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Riassunto Divina Commedia - Inferno 1, 2, 5, 10, 13, 15, 26, 27, 33, 34, Appunti di Letteratura Italiana

Riassunto dei canti 1-2-5-10-13-15-26-27-33-34 dell'Inferno della Divina Commedia con parafrasi, figure retoriche ed analisi del canto

Tipologia: Appunti

2020/2021

Caricato il 02/03/2023

gaiafrola
gaiafrola 🇮🇹

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Scarica Riassunto Divina Commedia - Inferno 1, 2, 5, 10, 13, 15, 26, 27, 33, 34 e più Appunti in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! Divina Commedia – Dante Alighieri CANTO 1 Questo è il primo canto della cantica dell’Inferno ma è anche il primo canto dell’opera, è quindi considerato il canto introduttivo, per questo l’Inferno è composto da 34 canti e non 33 come le altre due cantiche. In un momento di annebbiamento della coscienza, Dante si è smarrito in una selva (simbolo di peccato e turbamento morale), perdendo la giusta strada. La vista di un colle illuminato dal sole gli dà speranza, ma appena prova a salirci, il passaggio viene bloccato da tre bestie feroci, le fiere, rispettivamente lonza, leone e lupa, che rappresentano i peccati morali che ti impediscono di arrivare alla salvezza individuale e alla retta e ordinata convivenza civile. La lupa in particolare minaccia Dante, rimandandolo nella selva. In quel momento appare l’ombra del poeta Virgilio, che aiuterà Dante. Virgilio lo aiuta ma gli dice anche che salire il colle è impossibile per via della lupa. Bisogna fare la via più lunga, attraversando Inferno e Purgatorio, potendosi così purificare e diventare degni d’entrare in Paradiso. Virgilio non potrà accompagnarlo in Paradiso, perché non degno, e verrà quindi accompagnato da un’anima beata. Il canto si chiude con l’immagine dei due poeti che iniziano il loro cammino. PARAFRASI 1-3. A metà del corso medio della vita umana, mi ritrovai in una foresta buia, perché avevo smarrito la giusta strada.  4-6. Ahimè, quanto è difficile descrivere l’aspetto di questa foresta inospitale, intricata e difficile [da attraversare], a tal punto che al solo pensiero si rinnova in me la paura.  7-9. [la selva] È tanto angosciante che la morte lo è giusto poco di più; ma per descrivere il bene che io trovai in essa, parlerò [prima] delle altre cose che vi ho visto.  10-12. Non so descrivere il modo in cui io vi entrai, tanto ero intorpidito nel momento in cui abbandonai la via della verità.  13-15. Ma dopo che giunsi ai piedi di un colle, nel luogo in cui finiva quella valle che aveva turbato di paura il mio cuore,  16-18. guardai verso l’alto e vidi la sua vetta già illuminata dai raggi di quel pianeta [il Sole] che conduce ogni uomo sulla giusta strada.  19-21. Allora si acquietò un po’ la paura che a lungo era rimasta nel profondo del mio cuore durante la notte trascorsa nell’angoscia.  22-24. E come colui [il naufrago] che con respiro affaticato, uscito dal mare e giunto a riva, si volta verso le acque pericolose e le guarda,  25-27. così il mio animo, che ancora era in fuga, si voltò indietro a guardare quel luogo che non aveva mai lasciato passar vivo alcun uomo.  28-30. Dopo che ebbi fatto riposare un po' il corpo stanco, ripresi il cammino lungo il pendio deserto [del colle], in modo che il piede stabile [quello di appoggio] era sempre il più basso [dei due].  31-33. Ed ecco [apparire], quasi all'inizio della salita, una lonza snella e molto agile, ricoperta di pelo maculato;  34-36. e non si scansava da davanti al mio viso, anzi bloccava a tal punto il mio cammino che più volte mi girai per tornare indietro.  37-39. Era il principio del mattino, e il sole sorgeva insieme a quella costellazione che lo accompagnava quando Dio (l’amor divino)  40-42. creò inizialmente gli astri (quelle cose belle); così che erano motivo di speranza per me contro quella bestia dalla pelle screziata  43-45. l’ora del giorno e la dolcezza della primavera; ma non al punto che non mi incutesse paura la visione che mi apparve di un leone.  46-48. Questo sembrava procedere contro di me con la testa alta e con una fame rabbiosa, al punto che sembrava far tremare l'aria.  49-51. Ed una lupa, che di tutti i desideri sembrava piena pur nella sua magrezza, e che già aveva costretto molti uomini a vivere nella miseria,  52-54. questa mi procurò un tale angoscia per la paura che si sprigionava dal suo aspetto, che io persi la speranza di raggiungere la cima del colle.  55-57. E come colui che avidamente accumula denaro, e poi arriva il momento che gli fa perdere tutto, al punto che nell'animo si rattrista e piange;  58-60. così mi ridusse la belva insaziabile e irrequieta, che, venendomi incontro, a poco a poco mi respingeva là dove il sole non fa luce [nella selva].  61-63. Mentre precipitavo verso il basso, mi si offrì alla vista uno che, per via di un lungo silenzio, mi sembrava fosse senza voce.  64-66. Quando lo vidi in quel luogo deserto e solitario, «Abbi pietà di me», gli gridai, «chiunque tu sia, fantasma o uomo reale!»  67-69. Mi rispose: «Non sono un uomo [vivo], lo sono già stato, e i miei genitori furono lombardi, entrambi mantovani per nascita.  70-72. Nacqui sotto Giulio Cesare, sebbene troppo tardi, e vissi a Roma sotto l’impero del buon Augusto, al tempo degli dèi falsi e ingannatori.  73-75. Fui un poeta, e scrissi di quel giusto figlio di Anchise proveniente da Troia, dopo che la superba Ilio venne bruciata.  76-78. Ma tu, perché ritorni al tanto dolore [della selva]? Perché non scali il piacevole colle che è origine e causa di totale gioia?  79-81. «Sei dunque tu quel Virgilio, quella sorgente che diffonde un così abbondante fiume di eloquenza?», gli risposi con il capo umilmente chinato.  82-83. «Oh, gloria e luminosa guida per gli altri poeti, mi sia d’aiuto l'assiduo studio e il grande amore che mi ha spinto a leggere la tua opera.  84-86. Tu sei il mio maestro e il mio autore [di riferimento], da te solo ho appreso lo stile elevato che mi ha dato prestigio.  87-89. Guarda la belva a causa della quale mi voltai indietro; dammi il tuo aiuto contro di lei, famoso sapiente, poiché essa mi fa tremare le vene e i polsi».  90-92. «Ti conviene intraprendere una strada diversa», rispose, dopo che mi vide piangere, «se vuoi uscire salvo da questo luogo selvaggio»;  93-95. perché questa belva, a causa della quale tu gridi, non permette a nessuno di passare per la sua via, ma lo ostacola al punto tale da ucciderlo;  96-98. e ha una natura così malvagia e colpevole, che non sazia mai la sua che non riempie mai il suo incontenibile A partire dal verso 100 del primo Canto dell’Inferno – in un luogo, quindi, topico del testo – Dante inserisce la prima profezia della Commedia, nonché la più celebre e problematica dell’intero poema: quella del Veltro. È d’obbligo, però, una premessa riguardo la componente profetica dell’opera dantesca. Uno dei mezzi con i quali Dante tenta maggiormente di dare una dimensione divina alla propria opera è quello delle profezie. L’intera Commedia è costellata da predizioni, visioni, sogni anticipatori, capaci di dare al lettore la sensazione di trovarsi di fronte ad un qualcosa scritto per ispirazione di Dio. Bisogna stare ben attenti a non confondere la finzione con il reale: come ben sappiamo, tra il viaggio di Dante nei mondi ultraterreni e la stesura del poema intercorrono diversi anni. Risulta quindi facile per l’autore “profetizzare” nel tempo della storia narrata (quello che appartiene, come abbiamo visto, a Dante agens) qualcosa che, nel tempo della scrittura (appartenente invece a Dante auctor), è già accaduto.   Tradizionalmente, perciò, sono state suddivise le profezie della Commedia in due diverse tipologie: o Le profezie post eventum: si tratta di quelle “predizioni” che si riferiscono a momenti compresi tra la primavera del 1300 e la loro scrittura e che giocano quindi sull’espediente della retrodatazione dantesca. o Le profezie ante eventum: si tratta di pochi ed isolati casi in cui le predizioni fanno riferimento a fatti che, al momento della scrittura dell’opera, devono ancora accadere. La profezia del Veltro, presente nel Canto I dell’Inferno, appartiene alla seconda tipologia, ben più rara della prima. In essa viene predetto l’arrivo del Veltro, un cane che si nutre di «sapienza, amore e virtute» e che salverà «quella umile Italia» uccidendo la bestia che è causa dei mali dell’intero Paese: la Lupa, una delle tre fiere che appaiono a Dante nella selva.   Identificare questo cane, destinato secondo la profezia a salvare l’Italia, con un personaggio/evento storico è cosa difficile: diversi sono stati i commentatori e i critici che, nel corso dei secoli, hanno cercato invano di dargli un volto. La profezia del Veltro, perciò, non si risolve in una sola, definitiva interpretazione, ma resta indefinita, aperta a letture multiple; probabilmente era proprio questa la volontà di Dante.  