo può essere volontario o coatto: è volontario quando il terzo interviene nel processo di sua iniziativa; mentre è coatto quando il terzo entra nel processo su istanza di una delle parti o per ordine del giudice. • L’intervento volontario (disciplinato dagli articoli 105 e 267 c.p.c.) può essere, a sua volta, di tre tipi: 1) principale (quando il terzo interviene nel processo per far valere un proprio diritto in contrasto con quelli vantati dall’attore e dal convenuto - ad es. sorta una controversia tra A e B circa la proprietà di un fondo, interviene C affermando a sua volta di esserne proprietario); 2) liticonsorte o adesivo autonomo (quando il terzo interviene nel processo proponendo una domanda autonoma, ma collegata a quella di una delle parti in causa - ad es. il socio A impugna la delibera assembleare della società B ritenendola nulla; il socio C, anziché proporre un giudizio autonomo, interviene in quello iniziato da A domandando a sua volta la nullità della stessa delibera) oppure 3) adesivo dipendente (quando il terzo interviene nel processo sostenendo le ragioni di una delle parti in causa, per un proprio interesse, senza proporre una propria domanda - ad es. Tizio è il proprietario di un immobile e lo concede in locazione a Caio, che a sua volta lo concede in sublocazione a Sempronio; qualora Tizio agisca contro Caio per ottenere lo sfratto, Sempronio, che subirebbe le conseguenze dell’accoglimento della domanda di Tizio, può intervenire per sostenere le ragioni di Caio). In ogni caso (ai sensi dell’art. 267) il terzo per poter intervenire nel processo deve depositare in cancelleria un'apposita comparsa nella quale espone le proprie ragioni, indica i mezzi di prova di cui intende avvalersi e deposita i documenti opportuni. Il cancelliere, poi, ne da comunicazione alle altre parti. • Quanto all’intervento coatto su istanza di parte (art. 106), il codice stabilisce che: “ciascuna parte può chiamare in giudizio un terzo dal quale pretende di essere garantita o al quale ritiene comune la causa”. Le fattispecie contemplate dalla norma quindi sono essenzialmente due: la chiamata in garanzia e la comunanza di cause. Nel chiamare in causa il terzo, attore e convenuto devono poi rispettare alcune formalità procedurali: di regola, è il convenuto ad effettuare la chiamata in causa del terzo (convenuto che, a pena di decadenza, deve farne menzione nella comparsa di risposta e contestualmente chiedere al giudice istruttore di posticipare la data della prima udienza in modo tale da poter provvedere alla citazione del terzo) mentre l’attore può avvalersi di tale strumento soltanto a seguito delle difese presentate dal convenuto nella comparsa di risposta e soltanto dopo aver chiesto ed ottenuto apposita autorizzazione dal giudice istruttore (richiesta di chiamata in causa del terzo che, a pena di decadenza, dev’essere presentata dall’attore nella prima udienza di trattazione); dopodiché, se il giudice istruttore concede l'autorizzazione, fissa una nuova udienza e stabilisce un termine perentorio entro il quale l’attore deve provvedere alla citazione. • Infine, la chiamata del terzo può avvenire anche per ordine del giudice. Tale ipotesi, generalmente, si verifica quando il giudice ritiene la causa comune ad un terzo (e cioè, quando rileva l’esistenza di un collegamento tra la posizione di una o di entrambe le parti e quella di un terzo e si prospetti l’insorgere di future controversie). In questi casi, infatti, onde evitare il possibile insorgere di giudizi contrastanti, il giudice può ordinare la chiamata del terzo per favorire la trattazione delle diverse questioni in un unico processo. La peculiarità di questa chiamata sta nel fatto che essa non viene effettuata direttamente dal giudice, ma ordinata da questo alle parti. Se poi nessuna delle parti vi provvede, il giudice dispone la cancellazione della causa dal ruolo. 8 - L’AZIONE DI CLASSE In conclusione, occorre compiere un breve accenno riguardo alle cd. azioni di classe (o “class action”). L’azione di classe è un’azione collettiva che consente ai portatori di diritti individuali omogenei di tutelarsi difronte ai comportamenti scorretti o comunque lesivi posti in essere da N.B. La differenza tra le tre fattispecie sta nel fatto che, nell’intervento principale e in quello litisconsorte, il terzo propone una domanda autonoma (che volendo avrebbe potuto proporre anche in un altro processo); mentre nell’intervento adesivo, non propone una domanda ma interviene soltanto per tutelare un suo interesse. Inoltre, mentre negli ultimi due casi, il terzo si affianca alla posizione di una delle parti; nell’intervento principale, egli si pone in contrasto con entrambe le parti principali. N.B. La chiamata in garanzia si ha quando il convenuto pretende di essere garantito, per varie ragioni, da un terzo affinché risponda delle conseguenze pregiudizievoli derivanti dell’eventuale accoglimento della domanda proposta nei suoi confronti (tipici esempi sono quelli della fideiussione o del contratto di assicurazione). La comunanza di cause, invece, si ha quando tra il rapporto dedotto in giudizio e quello tra la parte ed il terzo esiste un legame giuridicamente rilevante, diverso dalla garanzia (come ad es. un vincolo di pregiudizialità). Capitolo 2 - Gli atti del processo civile Innanzitutto, per “atti del processo civile” s’intendono gli atti posti in essere da uno dei soggetti del processo (giudice, attore, convenuto, difensore, pubblico ministero, terzi, ecc.) e destinati ad esplicare efficacia all’interno del processo stesso. Inoltre, occorre ricordare che il termine “atto” assume un duplice significato, in quanto viene utilizzato per indicare tanto l’attività compiuta dal singolo soggetto quanto il suo risultato (cioè, il provvedimento emanato dal giudice). Gli atti del processo civile si distinguono in due categorie: atti a forma vincolata (che devono essere compiuti rispettando determinate formalità - come avviene per la maggior parte degli atti processuali) e atti a forma libera (per il cui compimento non sono richieste particolari formalità). 1 - GLI ATTI DEL GIUDICE I principali atti del giudice sono essenzialmente tre, vale a dire: la sentenza, l’ordinanza e il decreto. 1. La sentenza è l’atto con il quale il giudice chiude un grado del giudizio, decidendo in merito alla questione sottoposta alla sua attenzione, deve essere sempre motivata (il giudice cioè deve indicare nella sentenza il percorso logico seguito per giungere alla decisione) a pena di nullità e con essa il giudice si “spoglia del caso” (per cui se la parte soccombente impugna la sentenza, il caso verrà esaminato da un altro giudice e cosi via fino a quando non sarà pronunciata sentenza irrevocabile o definitiva). 2. L’ordinanza è il provvedimento con il quale il giudice, di base, regola lo svolgimento del processo e risolve le eventuali questioni procedimentali insorte tra le parti senza tuttavia definire il giudizio, deve essere sempre motivata a pena di nullità e, di regola, può essere sia revocata che modificata dal giudice. 3. Il decreto consiste in un semplice ordine che può essere pronunciato dal giudice d’ufficio o su istanza di parte e che - a differenza delle sentenze e delle ordinanze - deve essere motivato soltanto nei casi espressamente previsti dalla legge. Ora, in base a quanto stabilito dal codice (art. 276), quando deve pronunciare tali provvedimenti il giudice delibera (e cioè, decide o comunque assume le sue decisioni) in segreto in camera di consiglio. I provvedimenti diversi da quelli anzidetti, invece, possono essere adottati dal giudice anche oralmente e senza particolari formalità. N.B. Le sentenze possono essere “definitive” o “non definitive”. La sentenza si dice definitiva quando il giudice decide nel merito su tutta la materia del contendere e chiude per sempre quella fase del giudizio; mentre si dice non definitiva quando decide soltanto alcune questioni di rito o di merito relative alla materia del contendere, senza definire il giudizio. Per quanto riguarda poi i requisiti di tipo formale, (art. 132 c.p.c.), la sentenza deve contenere: 1) l’intestazione “in nome del popolo italiano” con l’indicazione dell’autorità che l’ha pronunciata, delle parti e dei loro difensori; 2) l’indicazione delle conclusioni formulate dalle parti al termine della fase istruttoria (e cioè, di ciò che le parti hanno chiesto al giudice, sotto il profilo decisionale); 4) la motivazione, che è la parte della sentenza nella quale il giudice deve esporre in modo sintetico i motivi del suo convincimento, e cioè della sua decisione (indicando i fatti rilevanti della causa e il percorso logico seguito per giungere alla decisione); 5) il dispositivo (che è la parte della sentenza in cui è indicata la decisione finale); 6) ed infine la data e la sottoscrizione del giudice. Dopodiché, qualora manchi la motivazione, la sentenza è nulla; mentre se manca la sottoscrizione del giudice oppure il dispositivo, la sentenza è inesistente. Detto ciò, poiché i suddetti provvedimenti (sentenze, ordinanze, decreti) possono essere anche viziati da errori, il codice prevede una particolare procedura volta alla loro correzione e/o eliminazione (cd. istituto della correzione degli errori), procedura che però può essere attivata soltanto in presenza di tre requisiti: • Innanzitutto, l’errore non deve essere causa di nullità dell’atto. • In secondo luogo, deve trattarsi di un errore materiale (e cioè, consistere in una svista o disattenzione commessa nella stesura dell’atto oppure in una semplice omissione). • In terzo luogo, l’eliminazione o correzione dell’errore non deve andare a modificare il contenuto decisionale dell’atto. Il procedimento di correzione può essere attivato soltanto su ricorso di parte e competente a decidere in merito alla correzione è lo stesso giudice che ha emesso il provvedimento, che vi provvede con decreto (quando tutte le parti chiedono la medesima correzione) oppure con ordinanza previo contraddittorio tra le parti (quando la richiesta proviene da una sola di esse). 2 - GLI ATTI DELLE PARTI Gli atti delle parti (ai sensi dell’art. 125) sono essenzialmente cinque (anche se in realtà il codice ne prevede molti altri - come ad es. le conclusioni presentate al termine della fase istruttoria, le istanze e le memorie) ovvero: l’atto di citazione, il ricorso, la comparsa di risposta, il controricorso, le memorie e il precetto. 1. L’atto di citazione è l’atto introduttivo del processo ordinario, con il quale l’attore propone la domanda giudiziale e invita il convenuto a presentarsi in udienza. 2. Il ricorso è l’atto introduttivo del ricorso in cassazione, di tutti i riti speciali nonché la forma che assumono tutte le istanze presentate dalle parti al giudice nel processo esecutivo. N.B. La citazione è un atto “formale” (in quanto deve contenere, tra le altre cose, l’indicazione del tribunale davanti al quale la domanda è proposta; le generalità dell’attore, del convenuto e dei loro difensori; l’indicazione dell’oggetto della domanda - cd. “petitum” - e l’esposizione in forma chiara e precisa delle ragioni della domanda - cd. “causa petendi” - con le relative conclusioni; l’indicazione dei mezzi di prova dei quali l’attore intende avvalersi; l’indicazione della data della prima udienza con l’invito rivolto al convenuto di presentarsi in udienza e di costituirsi in giudizio nei termini prescritti dalla legge - cd. “vocatio in ius” - e poi dev’essere sottoscritto dall’attore personalmente o dal suo difensore) nonché “recetizio” (in quanto per produrre i suoi effetti deve essere notificato sia alla controparte che al giudice - al primo viene notificata per mezzo dell’ufficiale giudiziario; mentre al secondo mediante deposito dell’atto in cancelleria) e assolve a una duplice funzione: con essa, infatti, l’attore, da un lato, invita il convenuto a comparire in udienza (cd. “vocatio in ius”) mentre, dall’altro, espone al giudice l’oggetto e le ragioni della domanda, delineando in tal modo l’oggetto del contendere (cd. “editio actionis”). N.B. Inoltre, è importante ricordare che l’espressione “in camera di consiglio” viene utilizzata dal codice per indicare non soltanto il luogo nel quale il giudice si ritira per formare il proprio convincimento (e cioè, per decidere) ma anche un particolare tipo di procedimento, detto appunto procedimento in camera di consiglio (art. 737 e ss. c.p.c.), utilizzato per l’esercizio della cd. “giurisdizione volontaria” - la giurisdizione volontaria è un tipo di giurisdizione di carattere amministrativo diretta non alla risoluzione di controversie (come nella giurisdizione contenziosa), bensì alla conclusione di un negozio giuridico o di un affare che richiedono necessariamente l’intervento del giudice, quando la legge non consente ai privati di provvedervi autonomamente (come avviene ed es. per il divorzio consensuale, la nomina di amministratori di sostegno, la dichiarazione di morte presunta, ecc.) - e le cui caratteristiche principali sono: l'assenza di giudicato, la natura non sanzionatoria del provvedimento finale e la sua revocabilità. N.B. La differenza tra citazione e ricorso sta nel fatto che: nel primo caso (atto di citazione), l’intervento del giudice è successivo; nel secondo caso (ricorso), invece, prima viene chiesto l’intervento del giudice (che fissa la data dell’udienza) e poi si porta l’iniziativa a conoscenza della controparte. 3. La comparsa di risposta è l’atto con il quale il convenuto si costituisce in giudizio e presenta le sue difese, prendendo posizione in modo chiaro e preciso sui fatti posti dall’attore a fondamento della domanda. 4. Il controricorso è l’atto con il quale la parte resistente in un giudizio in Cassazione chiede il rigetto del ricorso presentato dalla controparte (cd. “ricorso principale”). Si tratta di un atto di natura essenzialmente difensiva, a meno che non contenga un “ricorso incidentale” (con il quale la parte resistente, oltre a difendersi, impugna le parti della sentenza che le sono sfavorevoli). 5. Il precetto, infine, è l’atto con il quale il creditore intima al debitore di adempiere all’obbligo risultante dal titolo esecutivo entro un determinato termine (solitamente di 10 giorni), con l’avvertimento che, altrimenti, procederà ad esecuzione forzata. 3 - LA COMUNICAZIONE E LA NOTIFICAZIONE DEGLI ATTI PROCESSUALI Nel corso del processo civile molto spesso sorge poi la necessità di rendere noto alle altre parti il compimento di un atto (o di un’attività) del processo stesso affinché queste possano esercitare i propri diritti o adempiere ai propri doveri e gli strumenti a ciò deputati sono due: la comunicazione e la notificazione. • La comunicazione (art. 136 c.p.c.) è lo strumento attraverso il quale, il cancelliere, porta a conoscenza delle parti e degli altri soggetti del procedimento i provvedimenti emessi dal giudice. La comunicazione ha ad oggetto un documento (il cd. “biglietto di cancelleria”) che contiene gli estremi dell’atto (cioè, l’indicazione dell’ufficio giudiziario competente, del giudice istruttore che lo ha emesso e il nome delle parti) e una sua riproduzione integrale e può essere effettuata mediante consegna diretta al destinatario oppure trasmissione in via telematica per mezzo della posta elettronica certificata (PEC). Dopodiché, se la comunicazione non può avvenire nei suddetti modi, si ricorre allora alla consegna del documento all’ufficiale giudiziario per la notifica. • La notificazione (art. 137 c.p.c.), invece, è lo strumento attraverso il quale, l’ufficiale giudiziario, su istanza di parte o richiesta del cancelliere, comunica alle altri parti il compimento di un atto del processo. La notificazione, di regola, è eseguita dall’ufficiale giudiziario (e, in alcuni specifici casi, dagli avvocati per mezzo del servizio postale) mediante consegna diretta della copia integrale dell’atto al suo destinatario (cd. “consegna a mani proprie”) e, una volta eseguita, l’ufficiale giudiziario redige un apposito atto da lui datato e sottoscritto - la cd. relazione di notificazione - nella quale indica la persona alla quale è stata consegnata la copia, le sue qualità (e cioè, il rapporto che ha con il destinatario - come ad es. convivente, familiare, portiere, ecc.) e il luogo dell’avvenuta consegna oppure, in caso di esito negativo, le ricerche fatte e i motivi della mancata consegna. Notifica che poi si perfeziona (e quindi produce i suoi effetti), per il soggetto notificante, al momento della consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario; mentre per il destinatario, nel momento in cui ha la conoscenza effettiva dell’atto. N.B. La costituzione in giudizio del convenuto (ai sensi dell’art. 125) deve avvenire almeno 70 giorni prima della data fissata per la prima udienza, mediante deposito della comparsa in cancelleria. Per quanto riguarda poi i requisiti formali, nella comparsa di risposta il convenuto deve presentare le sue difese e indicare le sue generalità, i mezzi di prova di cui intende avvalersi e le sue conclusioni. Inoltre, in essa il convenuto deve anche proporre, a pena di decadenza: a) le eventuali domande riconvenzionali; b) le eccezioni di rito e di merito non rilevabili d’ufficio; e c) indicare se intende chiamare in causa un terzo. Pertanto, se il convenuto non si costituisce oppure se si costituisce presentando la comparsa dopo la scadenza del termine dei 70 giorni precedenti la data della prima udienza, non potrà avvalersi delle suddette difese (e quindi, non potrà più presentare domande riconvenzionali, chiamare in causa terzi né sollevare eccezioni processuali o di merito non rilevabili d’ufficio). • I termini ordinatori viceversa sono quelli che, se vengono superati, non determinano alcuna decadenza (dal loro superamento possono tuttalpiù derivare conseguenze svantaggiose dovute alla situazione, di volta in volta, venutasi in concreto a creare). Tali termini, a differenza di quanto previsto per quelli perentori, possono essere sia abbreviati che prorogati (la proroga, però, deve essere richiesta prima della scadenza del termine, non può avere una durata superiore al termine originale e non può essere concessa per più di una volta - tranne che per motivi particolarmente gravi, con decreto motivato). Per quanto riguarda poi le modalità di computo dei termini, si applica la seguente disciplina: • Se il termine è espresso in giorni, non si conta il giorno iniziale (e cioè, il giorno in cui inizia a decorrere il termine - cd. “dies a quo”) ma si conta il giorno finale (cd. “dies ad quem”). • Se il termine è espresso in mesi, scade nello stesso giorno (del mese finale) in cui ha avuto inizio la decorrenza del termine (quindi ad es. se il termine è di due mesi dal 18 settembre, scadrà il 18 novembre). Qualora poi il mese di scadenza abbia un numero di giorni inferiore rispetto a quello iniziale e il giorno corrispondente a quello in cui ha avuto inizio il decorso del termine non sia presente, il termine scade l’ultimo giorno del mese di scadenza. • Se il termine è espresso in anni, scade l’anno successivo nella stessa data dell’anno d’inizio (quindi ad es. se il termine è di un anno a decorrere dal 18 settembre, scadrà il 18 settembre dell’anno successivo). • Infine, bisogna ricordare che se il termine scade in un giorno festivo, la scadenza è prorogata di diritto al primo giorno successivo non festivo (e tale regola si applica anche quando la scadenza del termine cade di sabato). Se, invece, il termine ricomprende giorni festivi, questi si computano normalmente come se fossero non festivi. N.B. Il codice tuttavia prevede un istituto di carattere eccezionale (la cd. restituzione nel termine) che consente al giudice di restituire appunto alle parti la facoltà di compiere l’atto anche dopo la scadenza del termine perentorio previsto dalla legge per il suo compimento. La restituzione nel termine, però, può essere concessa dal giudice solo se la parte incorsa nella decadenza dimostra di non aver potuto rispettare il termine per caso fortuito o forza maggiore (e cioè, a causa di un evento naturale od umano del tutto imprevedibile e inevitabile a lei direttamente non imputabile). La richiesta di restituzione (che assume la forma del ricorso) deve essere presentata (in udienza o in cancelleria), a pena di decadenza, subito dopo il venir meno della causa ostativa (e quindi, nella prima attività difensiva successiva al suo venir meno). Dopodiché, il giudice, se ritiene verosimili i fatti allegati, concede la restituzione con ordinanza. Capitolo 3 - Le regole generali sulla prova e i mezzi di prova del processo civile 1 - LA NOZIONE DI PROVA Innanzitutto, nel nostro ordinamento il termine “prova” può assumere quattro significati diversi a seconda del fatto che ci si riferisca alla fonte di prova, al mezzo di prova, all’elemento di prova oppure al risultato probatorio. Le fonti di prova sono le persone e le cose che possono fornire informazioni (cd. “elementi di prova”) utili per ricostruire i fatti oggetto della controversia; i mezzi di prova sono gli strumenti processuali attraverso i quali le parti adempiono all’onere della prova e che permettono di acquisire le informazioni dalle fonti di prova (come vedremo sono tali la testimonianza, l’ispezione, l’esibizione, la confessione, l’interrogatorio formale, il giuramento e le prove documentali); l’elemento di prova è l’informazione grezza (cioè, non ancora valutata dal giudice) che si ricava dalla fonte di prova. Il giudice, poi, valuta la credibilità e l’attendibilità dell’elemento di prova secondo il suo prudente apprezzamento (a meno che non si tratti di “prove legali”, la cui valenza probatoria non è rimessa alla valutazione del giudice ma prestabilita dalla legge), ricavandone così un risultato probatorio - risultato probatorio che è appunto l’elemento di prova una volta valutato dal giudice - e, al termine del processo, dopo aver valutato tutti gli elementi di prova raccolti, decide, indicando nella motivazione della sentenza le ragioni della sua decisione (e cioè, perché ritiene attendibili certe prove e non attendibili quelle contrarie). La funzione delle prove è quindi quella di fornire al giudice gli elementi conoscitivi necessari per decidere in merito alla controversia. Detto ciò, in ambito civile esistono diverse tipologie di prove. In primo luogo, a seconda di quando si formano, le prove si distinguono in precostituite e costituende: • Le prove precostituite sono quelle che si formano prima e al di fuori del processo e che vi entrano attraverso un semplice atto di esibizione (tipiche prove precostituite sono le prove documentali, come ad es. l’atto pubblico e la scrittura privata). • Le prove costituende, invece, sono quelle che si formano all’interno del processo nel corso dell’istruzione probatoria attraverso l’assunzione del relativo mezzo di prova (come ad es. la testimonianza, la confessione, il giuramento, l’ispezione, l’esibizione, ecc.). In secondo luogo, a seconda del loro oggetto, le prove si distinguono in dirette e indirette: • Le prove dirette sono quelle che hanno ad oggetto direttamente il fatto da provare, e cioè che fornisco al giudice una rappresentazione diretta del fatto stesso (si pensi ad es. al racconto del testimone diretto o all’ispezione di un luogo). • Le prove indirette (o indiziarie), invece, sono quelle che non forniscono una rappresentazione diretta ma che hanno ad oggetto un fatto secondario (o “indizio”) dal quale, attraverso un ragionamento logico-presuntivo, è possibile risalire al fatto da provare. N.B. Le prove indirette, quindi, a differenza di quelle dirette, non forniscono al giudice una rappresentazione diretta del fatto da provare ma soltanto un fatto secondario ad esso legato. Il giudice poi, partendo dal fatto noto (l’indizio appunto), risale al fatto da provare attraverso un ragionamento logico- deduttivo basato su comuni criteri di razionalità (detto anche “ragionamento presuntivo”) che faccia ritenere come ragionevolmente probabile l’esistenza del fatto da provare. Al riguardo, tuttavia, bisogna ricordare che per legge un solo indizio non è mai sufficiente a provare l’esistenza del fatto da provare. Infatti, in base a quanto stabilito dal codice (art. 2729 c.c.), il giudice può ritenere dimostrato un fatto sulla base di indizi (plurale) solo se questi sono gravi, precisi e concordanti - gli indizi sono “gravi” quando sono resistenti alle obiezioni e cioè convincenti; sono “precisi” quando non si prestano a diverse interpretazioni; sono “concordanti” quando conducono tutti verso la medesima conclusione. Infine, a seconda della loro efficacia probatoria, è possibile distinguere tra prova piena, prova di verosimiglianza e argomenti di prova: • La prova piena (che è quella normalmente richiesta dalla legge per dimoitrare i fatti oggetto di causa) è quella che tende a rappresentare il fatto nella sua completezza e in modo incontrovertibile. • La prova di verosimiglianza è quella che si basa su di un criterio di credibilità e/o verosimiglianza (e, talvolta, viene reputata sufficiente dalla legge per la concessione di determinati provvedimenti, sopratutto nel procedimento cautelare). • Gli argomenti di prova non sono delle vere e proprie prove ma consistono soltanto in elementi che concorrono alla valutazione delle prove e di cui il giudice può tenere conto in sede decisionale (come ad es. il comportamento tenuto dalle parti durante il processo). 1 - L’ISTRUZIONE PROBATORIA L’attività istruttoria (che è quella volta alla raccolta degli elementi probatori necessari per la decisione della causa) si articola essenzialmente in quattro fasi: la ricerca, l’ammissione, l’assunzione e la valutazione delle prove. I. La ricerca della prove Quanto alla ricerca delle prove, l’onere della prova di regola spetta soltanto alle parti. In particolare: colui che fa valere un diritto in giudizio (l’attore) deve dimostrare i fatti che ne costituiscono il fondamento (cioè, su cui si fonda la domanda); mentre colui che si difende (il convenuto) deve dimostrare i fatti su cui si fonda l’eccezione (e cioè, l’inesistenza del diritto vantato dall’attore o comunque che questo si è modificato o estinto). II. L’ammissione della prove Le prove sono ammesse dal giudice istruttore con ordinanza su richiesta delle parti - parti che, come abbiamo detto, hanno l’onere di introdurre le prove all’interno del processo e lo adempiono indicando appunto al giudice i mezzi di prova di cui intendono avvalersi. Il giudice poi ammette le prove solo se le ritiene ammissibili (cioè, consentite o comunque non vietate dalla legge - tenuto conto che nel processo civile vale il principio della “tipicità dei mezzi di prova”, nel senso che i mezzi di prova sono solo quelli espressamente previsti dalla legge) e rilevanti (cioè, utili ai fini dell’accertamento dei fatti). N.B. Nel nostro ordinamento, infatti, vige il principio della disponibilità delle prove (anche detto del dispositivo) in base al quale spetta alle parti il compito di introdurre le prove all’interno del processo, chiedendo al giudice l’ammissione dei mezzi di prova di cui intendono avvalersi. La portata applicativa di tale principio soffre tuttavia di alcune eccezioni in quanto la legge, in alcuni casi, riconosce anche al giudice importanti poteri probatori. In particolare, il giudice può disporre d’ufficio: a) la consulenza tecnica; b) l'interrogatorio libero delle parti; c) l'ispezione su cose e/o persone; d) la richiesta di informazioni alla pubblica amministrazione; e) l'audizione di nuovi testimoni (o, se il giudice è monocratico, la prova testimoniale); f) il giuramento suppletorio ed estimatorio. Comunque sia, le iniziative probatorie del giudice costituiscono soltanto un’eccezione al generale potere/ dovere delle parti di introdurre le prove nel processo. N.B. La differenza tra una prova inammissibile e una prova irrilevante è chiara: la prima (prova inammissibile) è tale perché è in contrasto con la legge; la seconda (prova irrilevante) invece è quella che, pur essendo conforme alla legge, risulta essere non utile ai fini del processo secondo la valutazione discrezionale del giudice. Nel processo civile, spetta alle parti il compito di introdurre le prove testimoniali nel processo, indicando a pena di decadenza nei rispettivi atti introduttivi (atto di citazione e comparsa di risposta) i testimoni da interrogare e i fatti specifici su cui ciascuno di essi deve essere sentito. Una volta che queste sono state ammesse dal giudice, le parti devono poi anche provvedere, sempre a pena di decadenza, alla citazione dei testimoni attraverso la notificazione di un’apposito atto, la cd. “intimazione a comparire” (intimazione a comparire in udienza che, di regola, è notificata dall’ufficiale giudiziario, su istanza della parte interessata, ma può essere notificata anche dal difensore mediante raccomandata con ricevuta di ritorno o posta elettronica certificata). L’atto di intimazione, che contiene l’indicazione del giorno, dell’ora e del luogo dell’udienza nonché del giudice davanti al quale deve presentarsi, deve essere inviato al testimone almeno 7 giorni prima dell’udienza (l’intimazione, comunque sia, non è un atto indispensabile per l’assunzione della testimonianza, in quanto la presenza del testimone in udienza sana ogni irregolarità). Quanto agli obblighi del testimone, una volta intimato, il testimone: • deve presentarsi davanti al giudice per rendere la testimonianza (e, se non si presenta senza fornire un legittimo impedimento, il giudice può ordinare il suo accompagnamento coattivo per mezzo della polizia giudiziaria e lo condanna al pagamento di una sanzione pecuniaria); • e deve rispondere secondo verità alle domande che gli vengono rivolte (in quanto, se tace o mente o se il giudice ritiene che abbia mentito, può essere denunciato per il delitto di falsa testimonianza). Detto ciò, la deposizione testimoniale, di regola, è resa oralmente, in udienza davanti al giudice istruttore e nel pieno rispetto del contraddittorio tra le parti (il codice, in realtà, prevede che la testimonianza possa essere rilasciata anche per iscritto, tuttavia, il rischio di ledere il principio del contraddittorio nella formazione della prova, rende tale previsione di scarsa applicazione pratica). Prima che la deposizione abbia inizio, il giudice avverte il testimone che ha l’obbligo di dire la verità e lo informa delle conseguenze penali a cui va incontro se tace o mente; mentre il testimone fornisce le sue generalità e si impegna a dire tutta la verità. A questo punto, ha inizio la deposizione testimoniale vera e propria durante la quale il testimone risponde alle domande che gli vengono poste dal giudice in merito ai fatti precedentemente indicati dalle parti - giudice che comunque può rivolgere al testimone, d’ufficio o su istanza di parte, tutte le domande che ritiene utili per l’accertamento dei fatti (gli avvocati delle parti, quindi, non possono rivolgersi direttamente al testimone ma soltanto chiedere al giudice di rivolgere al teste delle domande o delle richieste di chiarimento) - in casi eccezionali (come ad es. quando vi è una clamorosa difformità tra le versioni fornite da due o più testimoni in relazione al medesimo fatto), il giudice può anche disporre il confronto tra testimoni; le dichiarazioni rilasciate dal testimone sono poi riportate, nel modo più aderente possibile, nel verbale d’udienza. N.B. In tema di prova testimoniale, peraltro, il codice riconosce al giudice anche la possibilità di esercitare importanti poteri istruttori d’ufficio. Il giudice istruttore, infatti, può: • disporre d’ufficio l’audizione dei cd. “testimoni di riferimento” (al riguardo, il codice stabilisce che: “se nel corso della deposizione uno dei testimoni indicati dalle parti si riferisce ad altre persone a conoscenza dei fatti, il giudice può disporre d’ufficio che esse siano chiamate a deporre”); • ridurre le liste testimoniali sovrabbondanti; • ordinare che siano sentiti i testimoni dei quali, in un primo momento, ha ritenuto superflua l’audizione; • nonché disporre che siano nuovamente esaminati i testimoni già interrogati, per fornire chiarimenti in merito alla loro precedente deposizione o per correggere eventuali irregolarità verificatesi nel corso del precedente esame. 4 - L’ISPEZIONE L’ispezione è un mezzo di prova che consente al giudice di conoscere meglio i fatti oggetto della controversia attraverso l’osservazione diretta delle persone, dei luoghi o delle cose a cui essa si riferisce. L’ispezione è disposta dal giudice d’ufficio, con ordinanza motivata (ordinanza nella quale il giudice, tra le altre cose, deve indicarne le concrete modalità esecutive); può essere compiuta dal giudice personalmente o - come avviene nella maggior parte dei casi - da lui delegata al consulente tecnico d’ufficio (CTU) e può essere personale (quando ha ad oggetto la persona di una delle parti o di un terzo) oppure reale (quando ha ad oggetto luoghi o cose in loro possesso). Il giudice, tuttavia, può ordinare l’ispezione solo se: a) risulta essere indispensabile per la conoscenza dei fatti oggetto di causa (nel senso che la prova del fatto da dimostrare non può essere acquisita in nessun altro modo); b) non arreca grave danno alla persona ad essa sottoposta e c) non costringere la parte o il terzo a rivelare un segreto professionale, d’ufficio o di Stato. Infine bisogna ricordare che, poiché l’ispezione non costituisce un obbligo, le parti e il terzo possono sempre rifiutarsi di sottoporsi all’ispezione ordinata dal giudice, ma il rifiuto ha comunque delle consegue, infatti: • se la parte si rifiuta senza giustificato motivo di sottoporsi ad ispezione, il giudice può condannarla al pagamento di una pena pecuniaria e da tale rifiuto può desumere argomenti di prova a suo carico; • se invece il rifiuto proviene dal terzo, il giudice può soltanto condannarlo al pagamento di una pena pecuniaria. 5 - L’ESIBIZIONE L’esibizione è un mezzo di prova volto all’acquisizione di materiale documentale e con il quale il giudice, su istanza di una delle parti, ordina alla controparte o ad un terzo di esibire un documento o altra cosa in suo possesso affinché possa essere acquisito al processo. L’esibizione - a differenza dell’ispezione - può essere ordinata dal giudice soltanto su istanza delle parte interessata, istanza nella quale il richiedente deve indicare in modo specifico il documento o la cosa di cui richiede l’esibizione, così da permettere al giudice di valutarne la rilevanza probatoria. Detto questo, per il resto ad essa si applica la stessa disciplina prevista per l’ispezione. Quindi, in primo luogo, l’esibizione può essere disposta dal giudice solo se: a) la prova del fatto da dimostrare non può essere acquisita in nessun altro modo; b) non arreca grave danno alla parte o al terzo e c) non li costringere a violare un segreto professionale, d’ufficio o di Stato. In secondo luogo, nell’ordinare l’esibizione (ordine di esibizione che assume la forma dell’ordinanza motivata), il giudice deve precisarne le modalità esecutive. Infine, anche in questo caso, se la parte si rifiuta senza giustificato motivo di ottemperare all’ordine di esibizione, il giudice può condannarla al pagamento di una pena pecuniaria e da tale rifiuto può desumere argomenti di prova a suo carico; se invece il rifiuto proviene dal terzo, il giudice può soltanto condannarlo al pagamento di una pena pecuniaria. 6 - LA CONFESSIONE La confessione è un mezzo di prova che consiste in quella dichiarazione con la quale una parte ammette la verità di fatti a se sfavorevoli e favorevoli alla controparte. N.B. In sostanza, si parla di “esibizione” quando la parte intende utilizzare come prova un documento di cui però non ha la disponibilità, essendo questo in possesso della controparte o di un terzo, per cui chiede al giudice di ordinare a tali soggetti di esibirlo in giudizio così da permetterne l’acquisizione. La confessione può essere giudiziale (quando è resa in udienza, davanti al giudice) o stragiudiziale (quando viene resa al di fuori del processo) e tra le due esistono ovviamente delle differenze. La confessione giudiziale costituisce una “prova legale” (nel senso che è vincolante per il giudice, il quale è tenuto a ritenerla vera senza poterne valutare liberamente il contenuto) e può essere resa spontaneamente oppure indotta dalla controparte mediante interrogatorio formale (di cui si dirà). Per quanto riguarda invece la confessione stragiudiziale, questa innanzitutto deve essere provata (e cioè, introdotta all’interno del processo per mezzo di un altro mezzo di prova - come ad es. un documento o una testimonianza). Inoltre, mentre la confessione stragiudiziale resa alla controparte o al suo difensore - pur dovendo essere provata, e cioè introdotta nel processo - ha la stessa efficacia probatoria di quella giudiziale (ossia, costituisce “prova legale”); la confessione stragiudiziale resa ad un terzo o contenuta in un testamento, può essere valutata liberamente dal giudice secondo il suo prudente apprezzamento. 7 - L’INTERROGATORIO FORMALE L’interrogatorio formale (a differenza dell’interrogatorio libero che, come abbiamo visto, consiste in un semplice colloquio informale tra il giudice e le parti, utile a comprendere meglio la controversia) è un mezzo di prova con il quale una parte rivolge all’altra veri e propri quesiti, per indurla a rendere una confessione giudiziale. L’interrogatorio formale deve essere dedotto in giudizio per capitoli separati e specifici (nel senso che le parti devono precisare nelle rispettive richieste istruttorie su quali fatti intendono sentire la controparte) e, come qualsiasi altro mezzo di prova, deve essere poi ammesso dal giudice. Una volta ammesso, l’interrogatorio si svolge cosi: le domande sono formulate dalla parte che ha richiesto l’interrogatorio; a domanda deve seguire risposta, non sono ammesse divagazioni ma il giudice può sempre chiedere al dichiarante di fornire chiarimenti in merito alle risposte date; la parte interrogata deve rispondere personalmente (nel senso che deve presentarsi fisicamente in udienza e non può farsi sostituire dall’avvocato) e non può servirsi di scritti preparati (tuttavia, se le circostanze concrete lo richiedono, il giudice può autorizzare il dichiarante a consultare note e appunti). L’interrogatorio formale comunque sia, di solito, ha una scarsa efficacia probatoria in quanto rappresenta più che altro un’azione di disturbo nei confronti della controparte, che è costretta a presentarsi di persona dinnanzi al giudice e rispondere alle domanda senza potersi avvalere dello schermo protettivo del difensore. Tuttavia, se la parte non si presenta in udienza oppure dopo essersi presentata si rifiuta di rispondere senza giustificato motivo alle domande, il giudice terrà conto di tale atteggiamento in sede decisionale. 8 - IL GIURAMENTO Il giuramento è un mezzo di prova con il quale una parte invita l’altra a dichiarare solennemente come veri i fatti ad essa favorevoli (l’atto con il quale una parte invita la controparte a giurare prende il nome di “deferimento”). N.B. Il codice di procedura civile (art. 228), infatti, stabilisce che: “la confessione giudiziale può essere resa spontaneamente o provocata mediante interrogatorio formale”. N.B. La dichiarazione confessoria per essere valida ed efficace deve: a) essere resa dalla parte personalmente, b) riguardare diritti disponibili ed c) essere libera (cioè, non viziata da errore di fatto o violenza, altrimenti può essere revocata). N.B. Peraltro, al riguardo, bisogna ricordare che in caso di litisconsorzio necessario (che si ha quando in una stessa causa vi sono più parti), se la confessione viene resa da uno soltanto dei litisconsorti e non dagli altri, non costituisce “prova legale” (perché altrimenti si permetterebbe ad alcuni litisconsorti di disporre del diritto degli altri), ma potrà essere valutata dal giudice liberamente secondo il suo prudente apprezzamento. Capitolo 4 - Il processo ordinario di cognizione Il processo civile di primo grado - che come abbiamo visto, di regola, si svolge dinnanzi al tribunale in composizione monocratica (in quanto il tribunale in composizione collegiale ha una competenza residuale, limitata alle sole materie espressamente indicate nell’art. 50bis del codice di procedura civile) - si articola in tre sottofasi: I) la fase introduttiva (che ha inizio con la proposizione della domanda e delle difese e che serve a determinare in modo definitivo la materia del contendere); II) la fase della trattazione (dedicata alla trattazione sostanziale della controversia, secondo un programma prestabilito dalla legge o fissato dal giudice e che comprende in particolare la “fase istruttoria” volta alla raccolta del materiale probatorio necessario all’accertamento dei fatti) e III) la fase decisoria (nella quale, le parti, presentando le proprie conclusioni finali e, il giudice, preso atto delle loro richieste, decide). I. LA FASE INTRODUTTIVA La fase introduttiva ha inizio con la notificazione dell’atto di citazione da parte dell’attore e il deposito della comparsa di risposta da parte del convenuto, prosegue con le verifiche preliminari compiute dal giudice prima dell’udienza e con lo scambio delle memorie integrative tra le parti e termina con l’inizio dell’udienza di prima comparizione e trattazione. 