PERSONAGGI Il I Canto dell’Inferno, in quanto canto proemiale dell’intera opera, come prima cosa ci presenta il protagonista della Commedia, Dante, accompagnato da colui che costituirà la sua guida per due terzi del viaggio, il poeta latino Virgilio. Altri personaggi di fondamentale importanza, per la comprensione non solo del Canto in questione ma del poema intero, sono le tre fiere, le belve che precludono a Dante il cammino.     Dante, Il duplice ruolo di Dante Già dal Canto I dell’Inferno emerge, in modo chiaro, il duplice ruolo di Dante all’interno del poema. Egli è, infatti, sia personaggio (agens) che autore (auctor). Vediamo insieme le differenze tra i due diversi ruoli:   o Dante agens è colui che compie il viaggio dall’Inferno al Paradiso, attraversando i tre regni ultraterreni nell’ottica di un percorso di redenzione. Dovendo ancora percorrere il suo itinerario e non essendo a conoscenza di ciò che incontrerà, egli appare insicuro, impaurito, timoroso e pieno di dubbi; per questo motivo ha bisogno di una guida che dia lui le giuste indicazioni per muoversi nel regno dell’aldilà. È sottomesso al tempo della storia, che è il tempo passato. o Dante auctor è soggetto della scrittura e narratore dell’intera vicenda. Avendola già vissuta (la sta, infatti, raccontando a posteriori), egli possiede già la verità e si dimostra quindi sicuro e saggio. Ad egli compete il tempo della narrazione, che è il tempo presente. Nel I Canto dell’Inferno, questa distinzione appare particolarmente chiara all’altezza del verso 4, «Ahi quanto a dir qual era è cosa dura», in cui Dante auctor usa il tempo presente (è cosa dura) per spiegare la sua difficoltà nel descrivere la foresta in cui Dante agens si perde, evento narrativo caratterizzato dall’utilizzo del tempo passato (qual era).   Virgilio, Perché Dante sceglie Virgilio come guida? Dal verso 61 fa il suo ingresso, all’interno del I Canto dell’Inferno e dell’intera Commedia, Virgilio, che sarà la guida di Dante nei regni ultraterreni dell’Inferno e del Purgatorio. Nato nel 70 a.C. ad Andes, nei pressi di Mantova, Virgilio fu il più grande poeta dell’antica Roma. Autore delle Bucoliche e delle Georgiche, divenne celebre in particolar modo per la composizione dell’Eneide. Entrò nel circolo di Mecenate e fu protetto dallo stesso imperatore Augusto; morì a Brindisi nel 19 a.C., quindi prima della venuta di Gesù: per questo motivo si trova nel limbo infernale, dove risiedono le anime dei morti non battezzati e degli uomini virtuosi vissuti prima di Cristo.    Perché la scelta di guida ricade proprio su Virgilio? Diverse sono le motivazioni. La prima è Dante stesso a suggerircela quando, ai versi 85-87 del Canto I dell’Inferno, elogia il poeta latino come suo «maestro» e suo «autore», colui dal quale ha appreso «lo bello stilo» che lo ha reso celebre. Virgilio viene quindi scelto innanzitutto in quanto poeta ideale, indicato come più alto esempio di stile sublime e di perfezione formale. Egli era, inoltre, il modello latino da seguire per i poemi epici, e tanto più per un poema che raccontasse l’oltretomba in quanto, nel VI libro dell’Eneide, aveva raccontato proprio della discesa di Enea agli Inferi.    Cantore dell’Impero (di cui Dante era fervido sostenitore), Virgilio nel Medioevo veniva inoltre considerato alla stregua di un mago e di un profeta: il suo poema veniva letto allegoricamente come poema sacro, quasi profetico nei confronti del Cristianesimo. Questo è vero soprattutto in relazione all’ecloga IV, nella quale si esalta la nascita di un bambino che, al raggiungimento dell’età adulta, avrebbe portato una nuova era di pace e prosperità; il Medioevo interpretava questo fanciullo come Cristo e questa presunto profetismo della venuta del Figlio di Dio potrebbe essere uno degli altri motivi che avrebbero spinto Dante a scegliere Virgilio come sua guida.    Oltre a ciò, Virgilio era anche riconosciuto come «famoso saggio» (v. 89) e sapiente filosofo. Egli diviene quindi, nella Commedia, allegoria della ragione, ingrediente indispensabile per riuscire a distinguere il bene dal male. Il poeta latino rappresenta perciò il più alto grado di perfezione morale raggiungibile da un essere umano senza la luce divina.  Le tre fiere A partire dal v. 31 del primo Canto dell’Inferno, il cammino di Dante – e, nello specifico, la sua salita al colle – è ostacolato dall’apparizione in sequenza delle tre fiere, tre belve che non permettono a Dante di proseguire e, anzi lo spingono a tornare indietro, verso la terribile selva. Si tratta, nel dettaglio, di:   o una lonza o un leone o una lupa Le tre fiere hanno, senza ombra di dubbio, un significato allegorico; diverse però sono state nei secoli le interpretazioni e le teorie. Secondo la più accreditata – basata su San Giovanni, su San Tommaso e supportata anche dalla maggior parte dei primi commentatori di Dante – esse rappresenterebbero lussuria (lonza), superbia (leone) e cupidigia-avarizia (lupa), le tre colpe più diffuse nel Medioevo, nonché le più biasimate dalla letteratura religiosa del Duecento. Le tre fiere sarebbero quindi allegoria di tre pericolosissimi vizi, a causa dei quali è impossibile condurre una vita retta e proseguire nell’ascesa verso Dio, tre gravi impedimenti al raggiungimento dell'ordine morale della società cristiana e dell'ordine politico. Esistono, tuttavia, altre ipotesi: secondo alcuni, ad esempio, la lonza, il leone e la lupa rappresenterebbero rispettivamente l’incontinenza, la violenza e la frode, le tre disposizioni al male punite nell’Alto, Medio e Basso Inferno. Secondo altri ancora, invece, sarebbero allegoria delle tre potenze guelfe – Firenze, Francia, Roma – che, opponendosi agli ideali imperiali, avrebbero contribuito alla corruzione della società.    Cos'è la lonza? Le diverse versioni Oggi ancora si dibatte su quale sia l'animale che Dante definisce lonza: da una parte c'è chi ritiene che si tratti del leopardo mentre dall'altra c'è chi pensa si tratti della lince. Nei bestiari medievali per "loncia" s’intendeva un animale crudele e fiero che nasce dall'incrocio tra il leopardo (lonza) e la leonessa. Nelle sue Esposizioni, Boccaccio descrive le caratteristiche dell'animale: “par che si debbano intendere per questi, cioè per la lonza il vizio della lussuria…”. Di lonza si parla ancora in un documento del 1285 dove è scritto che nei pressi del palazzo comunale di Firenze venne esposta una lonza che, verosimilmente, Dante ventenne vide.  CANTO 2 È il tramonto e Dante e Virgilio si sono messi in cammino, ma l’animo di Dante è invaso dall’incertezza e dal timore poiché si accinge da solo a fare questa grande impresa. Espone i propri dubbi a Virgilio: la possibilità di andare nell’oltretomba venne data solo ad Enea, per dare origine a Roma, e a San Paolo, per diffondere la fede in Cristo; quindi, Dante non vede per quale merito dovrebbe avere questa possibilità. Virgilio prima lo rimprovera, poi gli racconta come, mentre si trovava nel Limbo, si sia presentata a lui una donna dagli occhi luminosi e belli, che lo persuase per andare in suo aiuto. Questa donna era beatrice e disse di essere scesa dal cielo spinta dall’amore. Virgilio le chiese come lei non avesse timore a scendere all’Inferno, ma lei, essendo stata creata da Dio, non poteva essere toccata dalla miseria di quel luogo. Era scesa su invito di Santa Lucia, spinta dalla Madonna, che aveva provato compassione della misera condizione di Dante. Virgilio invita quindi Dante a farsi 127-129. Come dei fiorellini chiusi e piegati dal gelo notturno, dopo che il sole li illumina, si risollevano tutti aperti sul loro stelo,  130-132. così feci io con la mia debolezza d’animo [risollevandola], e al cuore mi venne tanto energico coraggio che cominciare a dire, come una persona sicura di sé:  133-135. «Oh quant’è pietosa la donna che mi soccorse! E quanto sei cortese tu che subito ubbidisti alle parole di verità che ti rivolse!  136-138. Tu, hai reso il mio cuore desideroso di venire [con te], grazie alle tue parole, al punto che sono tornato al mio primo proposito.  139-141. Ora va’, poiché entrambi abbiamo un’unica volontà: tu sei la mia guida, il mio signore, il mio maestro». Così gli dissi, e dopo che si fu avviato,  142. intrapresi il percorso difficile e selvaggio. FIGURE RETORICHE 13, «di Silvio il parente»: perifrasi per indicare Enea e anastrofe 14-15, «ad immortale / secolo»: enjambement 16, «l’avversario d’ogne male»: perifrasi per indicare Dio 27, <<ammanto>>: metonimia per indicare l’autorità 28, <<Vas d’elezione>>: epiteto derivato dagli Atti degli Apostoli, dove San Paolo è definito vas electionis 37-42, <<E qual è quei che disvuol ciò che volle / e per novi pensier cangia proposta, / si che dal cominciar tutto si tolle, / tal mi fec’io ‘n quella oscura costa, / perché, pensando, consumai la ‘mpresa / che fu nel cominciar cotanto tosta.>>: similitudine per indicare il processo del ripensamento 47, <<onrata>>: provenzalismo, forma sincopata di onorata 53, «beata e bella»: allitterazione 56, «soave e piana»: endiadi 123, «ardire e franchezza»: endiadi 127-130, <<Quali fioretti dal notturno gelo / chinati e chiusi, poi che ‘l sol li ‘mbianca, / si drizzan tutti aperti in loro stelo, / tal mi fec’io di mia virtude stanca>>: similitudine per il ritrovato coraggio di Dante. 140, <<tu duca, tu segnore e tu maestro>>: anafora del tu e latinismi ‘duca’, ‘segnore’ ANALISI  L’invocazione alle Muse Il II Canto dell’Inferno si apre con un’invocazione alle Muse che – insieme all’enunciazione dell’argomento, ovvero il cammino tra le anime dannate – dona al Canto un carattere proemiale. Infatti, se il I Canto dell’Inferno aveva assunto il ruolo di prologo dell’intera Commedia, il successivo può essere considerato il vero proemio della cantica dell’Inferno. Per questo motivo, in linea con la tradizione classica, Dante apre con un’invocazione alle Muse. Figlie di Zeus e di Mnemosine, le Muse erano divinità minori. Giovani e belle, la tradizione vuole che si trattasse di nove sorelle, ognuna delle quali era protettrice di una ben specifica arte: o Calliope, colei che ha una bella bella voce, protettrice della poesia epica; o Clio, colei che rende celebri, protettrice della storia; o Erato, colei che provoca desiderio, protettrice della poesia d’amore; o Euterpe, colei che rallegra, protettrice della poesia lirica; o Melpomene, colei che canta, protettrice della tragedia; o Polimnia, colei che ha molti inni, protettrice della danza rituale e del canto sacro; o Tersicore, colei che si diletta nella danza, protettrice della danza; o Talia, colei che è festiva, protettrice della poesia comico-satirica; o Urania, colei che è celeste, protettrice dell’Astronomia. Interessante, però, sottolineare che mentre i poeti epici come Omero e Virgilio si limitavano a invocare una sola Musa, quasi sicuramente Calliope in quanto protettrice della poesia epica, Dante invece invoca la totalità di esse, quasi sottolineando la necessità di ricevere l’aiuto di tutte le arti per apprestarsi a scrivere la Commedia. Il poeta invoca anche l’aiuto del suo «alto ingegno» (v.7), sottolineando come l’atto poetico sia una sintesi delle doti innate del poeta (l’ingenium) e dell’attento studio delle tecniche retorico-formali indispensabili per elaborare un componimento in perfetto stile (l’ars).  La missione di Dante Se nel Canto proemiale della Commedia Dante aveva trovato, come ostacoli al proprio cammino, tre belve feroci – che, seppur allegoria del peccato, erano presenti in tutta la loro concretezza – nel secondo Canto dell’Inferno l’impedimento è interiore: si tratta, nello specifico, del timore nutrito da Dante di non essere pronto ad intraprendere un simile viaggio, di non essere all’altezza della missione di cui è investito. È il confronto con due nomi straordinari, stavolta non più allegorizzati ma figure concrete e storicizzate, a spaventarlo: Enea e San Paolo, entrambi protagonisti di un viaggio nell’oltretomba. Si tratta di due personaggi straordinari della tradizione classico-cristiana, le cui missioni nell’aldilà hanno assunto un valore inestimabile per l’intera umanità, in quanto fondamentali per la nascita dell’Impero e della Chiesa. La discesa di Enea agli inferi è legata alla successiva fondazione di Roma, futuro centro dell’Impero romano e futura sede del Papato; il viaggio di San Paolo nell’aldilà è invece volto alla diffusione del Cristianesimo e della Parola di Dio. In quest’ottica, diventa particolarmente significativo il famosissimo verso 32 del II Canto dell’Inferno, in cui Dante dice a Virgilio: «Io non Enea, io non Paulo sono»: egli si sente inadeguato, al cospetto di queste due grandi figure, a compiere l’impresa che è stata pensata per lui. Dante, però, il cui viaggio è permesso dalla grazia divina (che, come abbiamo visto, è allegorizzata nelle tre donne benedette), diventa il terzo nella triade dei personaggi illustri che hanno potuto visitare l’aldilà e, come i due precedenti, anch’egli ha un importantissimo compito che porterà beneficio all’umanità intera: riferire agli uomini quel che ha visto e sentito in modo che anch’essi possano ritrovare la «diritta via» smarrita, in un percorso di redenzione universale. Il suo essere eroe non ha nulla a che vedere con la spada, com’era stato per Enea, o con la militanza religiosa, com’era stato per San Paolo: egli viene scelto in quanto uomo che, grazie al proprio ingegno, è stato in grado di uscire «de la volgare schiera» (v.105) costituendo un modello per gli altri uomini. Oltre a Dante e Virgilio, già protagonisti del Canto I dell’Inferno, fanno qui la loro comparsa all’interno della Commedia «tre donne benedette»: Beatrice, la donna amata da Dante e cantata nella Vita Nova, Santa Lucia e la Vergine Maria. Vengono inoltre nominati, all’interno del II Canto dell’Inferno, Enea e San Paolo per i cui approfondimenti rimandiamo però alle note presenti nel testo. PERSONAGGI  Le tre donne Preoccupato di non essere all’altezza del cammino che sta per intraprendere, anzi quasi considerandolo empio, Dante viene confortato dalle parole di Virgilio: a desiderare che egli si avvii sulla via della redenzione che, attraversando i tre regni dell’Oltretomba, conduce alla visione di Dio, sono nientemeno che Beatrice, Santa Lucia e la Vergine Maria. Le «tre donne benedette», nella struttura allegorica della Commedia dantesca, rappresentano le tre forme della Grazia divina: o Maria è la Grazia preveniente, dono gratuito di Dio a tutti gli uomini, indipendentemente dai loro meriti; o Santa Lucia è la Grazia illuminante, concessa da Dio agli uomini per aiutarli a discernere il bene dal male; o Beatrice è la Grazia cooperante o santificante, ovvero quella che – con la cooperazione dell’uomo – lo aiuta ad operare il bene. Le tre fiere impediscono il viaggio, le tre donne lo rendono possibile. Così, nello stesso modo in cui – nell’ascesa iniziale – il cammino di Dante era stato ostacolato da tre fiere, allegoria dei tre vizi che ostacolano la redenzione dell’uomo, così esso è supportato e quindi reso possibile dalle tre donne benedette, allegoria di tre diverse declinazioni della Grazia.  Divina Commedia: chi è Beatrice Un paragrafo a parte merita la sola Beatrice, la donna cantata da Dante nella Vita Nova e che fa la sua prima apparizione nella Commedia nel II Canto dell’Inferno, per poi tornare come co-protagonista negli ultimi canti del Purgatorio e nell’intera cantica del Paradiso. Poche le notizie storiche sul suo conto, quasi interamente provenienti dagli scritti di Dante e dal Trattatello in laude di Dante scritto da Giovanni Boccaccio. Si tratterebbe, secondo l’ipotesi più accreditata, di Bice Portinari, figlia del banchiere Folco Portinari e probabile sposa di Simone de’ Bardi. Possiamo ricostruire la sua vita tramite gli scritti di Dante: nata nel 1266 a Firenze, la donna sarebbe morta l’8 giugno 1290, a soli ventiquattro anni. 97-99. La terra dove sono nata si trova nella costa dove ha la foce il Po, cioè Ravenna (il fiume si unisce al mare come fanno tutti gli altri fiumi: per aver pace co’ seguaci suoi). 100-102. Amore, che rapisce facilmente un cuore gentile, fece innamorare costui (Paolo) del bel corpo che mi venne tolto in un modo che ancora mi offende. 103-105. Amore, che a nessuno risparmia di amare quando è amato, mi prese a sua volta della bellezza di costui (Paolo) in un modo tanto forte che ancora non mi abbandona. 106-108.  Amore ci condusse insieme ad una stessa morte e Caina attende chi ci tolse la vita”. Queste parole ci furono riportate. 109-111. Quando io compresi il dolore di quelle anime afflitte chinai il viso e lo tenni tanto basso che Virgilio mi chiese: “A cosa pensi?” 112-114. e io risposi: “Ahimè, quanti dolci pensieri e quanto profondo desiderio condusse loro alla morte!”. 115-117. Poi mi rivolsi a loro e cominciai a dire: “Francesca, il tuo tormento mi rende triste e penoso. 118-120. Ma dimmi: al tempo del vostro innamoramento in che modo l’amore ti fece capire di essere innamorata?”. 121-123. E Francesca rispose: “Non c’è maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nei momenti di miseria, e questo lo sa bene il tuo maestro (Virgilio). 124-126. Ma se hai tanto a cuore conoscere l’origine del nostro amore te lo dirò, ma parlerò piangendo (come colui che piange e dice). 127-129. Noi un giorno stavamo leggendo, per divertimento, la storia di Lancillotto e di come si innamorò; eravamo soli e senza nessun sospetto del nostro amore. 