1 - L’ATTO DI CITAZIONE Il processo civile di 1° grado (o “di cognizione”) ha inizio con la notificazione dell’atto di citazione, che è l’atto introduttivo del processo con il quale l’attore propone la domanda giudiziale e invita il convenuto a presentarsi in udienza davanti al giudice. L’atto di citazione è un atto “formale” (il cui contenuto è prestabilito dalla legge) e “doppiamente recetizio” (in quanto deve essere notificato, prima, al convenuto e, poi, al giudice: al primo viene notificato per mezzo dell’ufficiale giudiziario o del difensore; mentre al secondo è notificato mediante il deposito del fascicolo di parte in cancelleria), è diviso al suo interno in tre parti - 1) l’intestazione (che contiene tutta una serie di informazioni relative al giudice, alle parti e ai loro avvocati), 2) una parte con l’indicazione della domanda giudiziale vera e propria (la cd. “editio actionis”) e 3) l’invito a comparire in udienza (la cd. “vocatio in ius”) - deve essere sottoscritto dalla parte personalmente o dal suo difensore e notificato al convenuto almeno 120 giorni prima della data della prima udienza (elevati a 150 se il convenuto è residente all’estero) per consentire a quest’ultimo di preparare adeguatamente la sua difesa e deve contenere: • L’indicazione del Tribunale dinnanzi al quale è stata proposta la domanda. • Le generalità dell’attore, del convenuto e dei loro difensori. • L’indicazione dell’oggetto della domanda, e cioè di ciò che si chiede al giudice (il cd. “petitum”). N.B. Si ricordi che, in ambito civile, gli atti con cui si può dare inizio al processo sono due: la citazione e il ricorso. • Con la citazione, l’attore espone la domanda giudiziale (prima, al convenuto e, poi, al giudice) e invita il convenuto a presentarsi davanti al giudice ad udienza già fissata; • Con il ricorso, invece, l’attore (o ricorrente) propone la domanda e chiede al giudice di fissare la data dell’udienza che sarà poi comunicata al convenuto (o resistente). Pertanto, la differenza tra i due atti sta essenzialmente nel soggetto che viene informato per primo della domanda giudiziale - il convenuto (nella citazione), il giudice (nel ricorso) e nel soggetto che fissa l’udienza - l’attore (nella citazione), il giudice (nel ricorso). N.B. Al riguardo, in dottrina, si è soliti distinguere tra “petitum immediato” (che si riferisce al tipo di provvedimento richiesto al giudice) e “petitum mediato” (che si riferisce invece a ciò che si vuole ottenere dalla controparte). • L’esposizione in forma chiara e precisa delle ragioni di fatto e di diritto poste a fondamento della domanda, con le relative conclusioni (questa è la cd. “causa petendi”). • L’indicazione specifica dei mezzi di prova e dei documenti di cui l’attore intende avvalersi in giudizio. • L’indicazione della data dell’udienza di prima comparizione (scelta dall’attore tra quelle indicate dal Presidente del Tribunale, all’inizio di ogni anno giudiziario, nel calendario giudiziario ed espressamente dedicate alla prima comparizione delle parti - anche se bisogna ricordare che, il giudice, tenuto conto del suo carico di lavoro, può sempre differire la data della prima udienza fino ad un massimo di 45 giorni). • L’invito rivolto al convenuto a costituirsi almeno 70 giorni prima dell’udienza di prima comparizione, con l’avvertimento che la costituzione oltre i suddetti termini comporta le decadenze di cui all’art. 167 c.p.c. (questa è la cd. “vocatio in ius”) Detto ciò, per quanto riguarda le ipotesi di nullità dell’atto di citazione, il codice stabilisce che l’atto di citazione è nullo in presenza di vizi relativi alla “vocatio in ius” o “all’editio actionis”. In particolare: • La “vocatio in ius” è viziata quando manca o risulta del tutto incerta l’indicazione del Tribunale competente, delle parti e dei loro difensori; se manca l’indicazione della data dell’udienza di prima comparizione; se è stato assegnato un termine a comparire inferiore a quello stabilito dalla legge oppure se manca l’avvertimento relativo alle decadenze in cui può incorrere il convenuto in caso di tardiva costituzione in giudizio. In questi casi, la nullità può essere sanata in due modi: 1) con la rinnovazione della citazione entro il termine perentorio stabilito dal giudice (se il convenuto non si è costituto), oppure 2) con la costituzione del convenuto (in quanto la citazione, anche se viziata, ha comunque raggiunto il suo scopo). E, in entrambi i casi, la sanatoria ha effetto retroattivo (cioè, “ex tunc” - per cui, la citazione, anche se inizialmente nulla, produce i suoi effetti sin dalla prima notificazione). • La “editio actionis” è viziata, invece, quando manca o risulta del tutto incerto l’oggetto della domanda oppure se manca l’esposizione delle ragioni giuridiche della domanda. Anche in questi casi, la nullità può essere sanata in due modi: 1) con la rinnovazione della citazione nel termine perentorio assegnato dal giudice (se il convenuto non si è costituto) oppure 2) con l’integrazione della citazione nel termine perentorio stabilito dal giudice (se il convenuto si è costituito in giudizio). Ma qui, a differenza di quanto avviene per i vizi della “vocatio in ius”, la sanatoria non ha effetto retroattivo (cioè, ha effetto “ex nunc” - per cui, la citazione, produce effetti soltanto dal momento della sua rinnovazione/integrazione). Una volta notificato l’atto di citazione al convenuto, l’attore si costituisce in giudizio depositando in cancelleria - entro 10 giorni dalla data di notificazione - il fascicolo di parte (che contiene l’originale dell’atto di citazione con la relazione di notificazione, la procura conferita al difensore e i documenti prodotti) e la cd. “nota di iscrizione a ruolo”. N.B. Infatti, ai sensi dell’art. 167 c.p.c., se si costituisce tardivamente (e cioè, dopo lo spirare del termine anzidetto), il convenuto potrà comunque partecipare al giudizio e difendersi ma non potrà più: • proporre domande riconvenzionali; • sollevare eccezioni di rito o di merito non rilevabili d’ufficio (come ad es. eccepire l’incompetenza del giudice adito dall’attore); • chiamare in causa terzi. N.B. Bisogna ricordare che, la citazione, una volta notificata al convenuto, produce una serie di effetti giuridici di tipo sostanziale e processuale: sotto il primo profilo, tra le altre cose, la notificazione della citazione crea litispendenza (nel senso di esistenza della lite); sotto il secondo profilo, invece, la notificazione della citazione (se valida), tra le altre cose, sospende la prescrizione (che rimane sospesa fino a quando la sentenza non passa in giudicato). Dopodiché, la cancelleria forma il fascicolo d’ufficio (nel quale verrano inseriti i fascicoli e gli atti di parte, i verbali di udienza e i futuri provvedimenti del giudice); mentre il Presidente del Tribunale attribuisce la causa alla sezione competente per materia e da qui la causa viene poi assegnata, dal Presidente di sezione, al giudice istruttore. A questo punto, la palla passa al convenuto che deve costituirsi in giudizio depositando la comparsa di risposta. 2 - LA COMPARSA DI RISPOSTA La comparsa di risposta è l’atto con il quale il convenuto si costituisce in giudizio e presenta le sue difese. La comparsa di risposta, così come la citazione, è un “atto formale” (il cui contenuto è prestabilito dalla legge) e deve contenere: • L’indicazione del Tribunale dinnanzi al quale è stata proposta la domanda. • Le generalità del convenuto, dell’attore e dei loro difensori. • Le difese del convenuto (che deve prendere posizione in modo chiaro e preciso sui fatti posti dall’attore a fondamento della domanda). • L’indicazione specifica dei mezzi di prova di cui il convenuto intende avvalersi e dei documenti che offre in comunicazione. • Le conclusioni del convenuto. Inoltre (ai sensi dell’art. 167 c.p.c.), in essa il convenuto deve indicare, a pena di decadenza: • Le eventuali domande riconvenzionali. • Le eccezioni di rito e di merito non rilevabili d’ufficio. • Se intende chiamare in causa un terzo. La comparsa di risposta deve essere poi sottoscritta dalla parte personalmente o dal suo difensore e depositata in cancelleria almeno 70 giorni prima dell’udienza di prima comparizione, per non incorrere nelle decadenze anzidette. Infine, bisogna ricordare che se il convenuto non si costituisce in giudizio entro il termine previsto per la sua costituzione (vale a dire, almeno 70 giorni prima dell’udienza di prima comparizione), viene dichiarato “contumace” e il processo prosegue in sua assenza. N.B. La nota di iscrizione a ruolo è l’atto con il quale l’attore chiede al cancelliere di iscrivere la causa nel registro in cui vengono elencati i giudizi pendenti davanti all’organo giudiziario (il cd. “ruolo generale”). Si tratta di un atto necessario per incardinare la causa davanti al giudice, non essendo sufficiente a tal fine la sola costituzione delle parti. N.B. Domande riconvenzionali che sono nulle se in esse manca o risulta del tutto incerto l’oggetto della domanda oppure se manca l’esposizione delle ragioni giuridiche della domanda riconvenzionale. In tal caso, si applica la stessa disciplina prevista per le nullità della “editio actionis” della citazione. N.B. Inoltre, qualora il convenuto non si costituisca entro il suddetto termine (70 giorni prima dell’udienza di prima comparizione), il giudice - in sede di verifiche preliminari - lo dichiarerà “contumace”. Tale termine comunque sia non è un termine perentorio, per cui il convenuto potrà costituirsi anche successivamente (con conseguente revoca della dichiarazione di contumacia) ma, in tal caso (e cioè, se si costituisce tardivamente) sopporta le decadenze anzidette: e quindi, non potrà più proporre domande riconvenzionali, sollevare eccezioni non rilevabili d’ufficio (come ad es. eccepire l’incompetenza per materia, valore o territorio del giudice adito dall’attore) né chiamare in causa terzi. 2. Con la seconda memoria - che deve essere depositata, a pena di decadenza, almeno 20 giorni prima dell’udienza - le parti possono replicare alle domande ed eccezioni nuove o modificate formulate dalla controparte nella memoria precedente nonché indicare mezzi di prova e produrre documenti nuovi o comunque diversi da quelli già indicati negli atti introduttivi (peraltro bisogna ricordare che, dopo questo momento, alle parti non è più consentito dedurre in giudizio ulteriori mezzi di prova). 3. Con la terza memoria - che deve essere depositata, a pena di decadenza, almeno 10 giorni prima dell’udienza - le parti infine indicano le prove contrarie a quelle dedotte dalla controparte nella memoria precedente (“prova contraria” che è quella volta appunto a contrastare la tesi della controparte). 4 - L’UDIENZA DI PRIMA COMPARIZIONE E TRATTAZIONE Una volta decorsi i termini per presentare le memorie integrative (di cui all’art. 171ter) ha luogo il primo incontro tra il giudice e le parti, all’interno della cd. udienza di prima comparizione e trattazione, durante la quale vengono compiute una serie di attività volte ad indirizzare il futuro svolgimento del processo. Al riguardo, il codice stabilisce innanzitutto che le parti devono presentarsi personalmente in udienza per favorire l’eventuale “interrogatorio libero” nonché il “tentativo di conciliazione”, non bastando a tal fine la sola presenza dei loro avvocati. Peraltro, l’eventuale assenza, potrà essere valutata dal giudice come argomento di prova a sfavore della parte che non si è presentata in udienza. Detto ciò, quanto alle attività compiute dal giudice in sede di prima udienza: • In primo luogo, se ne rileva i presupposti (e cioè, “se i fatti non sono controversi” o “se la domanda è fondata su una prova documentale” oppure “se la controversia è di facile risoluzione” o “richiede un’istruzione probatoria non complessa”), il giudice dispone con ordinanza non impugnabile la prosecuzione del processo con le forme del rito semplificato (di cui si dirà). N.B. Quando invece sono entrambe le parti a non presentarsi in udienza, il giudice rinvia la data della prima udienza e, se le parti non si presentano neppure alla nuova udienza, il giudice dispone l’immediata cancellazione della causa dal ruolo e il processo si estingue. Per quanto riguarda poi il tentativo di conciliazione, questo di regola è disposto dal giudice su richiesta congiunta delle parti e si svolge cosi: • Una volta ricevuta la richiesta, il giudice non prosegue con lo svolgimento della prima udienza ma fissa la data di un’apposita udienza per lo svolgimento del tentativo di conciliazione disponendo, se lo ritiene utile, la comparizione personale delle parti (parti che comunque possono anche decidere di farsi rappresentare da un procuratore speciale la cui nomina, però, deve risultare da atto pubblico o scrittura privata autenticata che li autorizzi espressamente a concludere accordi conciliativi). • Se la conciliazione va a buon fine, viene redatto un verbale dell’accordo (che, ove contenga disposizioni di condanna, costituisce anche titolo esecutivo) e il processo si estingue. • Se invece la conciliazione non riesce, il giudice fissa la data per la prosecuzione della prima udienza. Il fallimento del tentativo di conciliazione, tuttavia, non impedisce che questo venga rinnovato. Il codice, infatti, stabilisce che: “fino a quando l’istruzione non è conclusa (e cioè, fino alla remissione della causa in decisione), il giudice può rinnovare il tentativo di conciliazione in qualunque momento, formulando alle parti una proposta conciliativa”. • In secondo luogo, il giudice decide sulla richiesta di chiamata in causa del terzo formulata dall’attore nel prima memoria integrativa e - come abbiamo detto - se concede l’autorizzazione, rinvia la data della prima per permettere la chiamata del terzo. • Dopodiché, se il tentativo di conciliazione fallisce e non autorizza la chiamata del terzo, il giudice da inizio alla fase istruttoria (volta all’acquisizione del materiale probatorio) e quindi: provvede con ordinanza sulle richieste istruttorie delle parti, predispone (sempre con ordinanza) - tenendo conto della natura, urgenza e complessità della causa - il calendario del processo (cioè, il calendario delle udienze che si svolgeranno sino alla data dell’udienza di remissione della causa in decisione, indicando anche le attività che verranno espletate in ciascuna di esse) e fissa la prima udienza per l’assunzione dei mezzi di prova ammessi, che dovrà svolgersi da lì a 90 giorni. • Se invece ritiene che la causa sia già pronta per la decisone e non occorra assumere prove, il giudice passa direttamente alla fase decisoria. Infine, la riforma Cartabia ha introdotto nel nostro ordinamento due ordinanze definitorie (vale a dire, l’ordinanza di accoglimento e di rigetto della domanda), che consentono al giudice di chiudere subito il processo qualora risulti evidente che la domanda deve essere accolta o rigettata. In particolare: 1) Quanto all’ordinanza di accoglimento della domanda (art. 183ter.) il codice stabilisce che, se al termine dell’udienza di prima comparizione, il giudice ritiene, da un lato, che i fatti posti a fondamento della domanda siano stati provati e, dall’altro, che le difese del convenuto siano manifestamente infondate, può pronunciare, previa istanza di parte, ordinanza di accoglimento della domanda. 2) Quanto all’ordinanza di rigetto della domanda (art. 183quater.) il codice invece stabilisce che, se al termine dell’udienza di prima comparizione, il giudice ritiene che la domanda dell’attore sia manifestamente infondata o se l’atto di citazione presenta un vizio non sanato, può pronunciare, sempre previa istanza di parte, ordinanza di rigetto della domanda. Comunque sia, in entrambi i casi, l’ordinanza può essere pronunciata soltanto su istanza di parte, nelle controversie di competenza del tribunale ed è sempre reclamabile dal soccombente con le forme previste per il reclamo contro i provvedimenti cautelari. Se poi il reclamo viene accolto, il processo riprende con le forme ordinarie ma davanti ad un magistrato diverso da quello che ha pronunciato l’ordinanza reclamata; se invece il reclamo viene rigettato o non viene presentato nei termini previsti, l’ordinanza passa in giudicato e non sarà più possibile impugnarla. N.B. D’altro canto, il giudice può anche riservarsi di decidere in merito alle richieste istruttorie formulate delle parti fuori udienza ma, in questo caso, l’ordinanza deve essere pronunciata entro i successivi 30 giorni. Inoltre, bisogna ricordare che, con l’ordinanza di ammissione delle prove, il giudice può anche disporre l’ammissione di mezzi di prova d’ufficio. In tal caso, il giudice (con la stessa ordinanza) deve assegnare alle parti un termine perentorio per dedurre in giudizio i mezzi di prova che ritengono necessari in relazione a quelli ammessi dal giudice d’ufficio e un ulteriore termine perentorio per depositare memorie di replica. N.B. Questo può accadere in diversi casi, come ad esempio: 1) quando i fatti di causa non sono controversi e si devono affrontare soltanto questioni di diritto; 2) quando è possibile decidere la causa sulla base dei documenti già prodotti in giudizio; 3) se nessuna delle parti ha richiesto l’ammissione di mezzi di prova e il giudice non ritiene opportuno utilizzare i suoi poteri istruttori d'ufficio; 4) quando il giudice, malgrado siano state avanzate istanze probatorie, ritiene i mezzi di prova dedotti dalle parti in giudizio inammissibili, irrilevanti oppure superflui. III. LA FASE DECISORIA La fase decisoria è la terza ed ultima fase del processo civile di primo grado (o “di cognizione”), ha inizio con la fissazione della data dell’udienza di remissione della causa in decisione, prosegue con il deposito degli scritti difensivi finali (conclusioni, comparse conclusionali e memorie di replica) e termina con il deposito della sentenza in cancelleria. 5 - L’UDIENZA DI REMISSIONE DELLA CAUSA IN DECISIONE E I TERMINI PER IL DEPOSITO DELLE DIFESE FINALI Il passaggio dalla fase di trattazione a quella decisoria non è immediata ma preceduta da una “fase ponte”, e cioè quella della remissione della causa in decisione. Il giudice istruttore, infatti, quando ritiene la causa matura per la decisione (o perché si è svolta l’istruzione probatoria o perché è fondata solo su prove precostituite e non necessita di prove costituende), fissa la data dell’udienza di remissione della causa in decisione e assegna alle parti tre termini perentori per il deposito delle difese finali (parti che, è bene ricordare, possono anche rinunciare a depositare le difese finali, in quanto il deposito costituisce una facoltà e non un obbligo per le parti). Termini perentori che (ai sensi dell’art. 189) sono rispettivamente di: 1) 60 giorni prima dell’udienza per il deposito di note scritte contenenti la precisazione delle conclusioni, nei limiti di quelle già formulate nella fase introduttiva. 2) 30 giorni prima dell’udienza per il deposito delle comparse conclusionali (con le quali le parti espongono in modo compiuto le ragioni di fatto e di diritto su cui si fondano le rispettive conclusioni, e cioè le loro richieste). 3) 15 giorni prima dell’udienza per il deposito delle memorie di replica (con le quali le parti appunto replicano o comunque rispondono alle deduzioni formulate dalla controparte nella comparsa conclusionale). Dopodiché, in sede di udienza, il giudice istruttore si limita a “rimettere la causa in decisione” e cioè - a seconda del tipo di rito (ovvero, se la causa è di competenza del tribunale in composizione monocratica o collegiale) - la trattiene davanti a se (nel rito monocratico) oppure la rimette al collegio (nel rito collegiale) per la decisione, ed entro i 30 giorni successivi all’udienza di remissione della causa in decisione (60 giorni quando la competenza è del tribunale in composizione collegiale) deposita la sentenza in cancelleria. N.B. Peraltro, si ricordi che la trattazione della fase decisoria del processo civile, come vedremo, può avvenire in tre modi: e cioè, può essere scritta (che rappresenta il modello base), mista oppure orale. N.B. Tuttavia bisogna ricordare che, anche se la trattazione scritta della fase decisoria rappresenta la regola, il codice riconosce al giudice anche la possibilità di optare per la trattazione mista (che presuppone però l’istanza di parte) oppure per la trattazione orale. Vediamole in dettaglio: Per quanto riguarda la trattazione mista (dove non vi sono grosse differenze tra rito monocratico e collegiale), il codice stabilisce che se una delle parti richiede la discussione orale della causa (richiesta che può essere avanzata in ogni momento, anche con largo anticipo, purché ciò avvenga entro e non oltre la precisazione delle conclusioni), il giudice istruttore - invece di fissare l’udienza di remissione della causa in decisione (e, se l’ha già fissata la revoca) - fissa l’udienza di discussione orale e assegna alle parti soltanto i termini per la precisazione delle conclusioni e il deposito delle comparse conclusionali (in questo caso, quindi, non è previsto lo scambio delle memorie di replica, in quanto poi avrà luogo la discussione orale) e, al termine dell’udienza di discussione orale, deposita la sentenza in cancelleria entro 30 giorni (entro 60 giorni nelle cause di competenza del tribunale in composizione collegiale). continua nella quadra nera sotto 3. L’ordinanza post-istruttoria L’ordinanza post-istruttoria, infine, è un provvedimento anticipatorio di condanna che può essere pronunciato soltanto al termine dell’istruzione probatoria e che consente alla parte, che ha presentato domanda di condanna al pagamento di somme di denaro oppure alla consegna o al rilascio di beni, di chiedere al giudice istruttore di pronunciare ordinanza di condanna per quella parte della domanda per cui (il giudice) ritiene già raggiunta la prova. Al riguardo, il codice stabilisce che: “esaurita l'istruzione probatoria, il giudice istruttore, su istanza della parte che ha proposto domanda di condanna al pagamento di somme di denaro ovvero alla consegna o al rilascio di beni, può disporre con ordinanza il pagamento ovvero la consegna o il rilascio, nei limiti in cui ritiene già raggiunta la prova”. L’ordinanza post-istruttoria, una volta pronunciata, costituisce titolo esecutivo e, a differenza delle altre due ordinanze (che possono essere revocate sia nel corso del processo che in sede decisionale con la sentenza), può essere revocata soltanto con la sentenza che definisce il giudizio. Inoltre, altro elemento che caratterizza questa ordinanza e la distingue nettamente dalle altre due, sta nel fatto che l’ordinanza post-istruttoria può acquisire l’efficacia di sentenza (impugnabile); e ciò può avvenire in due casi: • se, dopo la pronuncia dell’ordinanza, il processo si estingue. • se l’altra parte non manifesta, con ricorso depositato in cancelleria entro 30 giorni dalla sua pronuncia (se pronunciata in udienza) o comunicazione (se pronunciata fuori udienza), la volontà che sia pronunciata sentenza. 