130-132. Quella lettura più volte ci spinse a guardarci l’un l’altra e piano piano diventavamo pallidi in viso, ma solo un punto in particolare fu quello che non ci fece più resistere: 133-135. quando leggemmo della bocca sorridente (di Ginevra) essere baciata da colui che l’amava (Lancillotto), questo (Paolo) che mai deve essere separato da me, 136-138. mi baciò tremando. Galeotto fu il libro e chi lo scrisse: quel giorno non potemmo continuare a leggere oltre. 139-141. ”Mente l’anima di Francesca diceva queste cose, Paolo piangeva, e io fui tanto sconvolto dalla pietà che mi sentii morire 142. e caddi in terra come un corpo privo di vita FIGURE RETORICHE 28, << io venni in loco d’ogne luce muto >>: sinestesia contenente una metafora <<muto>> al posto di ‘privo’ 40-43, <<e come li stornei ne portan l’ali / nel freddo tempo, a schiera larga e piena, / così quel fiato li spiriti mali / di qua, di la, di su li mena. >>: similitudine per definire il procedere largo, fitto e mutevole delle anime. 46-49, <<e come i gru van cantando lor lai, / faccendo in aere di sé lunga riga, / così vid’io venir, traendo guai, / ombre portate da la detta briga >>: similitudine che ipotizza l’esistenza di diverse schiere di anime, ognuna caratterizzata dallo stesso peccato e da un modo specifico di procedere 54, <<favelle>>: metonimia che sostituisce ‘popolazioni’ 82-87, <<quali colombe dal disio chiamate / con l’ali alzate e ferme al dolce nido / vengon per l’aere, dal voler portate; / cotali uscir de la schiera ov’è Dido, / a noi venendo per l’aere maligno, / si forte fu l’affettuoso grido>>: similitudine delle colombe che mette in risalto le anime di Paolo e Francesca che sono inseparabili, anche nell’oltretomba 100-106, <<Amor, ch’al cor… Amor, ch’a nullo…, Amor condusse…>>: anáfora 133. <<disiato riso>>: metonimia ANALISI Come dice lo stesso Dante, se Dio lo concede, vorrebbe poter parlare con quelle due anime. All'altezza del quinto canto, il viaggio è appena cominciato e non sappiamo ancora quali siano le regole esatte a cui il Poeta deve sottostare per attraversare i tre regni dell’Oltretomba. Può parlare con i dannati: un confronto diretto con le loro anime permetterà al Poeta di comprendere profondamente la natura dei peccati e delle pene e di procedere così verso il suo percorso di salvazione, un percorso individuale che diventa universale quando anche il lettore, attraverso questo eccezionale racconto, comprende a pieno gli insegnamenti. Dante prova sentimenti di vario tipo verso i dannati, si mette nei loro panni, li biasima o prova empatia. Per Paolo e Francesca sopraggiunge una profonda pietà, sentimento raro all’Inferno dove, generalmente, dovrebbe essere una sensazione di condanna quella che si prova verso i dannati. Certo Dante non perdona i loro peccati, perché sa bene che Paolo e Francesca hanno commesso un atto che va contro i principi della morale, ma allo stesso tempo sente compassione. Pensiamo anche che Francesca, l’unica che parla con Dante, è poco più che un’adolescente. La figura di questa ragazza, giovanissima e bella, appena sposata, che si rivolge al Poeta con parole dolcissime in un luogo così cupo e disgraziato, crea una forte tensione. C’è un contrasto drammatico fra la dolcezza di Francesca, il suo amore per Paolo, e le grida, le bestemmie dei dannati, il vento che ulula in sottofondo. Dante è commosso, capisce quanto amore e quanta sofferenza li ha uniti, quanto viscerale desiderio li tenga ancora stretti, in eterno, uno all’altra, ed è talmente scosso dai suoi sentimenti contrastanti e dalla visione del loro dolore, che sviene, ponendo fine al canto V. PERSONAGGI Il Canto V dell’Inferno è il canto di Paolo e Francesca. Qui, come in altri canti, Dante disegna due personaggi che attraverseranno i secoli della letteratura e che saranno bagaglio culturale di intere generazioni. Tutti conoscono i nomi di Paolo e Francesca, gli amanti dannati, ma la loro storia deve essere approfondita. I personaggi che incontriamo nell’Inferno, nel Purgatorio e nel Paradiso, sono estratti da Dante dalle Sacre Scritture, dalla letteratura, dalla mitologia e anche dalla storia: il Poeta non inventa nessun nuovo personaggio, ma gli attribuisce un valore e un significato nuovi e universali.   Paolo Malatesta e Francesca da Polenta Paolo Malatesta e Francesca da Polenta che l'autore inserisce nel V canto dell'Inferno sono personaggi che fanno parte della storia contemporanea di Dante, potremmo dire della cronaca nera del suo tempo. Si tratta di due cognati uccisi dal marito di lei (e quindi dal fratello di lui) solo pochi anni prima della discesa di Dante nell’Inferno. Sappiamo infatti, dalle parole di Francesca, che suo marito, Gianciotto Malatesta, è ancora vivo e che la zona dell’Inferno detta Caina - una delle quattro zone del 9° cerchio dantesco - sta aspettando che lui muoia per accoglierlo e fargli scontare la sua pena. Nella Caina i dannati sono sepolti nel ghiaccio, con la testa all'ingiu'. Gianciotto ha ucciso i suoi familiari, e nella Caina sono puniti i traditori dei parenti.     La vera storia di Paolo e Francesca La storiografia interpreta in diversi modi questo omicidio di cui Dante parla nel canto V dell'Inferno. Si pensa che Francesca, com’era normale a quei tempi, fosse stata promessa in sposa a uno dei fratelli Malatesta, e che lei avesse inteso di dover sposare il più bello e attraente Paolo quando invece si presentò, per chiedere la sua mano, Gianciotto. Francesca, dimessa, sottostà alla decisione paterna e sposa l’uomo che il padre ha scelto, ma la simpatia e l’attrazione fra lei e Paolo è sempre forte e i due finiranno per diventare amanti, tradendo Gianciotto che, scoperto il tradimento, li uccide entrambi. Tolto l’equivoco iniziale, non sappiamo se reale o meno, certo è che Francesca e suo cognato divennero amanti e che Gianciotto li uccise.     Fin qui la cronaca, ma Dante ci dice altro, va oltre, inserisce in questa storia – una storia forse anche banale in fin dei conti – un tipo di amore tratto dalla letteratura. Al tempo di Dante le riflessioni sulla natura e gli effetti dell’amore sono numerose e approfondite e Dante conosce bene le idee e i temi di queste riflessioni che non si limitano alla letteratura ma che coinvolgono anche dei trattati. L’amore si manifesta in modo immediato e inaspettato, a partire dal contatto visivo fra i due innamorati che, spinti dalla bellezza l’uno dell’altro, sono pervasi dalla passione amorosa. Inoltre, l’amore non è solo un sentimento, viene presentato attraverso una prosopopea ed è visto quindi come un vero e proprio personaggio che agisce con la sua volontà sui cuori di chi ha deciso di far innamorare. Come si legge nel testo del canto V dell'Inferno, infatti, Francesca non dice “l’amore” ma “Amore” (con la maiuscola).       Il parallelo con la storia di Lancillotto e Ginevra Sono questi i caratteri della passione che nasce fra due personaggi della letteratura francese che hanno una storia molto simile a quella di Paolo e Francesca: Lancillotto e Ginevra. Probabilmente anche la storia di questi due innamorati è nota a chiunque. Lancillotto è il primo cavaliere di re Artù, è legato a lui da un vincolo di fedeltà feudale (come Paolo è legato a Gianciotto da un vincolo di fedeltà parenterale) e si innamora di sua moglie, Ginevra (parallelo di Francesca). È proprio la lettura di questo romanzo che fa capire ai due cognati di non poter più nascondere il loro amore: un giorno, per passare il tempo, rimasti soli senza Gianciotto, Paolo e Francesca leggono la storia di Lancillotto e Ginevra, e arrivano al punto in cui i due amanti, grazie all’intervento di Galeotto che li fa incontrare in segreto, finalmente si ritrovano e si baciano. Paolo e Francesca si rendono conto di essere esattamente come Lancillotto e Ginevra e, come i personaggi stanno facendo nel libro, si baciano dando sfogo finalmente al loro profondo amore. Gianciotto li scopre in questo momento, infatti Francesca dice che quel giorno, dopo quel bacio, non poterono più continuare a leggere: erano stati assassinati. Sono stati uccisi insieme, perché volevano amarsi e stare insieme: neppure all’Inferno saranno mai divisi.  I due amanti rappresentano l'amore e la sfida, rappresentano i due poli opposti dell'amor cortese che vede, a un estremo, la tensione nobilitante e, dall'altro, la tensione distruttiva dell'amore.   109-111. Allora, come colpito dal rimorso, dissi: «Ora direte dunque a colui che è ricaduto [nel sepolcro] che suo figlio è ancora tra i vivi;  112-114. e se io, prima, esitai nella risposta, ditegli che lo feci perché già riflettevo sul dubbio che mi avete risolto». 115-117. E già il mio maestro mi richiamava; perciò io pregai lo spirito di dirmi più in fretta chi stava con lui [nel sepolcro].  