8 - IL RITO SEMPLIFICATO Il procedimento semplificato di congnizione (introdotto dalla recente riforma del processo civile - cioè, dalla “Riforma Cartabria” - e applicabile alle controversie instaurate dopo il 28 febbraio 2023) costituisce un rito alternativo al procedimento ordinario, dal quale si distingue per la semplificazione e maggiore speditezza dell’iter processuale e che, in genere, si applica a tutti i giudizi che non necessitano di un’attività istruttoria complessa. Quanto alle condizioni per poter accedere al rito semplificato (si tratta di condizioni alternative, nel senso che non devono essere tutte presti ma ne basta una sola), in base a quanto stabilito dal codice (art. 281decies) il rito semplificato si applica: 1) quando i fatti di causa non sono controversi; oppure… 2) quando la domanda è fondata su prova documentale; oppure… 3) se la domanda è di pronta soluzione; oppure… 4) se la causa richiede un’attività istruttoria non complessa. N.B. La “semplificazione” quindi non si riferisce alla cognizione della controversia, che resta piena, ma allo svolgimento del processo. Di conseguenza, il rito semplificato può essere definito come “un giudizio alternativo al procedimento ordinario, a cognizione piena ma a trattazione e istruzione semplificata”. N.B. In presenza di una delle suddette condizioni, l’attore è tenuto ad introdurre il giudizio con le forme del rito semplificato. Dopodiché, così come avviene nel rito ordinario (dove, come abbiamo visto, il giudice può disporre, in sede di verifiche preliminari, in presenza di una delle suddette condizioni, la prosecuzione del processo con le forme del rito semplificato), anche in questo caso il giudice potrà ordinare - sempre in sede di verifiche preliminari (che però, nel rito semplificato, hanno luogo all’inizio della prima udienza e non in un momento antecedente alla stessa come nel rito ordinario) - il mutamento di rito qualora ritenga che “per la complessità della lite o dell’istruzione probatoria” sia meglio trattare la causa con le forme del rito ordinario. Detto ciò, passiamo ora ad esaminare come si svolgono le tre fasi del processo (introduttiva, di trattazione e decisoria) nel rito semplificato. I. La fase introduttiva Innanzitutto, a differenza di quanto avviene nel rito ordinario, nel rito semplificato la domanda è proposta con ricorso e non con citazione (di conseguenza non è l’attore a fissare la data della prima udienza ma il giudice istruttore). Una volta depositato il ricorso, il presidente del tribunale designa il giudice istruttore competente a trattare la causa; il quale, entro 5 giorni dalla designazione, fissa con decreto la data della prima udienza; il ricorso e il decreto con l’indicazione della data della prima udienza sono poi comunicati al convenuto ad opera dell’attore. Tra la data della notificazione e quella della prima udienza deve intercorre un periodo di tempo di almeno 40 giorni (e di 60 giorni se il convenuto è residente all’estero); il convenuto, in ogni caso, per non incorre in decadenze, deve costituirsi - depositando la comparsa di risposta - almeno 10 giorni prima della data della prima udienza - comparsa di risposta nella quale il convenuto, così come avviene nel rito ordinario, dovrà dire tutto e subito (e cioè, deve: “proporre le sue difese, prendendo posizione in modo chiaro e preciso sui fatti posti dall’attore a fondamento della domanda, indicare i mezzi di prova di cui intende avvalersi e i documenti che offre in comunicazione nonché formulare le conclusioni. Inoltre, a pena di decadenza, deve proporre le eventuali domande riconvenzionali, sollevare le eccezioni di rito e di merito non rilevabili d’ufficio e dichiarare se intende chiamare in causa un terzo”). In quest’ultimo caso (ovvero, se il convenuto si costituisce tempestivamente manifestando la volontà di chiamare in causa un terzo), il giudice, peraltro, dovrà rinviare la data della prima udienza nonché fissare il termine perentorio entro il quale il convenuto dovrà provvedere alla chiamata del terzo (terzo che si costituisce in giudizio con le stesse modalità previste per il convenuto). II. La fase delle trattazione A questo punto, in sede di prima udienza, dopo aver accertato la regolare instaurazione della causa, il giudice istruìore può disporre (con ordinanza non impugnabile) il mutamento di rito da “semplificato” a “ordinario”, in due casi: 1) quando mancano i presupposti previsti dal codice per l’applicazione del rito semplificato (che, come abbiamo visto sopra, sono “fatti di causa non controversi”, “domanda fondata su prova documentale o di pronta soluzione” oppure “causa richiedente un’attività istruttoria semplice”); 2) quando la causa o l’istruzione probatoria si rivelano complesse. Nella stessa udienza, l’attore può chiedere al giudice l’autorizzazione a chiamare in causa un terzo (qualora tale necessità sia sorta a seguito delle difese presentate dal convenuto) e, se il giudice lo autorizza, dovrà rinviare la prima udienza e assegnare all’attore un termine perentorio entro il quale provvedere alla chiamata del terzo (chiamata del terzo che, è bene ricordare, avviene con citazione e non con ricorso). Inoltre, sempre nella prima udienza, le parti possono - a pena di decadenza - (soltanto) proporre le eccezioni che sono conseguenza delle domande riconvenzionali e delle eccezioni proposte dalle altre parti (pertanto - a differenza di quanto avviene nel rito ordinario - nel rito semplificato le parti, di regola, non possono precisare o modificare le domande, eccezioni e conclusioni già proposte né indicare nuovi mezzi di prova). Tuttavia, su richiesta delle parti, il giudice può (anche se, secondo N.B. Al riguardo, si ricordi che le condizioni per l’applicazione del rito semplificato devono sussistere sia per la domanda principale che per l’eventuale domanda riconvenzionale: infatti, il codice prevede il mutamento di rito da “semplificato” a “ordinario” anche in presenza di una domanda riconvenzionale richiedente un’attività istruttoria complessa. parte della dottrina, egli “deve”) concedere loro un primo termine perentorio non superiore a 20 giorni per precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni nonché per indicare mezzi di prova e produrre documenti; e un ulteriore termine perentorio non superiore a 10 giorni per replicare e dedurre in giudizio le prove contrarie. Dopodiché, se non rinvia la prima udienza per consentire la chiamata del terzo da parte dell’attore e non assegna alle parti i termini istruttori anzidetti, il giudice da inizio alla fase istruttoria (durante la quale ammette i mezzi di prova rilevanti per la decisione e procede alla loro assunzione) a meno che non ritenga la causa già matura per la decisione (nel qual caso, allora, passa direttamente alla fase decisoria). III. La fase decisoria Infine, in base a quanto stabilito dal codice (art. 281terdecies), il giudizio si chiude con sentenza (pronunciata dal giudice a seguito di discussione orale), impugnabile nei modi ordinari. 9 - LE VICENDE ANOMALE DEL PROCESSO Nel corso del processo talvolta possono verificarsi alcune “vicende anomale” che ne alterano lo svolgimento. Tali vicende - che sono molto diverse tra loro - sono la sospensione, l’interruzione e l’estinzione del processo, la riunione e la separazione delle cause. I. La sospensione del processo La sospensione del processo consiste in un arresto temporaneo delle attività processuali. Il codice prevede due tipi di sospensione: quella necessaria e quella su richiesta congiunta delle parti. 1) La sospensione necessaria (art. 295) è disposta dal giudice ogniqualvolta egli stesso o un altro giudice deve risolvere una controversia pregiudiziale, dalla cui definizione dipende la decisione della causa in corso. 2) La sospensione su richiesta congiunta delle parti (art. 296), invece, può essere disposta dal giudice - qualora ricorrano giustificati motivi - soltanto per una volta e per un periodo di tempo non superiore a 3 mesi, fissando al contempo la data dell’udienza di prosecuzione del processo. Quanto agli effetti della sospensione, durante il periodo di sospensione del processo non possono essere compiuti atti processuali e la sospensione interrompe anche il decorso dei termini, che ricominceranno a decorrere dalla data della nuova udienza fissata dal giudice per la prosecuzione del processo. Dopodiché, se nel provvedimento con cui dispone la sospensione (che è un’ordinanza), il giudice, non fissa anche la data dell’udienza per la prosecuzione del processo (che è l’ipotesi più comune), le parti hanno l’onere di chiederne - con ricorso presentato al giudice istruttore o al presidente del tribunale - la fissazione entro il termine perentorio di 3 mesi dalla conoscenza della cessazione della causa di sospensione (e, nella sospensione necessaria, dal passaggio in giudicato della sentenza che definisce la questione pregiudiziale) altrimenti, in mancanza di richiesta, il processo si estingue. N.B. Sentenza che, se viene pronunciata in udienza, è depositata in cancelleria immediatamente; mentre se viene pronunciata fuori udienza, è depositata in cancelleria nei 30 giorni successivi alla discussione. N.B. La sospensione necessaria presuppone l’esistenza di un rapporto di pregiudizialità tra le due cause (nel senso che la decisione della causa pregiudiziale è potenzialmente in grado di incidere su quella della causa dipendente) ed è disposta al fine di evitare il contrasto tra giudicati. • Una volta depositato il ricorso, il presidente del tribunale designa il giudice che si occuperà della causa; il quale, entro 5 giorni dalla designazione, fissa con decreto la data della prima udienza. • Il ricorso unitamente al decreto di fissazione della data della prima udienza sono poi notificati dall’attore al convenuto; convenuto che, per non incorre in decadenze, deve costituirsi - depositando la comparsa di risposta - almeno 10 giorni prima della data della prima udienza. • In sede di prima udienza, il giudice di pace, innanzitutto, dopo aver interrogato le parti, deve procedere con il tentativo di conciliazione obbligatorio: se poi la conciliazione riesce si redige verbale dell’accordo e il processo si estingue; altrimenti, in caso di fallimento del tentativo di conciliazione, il processo prosegue sempre con le forme previste per il rito semplificato. • Se il tentativo di conciliazione fallisce, sempre in prima udienza, l’attore può chiedere al giudice l’autorizzazione a chiamare in causa un terzo, se tale necessità è sorta a seguito delle difese presentate dal convenuto (e, se il giudice lo autorizza, rinvia la prima udienza e assegna all’attore un termine perentorio entro il quale deve provvedere alla chiamata del terzo). • Inoltre, sempre nella stessa udienza, le parti possono - a pena di decadenza - proporre (soltanto) le eccezioni che sono conseguenza delle domande riconvenzionali e delle eccezioni proposte dalle altre parti. Tuttavia, su richiesta delle parti, il giudice può (anche se, secondo parte della dottrina, egli “deve”) concedere loro due ulteriori termini (di 20 e 10 giorni) per precisare e modificare le domande, eccezioni e conclusioni; per indicare mezzi di prova e produrre documenti; per replicare e dedurre in giudizio le prove contrarie. • Dopodiché, al termine della prima udienza, il giudice da inizio alla fase istruttoria (durante la quale ammette i mezzi di prova rilevanti per la decisione e procede alla loro assunzione), a meno che non ritenga la causa già matura per la decisione (nel qual caso, allora, passa direttamente alla fase decisoria). • Infine, il giudizio si chiude con sentenza (pronunciata dal giudice a seguito di discussione orale), impugnabile nei modi ordinari. Sentenza che, se pronunciata in udienza, è depositata in cancelleria immediatamente; mentre se pronunciata fuori udienza, è depositata in cancelleria nei 15 giorni successivi alla discussione. N.B. Comparsa di risposta nella quale, come abbiamo visto, il convenuto deve dire tutto e subito, e cioè deve: “proporre le sue difese, prendere posizione in modo chiaro e preciso sui fatti posti dall’attore a fondamento della domanda, indicare i mezzi di prova di cui intende avvalersi e i documenti che offre in comunicazione nonché formulare le conclusioni. Inoltre, a pena di decadenza, deve proporre le eventuali domande riconvenzionali, sollevare le eccezioni di rito e di merito non rilevabili d’ufficio e dichiarare se intende chiamare in causa un terzo”. Capitolo 5 - Le impugnazioni: caratteri generali Innanzitutto, l’impugnazione (o gravame) è lo strumento processuale attraverso il quale le parti possono contestare un provvedimento dell’autorità giudiziaria che ritengono ingiusto, perché viziato da un errore di fatto o di diritto, chiedendo al giudice di grado superiore rispetto a quello che lo ha emesso (ma talvolta anche allo stesso giudice, come avviene ad es. nella revocazione e nell’opposizione di terzo) di rimuoverlo (e cioè, di eliminarlo o modificarlo). I mezzi d’impugnazione previsti dal codice di procedura civile sono: 1) L’appello. 2) Il ricorso in cassazione. 3) La revocazione (ordinaria e straordinaria). 4) L’opposizione di terzo. 5) Il regolamento di competenza. Al loro volta, i mezzi di impugnazione si distinguono in: • ordinari e straordinari I mezzi di impugnazione “ordinari” sono quelli che possono essere esperiti quando la sentenza non è ancora passata in giudicato (e quindi non è ancora diventata irrevocabile). Sono tali: l’appello, il ricorso in cassazione e la revocazione ordinaria. I mezzi di impugnazione “straordinari”, invece, sono quelli che possono essere esperiti dopo che la sentenza è passata in giudicato (e quindi è diventata irrevocabile). Sono tali: la revocazione straordinaria e l’opposizione di terzo. • a critica libera e a critica vincolata Sono mezzi di impugnazione “a critica libera” quelli che permettono di criticare la sentenza per un qualsiasi motivo (l’unico mezzo di impugnazione a critica libera previsto dal codice è l’appello); mentre i mezzi di impugnazione “a critica vincolata” sono quelli che consentono di criticare la sentenza soltanto per i motivi espressamente stabiliti dal codice (sono tali: il ricorso in cassazione, la revocazione, l’opposizione di terzo e il regolamento di competenza). 1 - LE CONDIZIONI E I TERMINI PER PROPORRE L’IMPUGNAZIONE Per poter impugnare correttamente una sentenza devono essere rispettate determinate condizioni e l’impugnazione deve avvenire nei termini perentori (previsti cioè a pena di decadenza) stabiliti dalla legge. Le condizioni dell’impugnazione sono tre, vale a dire: 1. La legittimazione ad impugnare che, di regola, è riconosciuta alle parti che hanno partecipato al giudizio precedente, seppur con alcune eccezioni. Infatti, non tutte le parti che hanno partecipato al giudizio precedente sono legittimate ad impugnare (ad es. secondo l’opinione prevalente, non sono legittimati ad impugnare, gli interventori adesivi dipendenti - cioè, i terzi che intervengono in giudizio per sostenere le ragioni di una delle parti in causa, senza tuttavia proporre una propria domanda); d’altro canto, vi sono anche dei soggetti che, pur non avendo partecipato al giudizio precedente, sono comunque legittimati ad impugnare (come ad es. il contumace). 2. L’interesse a impugnare nel senso che l’impugnazione deve essere volta a conseguire un’utilità effettiva e, in genere, questo (cioè, l’interesse a impugnare) discende dalla soccombenza, totale o parziale, nel giudizio precedente. 3. La possibilità di impugnare la sentenza con il mezzo che si intende proporre. Per quanto riguarda, invece, i termini (cioè, i tempi) per proporre l’impugnazione questi variano a seconda del tipo di mezzo di impugnazione. In particolare: • L’appello deve essere proposto entro 30 giorni dalla notificazione della sentenza (cd. “termine corto”) oppure, in mancanza della notificazione, entro 6 mesi dalla pubblicazione/deposito della sentenza in cancelleria (cd. “termine lungo”). • Il ricorso in cassazione deve essere proposto entro 60 giorni dalla notificazione della sentenza (cd. “termine corto”) oppure, in mancanza della notificazione, entro 6 mesi dalla pubblicazione/ deposito della sentenza in cancelleria (cd. “termine lungo”). • La revocazione ordinaria deve essere proposta entro 30 giorni dalla notifica della sentenza oppure, se questa manca, entro 6 mesi dalla pubblicazione/deposito della stessa. • La revocazione straordinaria deve essere proposta entro 30 giorni dalla scoperta del vizio. • Infine, l’opposizione di terzo semplice non è soggetta a termini d’impugnazione; mentre quella revocatoria deve essere proposta entro 30 giorni dalla scoperta del dolo, della falsità o della collusione. 2 - INAMMISSIBILITÀ E IMPROCEDIBILITÀ DELL’IMPUGNAZIONE Detto ciò, una volta proposta l’impugnazione, questa può anche essere dichiarata inammissibile o improcedibile dal giudice dell’impugnazione (cd. “giudice ad quem”). L’impugnazione, di regola, è inammissibile quando manca uno dei presupposti previsti dalla legge per la sua proposizione, e cioè quando: • manca la legittimazione a impugnare; • manca l’interesse a impugnare; • l’impugnazione è stata proposta dopo la scadenza dei termini previsti dalla legge per la proposizione delle impugnazioni; • l’impugnazione è stata proposta nonostante l’acquiscenza (acquiescenza che si ha quando la parte soccombente nel giudizio di grado precedente rinuncia ad impugnare la sentenza in modo espresso o tacito); • è stato impugnato un provvedimento non impugnabile. L’impugnazione, invece, è improcedibile quando la parte che l’ha proposta non compie gli atti d’impulso necessari per far proseguire il giudizio (l’appello, ad esempio, è improcedibile quando l’appellante non compare alla prima udienza né a quella successiva fissata dal giudice). N.B. Pertanto, come si può vedere, per l’appello e il ricorso in cassazione (ma anche per la revocazione ordinaria) sono previsti due termini per proporre l’impugnazione: un “termine breve” che inizia a decorre dalla data di ricezione della notificazione della sentenza (sentenza che, per far decorrere il termine breve, deve essere notificata al difensore della controparte oppure, se questa si è costituita personalmente in giudizio, alla parte personalmente) e un “termine lungo” che, in mancanza della notificazione, decorre dalla data di pubblicazione della sentenza (e cioè, dal suo deposito in cancelleria). N.B. Dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità che produce effetti molto gravi, infatti, in base a quanto stabilito dall’art. 358 del codice: “l’impugnazione una volta dichiarata inammissibile o improcedibile non può più essere riproposta, anche se ancora non sono scaduti i termini per impugnare”. N.B. Si tratta in entrambi i casi di vizi che impediscono al giudice dell’impugnazione (cd. “giudice ad quem”) di esaminare nel merito la domanda d’impugnazione; la differenza tra le due sta nel fatto che: l’inammissibilità si riferisce a vizi originari dell’impugnazione; mentre l’improcedibilità si riferisce a vizi che si manifestano durante il corso dell’impugnazione. Capitolo 6 - L’appello L’appello è un mezzo di impugnazione “ordinario”, “a critica libera” e “parzialmente devolutivo“, con il quale le parti contestano la decisione emessa dal giudice di primo grado, perché la ritengono viziata da un errore di fatto o di diritto, chiedendo al giudice di secondo grado di riesaminare la controversia. Pertanto, l’appello presenta le seguenti caratteristiche: 1) Innanzitutto, l’appello è un mezzo di impugnazione “ordinario” che può essere esperito cioè quando la sentenza non è ancora passata in giudicato (e quindi diventata irrevocabile). 2) In secondo luogo, l’appello è un mezzo di impugnazione “a critica libera”, nel senso che la sentenza di primo grado può essere criticata per qualsiasi motivo, sia per un errore di fatto (dovuto cioè ad una errata rappresentazione dei fatti oggetto di causa) che di diritto (dovuto cioè ad una errata interpretazione ed applicazione delle norme procedurali o della legge civile). 3) In terzo luogo, l’appello è un mezzo di impugnazione “parzialmente devolutivo”, nel senso che il giudice di secondo grado riesamina la controversia decisa dal giudice di primo grado ma la sua cognizione non è piena bensì limitata ai soli motivi indicati nella domanda di appello. 4) L’appello consiste poi in un riesame della controversia e in un nuovo e autonomo giudizio, riesame che non richiede necessariamente lo svolgimento di una nuova attività istruttoria in quanto avviene principalmente sulla base del materiale probatorio già acquisito in primo grado. Infatti, in sede di appello vige il cd. “divieto di nova in appello” in base al quale non possono essere proposte domande ed eccezioni nuove (cioè, diverse da quelle già proposte in primo grado) - a meno che non siano accessorie o comunque consequenziali a quelle già proposte (come ad es. la domanda di risarcimento dei danni sofferti dopo la pronuncia della sentenza) - e, se vengono proposte, sono dichiarate inammissibili dal giudice. Inoltre, non possono essere dedotti in giudizio nuovi mezzi di prova ne prodotti nuovi documenti, a meno che la parte non dimostri di non averli potuti proporre o produrre in primo grado per causa a lei non imputabile. 5) Al termine del giudizio d’appello, il giudice pronuncia sentenza con la quale conferma, riforma (cioè, modifica) o annulla la sentenza pronunciata dal giudice di primo grado (anche se i casi di annullamento sono eccezionali). In ogni caso, la sentenza del giudice d’appello ha “effetto sostitutivo” nel senso che si sostituisce a quella impugnata e contro di essa potrà essere poi presentato ricorso in cassazione. 6) Infine, l’appello è deciso da un giudice diverso da quello che ha emesso il provvedimento impugnato. N.B. L’appello (tanto quello principale quanto quello incidentale), infatti, deve essere motivato, motivazione nella quale le parti devono indicare, a pena di inammissibilità, in maniera chiara, sintetica e precisa: a) i capi (cioè, le singole parti) della sentenza di primo grado oggetto dell’impugnazione; b) le critiche proposte contro la ricostruzione dei fatti compiuta dal giudice di primo grado; c) le violazioni di legge commesse (e cioè, gli errori commessi dal giudice di primo grado nell’applicazione delle norme procedurali e/o di diritto) e la loro rilevanza ai fini della decisione impugnata. N.B. In particolare: • Le sentenze emesse dal Tribunale sono impugnate, in appello, davanti alla Corte d’Appello; • mentre le sentenze emesse dal Giudice di Pace sono impugnate, in appello, davanti al Tribunale in composizione monocratica. In entrambi i casi, il giudice (corte d’appello o tribunale) competente per territorio è quello nella cui circoscrizione ha sede il giudice che ha pronunciato la sentenza di primo grado. 1 - LE SENTENZE IMPUGNABILI CON L’APPELLO E LA RISERVA DI IMPUGNAZIONE Quanto alle sentenze impugnabili con l’appello, ai sensi dell’art. 339, con esso possono essere impugnate tutte le sentenze pronunciate in primo grado, ad eccezione però di quelle per le quali l’appello è escluso dalla legge o dall’accordo delle parti (che, di comune accordo, possono anche decidere di saltare l’appello e di presentare direttamente ricorso in cassazione contro la sentenza di primo grado - questo è il cd. “ricorso per saltum”) e di quelle pronunciate dal tribunale secondo equità (mentre sono appellabili le sentenze pronunciate secondo equità dal giudice di pace, ma solo per violazione delle norme procedurali, costituzionali o comunitarie oppure dei principi regolatori della materia). Un caso del tutto particolare è poi quello relativo all’impugnazione delle sentenze non definitive (che decidono cioè singole questioni o una parte dell’oggetto del contendere senza tuttavia definire il giudizio): queste, infatti, possono essere impugnate “immediatamente” oppure con la cd. riserva di impugnazione. 2 - IL GIUDIZIO D’APPELLO Per quanto riguarda il giudizio d’appello, innanzitutto, il codice stabilisce che: “al giudizio d’appello si applicano le stesse norme che regolano il giudizio di primo grado davanti al tribunale, se non sono incompatibili con le disposizioni specifiche dettate per l’appello”. I. La fase introduttiva L’appello si propone con citazione che, così come l’atto introduttivo del giudizio di 1° grado, deve contenere: • l’indicazione dell’ufficio giudiziario competente (Corte d’Appello o Tribunale); • l’indicazione delle generalità delle parti del provvedimento impugnato e dei loro difensori; • l’indicazione dei mezzi di prova di cui l’appellante intende avvalersi (ovviamente, nei limiti consentiti nel giudizio d’appello); • l’indicazione della data della prima udienza di trattazione; • l’invito rivolto all’appellato/convenuto a costituirsi almeno 20 giorni prima della data della prima udienza indicata nella citazione, con l’avvertimento che, in caso di mancata o tardiva costituzione, perderà la facoltà di proporre appello incidentale e di riproporre le domande e le eccezioni non accolte o assorbite in primo grado. N.B. La riserva di impugnazione è una dichiarazione scritta (se resa fuori udienza) od orale (se resa in udienza) con la quale la parte soccombente manifesta la volontà di impugnare la sentenza non definitiva insieme alla successiva sentenza definitiva. Tale dichiarazione deve essere resa, a pena di decadenza, entro e non oltre la prima udienza successiva all’emissione della sentenza non definitiva stessa. La riserva di impugnazione, comunque sia, non obbliga la parte soccombente ad impugnare poi effettivamente la sentenza non definitiva. Inoltre, bisogna ricordare che la riserva di impugnazione non è sempre possibile: infatti, se contro la stessa sentenza non definitiva un’altra parte propone subito appello, la riserva di impugnazione non avrà alcun effetto in quanto si dovrà impugnare immediatamente la sentenza in via incidentale. N.B. I due atti (cioè, l’atto di citazione di primo e quello di secondo grado) tuttavia non sono identici, in quanto svolgono una funzione diversa: infatti, in primo grado, l’attore agisce in giudizio per la prima volta presentando al giudice la propria domanda contro il convenuto. Qui, invece - siccome la questione è già stata risolta dal giudice con sentenza - non si propone una domanda contro qualcuno ma si mette in discussione la decisione del giudice di primo grado, impugnando i capi e punti della sentenza in cui, secondo l’appellante, il primo giudice ha sbagliato. Nell’atto d’appello, inoltre, l’appellante deve anche indicare - a pena di inammissibilità - i motivi specifici dell’appello, e cioè: • i capi (cioè, le singole parti) della sentenza di primo grado impugnati; • le critiche rivolte contro la ricostruzione dei fatti compiuta dal giudice di primo grado; • le violazioni di legge commesse (ovvero, gli errori commessi dal giudice di primo grado) e la loro rilevanza ai fini della decisione impugnata. L’atto d’appello deve essere poi sottoscritto dall’appellante personalmente o dal suo difensore e notificato all’appellato/convenuto almeno 90 giorni prima della data della prima udienza (elevati a 150 giorni se l’appellato è residente all’estero). Dopodiché, l’appellante deve (a pena di improcedibilità) costituirsi in giudizio depositando in cancelleria - entro 10 giorni dalla notifica dell’atto d’appello all’appellato - il fascicolo di parte con in allegato la copia della sentenza impugnata e la nota di iscrizione a ruolo; mentre il cancelliere provvede a formare il fascicolo d’appello e richiede al cancelliere del giudice di primo grado di trasmettergli il fascicolo d’ufficio del giudizio di primo grado. A questo punto, una volta introdotto il giudizio d'appello, le altre parti se intendono a loro volta impugnare la stessa sentenza - presentando il cd. “appello incidentale” - devono farlo con la comparsa di risposta: l’appello incidentale, infatti, è proposto con la comparsa di risposta che, a pena di decadenza, deve essere depositata in cancelleria almeno 20 giorni prima della data fissata per la prima udienza (che, a seconda dei casi, sarà quella indicata dall’appellante nella citazione introduttiva o quella differita indicata successivamente dal presidente o dal giudice istruttore - che, se necessario, può rinviare con decreto la data della prima udienza fino ad un max. di 45 giorni). Infine, siccome l’interesse a proporre l’appello incidentale potrebbe sorgere anche a seguito dell’appello incidentale proposto da un’altra parte, il codice stabilisce che in questi casi (e cioè, quando l’interesse a proporre appello incidentale sorge non dall’appello principale ma da quello incidentale presentato da un’altra parte) tale appello (detto anche “appello incidentale tardivo”) deve essere proposto nella prima udienza di trattazione. N.B. Peraltro bisogna ricordare che, poiché la sentenza di primo grado (una volta depositata in cancelleria) è provvisoriamente esecutiva e la proposizione dell’appello non sospende l’esecutività della sentenza, il codice (art. 283) riconosce alla parte soccombente la facoltà di chiedere al giudice dell’impugnazione - con apposita istanza inserita nell’atto d’appello principale o anche incidentale - la sospensione dell’efficacia esecutiva o dell’esecuzione (se è già iniziata) della sentenza di primo grado fino alla conclusione del giudizio d’appello (questa è la cd. inibitoria in appello). La sospensione può essere disposta dal giudice d’appello soltanto nei seguenti casi, e cioè: • se vi è una ragionevole probabilità di accoglimento dell'appello; • oppure se vi è il fondato motivo di ritenere che dall’esecuzione della sentenza possa derivare un grave ed irreparabile pregiudizio per l'appellante, anche in relazione alla possibile insolvenza di una delle parti. La decisione sulla richiesta di sospensione è presa dal giudice (o dal collegio) in sede di prima udienza, con ordinanza non impugnabile. Se l’istanza viene respinta, comunque, può essere riproposta nel corso del giudizio d’appello ma solo se si verificano dei mutamenti che la giustificano (mutamenti che devono essere specificamente indicati nel ricorso, a pena di inammissibilità). N.B. Il rispetto dei termini anzidetti è molto importante: infatti, se l’appellante non si costituisce nei termini (o, se dopo essersi costituito, non si presenta alla prima udienza), l’appello è dichiarato improcedibile; se invece è l’appellato/convenuto a non costituirsi nei termini, incorre in tutta una serie di decadenze (e, in particolare, non potrà più proporre appello incidentale). Capitolo 7 - Il ricorso in cassazione Il ricorso in cassazione è un mezzo d’impugnazione ordinario”, “a critica vincolata” e “parzialmente devolutivo”, con il quale la parte ricorrente chiede l’annullamento - con o senza rinvio - della decisione emessa dal giudice di grado inferiore. Quindi, il ricorso per cassazione presenta le seguenti caratteristiche: • Innanzitutto, è un mezzo di impugnazione “ordinario”, nel senso che può essere esperito fino a quando la sentenza non è ancora diventata irrevocabile (e quindi non è ancora passata in giudicato); • è un mezzo di impugnazione “a critica vincolata”, nel senso che può essere presentato soltanto per i motivi espressamente indicati dal codice (art. 360); • e “parzialmente devolutivo”, in quanto la cognizione della Corte di cassazione è limitata ai soli motivi dell’impugnazione. Inoltre, è importante ricordare che la cassazione è giudice di legittimità e non di merito nel senso che non entra nel merito della vicenda, ma si limita a controllare la corretta interpretazione ed applicazione delle norme di diritto sia sostanziale che processuale e, se necessario, controlla anche la regolarità formale della sentenza e la logicità della motivazione. Quanto ai provvedimenti impugnabili mediante ricorso in cassazione, sono soggetti a ricorso in cassazione tutte le sentenze (sia quelle pronunciate in secondo grado sia quelle inappellabili) compresi i provvedimenti che, pur non essendo delle sentenze, presentano gli stessi caratteri (e cioè, hanno carattere decisorio rispetto ad una determinata questione). 1 - I MOTIVI DEL RICORSO PER CASSAZIONE Come abbiamo detto poi il ricorso in cassazione è un mezzo di impugnazione “a critica vincolata”, nel senso che può essere presentato soltanto per i motivi espressamente previsti dall’art. 360 del codice di procedura civile (che sono cinque), vale a dire: 1) Per questioni attinenti alla giurisdizione. N.B. La Corte di Cassazione ha sede a Roma ed è unica per tutto il territorio nazionale (e la sua funzione principale è quella di garantire - con le sue sentenze - l’osservanza e l’uniforme interpretazione della legge su tutto il territorio nazionale - cd. funzione “nomofilattica”). La Corte è divisa al suo interno in cinque Sezioni Semplici (formate da 5 giudici, un presidente di sezione e quattro consiglieri), ognuna con la propria competenza per materia; a cui si affiancano, poi, in posizione sovraordinata, le Sezioni Unite (formate da 9 giudici, il Presidente della Cassazione e otto consiglieri provenienti dalle singole sezioni semplici) che hanno il compito di dirimere gli eventuali conflitti di competenza e di giurisdizione e di decidere le questioni di particolare importanza. N.B. Peraltro, bisogna ricordare che (cosi come abbiamo visto nell’appello) anche la proposizione del ricorso non sospende l’esecuzione della sentenza impugnata. Tuttavia, in base a quanto stabilito dal codice (art. 373), la parte che ha proposto il ricorso può chiedere, con apposita istanza, la sospensione della sua efficacia esecutiva. La richiesta deve essere indirizzata, non alla Corte di cassazione, ma allo stesso giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata che decide con ordinanza non impugnabile e dispone la sospensione soltanto qualora ritenga (si tratta di una valutazione discrezionale) che dall’esecuzione possa derivare un grave ed irreparabile danno al richiedente. N.B. Questa disposizione fa riferimento ai cd. “conflitti di giurisdizione”, che sono quelli che insorgono tra un giudice ordinario e un giudice speciale. 2) Per violazione delle norme sulla ripartizione della competenza, quando non è prescritta l’impugnazione per mezzo del regolamento di competenza. 3) Per violazione o falsa applicazione di norme di diritto sostanziale. 4) Per nullità della sentenza o di altro atto del procedimento. 5) Per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. 2 - LA FORMA DELLA DOMANDA: IL RICORSO, IL CONTRORICORSO E IL RICORSO INCIDENTALE Il ricorso in cassazione si propone appunto con ricorso, ricorso che deve essere essere sottoscritto da un avvocato abilitato al patrocinio in cassazione e indirizzato alla corte stessa e deve contenere, a pena di inammissibilità: • l’indicazione delle parti; • l’indicazione della sentenza o decisione impugnata; • la chiara e concisa esposizione dei fatti di causa utili a comprendere i motivi del ricorso; • l’indicazione dei motivi del ricorso; • l’indicazione della procura (se conferita con atto separato); N.B. In questo caso, il ricorso in cassazione può essere presentato soltanto contro la sentenza che abbia deciso sia nel merito che sulla competenza, ma non contro quella che ha deciso solo sulla competenza. In quest’ultimo caso, infatti, l’unico mezzo di impugnazione esperibile è il regolamento di competenza “necessario” (vedi capitolo 8, paragrafo 1). N.B. In questo caso, si parla anche di “errori in iudicando” (cioè, di errori commessi dal giudice nell’applicazione della legge sostanziale). Per “violazione” s’intende l’errata interpretazione delle norme di legge; mentre per “falsa applicazione” s’intende l’applicazione di una norma di legge non pertinente alla fattispecie concreta. N.B. In questo caso, si parla anche di “errori in procedendo” (cioè, di errori commessi dal giudice nell’applicazione delle norme che regolano lo svolgimento del processo). Tuttavia, non ogni errore in procedendo costituisce un vizio impugnabile in cassazione, ma soltanto l’inosservanza di quelle norme previste a pena di invalidità dell’atto. N.B. Quest’ultima disposizione è stata modificata dal d.lgs. 83/2012. Il vecchio n. 5 dell’art. 360, infatti, permetteva l’impugnazione per: “mancanza, insufficienza o contraddittorietà della motivazione”. Anche se tale previsione è stata fatta rientrare, in parte, nell’ipotesi di cui al n. 4 dell’art. 360, la modifica ha posto il problema dell’impugnabilità in cassazione di una sentenza per vizi della motivazione. Sul punto è quindi dovuta intervenuta la stessa Corte di cassazione che, con una serie di sentenze, ha stabilito i casi in cui è ancora possibile ricorre in cassazione per vizi relativi alla motivazione della sentenza. Secondo la Corte, ciò (cioè, l’impugnazione della sentenza in cassazione per vizi relativi alla motivazione) può ancora avvenire nei seguenti casi: • mancanza assoluta della motivazione; • motivazione oggettivamente incomprensibile; • sentenza d’appello laconica nella motivazione e che si limita a richiamare le conclusioni già formulate in quella di primo grado; • sentenza caratterizzata da un contrasto insanabile tra il dispositivo e la motivazione. • e la specificazione indicazione degli atti processuali, dei documenti, contratti o accordi collettivi ai quali si fa riferimento nel ricorso. Il ricorso deve essere poi notificato alla controparte e depositato in cancelleria, a pena di improcedibilità, entro 20 giorni dalla notificazione. Inoltre, insieme al ricorso, devono essere depositati - sempre a pena di improcedibilità - anche una serie di documenti (come ed es. la copia autentica della sentenza o comunque della decisione impugnata, la relazione di notificazione e gli atti processuali, i documenti, i contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda). Una volta ricevuta la notificazione del ricorso, la controparte (o “resistente”), entro 40 giorni dalla ricezione della notifica, può depositare in cancelleria un semplice controricorso (con il quale il resistente si limita a difendere la sentenza impugnata, chiedendo al giudice di rigettare il ricorso) oppure un controricorso contenente il ricorso incidentale (con il quale il resistente, invece, non solo chiede al giudice di rigettare il ricorso principale, ma impugna a sua volta la stessa sentenza chiedendo al giudice di annullarla sia pure per ragioni diverse ed opposte rispetto a quelle del ricorso principale). 3 - IL PROCEDIMENTO IN CASSAZIONE Quanto al procedimento in cassazione, una volta depositato il ricorso in cancelleria, il Presidente della Corte esamina il ricorso e lo assegna alla singola sezione (competente per materia) oppure alle Sezioni Unite (quando si tratta di decidere questioni di particolare importanza o questioni di giurisdizione). Dopodiché, il Presidente della singola sezione oppure della Corte (se si tratta delle Sezioni Unite) fissa la data dell’udienza e la comunica (per mezzo del cancelliere), almeno 60 giorni prima, ai difensori delle parti, indicando se il giudizio si svolgerà “in pubblica udienza” o “in camera di consiglio”. • Giudizio in pubblica udienza. Il giudizio in cassazione si svolge “in pubblica udienza” (e cioè, in presenza delle parti) quando la Corte deve decidere questioni di diritto di particolare importanza. In questo caso, l’udienza si apre con la relazione della causa compiuta dal giudice relatore; dopo la relazione, il Presidente invita i difensori delle parti a esporre oralmente le loro difese tenendo conto del fatto che non sono ammesse repliche. Al termine della discussione, la Corte si ritira in camera di consiglio per decidere e, una volta redatto il dispositivo, rientra in aula e il Presidente o il consigliere da lui delegato lo legge. La sentenza (comprensiva di dispositivo e motivazione) è poi depositata in cancelleria nei 90 giorni successivi alla delibera. • Giudizio in camera di consiglio. Di regola, il giudizio in cassazione, tuttavia, si svolge in camera di consiglio (e cioè, alla sola presenza dei giudici che compongono il collegio giudicante, senza la partecipazione delle parti). Al termine della quale, la Corte decide con ordinanza succintamente motivata che viene poi depositata in cancelleria immediatamente oppure nei successivi 60 giorni. N.B. Controricorso e ricorso incidentale ai quali si applicano le stesse norme valide per il ricorso principale. N.B. Fino a 10 giorni prima dell’udienza, le parti possono poi presentare sintetiche memorie illustrative (che consentono alle parti stesse di chiarire meglio i motivi del ricorso e di ribattere alle ragioni vantate dalla controparte). Inoltre, bisogna ricordare che quando il giudizio si svolge “in pubblica udienza”, la corte decide con sentenza; mentre quando il giudizio si svolge “in camera di consiglio”, la decisione è presa con ordinanza. N.B. Il codice, infatti, stabilisce che la Corte decide in camera di consiglio quando: • deve dichiarare l’inammissibilità o improcedibilità del ricorso; • deve pronunciarsi su questioni di competenza e/o di giurisdizione; • deve pronunciarsi sui ricorsi per revocazione e per opposizione di terzo; • e in ogni altro caso in cui non è prescritta la decisione in pubblica udienza 2) se il giudice ha deciso sulla base di prove riconosciute o comunque dichiarate false dopo la sentenza (art. 395 n. 2 c.p.c.); 3) se dopo la sentenza sono stati trovati uno o più documenti decisivi, che la parte non aveva potuto produrre in giudizio per causa di forza maggiore o per il comportamento dell'avversario (art. 395 n. 3 c.p.c.); 4) se la sentenza è frutto di un errore di fatto risultante dagli atti e documenti della causa (art. 395 n. 4 c.p.c.); 5) se la sentenza è contraria ad altra sentenza già pronunciata e avente la forza del giudicato fra le parti (art. 395 n. 5 c.p.c.); 6) ed, infine, se la sentenza è frutto del dolo del giudice (art. 395 n. 6 c.p.c.). A seconda dei motivi per i quali viene proposta, la revocazione può essere poi un mezzo di impugnazione “ordinario” o “straordinario”. In particolare: • È un mezzo di impugnazione “ordinario” (cioè, esperibile contro le sentenze non ancora passate in giudicato) quando viene proposta per i motivi di cui ai numeri 4 e 5 dell’art. 395 (in quanto si tratta di fatti che possono essere evinti direttamente dalla lettura della sentenza) e, in tal caso, deve essere proposta entro 30 giorni dalla notificazione della sentenza oppure, in assenza di notificazione, entro 6 mesi dalla pubblicazione/deposito in cancelleria della stessa. • È, invece, un mezzo di impugnazione “straordinario” (cioè, esperibile contro le sentenze passate in giudicato) quando viene proposta per i motivi di cui ai numeri 1, 2, 3 e 6 dell’art. 395 (in quanto si tratta di fatti che possono essere scoperti anche molto tempo dopo il passaggio in giudicato della sentenza) e, in tal caso, deve essere proposta entro 30 giorni dalla scoperta del motivo di revocazione. Detto ciò, quanto al procedimento di revocazione, in entrambi i casi, l’istanza di revocazione si propone con citazione davanti allo stesso giudice (inteso come organo, non come persona) che ha pronunciato la sentenza impugnata (citazione nella quale - oltre alle classiche informazioni - bisogna anche indicare, a pena di inammissibilità: a) il motivo della revocazione e b) le prove volte a dimostrare i fatti di cui al numero 1, 2, 3 e 6 dell’art. 395, il giorno della scoperta del dolo o della falsità o del recupero dei documenti). Dopodiché: • Entro 20 giorni dalla notifica della citazione alla controparte, la citazione stessa deve essere depositata in cancelleria insieme alla copia autentica della sentenza impugnata e, nello stesso termine, la controparte deve costituirsi depositando una comparsa di risposta contenente le sue conclusioni. N.B. Per “documento decisivo” s’intende un documento dal quale emergono fatti talli che, se il giudice li avesse conosciuti prima, avrebbe anche potuto decidere diversamente. N.B. Vi è tale errore (cd. “errore di fatto”) quando la decisione si fonda sulla supposizione di un fatto la cui esistenza è indiscutibilmente esclusa oppure quando suppone l’inesistenza di un fatto la cui esistenza è positivamente stabilita. N.B. Il “dolo del giudice” si configura quando il giudice tiene un comportamento volontariamente ed illegittimamente a favore di una parte, violando in tal modo il suo dovere di imparzialità. Si tratta di un’ipotesi di eccezionale gravità, che però non risulta essere mai stata applicata. • Al giudizio di revocazione si applicano le regole ordinarie (cioè, quelle previste per il giudizio davanti al giudice a cui viene presentata istanza di revocazione) se non espressamente derogate dalle norme sulla revocazione. • Al termine del giudizio, se il giudice accoglie la domanda, dispone la revocazione della sentenza impugnata e decide la causa nel merito, sempre con sentenza. Infine, bisogna ricordare che la sentenza che decide il giudizio di revocazione può essere impugnata con gli ordinari mezzi di impugnazione ma, contro di essa, non è possibile proporre di nuovo istanza di revocazione. 