118-120. Mi disse: «Giaccio qui con moltissimi [spiriti]: qua dentro ci sono Federico II e il Cardinale; e taccio degli altri.  121-123. Quindi si nascose [nella tomba]; ed io verso l’antico poeta [Virgilio] volsi i miei passi, ripensando a quelle parole che mi sembravano ostili.  124-126. Egli si avviò; e poi, camminando, mi disse: «Perché sei così turbato?». Ed io soddisfai la sua domanda.  127-129. «La tua memoria conservi quel che ha udito contro di te», mi raccomandò quel saggio. «E adesso sta’ attento a questo», e alzò il dito:  130-132. «quando sarai di fronte al dolce sguardo luminoso di colei i cui begli occhi vedono tutto, da lei conoscerai il corso della tua vita».  133-135. Poi diresse i suoi passi verso sinistra: ci allontanammo dalle mura [della città di Dite] e andammo verso l’interno [del Cerchio], per un sentiero che termina in una valle,  136. che esalava fin lassù il suo puzzo sgradevole. FIGURE RETORICHE 2, <<martìri>>: metonimia per le tombe 4, «O virtù somma»: metonimia per indicare Virgilio 22, «città del foco»: perifrasi per indicare la città di Dite 26, «nobil patria»: perifrasi per indicare Firenze 47, «a me e a miei primi e a mia parte»: climax ascendente 58-59, «cieco / carcere»: enjambement e allitterazione 67-69, «Come? / dicesti "elli ebbe"? non viv’elli ancora? / non fiere li occhi suoi lo dolce lume?»: climax ascendente 69, «dolce lume»: metafora per indicare la luce del sole 75, «né mosse collo, né piegò sua costa»: doppia sineddoche 77, «S’elli han quell’arte», disse, «male appresa»: iperbato 80, «la donna che qui regge», perifrasi per indicare Prosperina 131, «tutto vede»: anastrofe ANALISI  La colpa del X canto: l’Eresia Il decimo Canto dell’Inferno è ambientato nel Sesto Cerchio, all’interno della città di Dite: qui sono puniti gli eretici, coloro che hanno messo in dubbio i dogmi di una fede religiosa o ne hanno dato diverse interpretazioni.   Di particolare impatto è l’ambientazione del Canto: siamo di fronte ad una scenografia cimiteriale che presenta una distesa di tombe infuocate: al loro interno, come viene spiegato a Dante agens nel IX Canto dell’Inferno, sono rinchiusi «li eresïarche / con lor seguaci, d'ogne setta, e molto / più che non credi son le tombe carche. // Simile qui con simile è sepolto, e i monimenti son più e men caldi» (If IX, 127-131). Ne deduciamo, quindi, che i sepolcri sono ordinati in modo tale che all’interno di ognuno di essi vi siano l’iniziatore di una determinata eresia e i relativi seguaci.   In particolar modo, Dante si sofferma con attenzione su Epicuro e sugli epicurei, quegli eretici che – non credendo, sulla scia delle teorie del loro maestro, nell’immortalità dell’anima e nell’Aldilà – avevano posto le basi per una corrente filosofica che era quindi permeata nella società, nelle università e nella cultura dell’epoca.    Qual è, quindi, la pena a cui sono sottoposti gli eretici? Essi sono posti in questi sepolcri scoperchiati, immersi nelle fiamme; dopo il Giudizio Universale, queste tombe verranno chiuse in maniera definitiva. Si tratta di una pena dalla doppia valenza:   o Dal momento che, nel Medioevo, gli eretici venivano messi al rogo, così nell’Inferno essi sono immersi nelle fiamme (contrappasso per analogia). o Così come essi – e, in particolar modo, gli epicurei – hanno sostenuto la mortalità dell’anima, così sono posti in delle tombe (contrappasso per analogia).  La chiaroveggenza dei dannati Ci eravamo già imbattuti, nel Canto VI dell’Inferno con la profezia di Ciacco legata alla città di Firenze, della capacità dei dannati di prevedere il futuro. Com’è possibile – si chiede allora Dante ai versi 94-99 del Canto X – che Cavalcante non sappia che suo figlio Guido è ancora in vita? È Farinata a rispondere a questo quesito, ai versi 100-108: Dio consente alle anime di vedere soltanto il futuro lontano, e non il presente o le cose imminenti. Questo spiegherebbe perché la morte di Guido, avvenuta il 29 agosto 1300 e quindi solo pochi mesi dopo l’incontro tra Dante e Cavalcante nell’Inferno, sarebbe sfuggita alla preveggenza del padre. Farinata ci offre, inoltre, un’altra informazione: dopo il Giudizio Universale il tempo non esisterà più e quindi questa capacità verrà completamente cancellata. PERSONAGGI  Farinata degli Uberti Farinata degli Uberti è il capo dei ghibellini di Firenze, primo personaggio del Cerchio degli eretici a interloquire con Dante, Manente degli Uberti – detto il “Farinata” – è probabilmente il vero protagonista del Canto X dell’Inferno: il dialogo tra i due, diviso in due sezioni, occupa ben 78 versi. Nato a Firenze intorno al 1212, egli appartenne alla nobile e ricca famiglia ghibellina degli Uberti, di cui prese le redini nel 1239; nello stesso anno egli divenne anche il massimo esponente dei Ghibellini di Firenze.   Farinata ebbe un ruolo cardine nella vita politica della città: il 2 febbraio 1248 riuscì a sconfiggere i Guelfi e ad esiliarli grazie all’aiuto dell’imperatore Federico II di Svevia; dopo la morte di quest’ultimo, però, la fazione guelfa riuscì a riprendersi la propria rivincita a Figline Valdarno e rientrò così in città nel gennaio 1251, condannando all’esilio, a Siena, gli Uberti. Farinata decise così di prendere parte, il 4 settembre 1260, alla battaglia di Montaperti tra le truppe ghibelline senesi e i Guelfi di Firenze; dopo la vittoria, egli si oppose fermamente alla distruzione di Firenze e qui rientrò, per morirvi nel 1264.   Nel 1283 Farinata e sua moglie Adaleta subirono un processo postumo in cui l’inquisitore francescano Salomone da Lucca li accusò di eresia: le spoglie dei due coniugi furono dissepolte dalla Chiesa di Santa Reparata e disperse in terreno non consacrato, mentre agli eredi furono confiscati tutti i beni.   Cavalcante Cavalcanti Cavalcante è guelfo, avversario dei ghibellini Uberti. È la seconda anima con cui Dante dialoga nel Canto X dell’Inferno è quella di Cavalcante de' Cavalcanti, padre di Guido Cavalcanti, celebre poeta stilnovista nonché amico, in gioventù, di Dante. Nato a Firenze nella prima metà del secolo XIII, intorno al 1220, appartenne a una delle più antiche e nobili casate fiorentine di parte guelfa, avversaria di quella degli Uberti.   Poche le notizie sul suo conto: nel 1257 divenne potestà di Gubbio e nel 1260, in seguito alla sconfitta nella battaglia di Montaperti, venne esiliato a Lucca e le sue case in San Pier Scheraggio vennero incendiate. Rientrò a Firenze solo nel 1266, dopo la vittoria ottenuta dai Guelfi nella battaglia di Benevento; qui, probabilmente, morì in una data imprecisabile tra il 1267 e il 1280. Dante inserisce Cavalcante nel canto 6 perché accusato di aver aderito alla filosofia epicurea. Per quale motivo Dante lo inserisce nel VI Cerchio infernale, quello destinato ad Epicuro e a «tutti suoi seguaci, / che l’anima col corpo morta fanno» (vv. 14-15)? Dell’eresia di cui Dante lo accusa poco sappiamo, se non quello che ci dicono il poeta stesso e i primi commentatori della Commedia: egli sarebbe stato quindi noto, all’epoca, per aver aderito alla filosofia epicurea, sostenendo la mortalità dell’anima. Della stessa colpa si sarebbe poi macchiato anche il figlio Guido.  Entrano in gioco i temi del dolore e dell'amore paterno. L’intero episodio di Cavalcante si inserisce tra le due parti in cui è suddiviso il colloquio di Dante con Farinata: con grande maestria, il poeta riesce così ad addolcire i toni del Canto, ponendosi in netto contrasto con la prima sezione del testo e aprendo le porte alla tematica del dolore e dell’amore paterno, che torneranno anche nella ripresa del dialogo con Farinata.  Cavalcante è preoccupato per il figlio che rischia di condividerne le sorti raggiungendolo nel 6° cerchio. Se quest’ultimo ci era apparso imperturbabile di fronte alla propria condizione, quasi fiero, Cavalcante è invece connotato dai tipici tratti di un essere umano sofferente. Egli si mostra angosciato non tanto per la propria pena, quanto per le sorti del figlio: anche Guido, infatti, ha piegato la sua «altezza d’ingegno» alle teorie epicuree, precludendosi così il viaggio salvifico nell’oltretomba che sta intraprendendo Dante (vv. 61-63).   CANTO 13 Dopo aver attraversato il Flegetonte, Virgilio e Dante penetrano in un bosco fittissimo dall’aspetto misterioso e orribile. Da questa selva provengono lamenti senza vedere 112-114. come colui che sente arrivare, nel luogo del suo appostamento, il cinghiale e i cani da caccia al suo seguito, e che ode le bestie e lo stormire delle fronde.  115-117. Ed ecco, dalla sinistra, [apparire] due [anime], nude e graffiate, che fuggivano così velocemente che spezzavano ogni ramo della selva.  118-120. Quello davanti [gridava]: «Vieni, vieni ora oh morte!». E l’altro, a cui sembrava di essere troppo lento, gridava: «Lano, non furono così svelte  121-123. le tue gambe negli scontri presso il Toppo!». E poiché forse gli mancava il fiato, fece un solo groviglio di sé e di un cespuglio.  