3 - L’OPPOSIZIONE DI TERZO L’opposizione di terzo è un mezzo di impugnazione straordinario riservato a coloro che NON hanno assunto la qualifica di parte all’interno del processo (e che consente loro di impugnare le sentenze che pregiudicano i loro diritti). Il codice prevede due tipi di opposizione di terzo, vale a dire: l’opposizione di terzo “ordinaria” e l’opposizione di terzo “revocatoria” 1) l’opposizione di terzo “ordinaria” consente ai terzi di impugnare la sentenza (passata in giudicato o non ancora passata in giudicato, purché esecutiva) pronunciata tra altre persone quando questa pregiudica i loro diritti. 2) l’opposizione di terzo “revocatoria”, invece, consente agli aventi causa e ai creditori di una delle parti di impugnare la sentenza (passata in giudicato o non ancora passata in giudicato, purché esecutiva) quando questa è frutto del dolo o della collusione delle parti a loro danno. Quindi, in entrambi i casi, per proporre opposizione è necessario essere “terzi” (cioè non aver partecipato al giudizio) ma tra i due tipi di opposizione vi è una differenza fondamentale, infatti: l’opposizione di terzo “ordinaria” può essere proposta soltanto da coloro che sono “terzi” sia rispetto al diritto sia rispetto al giudizio; mentre l’opposizione di terzo “revocatoria” può essere proposta da coloro che sono stati “terzi” rispetto al giudizio ma non lo sono rispetto al diritto. Al di là di tutto, l’opposizione di terzo (in entrambe le sue forme) è un istituto che trova rarissima applicazione pratica. N.B. Di base, si tratta di un mezzo di impugnazione “straordinario” (nel senso che può essere proposto contro le sentenze passate in giudicato). Tuttavia, il codice stabilisce che tale impugnazione può essere proposta anche contro le sentenze non ancora passate in giudicato, purché esecutive. Inoltre, bisogna ricordare che l’opposizione di terzo è un mezzo di impugnazione “facoltativo” (in quanto il terzo può anche decidere di far valere le proprie ragioni attraverso un’autonoma azione di accertamento). Capitolo 9 - I procedimenti speciali I procedimenti speciali sono una serie di procedimenti molto diversi tra loro ma che hanno un elemento in comune, vale a dire il fatto che si svolgo tutti secondo modalità diverse (generalmente, più semplici e rapide) rispetto a quelle previste per il procedimento ordinario di cognizione. Essi sono i seguenti: 1) Il processo del lavoro. 2)I procedimenti sommari (categoria questa che ricomprende, a sua volta, due procedimenti: il “procedimento ingiuntivo” e il “procedimento per convalida di sfratto”). 3) Il procedimento in camera di consiglio. 4) Il procedimento arbitrale (o arbitrato). 5) Il procedimento cautelare. 1 - IL PROCESSO DEL LAVORO Il processo del lavoro è un procedimento di cognizione non ordinario ma speciale a cui si ricorre per risolvere le controversie che nascono tra il lavoratore e l’azienda e, più in generale, tutte le controversie inerenti al mondo del lavoro. L’ambito applicativo di tale procedimento è circoscritto dal codice (art. 409 c.p.c.) il quale afferma che il rito del lavoro si applica alle controversie relative ai: • Rapporti di lavoro subordinato privato anche se non inerenti all’esercizio di un’impresa. • Rapporti di mezzadria, di affitto a coltivatore e rapporti derivanti da altri contratti agrari. • Rapporti di agenzia, di rappresentanza commerciale ed altri rapporti di collaborazione aventi ad oggetto una prestazione d’opera continuativa e coordinata, anche se non a carattere subordinato (la collaborazione s’intende “coordinata” quando, nel rispetto delle modalità stabilite di comune accordo dalle parti, il collaboratore organizza autonomamente la propria attività lavorativa). • Rapporti di lavoro dei dipendenti di enti pubblici e di enti pubblici economici (in particolare, sono “enti pubblici economici” quelle imprese pubbliche che svolgono attività economica e che quindi tendono alla realizzazione di un profitto - come ad es. l’ENI, l’ENEL, Poste Italiane, ecc.). Pertanto, nelle ipotesi previste dalla legge (cioè, quelle anzidette), è necessario rivolgersi al giudice competente per le controversie in materia di lavoro che, in primo grado, è in via esclusiva il tribunale in composizione monocratica in funzione di giudice del lavoro. Per quanto riguarda poi la competenza per territorio, il giudice territorialmente competente è individuato dal ricorrente che, di regola, può scegliere tra tre fori alternativi, vale a dire: 1) il tribunale del luogo dove è sorto il rapporto di lavoro (e cioè, dove è stato concluso il contratto e non dove ha avuto inizio la prestazione lavorativa); oppure… 2) il tribunale del luogo dove si trova la sede sociale dell’azienda (cioè, la sede principale dell’azienda stessa); oppure… 3) il tribunale del luogo dove si trova la dipendenza dell’azienda in cui è o era addetto (per “dipendenza” s’intende una sede distaccata dotata di una minima indipendenza amministrativa). N.B. Rispetto al procedimento ordinario, il rito del lavoro si caratterizza per una maggiore speditezza, per la concentrazione delle attività processuali e il più ampio spazio lasciato all’oralità. Inoltre, per perseguire l’obiettivo della ricerca della verità e offrire alla parte più debole (cioè, al lavoratore) una tutela rapida ed efficace, il codice attribuisce al giudice del lavoro importanti poteri istruttori. In sede di prima udienza, il giudice per prima cosa sottopone le parti ad interrogatorio libero e tenta la conciliazione formulando alle parti una proposta “transattiva” (cioè, di composizione della lite attraverso reciproche concessioni) o “conciliativa” (cioè, di composizione della lite attraverso un’attività di mediazione che non richiede necessariamente reciproche concessioni). Se la conciliazione riesce, viene redatto un apposito verbale (che costituisce titolo esecutivo quanto alle pattuizioni in esso contenute) e il processo si chiude. Altrimenti, se il tentativo di conciliazione fallisce, il giudice - così come avviene nel rito ordinario - si trova davanti ad un bivio, infatti: • Se ritiene che la causa sia matura per la decisione (e cioè, che non è necessario compiere alcuna attività istruttoria), invita le parti a discutere la causa e, al termine della discussione, pronuncia la sentenza (con le modalità che si diranno). • Se, invece, occorre svolgere dell’attività istruttoria (e quindi assumere prove), ammette i mezzi di prova presentati dalle parti, che rilevanti, e (sempre in sede di prima udienza) dispone la loro immediata assunzione (con ordinanza). Tuttavia, siccome non sempre è possibile assumere tutte le prove in un’unica udienza, il codice stabilisce che: “se necessario, il giudice può anche fissare un’altra udienza, da tenersi entro 10 giorni dalla prima, per l’assunzione delle prove”. A tutto questo si aggiungono poi gli ampi poteri istruttori riconosciuti al giudice del lavoro, il quale non solo può ammettere prove d’ufficio in qualsiasi momento ma può anche: • nominare un consulente tecnico; • disporre, su istanza di parte e se necessario ai fini dell’accertamento, l’accesso ai luoghi di lavoro e l’eventuale esame dei testimoni sul luogo stesso; • nonché ordinare la comparizione in udienza, per interrogarle liberamente, di quelle persone che non possono testimoniare perché aventi un interesse in causa. Inoltre, per assicurare alla parte debole del rapporto (cioè, al lavoratore) una tutela rapida ed efficace, il giudice del lavoro, su istanza di parte, può emettere in ogni stato del giudizio due ordinanze provvisorie di condanna, vale a dire: 1) l’ordinanza di pagamento delle somme non contestate (di cui all’art. 423 comma 1, in base al quale “il giudice, su istanza del lavoratore, può ordinare con ordinanza in ogni stato del giudizio il pagamento delle somme non contestate”) e l’ordinanza di pagamento dei crediti accertati (di cui all’art. 423 comma 2, in base al quale “il giudice, su istanza del lavoratore, può ordinare con ordinanza in ogni stato del giudizio il pagamento di una somma di denaro a titolo provvisorio nei limiti della quantità per cui ritiene che sia già stata raggiunta la prova”). N.B. Si ricordi che, in tale udienza, le parti svolgono un ruolo marginale rispetto a quello del giudice (che, al contrario, può esercitate ampi poteri istruttori). Infatti, nel rito del lavoro - siccome la materia del contendere deve essere già definita nel corso della fase introduttiva - le parti compiono la maggior parte delle loro attività con il deposito del ricorso e della memoria difensiva. Ad ogni modo, in prima udienza, le parti possono ancora svolgere delle attività, vediamo quali: • Innanzitutto, bisogna ricordare che le parti devono comparire personalmente in udienza per consentire al giudice di sottoporle ad interrogatorio libero e di procedere con il tentativo di conciliazione (ricordando che la mancata comparizione in udienza l’eventuale assenza in udienza e il rifiuto ingiustificato della proposta conciliativa costituiscono argomenti di prova di cui il giudice può tener conto in sede decisionale). • In secondo luogo, le parti possono modificare le domande, le eccezioni e conclusioni già formulate (ma solo se sussistono gravi motivi e soltanto previa autorizzazione del giudice). • possono chiedere l’ammissione di ulteriori mezzi di prova (ma solo se dimostrano di non averli potuti produrre prima per causa ad esse non imputabile o se tale esigenza è sorta a seguito dalle difese presentate dalla controparte). • e, in caso di ammissione di nuovi mezzi di prova (ammessi dal giudice d’ufficio o su richiesta della controparte), possono depositare note difensive. Il codice, infine, si occupa anche del cd. “mutamento di rito” (e cioè, del caso in cui l’attore abbia commesso un errore nello scegliere le forme con cui avviare il processo). In tal caso, le ipotesi sono due: 1) passaggio dal rito ordinario a quello speciale; e 2) passaggio dal rito speciale a quello ordinario. Quanto alla prima ipotesi il codice stabilisce che il giudice, quando rileva - d’ufficio o su istanza di parte - che una causa relativa ai rapporti di cui all’art. 409 si sta svolgendo nelle forme ordinarie anziché con le forme del rito del lavoro, fissa con ordinanza la data dell’udienza di discussione della causa e assegna alle parti un termine perentorio entro il quale dovranno provvedere all’eventuale integrazione degli atti introduttivi, mediante deposito di documenti e memorie in cancelleria. All’udienza, poi, la causa verrà trattata secondo la disciplina prevista per il rito del lavoro (e quindi, come si è visto, libero interrogatorio delle parti, tentativo di conciliazione, acquisizione delle prove e così via). Nella seconda ipotesi, invece, il giudice, quando rileva che una causa promossa con le forme del rito del lavoro non rientra tra quelle previste dall’art. 409, la rimette con ordinanza il giudice ordinario competente e assegna alle parti un termine perentorio non superiore a 30 giorni entro il quale dovranno provvedere alla riassunzione del processo davanti al giudice competente. La decisione della causa nel rito del lavoro Una volta terminata l’attività istruttoria, il giudice (sempre nella stessa udienza) invita le parti a svolgere la discussione orale finale della causa (che serve a precisare le conclusioni) e, al termine della discussione, pronuncia (sempre nella stessa udienza) la sentenza, dando lettura sia al dispositivo che alla motivazione. Dopo la pronuncia in udienza, la sentenza (comprensiva di dispositivo e motivazione) deve essere poi depositata in cancelleria e il termine perentorio previsto dalla legge per farlo varia a seconda della complessità della causa, infatti: • in caso di controversia di particolare complessità, e il giudice dovrà depositare la sentenza entro 60 giorni dalla pronuncia; • mentre in tutti gli altri casi, la sentenza dovrà essere depositata entro 15 giorni dalla pronuncia. N.B. Entrambe le ordinanze costituisco titolo esecutivo e non possono essere impugnate (in quanto prive di carattere decisionale) ma sono “provvisorie” (in quanto possono essere revocate dal giudice in ogni momento e sono destinate ad essere sostituite dalla sentenza che decide la causa, che potrà confermarle o revocarle). N.B. In quest’ultimo caso, peraltro, le prove eventualmente acquisite mentre il processo si stava svolgendo con le forme del rito del lavoro avranno l’efficacia consentita dalle norme che regolano il rito ordinario (per cui, se il giudice del lavoro ad es. ha messo una testimonianza inammissibile nel rito ordinario, la deposizione perderà ogni valore una volta rientrata nell’ambito del rito ordinario). N.B. Tuttavia, il giudice può anche decidere di concedere alle parti un termine non superiore a 10 giorni per il deposito di note difensive e di rinviare la decisione ad altra udienza che sarà dedicata alla sola discussione la pronuncia della sentenza. N.B. La sentenza pronunciata dal giudice del lavoro è provvisoriamente esecutiva ma con una differenza, infatti: se il giudice si pronuncia a favore del lavoratore, la sentenza diventa esecutiva sin dal giorno della sua pronuncia in udienza, prima cioè del deposito in cancelleria (di conseguenza, in tal caso, il lavoratore può dare subito inizio all’esecuzione), e il datore di lavoro potrà chiedere la sospensione dell’esecuzione al giudice d’appello il quale però la concederà solo se il richiedente dimostra che dall’esecuzione stessa può derivargli un “gravissimo danno”; mentre se la sentenza è favorevole al datore di lavoro, diventa esecutiva dalla data del deposito (quindi, si applica la disciplina ordinaria) e al lavoratore condannato per ottenere la sospensione dell’esecuzione basterà addurre “gravi motivi”. L’appello nel rito del lavoro Il giudizio d’appello nel rito del lavoro si svolge con le stesse forme previste per il giudizio di primo grado e ad esso si applicano, salvo diversa previsione espressa, le stesse norme e principi che regolano il giudizio d’appello nel processo ordinario (in quanto - così come nel processo ordinario - anche nel rito del lavoro il giudizio d’appello consiste in un riesame della controversia oggetto del giudizio di primo grado, nei limiti dei motivi specifici indicati nella domanda d’appello). Le uniche differenze (tra giudizio d’appello nel rito del lavoro e nel rito ordinario) sono le seguenti: a) Innanzitutto, l’appello contro le sentenze del giudice del lavoro si propone con “ricorso” (e non con citazione, come nel rito ordinario) davanti alla Corte d’appello territorialmente competente (che è quella del luogo in cui si trova il tribunale che ha emesso la sentenza di primo grado). b) iIn secondo luogo, nel rito del lavoro il giudizio d’appello si svolge dinnanzi all’apposita sezione di Corte d’appello specializzata nella trattazione delle cause in materia di lavoro. c) In terzo luogo, nel rito del lavoro è possibile proporre “appello con riserva dei motivi”. Infatti, come abbiamo visto, se il giudice si pronuncia a favore del lavoratore questo può dare inizio subito all’esecuzione della sentenza prima ancora del suo deposito. Per questo motivo, in tal caso, il codice consente al datore di lavoro soccombente di impugnare immediatamente la sentenza e di chiedere la sospensione dell’esecuzione (sospensione che, è bene ricordare, non è automatica in caso d’appello ma deve essere richiesta con apposita istanza inserita nell’atto d’appello), riservandosi poi di precisare i motivi dell’appello successivamente (e cioè, entro 30 giorni dalla notifica della sentenza o, in assenza di notificazione, entro 6 mesi dal deposito della sentenza in cancelleria). d) Infine, a differenza di quanto avviene nel processo ordinario (dove, in sede d’appello, non è possibile assumere nuove prove), nel rito del lavoro la Corte d’appello può, anche d’ufficio, ammettere nuovi mezzi di prova se li ritiene indispensabili ai fini della decisione della causa (e, secondo la prevalente giurisprudenza, sono “prove indispensabili” quelle idonee ad eliminare ogni possibile incertezza o lacuna nella ricostruzione dei fatti). Il ricorso in cassazione nel rito del lavoro In conclusione, quanto al ricorso in cassazione nel rito del lavoro, basti dire che ad esso si applicano le stesse regole che disciplinano il ricorso in cassazione nel processo ordinario. 2 - I PROCEDIMENTI SOMMARI: IL PROCEDIMENTO INGIUNTIVO E PER CONVALIDA DI SFRATTO Quella dei procedimenti sommari (o meglio a cognizione sommaria - in quanto la “sommarietà” non si riferisce alle modalità di svolgimento del processo bensì al contenuto dell’indagine svolta dal giudice, e quindi alla sua cognizione), è una categoria che ricomprende due riti speciali, vale a dire: a) il procedimento ingiuntivo (o “monitorio”) e b) il procedimento per convalida di sfratto. a) Il procedimento ingiuntivo Il procedimento ingiuntivo (o “monitorio”) è un procedimento speciale, alternativo a quello ordinario, attraverso il quale il creditore di una somma di denaro o di un bene mobile può chiedere al giudice di emettere un provvedimento di condanna nei confronti del debitore inadempiente (il “decreto ingiuntivo”) che, in caso di mancata contestazione nel termine fissato dalla legge, diventa esecutivo consentendo così al creditore stesso di dare inizio all’attività esecutiva, e quindi di ottenere soddisfazione in tempi rapidi. N.B. Il procedimento ingiuntivo attua in sostanza una particolare forma di tutela che si caratterizza per il fatto che il contraddittorio tra le parti è soltanto eventuale: il giudice, infatti, in presenza delle condizioni previste dalla legge, pronuncia il decreto ingiuntivo “inaudita altera parte” (cioè, senza prima sentire la controparte) e il contraddittorio si instaura soltanto qualora quest’ultima si opponga al decreto ingiuntivo stesso. 3 - IL PROCEDIMENTO IN CAMERA DI CONSIGLIO Il procedimento in camera di consiglio è un procedimento speciale appositamente dedicato all’amministrazione della giurisdizione volontaria. Dal punto di vista prettamente procedimentale, nel rito camerale il procedimento è ridotto al minimo e si svolge secondo forme estremamente semplici. Al riguardo, basti ricordare che: • La domanda (che qui non consiste in una richiesta di qualcosa contro qualcuno, bensì in una richiesta di qualcosa a favore proprio o di un terzo) si propone con ricorso e il provvedimento finale (che, come abbiamo detto, non decide una controversia) assume la forma di decreto motivato. • Il decreto può essere oggetto di reclamo, che deve essere proposto nel termine perentorio di 10 giorni dalla comunicazione del decreto stesso e viene deciso - sempre in camera di consiglio - dal tribunale (quando è presentato contro i provvedimenti del giudice tutelare) e dalla Corte d’appello (quando ha ad oggetto i provvedimenti del tribunale). Il provvedimento che decide il reclamo però non è, a sua volta, reclamabile. • Infine, bisogna ricordare che in tema di volontaria giurisdizione non si ha giudicato, di conseguenza i provvedimenti possono essere sempre modificati o revocati, se mutano le circostanze presenti al momento in cui sono stati emanati. 4 - IL PROCEDIMENTO ARBITRALE (O ARBITRATO) Il procedimento arbitrale (detto anche arbitrato) è un procedimento speciale, alternativo a quello ordinario, nel quale le parti, sulla base di un’apposito accordo (il cd. “patto di arbitrato”), affidano la risoluzione della controversia tra loro insorta a uno o più privati (i cd. “arbitri”) che svolgono una funzione analoga a quella del giudice e la cui decisione è destinata ad assumere la stessa efficacia di una sentenza. Il fondamento dell’arbitrato: il patto d’arbitrato L’arbitrato si fonda sul cd. “patto di arbitrato” che è un accordo con il quale le parti in lite decidono di risolvere la loro controversia o le eventuali controversie che dovessero insorgere tra di loro in futuro con il rito arbitrale anziché con quello ordinario e, al contempo, ne disciplinano le modalità di svolgimento (anche se c’è da dire che, le parti, nel patto d’arbitrato, generalmente si limitano a N.B. La giurisdizione volontaria è una particolare forma di giurisdizione di natura essenzialmente amministrativa e diretta, non alla risoluzione di controversie, ma alla gestione di un negozio o di un affare per la cui conclusione è necessario l’intervento partecipativo di un terzo (il giudice, appunto). Pertanto, vista la mancanza di una vera e propria controversia, in tal caso il giudice non accerta nulla e non condanna nessuno ma si limita ad integrare i poteri mancanti a determinati soggetti dell’ordinamento (si pensi ad es. al caso del genitore che chiede al giudice tutelare l’autorizzazione ad accettare una donazione in favore del figlio minore o di alienare beni di proprietà del figlio minore). L’espressione “in camera di consiglio” poi indica semplicemente il luogo in cui si svolge il procedimento e si contrappone a quella di “pubblica udienza” tipica della giurisdizione contenziosa (che è quella volta alla risoluzione delle vere e proprie controversie di diritto civile). N.B. Si tratta in sostanza di un procedimento che nasce come strumento di giurisdizione privata (cioè, di risoluzione delle controversie in via privata) ma mure pubblico. L’arbitrato, infatti, nasce dalla volontà delle parti di sottoporre la risoluzione di una data controversia ad un terzo privato, sottraendola in tal modo alla giurisdizione dello Stato, e termina con una decisione (il cd. “lodo arbitrale”) a cui la legge riconosce la stessa efficacia della sentenza del giudice ordinario. nominare gli arbitri, a indicare l’oggetto della controversia o a quali tipi di controversie si applicherà il rito arbitrale, la sede dell’arbitrato - cioè, il luogo in cui si svolgerà - e il termine entro il quale dovrà essere reso il lodo arbitrale, lasciando poi agli arbitri la facoltà di disciplinare le modalità di svolgimento del procedimento nel modo che ritengono più opportuno). Il patto d’arbitrato può assumere poi la forma del compromesso o della clausola compromissoria: si parla di compromesso quando le parti decidono di deferire agli arbitri una controversia già insorta; mentre si parla di clausola compromissoria (che, tra le due, e quella di gran lunga più utilizzata) quando le parti inseriscono all’interno di un contratto appunto una clausola con la quale stabiliscono di deferire agli arbitri la decisione delle eventuali controversie che dovessero insorgere tra di loro. Ambito applicativo del procedimento arbitrale Per quanto riguarda l’ambito applicativo del procedimento arbitrale, possono essere decise con l’arbitrato soltanto le controversie aventi ad oggetto diritti disponibili, salvo le eccezioni espressamente previste dalla legge. La nomina degli arbitri e il loro rapporto con le parti Nel rito arbitrale, il compito di nominare l’arbitro o gli arbitri spetta alle parti. Al riguardo, il codice si limita a stabilire che gli arbitri devono essere in numero dispari (in modo tale da consentire sempre la formazione di una maggioranza), di conseguenza le parti normalmente scelgono di affidare la risoluzione della controversia o ad un solo arbitro o ad un collegio formato da tre arbitri (tra le due, comunque sia, la modalità di gran lunga più utilizzata è quella del collegio formato da tre arbitri, la cui nomina avviene nel seguente modo: ciascuna parte ne nomina uno mentre il terzo viene scelto dal presidente del tribunale del luogo in cui ha sede o comunque si svolge l’arbitrato). Quanto al rapporto tra gli arbitri e le parti, è regolato da un mandato in virtù del quale, gli arbitri, si impegnano a decidere la controversia secondo diritto e a svolgere il proprio incarico con diligenza, nel rispetto del contraddittorio (nel senso che devono riconoscere alle parti equivalenti possibilità di difesa) e ad essere imparziali (in quanto anch’essi, così come il giudice, possono essere ricusati dalle parti) mentre, le parti, si impegnano a corrispondere agli arbitri un compenso per la loro attività. Ovviamente, nessuno è tenuto a svolgere la funzione di arbitro e, proprio per questo, chi viene designato come tale dalle parti o dal presidente del tribunale, deve accettare la nomina prima che inizi il procedimento. Il procedimento arbitrale Il procedimento arbitrale si apre con la notifica della domanda di arbitrato (che è l’atto con il quale l’attore manifesta la volontà di promuovere il procedimento arbitrale, propone la domanda e - se il patto d’arbitrato prevede la formazione di un collegio arbitrale - nomina l’arbitro di sua competenza, invitando al contempo la controparte a provvedere alla nomina di quello di sua competenza) a cui deve seguire, entro 20 giorni, la contro-notifica di una memoria di risposta (atto con il quale la controparte contrasta la domanda dell’attore e contestualmente nomina l’arbitro di sua competenza), altrimenti la parte che ha fatto l'invito può chiedere, con ricorso, che la nomina sia fatta dal presidente del tribunale del luogo in cui ha sede l'arbitrato. Una volta nominati gli arbitri, si verrà a formare progressivamente la materia del contendere: all’arbitrato, infatti, non si applicano le rigide preclusioni tipiche del rito ordinario. Per quanto riguarda poi l’eventuale istruzione probatoria (a cui gli arbitri, se necessario, possono dare corso), pur non avendo a disposizione gli stessi poteri del giudice, gli arbitri possono comunque nominare N.B. La sede dell’arbitrato, di regola, è determinata dalle parti nel patto d’arbitrato o, in mancanza (cioè, se le parti non hanno previsto nulla al riguardo), è fissata dalla legge (art. 816) nel luogo in in cui è stato stipulato il patto d’arbitrato stesso. consulenti tecnici, chiedere informazioni alla pubblica amministrazione nonché sentire testimoni ma, essendo privi di poteri coercitivi, nel caso in cui il teste si rifiuti di comparire davanti a loro, dovranno necessariamente chiedere al presidente del tribunale del luogo in cui ha sede l’arbitrato di ordinarne la comparizione. Dopodiché, al termine del procedimento, gli arbitri emettono la loro decisione che prende il nome di “lodo” - lodo che è deliberato a maggioranza di voti; deve essere pronunciato entro il termine indicato dalle parti nel patto d’arbitrato o, in mancanza, nel termine fissato dalla legge (vale a dire, entro 240 giorni dall’accettazione della nomina) - termine che comunque può essere anche prorogato (sia dalle parti di comune accordo che dal presidente del tribunale su istanza delle parti o degli arbitri), purché ciò avvenga prima della scadenza del termine stesso - e deve contenere: l’indicazione della sede dell’arbitrato, delle parti, del patto d’arbitrato, delle conclusioni formulate dalle parti, il dispositivo e l’esposizione sommaria dei motivi della decisione. Inoltre, se si tratta di “arbitrato rituale”, il lodo arbitrale ha la stessa efficacia di una sentenza e costituisce titolo esecutivo. L’impugnazione del lodo arbitrale Infine, così come ogni altra sentenza, anche il lodo arbitrale può essere impugnato. Impugnazione che, non essendoci arbitri d’appello, si presenta davanti ai giudici ordinari (e, più precisamente, dinnanzi alla Corte d’appello del luogo in cui ha sede l’arbitrato). Il sistema delle impugnazioni, nel rito arbitrale, presenta poi due caratteristiche peculiari: è limitato quanto ai mezzi di impugnazione esperibili e il lodo arbitrale non può essere criticato nel merito ma soltanto per vizi procedurali (e cioè, solo per errori o violazioni commesse dagli arbitri nello svolgimento del procedimento o nell’emettere il lodo arbitrale). I mezzi di impugnazione a disposizione delle parti per impugnare il lodo arbitrale sono tre, vale a dire: 1) l’impugnazione per nullità (che può essere esercitata soltanto per uno dei dodici motivi espressamente previsti dal codice, relativi a vizi di carattere procedurale); 2) la revocazione; e 3) l’opposizione di terzo (revocazione ed opposizione di terzo alle quali si applica la stessa disciplina vista nel rito ordinario). 5 - IL PROCEDIMENTO CAUTELARE Il procedimento cautelare è un procedimento sommario (in quanto non prevede un accertamento pieno dei fatti oggetto di causa) e strumentale rispetto al giudizio di merito, la cui funzione è quella di garantire la conservazione dello stato delle cose o comunque di “congelare” la situazione giuridica o di fatto esistente al momento della richiesta, in attesa della successiva decisione di merito (e quindi, di assicurare l’efficacia di quest’ultima). N.B. Peraltro si ricordi che, nel giudizio d’arbitrato, gli arbitri decidono ogni questione, insorta o che dovesse insorgere, con ordinanza. N.B. Nel nostro ordinamento esistono, infatti, due diversi tipi di arbitrato - che si distinguono essenzialmente per la diversa forma assunta ed efficacia prodotta dalla decisione finale - vale a dire: l’arbitrato rituale e l’arbitrato irrituale. • L’arbitrato rituale è quello che si conclude con un particolare provvedimento, denominato “lodo arbitrale”, che ha la stessa efficacia della sentenza giurisdizionale e costituisce titolo esecutivo. • Nell’arbitrato irrituale, invece (che comunque si svolge con le stesse forme e secondo le stesse modalità previste per l’arbitrato rituale), il procedimento non si conclude con una decisione vera e propria bensì con un semplice atto di natura negoziale che ha lo stesso valore ed efficacia di un contratto e a cui, di conseguenza, si applicherà la relativa disciplina. I singoli provvedimenti cautelari Detto ciò, dopo aver visto le modalità di svolgimento del procedimento cautelare, passiamo ora ad esaminare i singoli provvedimenti cautelari previsti dal codice di procedura civile. Essi sono: il sequestro giudiziario, il sequestro conservativo, la denuncia di nuova opera e di danno temuto, l’istruzione preventiva e i provvedimenti d’urgenza. Vediamoli in dettaglio… I. Il sequestro: sequestro giudiziario e conservativo (art. 670 e ss.) Il sequestro, in generale, è una misura cautelare che crea un vincolo di indisponibilità provvisorio su di una cosa mobile od immobile attraverso uno spossessamento coattivo della stessa. Il nostro codice di procedura civile prevede e disciplina due diverse tipologie di sequestro, quello giudiziario e quello conservativo. 1) Il sequestro giudiziario può avere ad oggetto beni o prove: • Il sequestro giudiziario di beni è disposto dal giudice ogniqualvolta è controversa la proprietà o il possesso di un bene mobile od immobile ed appare opportuno provvedere alla sua custodia provvisoria onde evitare che, nel tempo necessario a giungere a una decisione di merito, il bene stesso possa essere danneggiato o distrutto. • Il sequestro giudiziario di prove, invece, può avere ad oggetto documenti, libri, registri o comunque di qualsiasi altra cosa da cui è possibile ricavare elementi di prova utili al processo di merito ed è disposto dal giudice ogniqualvolta appare opportuno provvedere alla loro custodia temporanea onde evitare che gli stessi vengano sottratti, alterati o distrutti. Con lo stesso provvedimento con cui autorizza il sequestro giudiziario (indipendentemente dal fatto che esso abbia ad oggetto beni o prove), il giudice nomina anche un custode (che generalmente, al fine di assicurare l’imparzialità della gestione custodiale, è un terzo estraneo alla controversia ma il giudice può anche decidere di nominare come custode quella tra le parti che offre maggiori garanzie in ordine alla conservazione della cosa e dà apposita cauzione) e stabilisce le particolari cautele e i limiti che deve osservare nell’amministrazione della cosa sequestrata. Il sequestro giudiziario, una volta disposto dal giudice, deve essere poi eseguito - a pena d’inefficacia - entro 30 giorni (esecuzione a cui provvede l’ufficiale giudiziario, su istanza di parte, con le forme dell’esecuzione forzata per consegna o rilascio). 2) Il sequestro conservativo, invece, è una misura cautelare che può avere ad oggetto i beni mobili ed immobili del debitore, comprese le somme di danaro, disposta dal giudice su istanza del creditore - quando questo ha il fondato timore di perdere la garanzia offerta da tali beni al proprio credito - e che crea un vincolo di indisponibilità su tali beni onde evitare che, in attesa della decisione di merito, essi vengano dispersi. Il sequestro conservativo produce due effetti (simili a quelli del pignoramento, di cui peraltro il sequestro conservativo costituisce un’anticipazione): da un lato, il bene posto sotto sequestro resta nella disponibilità del debitore che può disporne come meglio crede, ma le alienazioni e gli altri atti dispositivi aventi ad oggetto il bene sequestrato sono inopponibili al creditore (e cioè, N.B. In questo caso, il requisito del “periculum in mora” (rappresentato dal fondato timore di perdere, in attesa della decisione di merito, la garanzia patrimoniale offerta dai beni presenti nel patrimonio del debitore) può essere desunto sia da elementi oggettivi (come ad es. l’attuale consistenza del patrimonio del debitore) sia da elementi soggettivi (come ad es. il comportamento tenuto dal debitore che sottrae volontariamente beni dal proprio patrimonio andando così a compromettere la garanzia patrimoniale offerta al creditore). inefficaci nei suoi confronti); e, dall’altro, il sequestro conservativo si converte automaticamente in pignoramento nel momento stesso in cui il creditore sequestrante ottiene una sentenza di condanna nel giudizio di merito. Il sequestro conservativo, così come il sequestro giudiziario, deve essere poi eseguito - a pena d’inefficacia - entro 30 giorni dalla sua disposizione (esecuzione che, a seconda del tipo di bene oggetto del sequestro, è compiuta dall’ufficiale giudiziario, su istanza di parte, oppure dal creditore sequestrante personalmente- in particolare, il sequestro conservativo su beni mobili e crediti, è eseguito dall’ufficiale giudiziario secondo le norme previste per il pignoramento presso il debitore o presso terzi; mentre il sequestro conservativo su beni immobili, è eseguito dal creditore sequestrante con la trascrizione del provvedimento nel registro immobiliare). II. La denuncia di nuova opera e di danno temuto (art. 688 e ss.) La denuncia di nuova opera e di danno temuto non sono propriamente delle misure cautelari bensì due azioni cautelari (dette anche “azioni di nunciazione”) volte a prevenire il danno che può derivare dalla realizzazione di una nuova opera o da una cosa altrui già esistente (e quindi, funzionali all’adozione di provvedimenti cautelari). In particolare: • La denuncia di nuova opera è l’azione con cui il proprietario, il titolare di altro diritto reale o il possessore denuncia un’opera da altri intrapresa e non ancora terminata sul proprio o sull’altrui fondo quando ha il fondato motivo di ritenere che da essa possa derivare un danno alla cosa che forma oggetto del suo diritto o possesso. • La denuncia di danno temuto, invece, è quell’azione con la quale il proprietario, il titolare di altro diritto reale o il possessore che ha il fondato timore di subire un danno grave ed imminente da un albero, una costruzione o altra cosa già esistente, denuncia il fatto all’autorità giudiziaria affinché questa provveda all’eliminazione della situazione di pericolo. III. L’istruzione preventiva (art. 692 e ss.) L’istruzione preventiva costituisce una particolare forma di tutela cautelare che consente, in presenza delle condizioni previste dalla legge, di anticipare l’acquisizione delle prove costituende (cioè, di quelle prove che normalmente vengono assunte e si formano nel corso del processo, in sede d’istruzione probatoria). N.B. Infine, bisogna ricordare che - oltre al sequestro giudiziario e a quello conservativo - il codice prevede anche una terza tipologia di sequestro, il cd. sequestro liberatorio, che si distingue nettamente dagli altri due tipi di sequestro in quanto in quest’ultimo caso è il debitore che chiede al giudice di sottoporre a sequestro le somme o le cose che mette a disposizione del creditore. Il debitore può avanzare tale richiesta per due ordini di motivi: 1) per finalità liberatorie (e cioè, per liberarsi della propria obbligazione, anche se ciò presuppone che il debitore si riconosca come tale) oppure 2) per finalità difensive (e cioè, quando il - presunto - debitore pur contestando l’esistenza del debito o le modalità con le quali deve essere eseguita la prestazione, voglia comunque tutelarsi di fronte al rischio di una futura ed eventuale soccombenza). N.B. Ricordando che tale azione deve essere esercitata, a pena di decadenza, entro 1 anno dall’inizio dei lavori, purché l’opera non sia già stata terminata. N.B. In tal caso, a differenza di questo previsto per la denuncia di nuova opera, non sono previsti termini di decadenza. N.B. L’istruzione preventiva, in sostanza, svolge - nei confronti delle prove costituende - la stessa funzione che il sequestro giudiziario di prove svolge nei confronti delle prove precostituite (e cioè, dei documenti). Inoltre, bisogna ricordare che l’istanza di istruzione preventiva può essere presentata non solo prima che inizi il processo ma anche in corso di causa, purché ciò avvenga prima dell’inizio della fase istruttoria. Il codice prevede essenzialmente due ipotesi di istruzione preventiva, vale a dire: l’audizione di testimoni a futura memoria e l’accertamento tecnico preventivo. 1) L’audizione di testimoni a futura memoria può essere richiesta da chi abbia il fondato motivo di temere che, uno o più testimoni le cui deposizioni possono essere necessarie in una causa da proporre, stiano per mancare. 2) L’accertamento tecnico preventivo, invece, è disposto dal giudice, su istanza di parte, quando vi è l’urgenza di far verificare, prima dell'instaurazione del giudizio di merito, lo stato dei luoghi o di cose al fine di evitare che vengano alterati, dispersi o distrutto elementi di prova potenzialmente utili per il successivo giudizio di merito. In virtù della sua peculiare funzione cautelare, il legislatore ha poi delineato per il procedimento d’istruzione preventiva una disciplina specifica e in parte autonoma rispetto a quella del procedimento cautelare uniforme (contenuta negli articoli 693, 694 e 695 del codice di procedura civile). Al riguardo, basti dire che: • In entrambe le ipotesi, l’istanza si propone con ricorso davanti al giudice che sarebbe competente per la causa di merito (ovvero, il Tribunale o il Giudice di Pace). • Una volta depositato il ricorso nella cancelleria del giudice, il presidente del tribunale o il giudice di pace fissa, con decreto, l’udienza di comparizione delle parti e stabilisce il termine perentorio entro il quale il ricorso e il decreto devono essere notificati alla controparte. • Dopodiché, all’udienza, il presidente del tribunale o il giudice di pace, assunte ove occorra sommarie informazioni, decide sulla richiesta con ordinanza non impugnabile e, se ammette l’esame testimoniale, fissa l’udienza per l’assunzione; mentre se dispone l’accertamento tecnico preventivo, nomina il consulente tecnico e fissa la data per l’inizio delle operazioni. N.B. Ovviamente, così come avviene per ogni altra istanza di natura cautelare, anche in questo caso perché il giudice possa accogliere la richiesta di istruzione preventiva devono essere presenti i due requisiti del “fumus boni iuris” (che qui, non si riferisce alla probabile esistenza del diritto che si vuol far valere, ma consiste in una valutazione sommaria circa l’ammissibilità e rilevanza dei mezzi di prova richiesti) e del “periculum in mora” (che consiste nel rischio di non poter più assumere la prova). Anche se va detto che, nella prassi, i giudici sono soliti ammettere la richiesta d’istruzione preventiva al solo ricorrere del secondo dei due requisiti (e cioè, del “periculum in mora”). N.B. Ricorso nel quale, tra le altre cose, devono essere indicati: a) i motivi dell’urgenza; b) i fatti sui quali devono essere sentiti i testimoni oppure i luoghi o le cose oggetto dell’accertamento; nonché c) contenere l’esposizione sommaria delle domande o delle eccezioni alle quali la prova è preordinata. N.B. Comunque sia, è importante ricordare che la valutazione compiuta dal giudice dell’istruzione preventiva non è vincolante per il giudice di merito. Infatti, quanto al valore assunto dal materiale probatorio così acquisito nel processo di merito, il codice stabilisce che: “l’assunzione preventiva dei mezzi di prova non pregiudica le questioni relative alla loro ammissibilità e rilevanza, né impedisce la loro rinnovazione nel giudizio di merito”. Ciò significa che, anche se il presidente del tribunale o il giudice di pace hanno ritenuto di accogliere il ricorso, il giudice di merito (alla luce di una conoscenza più approfondita della causa) può anche pensarla diversamente e decidere di non acquisire i relativi verbali oppure, se possibile, può decidere di rinnovare l’assunzione della prova. In ogni caso, i verbali delle prove assunte in via preventiva possono essere prodotti nel giudizio di merito solo se il giudice (di merito) dichiara i relativi mezzi di prova ammissibili e rilevanti. 