124-126. Dietro di loro, la selva era piena di cagne nere, affamate e che correvano come cani da caccia appena sciolti dalla catena.  127-129. Esse piantarono i denti in colui che si era nascosto, e lo dilaniarono pezzo per pezzo; poi si portarono via quelle membra doloranti.  130-132. La mia guida allora mi prese per mano, e mi condusse al cespuglio che piangeva inutilmente attraverso le ferite sanguinanti. 133-135. «O Iacopo», diceva, «da Santo Andrea, a cosa ti è giovato ripararti dietro me? Che colpa ho io della tua vita malvagia?».  136-138. Quando il maestro si fu fermato vicino ad esso [al cespuglio], disse: «Chi fosti tu, che attraverso tanti rami spezzati soffi, assieme al sangue, parole di dolore?». 139-141. Ed egli a noi: «O anime che siete giunte ad assistere allo strazio crudele che ha separato le mie fronde da me,  142-144. raccoglietele ai piedi del mio infelice cespuglio. Io fui della città che cambiò il primo patrono con san Giovanni Battista; per cui egli, per questo motivo,  145-147. la renderà sempre infelice con la sua arte, e, se non fosse che sopra il ponte che sovrasta l'Arno rimane di lui ancora qualche traccia,  148-150. quei cittadini che poi ricostruirono Firenze sopra le macerie lasciate da Attila avrebbero fatto un lavoro inutile.  151. Io feci della mia casa la mia forca». FIGURE RETORICHE 4-6, «Non fronda verde, ma di color fosco; / non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti; / non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco»: anafora, antitesi 4, «fronda»: sineddoche (singolare per il plurale) 25, «Cred’io ch’ei credette ch’io credesse»: poliptoto 37, «Uomini fummo, e or siam fatti sterpi»: chiasmo 48, «rima»: sineddoche per indicare l’Eneide 63, «sonni»: metonimia per indicare la tranquillità 63, «polsi»: metonimia per indicare la vita 64, «meretrice»: metafora per indicare l’invidia 64, <<la meretrice che ma da l’ospizio / di Cesare non torse li occhi putti>>: perifrasi per indicare l’invidia 67-68, «infiammò contra me li animi tutti; / e li ’nfiammati infiammar sì Augusto»: poliptoto 69, <<che ‘lieti onor tornaro in tristi lutti>>: antitesi 72, «ingiusto fece me contra me giusto»: anastrofe, antitesi, chiasmo 113, «caccia»: metonimia per indicare i cani da caccia 136, «fu sovr’esso fermo»: iperbato 143-150, <<i’fui de la città che nel Batista…. Avrebber fatto lavorare indarno>>: parafrasi per indicare Firenze ANALISI La colpa condannata all’interno del XIII Canto dell’Inferno è quella della violenza contro sé stessi. Due sono le tipologie in cui si dirama:   La violenza contro sé stessi nella persona: quella dei suicidi;  La violenza contro sé stessi nelle cose: quella degli scialacquatori. Dante si distacca dalla filosofia stoica che celebrava il suicidio come nobile gesto di libertà. Il tredicesimo Canto si concentra, in gran parte, sul primo dei peccati, quello relativo al suicidio: in questo modo Dante, distaccandosi decisamente dalla filosofia stoica che celebrava il suicidio come nobile gesto di libertà e di ribellione (vedi, ad esempio, la figura di Catone Uticense, presente anche nel Canto I del Purgatorio), può apertamente condannare coloro che si danno la morte. Secondo la morale cristiana, infatti, la vita è dono più prezioso offerto da Dio all’uomo e rifiutarla significa commettere la massima ingiuria verso di Lui.  Qual è, nello specifico, la condanna prevista per i suicidi all’interno della   Commedia?   Dal momento che hanno rinunciato al prezioso dono della vita umana, essi sono trasformati in piante, le cui frasche sono tormentate e dalle Arpie; nel giorno del Giudizio Universale, non potranno rivestire i loro corpi (contrappasso per antitesi). Anche scialacquare è una violenza contro sé stessi. La pena è la medesima che per i suicidi. Nell’ultima parte del XIII Canto dell’Inferno c’è però spazio per la seconda categoria di dannati puniti all’interno del secondo Girone del settimo Cerchio. Stiamo parlando degli scialacquatori, coloro cioè che attraverso, lo sperpero delle proprie ricchezze, si sono resi artefici della propria rovina compiendo – al pari dei suicidi – una violenza contro sé stessi. Per queste anime, Dante prevede una pena non troppo distante da quella immaginata per la prima categoria di dannati: gli scialacquatori, così come in vita hanno dilapidato i propri beni, sono inseguiti e smembrati da cagne fameliche (contrappasso per analogia). PERSONAGGI  Pier della Vigna Pier delle Vigne era stato un personaggio di rilievo, morto suicida. Nel Canto XIII dell’Inferno viene dato abbondante spazio all’anima di un suicida: si tratta di Pier della Vigna, noto anche come Pier delle Vigne. Nato a Capua intorno al 1190, egli entrò – nel 1220 – alla corte di Federico II di Svevia, assumendo inizialmente il ruolo di notaio della Cancelleria. Fu poeta della Scuola Siciliana e ebbe cariche di gran rilievo: giudice della curia regia, protonotaro, logoteta del regno, diplomatico presso la corte papale e i comuni del nord Italia. Fece inoltre parte della commissione che presiedette alla realizzazione delle Costituzioni di Melfi del 1231.   Nel 1249, però, egli fu accusato di tradimento per via dei suoi contatti con Papa Innocenzo IV. Su quanto ci sia di fondato dietro questa accusa, diverse sono le ipotesi, le più accreditate delle quali parlano di una congiura da parte degli invidiosi cortigiani. Ciò che sappiamo per certo è che Pier della Vigna venne incarcerato a Pisa e fatto accecare a Pontremoli, nella Piazzetta di San Gimignano. Poco dopo sarebbe morto, probabilmente suicida.  In quanto vittima dell’invidia altrui – qui, nello specifico, degli uomini di corte – e perciò ingiustamente condannato, Pier della Vigna assume, all’interno del XIII Canto dell’Inferno, un ruolo quasi di alter ego di Dante, exul immeritus.  Dante si identifica con l'anima di Pier Delle Vigne: il suo gesto è frutto della cattiveria dei potenti. Proprio per questa identificazione personale con l’anima dannata, l’autore della Commedia è portato – pur condannando apertamente e perentoriamente il suicidio, come vedremo nel paragrafo 4.1 – a giustificarne quasi il gesto estremo, che diviene in quest’ottica una sorta di protesta nei confronti della malvagità dei potenti.  CANTO 15 Dante e Virgilio camminano nel terzo girone del settimo cerchio, proteggendosi sugli argini dalla pioggia di fuoco che colpisce il deserto. S’imbattono in una schiera di anime, i sodomiti (violenti contro natura), una delle quali riconosce Dante e gli tira il lembo della veste: è Brunetto Latini. Questo incontro con il vecchio amico causa una rievocazione nostalgica e commovente del passato. Dante gli racconta del suo smarrimento e di come Virgilio lo stia aiutando ad attraversare l’inferno. Brunetto gli annuncia che i malvagi fiorentini lo perseguiteranno e questa profezia fornisce l’occasione per una violenta invettiva contro il popolo fiorentino. Dante promette di ricordarsi di questa profezia e di riferirla poi a Beatrice. Alla fine del colloquio Brunetto si pronuncia severamente contro il peccato di cui lui stesso è responsabile, poi saluta e se ne va raggiungendo i compagni di sventura. PARAFRASI 1-3. Ora uno degli argini di pietra (duri) ci porta lontano di lì; e il vapore che proviene dal ruscello genera una cortina (aduggia), così da riparare (salva) l’acqua e gli argini dalle fiamme. 4-6. Come i Fiamminghi tra le città di Wissant (Guizzante) e di Bruges (Bruggia), per il timore della marea (fiotto) che si scaglia contro di loro, erigono difese (fanno lo schermo) perché le acque del mare vengano ostacolate (si fuggia), 7-9. e come i Padovani lungo il corso del fiume Brenta, per difendere le loro case e i borghi, prima che (anzi che) si faccia sentire il caldo nella Carinzia (Carentana): 10-12. in tal modo (imagine) erano costruiti quegli argini, anche se (tutto che) l’artefice (lo maestro), chiunque sia stato, non li ha costruiti (felli) né così alti né così robusti. 13-15. C’eravamo già allontanati (rimossi) dalla selva dei suicidi tanto che io non l’avrei più vista, per quanto (perch’io) mi fossi rivolto indietro, 109-111. Se ne vanno con quella malvagia (grama) turba Prisciano e Francesco d’Accorso; e se tu avessi avuto desiderio (brama) 112-114. di conoscere (vedervi) un tal lurido individuo (tigna), avresti potuto (potei) vedere colui che dal papa (servo de’ servi) fu trasferito da Firenze (d’Arno) a Vicenza (Bacchiglione), dove abbandonò le membra (nervi) protese al male. 115-117. Aggiungerei altre cose: ma l’accompagnarti (venire) e il parlare (sermone) non possono più protrarsi oltre, poiché vedo là levarsi dal sabbione nuovo fumo. 118-120. Sta arrivando una schiera (Gente) di cui non devo (deggio) far parte. Ti raccomando il mio Tesoro, grazie al quale io continuo a vivere ancora, e altro non ti chiedo (cheggio)». 