2) L’esecuzione forzata in forma specifica, invece, si ha quando la parte vittoriosa nel giudizio di merito (o creditore) ha diritto, non al pagamento di una somma di denaro, ma alla consegna o al rilascio di un bene oppure ad una prestazione di fare o di non fare. Vi sono quindi due forme di esecuzione forzata in forma specifica: a) l’esecuzione forzata per consegna o rilascio (che si ha appunto quando il creditore ha diritto alla consegna di un bene mobile o al rilascio di un bene immobile); e b) l’esecuzione forzata degli obblighi di fare o di non fare (che si ha quando il creditore vuole ottenere dal debitore la specifica prestazione di fare oggetto del suo diritto oppure l’eliminazione di quanto posto in essere dal debitore in violazione del suo obbligo di non fare). I presupposti per poter dare inizio al processo di esecuzione forzata In ogni caso, a prescindere dal tipo di esecuzione, per poter dare inizio al processo di esecuzione forzata il creditore deve prima notificare al debitore due atti, vale a dire: il titolo esecutivo e il precetto. • Il titolo esecutivo è il documento che accerta l’esistenza del diritto del creditore. Per poter procedere ad esecuzione forzata, il diritto rappresentato nel titolo esecutivo deve essere “certo” (nel senso che la sua esistenza non deve essere controversa), “liquido” (cioè, determinato nel suo ammontare) ed “esigibile” (cioè, non sottoposto a termine né a condizione). In base a quanto stabilito dal codice (art. 474), sono titoli esecutivi: le sentenze di condanna e gli altri provvedimenti o atti a cui la legge riconosce espressamente efficacia esecutiva, le scritture private autenticate aventi ad oggetto obbligazioni in danaro, le cambiali e gli altri titoli di credito di pari efficacia, gli atti ricevuti da notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato. • Il precetto, invece, è l’atto stragiudiziale e preliminare all’esecuzione con il quale il creditore intima al debitore di adempiere all’obbligo risultante dal titolo esecutivo entro il termine di 10 giorni con l’avvertimento che, in caso di mancato adempimento, procederà ad esecuzione forzata nei suoi confronti. Il precetto può essere redatto e sottoscritto da un avvocato o dal creditore personalmente che dovrà poi sottoscriverlo e (ai sensi dell’art. 480), oltre all’intimazione ad adempiere, deve contenere a pena di nullità: l’indicazione delle parti, la data di notifica del titolo esecutivo (se avvenuta separatamente) e, quando richiesto dalla legge, la trascrizione integrale del titolo esecutivo. Il precetto, inoltre, deve contenere (anche se in questo caso non a pena di nullità) la dichiarazione di residenza o l’elezione di domicilio del creditore nel comune dove ha sede il giudice competente per l’esecuzione, in mancanza le eventuali opposizioni e notificazioni al creditore si fanno presso la cancelleria del giudice del luogo in cui è stato notificato il precetto. Infine, bisogna ricordare che se si lasciano trascorrere 90 giorni dalla notifica del precetto senza dare inizio all’esecuzione forzata, il precetto stesso diventa inefficace. Una volta notificati il titolo esecutivo e il precetto ha inizio (ovviamente, qualora il debitore non adempia al suo obbligo) il procedimento di esecuzione forzata vero e proprio. Quindi, passiamo ora ad esaminare nel dettaglio come si svolgono il procedimento di esecuzione forzata per espropriazione e quello in forma specifica. 1 - IL PROCEDIMENTO DI ESECUZIONE FORZATA PER ESPROPRIAZIONE Il procedimento di esecuzione forzata per espropriazione, innanzitutto, si articola in tre fasi principali, che sono: 1) Il pignoramento; N.B. Il titolo esecutivo e il precetto possono essere notificati congiuntamente oppure separatamente (e, in quest’ultimo caso, prima si notifica il titolo esecutivo e poi, dopo 10 giorni, il precetto) ma la notificazione deve essere sempre fatta al debitore personalmente. 2) La vendita o assegnazione dei beni pignorati; 3) La distribuzione della somma ricavata dalla vendita. I. Il pignoramento Il pignoramento è l’atto che da inizio al procedimento esecutivo vero e proprio e serve ad individuare e “bloccare” i beni da assoggettare ad espropriazione, in modo tale che il debitore non possa più disporne. Il pignoramento, in realtà, non sottrae i beni alla disponibilità del debitore ma rende inefficaci nei confronti del creditore procedente e di quelli intervenuti nel processo gli eventuali atti di disposizione dei beni pignorati compiuti dal debitore. Ciò significa che l’eventuale alienazione compita dal debitore non è nulla ma soltanto relativamente inefficace (e cioè, inefficace appunto nei confronti del creditore procedente e di quelli intervenuti). Se, però, il processo esecutivo si estingue, l’atto di disposizione del bene compiuto dal debitore diventa pienamente efficace. Sotto il profilo formale, il pignoramento si svolge poi secondo modalità diverse a seconda del tipo di bene che ha ad oggetto (e cioè, se si tratta di espropriazione mobiliare o immobiliare). Il pignoramento nell’espropriazione immobiliare Nell’espropriazione immobiliare, a differenza di quanto avviene in quella mobiliare, il pignoramento è atto di parte in quanto è il creditore procedente a scegliere quali beni pignorare e ad indicarli nell’atto di pignoramento mentre l’ufficiale giudiziario si limita a notificare l’atto di pignoramento, comprensivo degli avvertimenti anzidetti, al debitore. N.B. Tali fasi si svolgono in modo diverso a seconda del tipo di bene oggetto dell’espropriazione (e cioè, se si tratta di espropriazione immobiliare o mobiliare). Il codice infatti, prima, fissa una disciplina generale e, poi, detta tante discipline speciali quante sono le forme di espropriazione. N.B. Il pignoramento, come abbiamo visto, deve essere eseguito dopo 10 giorni e non oltre 90 giorni dalla notifica del precetto, altrimenti quest’ultimo diventa inefficace. Il pignoramento è condotto dall’ufficiale giudiziario che ordina al debitore di astenersi dal compiere qualsiasi atto diretto a sottrarre alla garanzia del credito i beni assoggettati ad espropriazione e i loro frutti. Inoltre, nell’atto di pignoramento, l’ufficiale giudiziario: invita il debitore ad effettuare presso la cancelleria del giudice dell’esecuzione la dichiarazione di residenza o l’elezione di domicilio con l’avvertimento che, in mancanza di tale adempimento, le successive notifiche o comunicazioni a lui dirette saranno effettuate presso la cancelleria del giudice stesso; comunica al debitore che può evitare il pignoramento, pagando nelle mani dell’ufficiale giudiziario una somma di danaro pari all’importo dell’intero credito più le spese, oppure chiedere con apposita istanza al giudice dell’esecuzione la conversione del pignoramento, informandolo sia della somma da versare in conversione sia dei termini di presentazione dell’istanza (in quest’ultimo caso, il debitore subisce comunque il pignoramento sui suoi beni ma se l’istanza di conversione viene accolta libera i beni già pignorati); e comunica al debitore che può proporre opposizione contro il pignoramento ma che questa è inammissibile se è proposta dopo che è stata disposta la vendita o l’assegnazione. Una volta eseguito il pignoramento, il creditore deve chiedere, dopo 10 giorni e non oltre 45 giorni dal pignoramento stesso, la fissazione dell’udienza per l’assegnazione o la vendita dei beni pignorati, altrimenti il pignoramento diventa inefficace e il processo esecutivo si estingue. N.B. Infatti, grazie al sistema dei pubblici registri immobiliari (che consentono a chiunque di conoscere tutte le informazioni relative e gli atti riguardanti un immobile), è possibile sapere in anticipo se il debitore è proprietario o no di beni immobili ed eventualmente di quali. La notifica dell’atto di pignoramento, tuttavia, non esaurisce le attività di competenza dell’ufficiale giudiziario in quanto l’atto deve essere anche trascritto negli appositi registri immobiliari (trascrizione che serve a rende pubblico il pignoramento). Pertanto, subito dopo aver notificato l’atto di pignoramento al debitore, l’ufficiale giudiziario deve anche depositare copia autentica dell’atto di pignoramento presso la competente conservatoria dei registri immobiliari, che trascrive l’atto e gli restituisce una nota. A questo punto, l’ufficiale giudiziario consegna l’atto di pignoramento e la nota di trascrizione rilasciata dal conservatore dei registri immobiliari al creditore; creditore che, nei 15 giorni successivi alla consegna, deve iscrivere il procedimento esecutivo a ruolo (a pena di inefficacia del pignoramento), depositando presso la cancelleria del giudice competente per l’esecuzione copia del titolo esecutivo, del precetto, dell’atto di pignoramento e della nota di trascrizione. Il pignoramento nell’espropriazione mobiliare Nell’espropriazione mobiliare, invece, a differenza di quanto avviene in quella immobiliare (dove, come abbiamo visto, è il creditore procedente a scegliere e ad indicare nell’atto di pignoramento quali beni del debitore pignorare), il pignoramento è compiuto materialmente dall’ufficiale giudiziario che, munito di titolo esecutivo e precetto, si reca - ovviamente su istanza del creditore procedente - presso l’abitazione del debitore e negli altri luoghi di sua proprietà per ricercare i beni da pignorare (in questo caso, quindi, l’atto di pignoramento viene redatto direttamente dall’ufficiale giudiziario, sotto forma di verbale). Nell’effettuare il pignoramento, l’ufficiale giudiziario redige apposito verbale nel quale attesta di aver ingiunto al debitore di non disporre dei beni pignorati in pregiudizio al creditore e passa poi a descrivere le cose pignorate, il loro stato di conservazione, le fotografa e ne determina, quando occorre con l’assistenza di un esperto stimatore da lui scelto, il presumibile valore di realizzo. A questo punto, una volta compiute tutte le operazioni relative al pignoramento, l’ufficiale giudiziario consegna il titolo esecutivo, il precetto e il verbale al creditore; creditore che, nei 15 giorni successivi alla consegna, deve iscrivere il procedimento esecutivo a ruolo (a pena di inefficacia del pignoramento), depositando presso la cancelleria del giudice competente per l’esecuzione copia del titolo esecutivo, del precetto e del verbale. N.B. I beni immobili, una volta pignorati, devono essere poi custoditi. Generalmente, ne è nominato custode il debitore (che non ha diritto ad alcun compenso per tale attività), a meno che il creditore procedente o altro successivamente intervenuto non richieda al giudice dell’esecuzione di nominare una persona diversa (il cd. “custode giudiziario”). In ogni caso, il custode provvede alla gestione ed amministrazione dell’immobile pignorato e ha una serie di obblighi e divieti da rispettare, pena la sua sostituzione da parte del giudice. N.B. Pignoramento mobiliare che, di regola, ricade sulle cose che l’ufficiale giudiziario ritiene di maggior valore e più facili da vendere, nel limite del credito per cui si procede, aumentato della metà (in modo tale da consentire il pagamento anche degli interessi e delle spese del procedimento). In ogni caso, in presenza di più beni, l’ufficiale giudiziario deve preferire il denaro contante, gli oggetti preziosi e i titoli di credito. Tuttavia, bisogna ricordare che non tutti i beni del debitore possono essere pignorati: infatti, alcuni beni sono “assolutamente impignorabili” (come ad es. gli oggetti religiosi, l’anello nuziale, i vestiti, gli arredamenti di casa, il cibo e gli animali domestici); altri ancora sono “relativamente pignorabili” (e cioè, possono essere pignorati soltanto entro certi limiti - come ad es. gli strumenti, gli oggetti e i libri indispensabili per l’esercizio dell’attività professionale del debitore o gli stipendi e i salari, che possono essere pignorati nel limite di 1/5). L’incanto si svolge davanti al giudice dell’esecuzione nella sala delle udienze pubbliche; per poter presentare offerte è necessario aver prestato la cauzione disposta dal giudice (che, in caso di mancata aggiudicazione, viene immediatamente restituita al termine dell’incanto); le offerte per essere valide devono essere superiori alla base d’asta o, comunque, all’offerta precedente nella misura indicata nell’ordinanza di vendita e tra un’offerta e l’altra non possono trascorrere più di 3 minuti. Infatti, se dopo 3 minuti dall’ultima offerta non ne segue un’altra maggiore, l’immobile viene aggiudicato all’ultimo e maggiore offerente. La vendita nell’espropriazione mobiliare La vendita dei beni mobili pignorati può avvenire in due modi, “con incanto” (a cui si applica la stessa disciplina vista in precedenza per la vendita “con incanto” dei beni immobili) oppure tramite commissario. Al riguardo, il codice prevede una disciplina molto dettagliata. Innanzitutto, nel provvedimento con cui dispone la vendita il giudice, tra le altre cose, deve: fissare il prezzo minimo di vendita, stabilire il numero degli esperimenti di vendita (che possono essere al massimo 3), i ribassi da applicare in caso di mancata vendita nonché il termine - non superiore a 6 mesi - entro il quale deve avvenire la vendita. Dopodiché: • In caso di esito positivo della vendita, la somma ricavata viene depositata in cancelleria per essere poi distribuita tra i creditori. • Se invece, alla scadenza del termine fissato dal giudice, i beni restano invenduti, il soggetto incaricato deve restituire gli atti in cancelleria e fornire un’adeguata relazione riguardo all’attività posta in essere per reperire i potenziali acquirenti. A questo punto, il giudice, su istanza di uno dei creditori, può disporre la ricerca di nuovi beni da pignorare; altrimenti, se non vi sono istanze, i beni invenduti vengono restituiti al debitore e il processo esecutivo si estingue. III. La distribuzione della somma ricavata dalla vendita L’ultimo atto del processo di esecuzione forzata per espropriazione è rappresentato dalla distribuzione della somma ricavata dalla vendita. La distribuzione (o ripartizione) della somma avviene secondo modalità diverse a seconda del tipo di espropriazione e del numero di creditori. Al riguardo, il codice stabilisce comunque sia delle regole generali, che sono le seguenti: N.B. L’aggiudicazione, tuttavia, non chiude definitivamente il discorso: infatti, nei 10 giorni successivi alla chiusura dell’asta, possono essere ancora fatte offerte d’acquisto, purché esse siano superiori di almeno 1/5 rispetto a quella risultata vittoriosa. Queste offerte, per essere valide, devono essere assistite da una cauzione doppia rispetto a quella versata per la prima asta e, se sono regolari, danno luogo ad un nuovo confronto tra i potenziali acquirenti. Alla nuova asta, oltre agli offerenti in aumento e all’aggiudicatario, possono partecipare anche gli offerenti che hanno partecipato all’incanto precedente, purché essi abbiano provveduto ad integrare la cauzione. Se poi nessuno degli offerenti in aumento partecipa a questa nuova asta, l’aggiudicazione diventa definitiva e il giudice dispone, a carico degli offerenti in aumento assenti, l’acquisizione della cauzione che viene trattenuta come attivo dell’esecuzione. N.B. Quest’ultima modalità (cioè, la vendita tramite commissario) è, tra le due, quella di gran lunga più utilizzata nella vendita dei beni mobili pignorati. Il “commissario” è il soggetto incaricato di vendere i beni mobili pignorati (che, di solito, è l’istituto vendite giudiziarie ma il giudice può anche decidere di affidare l’incarico ad altro soggetto specializzato nel settore, diverso dall’istituto giudiziario). • Se c’è un solo creditore, il giudice dell’esecuzione dispone - con ordinanza - il pagamento in suo favore di quanto gli spetta, con l’aggiunta di interessi e delle spese (e, nel caso in cui vi sia un avanzo, questo viene consegnato al debitore). • Quando invece vi sono più creditori, la distribuzione della somma ricavata dalla vendita avviene sulla base di un piano di riparto (che è redatto con modalità diverse nell’espropriazione mobiliare e in quella immobiliare). La distribuzione della somma ricavata dalla vendita nell’espropriazione immobiliare Nell’espropriazione immobiliare, se ci sono più creditori, la distribuzione della somma ricavata dalla vendita avviene nel seguente modo: innanzitutto, il piano di riparto può essere redatto dal giudice stesso o da un professionista da lui delegato. All’udienza (o davanti al professionista) si possono verificare poi tre possibilità: • Se le parti non compaiono, la loro assenza viene intesa come approvazione tacita del piano e il giudice (o il professionista) ordina il pagamento delle rispettive quote. • Se le parti compaiono all’udienza e approvano il progetto, il giudice (o il professionista) ordina il pagamento delle rispettive quote. • Se le parti compaiono ma non riescono a trovare un accordo sul piano di riparto, il loro mancato accordo fa sorgere automaticamente una “controversia distributiva” (che può essere relativa ad es. all’ammontare delle rispettive quote o alla sussistenza di diritti di prelazione). La distribuzione della somma ricavata dalla vendita nell’espropriazione mobiliare Nell’espropriazione mobiliare, se ci sono più creditori, la distribuzione della somma ricavata dalla vendita può avvenire invece in due modi: 1) in modo amichevole (nel qual caso il piano di riparto è redatto di comune accordo tra i creditori e il giudice, sentito il debitore, procede alla distribuzione delle somma ricavata dalla vendita nel modo concordato dai creditori) oppure 2) in via giudiziale (nel qual caso il piano di riparto è redatto dal giudice, su istanza delle parti, che poi procede alla liquidazione delle rispettive quote). N.B. In realtà, le differenze si riscontrano soltanto in presenza di più creditori, infatti: se vi è un solo creditore, la distribuzione della somma ricavata dalla vendita avviene sempre nello stesso modo, indipendentemente dal tipo di espropriazione (e cioè, secondo quanto previsto dalle regole generali) mentre se vi sono più creditori, la somma ricavata dalla vendita viene distribuita tra loro sempre sulla base di un piano di riparto, che però è redatto in modo diverso a seconda del tipo di espropriazione. N.B. In quest’ultimo caso (e cioè, qualora il giudice abbia deciso per la delega), il professionista delegato, entro 30 giorni dal versamento del prezzo, dovrà redigere un piano di distribuzione (contenente anche la graduatoria dei creditori che vi partecipano) e poi trasmetterlo al giudice dell’esecuzione; giudice dell’esecuzione che, nei successi 10 giorni, può esaminarlo e apportare le modiche che ritiene opportune e poi ne dispone la comunicazione alle parti (affinché possano valutarlo) e al professionista delegato; professionista delegato che, entro 30 giorni, deve fissare davanti a se l’audizione delle parti per la discussione del piano di riparto così approntato. Quando, invece, è il giudice a redarre il piano di riparto, il giudice stesso fissa la data di un’udienza per la discussione davanti a se del progetto di distribuzione. N.B. Le controversie distributive sono decise dal giudice dell’esecuzione, sentite le parti e accertata la loro posizione, con ordinanza, impugnabile con ricorso (ricorso che deve essere presentato, a pena di decadenza, dinnanzi al giudice dell’esecuzione entro 20 giorni dell’emanazione del provvedimento). 2 - L’INTERVENTO DI ALTRI CREDITORI NEL PROC. ESECUTIVO PER ESPROPRIAZIONE Nel corso del processo esecutivo per espropriazione poi possono anche intervenire altri creditori, diversi dal creditore procedente. La loro posizione, però, cambia a seconda del momento in cui avviene il loro intervento (e cioè, se questo avviene prima o dopo l’udienza fissata per l’autorizzazione della vendita - vedi punto 2, paragrafo 1), infatti: • Se si fanno avanti prima dell’udienza fissata per l’autorizzazione della vendita, partecipano alla distribuzione della somma ricavata dalla vendita. • Se si fanno avanti dopo l’udienza fissata per l’autorizzazione della vendita, possono soddisfarsi soltanto su ciò che residua dopo che sono stati soddisfatti i creditori privilegiati, il creditore procedente e quelli intervenuti tempestivamente (a meno che non si tratti di un creditore privilegiato). 3 - FORME PARTICOLARI DI ESPROPRIAZIONE: L’ESPROPRIAZIONE DI BENI INDIVISI E CONTRO IL TERZO PROPRIETARIO Dopo l’esecuzione forzata per espropriazione di beni mobili ed immobili, il codice prevede e disciplina altre due particolari forme di esecuzione forzata per espropriazione (vale a dire, “l’espropriazione forzata di beni indivisi” e “l’espropriazione forzata contro il terzo proprietario”) che si caratterizzano per la particolare situazione giuridica in cui si trovano i beni da espropriare e per il fatto che coinvolgono persone diverse dal debitore. La prima forma di cui si occupa il codice di procedura è l’espropriazione forzata di beni indivisi, la cui particolarità sta nel fatto che il bene da espropriare appartiene a più comproprietari, uno solo dei quali è il soggetto passivo dell’esecuzione forzata. In questo caso, la procedura da seguire è sempre la stessa ma il codice aggiunge che, dell’avvenuto pignoramento, il creditore pignorante deve dare avviso anche agli altri comproprietari (affinché questi impediscano al debitore, loro comproprietario, di separare la sua quota senza l’autorizzazione del giudice). Dopodiché, per monetizzare la quota del debitore, il giudice dell’esecuzione, generalmente, in prima battuta, tenta di addivenire alla separazione materiale del bene (che però non è sempre possibile); se questa poi non è possibile, può scegliere se ordinare la vendita della quota (che però, di solito, non è conveniente per chi compra, perché il potenziale acquirente difficilmente accetterà di trovarsi in comproprietà con estranei) o disporre la divisione giudiziale del bene. La seconda è, invece, l’espropriazione forzata contro il terzo proprietario che è appunto una particolare forma di espropriazione che ha ad oggetto un bene di proprietà non del debitore ma di un terzo (si tratta di un’ipotesi piuttosto rara che, generalmente, si configura quando il terzo ha acquistato dal debitore un bene gravato da un diritto reale di garanzia - vale a dire, da pegno o ipoteca). Anche in questo caso, la procedura da seguire è sempre la stessa, seppur con alcune differenze, vediamole: • In primo luogo, il titolo esecutivo e il precetto devono essere notificati non solo al debitore ma anche al terzo e nel precetto deve essere espressamente indicato il bene del terzo che si intende pignorare. • In secondo luogo, il terzo, essendo equiparato al debitore, deve essere sentito ogniqualvolta è disposta l’audizione del debitore, subisce il pignoramento ma, a differenza del debitore, può presentare offerte all’eventuale incanto per l’acquisto del bene pignorato. • Infine, se al termine della procedura esecutiva residua una somma di denaro, questa va restituita non al debitore ma al terzo.
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