121-123. Poi si volse, e parve come quelli che corrono a Verona nella campagna per il palio (drappo) verde; e tra questi figurò come colui 124. che vince e non come colui che perde. FIGURE RETORICHE 4-12, <<quali fiamminghi tra Guizzante e Bruggia, / temendo ‘l fiotto che ‘nver’ lor s’avventa, / fanno lo schermo perché ‘l mar si fuggia; / e quali padoan lungo Brenta, / per difender lor ville e lor castelli, / anzi che Carentana il clado senta: / a tale imagine eran fatti quelli, / tutto che né si alti né si grossi, / qual che si fosse, lo maestro félli.>>: similitudine che sta a significare ‘come i fiamminghi fra i wissant e Bruges erigono dighe per tener lontana la marea, temendo che le onde si avventino contro di loro; e come fanno i Padovani lungo il Brenta per difendere le loro città e i castelli prima che la Carinzia senta il caldo (si sciolgano le nevi): così erano costruiti quegli argini, anche se il costruttore, chiunque fosse, non li aveva eretti così alti e grossi". 16, <<d’anime una schiera>>: anastrofe per ‘una schiera d’anime’ 17-19, <<ciascuna ci riguardava come suol da sera / guardare uno altro sotto nuova luna>>: similitudine per dire che ogni singola anima li guardava come se fossero in una sera di novilunio 22-23, <<famiglia / fui>>: enjambement 32-33, << teco / ritorna ‘n dietro>>: enjambement 37-38, <<greggia / s’arresta punto, giace>>: enjambement 44-45, <<chino / tenea com’uom>>: enjambement 54, << a ca>>: apocope per ‘a casa’ 64, <<ti si farà, per tuo ben far, nimico>>: iperbato che significa ‘diventerà tuo nemico per le tue buone azioni’ 81, <<umana natura>>: anastrofe che significa ‘natura umana’ o ‘vita umana’ 95, <<giri fortuna la sua rota>>: anastrofe per dire ‘la fortuna giri pure la sua ruota’ 101-102, <<chi sono / li suoi>>: enjambement 108, <<d’un peccato medesmo al mondo lerci>>: anastrofe per dire ‘lercia dello stesso peccato’ 112, <<servo de’ servi>>: perifrasi per Bonifacio 8° ANALISI  Lo spazio nel canto XV dell’Inferno Il canto si apre con un rapido alternarsi di parole sdrucciole e piane (margini – aduggia – argini), con un ritmo altalenante di endecasillabi accentati sulla quarta e sull’ottava sillaba, con quelli accentati sulla seconda e sulla sesta. Questo espediente crea una forte tensione che si adatta al rilievo ambientale degli argini di pietra, base di appoggio su cui si muovono i due poeti. Nei due termini sdruccioli («màrgini» e «àrgini»), evidenziati dalla rima, si scorge l’indefinitezza dell'estensione di quegli argini.  Lo sfondo è dominato però dalla presenza del fuoco e del vapore come se fossimo in un’immensa sauna: la natura e i modi di questa colpa sono addirittura espressi nel primo verso (v. 4) della prima similitudine: «Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia», che nascondono al loro interno le parole fiamma, guizzante (come il fuoco), brucia. Dante unisce il dato geografico adatto, perché i Fiamminghi avevano costruito dighe con il dato sonoro. A questa prima similitudine nordica e probabilmente libresca, se ne aggiunge una seconda più nostrana, le difese apprestate sulle rive del Brenta dai padovani per contenere l’aumento delle acque allo sciogliersi dei ghiacciai primaverili. Si va dunque da una prospettiva che si allarga sugli spazi più aperti del minaccioso mare del Nord, a una più domestica e italiana, di cui Dante ebbe probabilmente esperienza diretta.   L'atmosfera notturna e le difficoltà di percezione visiva Elemento che ricorre è lo sguardo con termini tratti dal campo semantico della vista; sforzo visivo presente potenzialmente anche in Dante, se avesse cercato, voltandosi indietro, di rivedere da lontano la selva dei suicidi (vv. 13-15). Applicazione reale nella schiera dei sodomiti, ciascuno dei quali «ci riguardava come suol da sera guardare uno altro sotto nuova luna», (18-20). Poi la difficoltà di scarsa percezione è precisata in un'altra similitudine d'ambiente urbano: «e sì ver' noi aguzzavan le ciglia / come 'l vecchio sartor fa ne la cruna» (vv. 20-21). Sembra davvero di essere in una città medievale, magari in una botteguccia dove si poteva osservare un vecchio sarto presbite, che cerca più e più volte d'infilare il filo nella cruna dell'ago. Qualcuno ha addirittura colto, in questa sottolineatura dell'attenzione visiva da parte dei sodomiti, una punta amara di voyeurismo che sarebbe proprio di questi dannati.   L'incontro fra Brunetto Latini e Dante Un'esclamazione genuina stupore: «Qual maraviglia!» da parte di Brunetto, che, contemporaneamente, ha addirittura afferrato il lembo della veste di Dante – gesto fin troppo confidenziale sottolineato anche dall'enjambement dei versi 23-24, ma in questo canto ricorrono gesti fisici accompagnati alle parole. La risposta di Dante è altrettanto improntata alla meraviglia: «Siete voi qui, ser Brunetto?», ma si nota la punta amara. Il contrasto è soprattutto fra quel «voi» reverenziale e il «qui», che esprime la turpitudine del luogo, che riflette la grandezza intellettuale e civile di Brunetto e la debolezza di uomo macchiatosi di un vizio infamante.  La tensione che attraversa l’episodio – tensione, che attraversa tutto il canto basata sul contrasto tra la condanna e l’amore per il maestro – è già presente in quella visiva di cui abbiamo parlato prima, e coinvolge anche Dante stesso: «E io, quando 'l suo braccio a me distese, / ficcaï li occhi per lo cotto aspetto, / sì che 'l viso abbrusciato non difese / la conoscenza süa al mio 'ntelletto» (vv. 25-28).  Per la durata di tutto l'episodio si crea «una prospettiva obliqua» (Segre), in quanto Brunetto, lasciata la schiera, cammina a fianco di Dante ma più in basso rispetto a lui, che procede col capo chino, per cui gli sguardi sono di traverso. Non ci sono alternative possibili, dacché fermarsi non è consentito per decreto divino. Il «capo chino» di Dante, reverenza verso il maestro è anche implicitamente un guardare dall'alto in basso, con tanto di condanna morale.    La profezia di Brunetto Latini Brunetto preannuncia a Dante l’esilio, causato dall’ingratitudine e dalla malvagità dei fiorentini assumendo un ruolo significativo e quanto mai autorevole nell'economia dell'intero poema. La profezia post quem (cioè era già avverata nella realtà per il Dante-autore) è una scusa per celebrare la statura morale di Dante, il «dolce fico» che non può fruttare tra «li lazzi sorbi». Il «ben far», il bene operare, l'onestà dell'agire politico, di Dante, lo renderà nemico ai fiorentini, avidi, invidiosi e superbi come sono. Eppure, come ha suggerito Alessandro Barbero non è impossibile che Dante nel marasma politico in cui venne a trovarsi possa aver commesso dei passi falsi a fin di bene. Il discorso di Brunetto è incentrato sul campo semantico del cibo, giacché la fame – quella di potere – è uno dei connotati della politica legato agli istinti, proprio dei fiorentini (e infatti avevamo trovato il primo fiorentino, Ciacco, proprio tra i golosi). Già si sono ricordate le metafore del «dolce fico» e de «li lazzi sorbi», in evidente antinomia tra loro esprimendo la prima dolcezza, la seconda acidità, asprezza); seguono le immagini forti l’altra dei vv. 71-72: «ľuna avranno fame / di te; ma lungi fia dal becco l'erba», e ancora più nauseanti olfattivamente, dello «strame» e del «letame». Dalle parole di Brunetto emerge la concezione dantesca della società, tendenzialmente conservatrice. I Fiorentini si dividono in due categorie: la parte malvagia è quella che ha origine dai rustici e selvatici fiesolani, montanari; quella buona e nobile trae origine dai Romani che rimasero a Firenze al momento della sua fondazione. In base a quanto detto e per via delle numerose suggestioni contenute nel canto – la condanna pubblica che Dante opera su Brunetto per motivi presumibilmente privati, la ritorsione di Brunetto contro Firenze – restano scoperti molti punti di questo canto che fugge via proprio come Brunetto nella chiusa icastica, un podista al palio del drappo verde a Verona. Fugge per riprendere il suo cammino di dannato che non porta a nulla, mentre Dante prosegue altro cammino e giungerà “a piaggia per altri porti”. E anche noi proseguiamo con lui.   PERSONAGGI  Il maestro di Dante: Brunetto Latini Brunetto nacque nel terzo decennio del XIII secolo, dal notaio Bonaccorso Latini, originario della Lastra nei pressi di Firenze. Dopo aver appreso grammatica e retorica dal padre, fu avviato alla carriera notarile. Si occupò di politica attiva come guelfo, fu anche ambasciatore e magistrato, retore, filosofo, divulgatore della cultura retorica. Fu quindi una delle figure più rappresentative nella Firenze del XIII secolo.   22-24. affinché non avanzi senza la guida della virtù; così che, se la buona stella o una forza superiore mi hanno concesso la salvezza, non me ne privi io stesso.  25-27. Quante lucciole scorge giù nella valle il contadino che riposa su un colle nella stagione in cui il Sole che illumina il mondo tiene a noi meno nascosto il suo volto,  28-30. quando la mosca lascia il posto alla zanzara, laggiù, forse, dove ha la sua vigna e il suo campo:  31-33. di altrettante fiamme risplendeva tutta l'ottava bolgia, così come io notai appena arrivai là dove il suo fondo era visibile.  34-36. E come colui che si vendicò per mezzo degli orsi vide allontanarsi il carro di Elia, quando i cavalli si alzarono dritti in cielo,  37-39. in modo che non poteva seguirlo con gli occhi, poiché non vedeva altro che la fiamma che, come una nuvoletta, saliva in alto:  40-42. così ogni [fiamma] si muove nella cavità della bolgia, perché nessuna mostra [l'anima che] nasconde, e ogni fuoco rapisce un peccatore.  43-45. Io mi trovavo in piedi sopra il ponte per vedere, in modo tale che se non avessi afferrato una sporgenza [della roccia], sarei caduto giù senza essere urtato.  46-48. E la mia guida, che mi vide così intento [a guardare], disse: «Dentro le fiamme ci sono gli spiriti; ciascuno è avvolto del [fuoco] da cui è bruciato».  49-51. «Maestro mio», risposi io, «ascoltandoti ne sono più certo; ma già mi era parso che così fosse, e già volevo chiederti: 52-54. chi c'è in quella fiamma che viene [verso di noi] così divisa in cima che sembra emergere dalla catasta funebre in cui Eteocle fu posto insieme al fratello?». 55-57. Mi rispose: «Lì dentro sono tormentati Ulisse e Diomede, e così vanno insieme al castigo come [insieme] andarono contro l’ira [di Dio]; 58-60. e nella loro fiamma viene castigato l'inganno del cavallo che aprì la porta da cui uscì il nobile progenitore dei Romani.  61-63. Là dentro si sconta piangendo l'inganno per cui, benché morta, Deidamia soffre per [l'abbandono di] Achille, e si patisce per [il furto de] la statua del Palladio».  64-66. «Se essi possono parlare da dentro le fiamme», dissi io, «Virgilio, ti prego molto e insisto nel pregarti, e la mia preghiera ne valga mille,  67-69. che tu non mi impedisca di poter attendere finché la fiamma dalla doppia punta venga qui;  70-72. Ed egli a me: «La tua preghiera è degna di molta lode, e perciò la accolgo; ma fai in modo che la tua lingua si trattenga dal parlare. 73-75. Lascia parlare me, ché ho compreso ciò che vuoi [sapere]; perché forse essi sarebbero restii, dal momento che furono greci, [nel sentire] la tua parlata». 76-78. Dopo che la fiamma fu giunta là dove alla mia guida sembrò che fossore il momento e il luogo opportuni, in questo modo lo si sentì parlare: 79-81. «O voi che siete due [anime] arse da un unico fuoco, se in vita acquistai merito verso di voi mentre vissi, se io acquistai merito verso di voi, tanto o poco, 82-84. quando nel mondo scrissi i celebri versi, non muovetevi; ma uno di voi racconti dove egli si perdette e andò a morire». 85-87. La punta più grande del fuoco anticocominciò a scuotersi mormorando, come una [fiamma] tormentata dal vento; 88-90. poi, agitando qua e là la punta, come se fosse una vera lingua che parla, buttò fuori la voce e disse: «Quando 91-93. mi allontanai da Circe, che mi trattenne per più di un anno là vicino a Gaeta, prima che Enea la chiamasse così, 94-96. né la tenerezza di un figlio, né la pietà per un vecchio padre, né l'amore legittimo che doveva allietare Penelope, 97-99. riuscirono a vincere in me il desiderio che io avevo di fare esperienza del mondo, dei vizi e delle virtù umane; 100-102. ma mi inoltrai nel profondo mare aperto con una sola nave e con quella esigua compagnia dalla quale non fui mai abbandonato. 103-105. Vidi l’una e l’altra costa fino alla Spagna, fino al Marocco, e [vidi] l'isola dei Sardi, e le altre 106-108. Io e i [miei] compagni eravamo anziani e lenti quando giungemmo a quello stretto passaggio in cui Ercole segnò i suoi confini, 109-111. affinché l'essere umano non proceda oltre; a destra superai Siviglia, dall’altra parte avevo già sorpassato Céuta. 112-114. “O fratelli”, dissi, “che attraverso innumerevoli pericoli siete giunti a [i confini dell’] occidente, a questa così breve veglia 115-117. della nostra vita sensibile che ancora ci rimane, non vogliate negare la conoscenza, seguendo il sole, del mondo inesplorato. 118-120. Prendete coscienza della vostra origine: non foste creati per vivere come animali, ma per perseguire la virtù e la conoscenza”. 121-123. Con questo breve discorso resi i miei compagni così desiderosi di [continuare] il cammino, che a stento poi li avrei potuti trattenere; 124-126. e, volta la nostra poppa a oriente, i remi trasformammo nelle ali per il folle volo, avanzando sempre verso sinistra. 127-129. La notte mostrava già tutte le stelle dell'altro emisfero, e il nostro era talmente basso [sull’orizzonte] che non emergeva più dal mare. 130-132. Cinque volte si era accesa e altrettante si era oscurata la luce dell'emisfero inferiore della luna, dopo che avevamo intrapreso il pericoloso viaggio, 133-135. quando apparve una montagna, oscura per la lontananza, e mi sembrò tanto alta quanto non ne avevo mai vista alcuna. 136-138. Noi ci rallegrammo, ma presto [l'allegria] si convertì in pianto; poiché da quella nuova terra si alzò un turbine e colpì la parte anteriore della nave. 139-141. Tre volte la fece ruotare insieme all’acqua; alla quarta fece alzare la poppa verso il cielo e inabissare la prua, come volle Dio,  142. finché il mare si richiuse sopra di noi». FIGURE RETORICHE 25-32, «Quante ’l villan ch’al poggio si riposa, / nel tempo che colui che ’l mondo schiara / la faccia sua a noi tien meno ascosa, // come la mosca cede alla zanzara, / vede lucciole giù per la vallea, / forse colà dov’e’ vendemmia e ara: // di tante fiamme tutta risplendea / l’ottava bolgia»: similitudine 28, «mosca»: sineddoche (singolare per il plurale) 28, «zanzara»: sineddoche (singolare per il plurale) 34-41, «E qual colui che si vengiò con li orsi / vide ’l carro d’Elia al dipartire, / quando i cavalli al cielo erti levorsi, // che nol potea sì con li occhi seguire, / ch’el vedesse altro che la fiamma sola, / sì come nuvoletta, in sù salire: // tal si move ciascuna per la gola / del fosso»: similitudine 34, «colui che si vengiò con li orsi»: perifrasi per indicare Eliseo 80-81, «s’io meritai di voi mentre ch’io vissi, / s’io meritai di voi assai o poco»: anafora 101, «legno»: sineddoche per indicare la nave 106, «vecchi e tardi»: endiadi 114-115, «a questa tanto picciola vigilia / d’i nostri sensi ch’è del rimanente»: perifrasi per indicare la poca vita rimasta 125, «de’ remi facemmo ali al folle volo»: metafora per esprimere la temerarietà del viaggio di Ulisse 138, «legno»: sineddoche per indicare la nave ANALISI  La colpa: i consigli fraudolenti Il peccato di cui si è macchiato Ulisse non lo rende simile alle bestie, a differenza degli altri peccati. Nel XXVI Canto dell’Inferno sono punite le anime dei consiglieri fraudolenti, coloro cioè che hanno posto il loro ingegno non a servizio del bene e della virtù cristiana, bensì dell’inganno. Siamo di fronte a una tipologia di peccatori verso cui Dante mostra una certa riverenza – in particolar modo, come abbiamo visto, nei confronti della figura di Ulisse. È un peccato di intelligenza che, proprio in virtù di questa sua peculiarità, non fa perdere all’essere umano le proprie prerogative e non lo induce così a divenire simile ad una bestia. Rispetto agli altri canti dell'Inferno non c'è l'atroce sofferenza. A prevalere è una certa compostezza. Ovviamente questo non attenua la colpa dei consiglieri fraudolenti – ci troviamo comunque nell’ottava Bolgia, uno dei punti più bassi dell’universo infernale – ma dona al Canto XXVI dell’Inferno un’atmosfera sensibilmente diversa rispetto a quella a cui siamo stati abituati in precedenza. Regna una certa compostezza e, di conseguenza, mancano del tutto gli elementi di disprezzo, di ripugnanza, e anche di atroce sofferenza che caratterizzano l’intero Inferno. Neanche la pena, in questo canto, è così terribile. In quest’ottica neanche la pena ci appare così atroce, né degna di una minuziosa descrizione da parte dell’autore: i consiglieri fraudolenti sono avvolti in lingue di fuoco, sottostando per analogia alla legge del contrappasso. Infatti, come essi in vita attraverso la lingua (cioè la parola) hanno espresso i loro ingannevoli consigli, così nell’Aldilà hanno assunto l’aspetto di lingue di fuoco.  La morte di Ulisse Se la figura di Ulisse arriva nella nostra cultura prevalentemente dall’Odissea, è altrettanto vero che il poema omerico si chiude con il ritorno di Ulisse ad Itaca, tra le braccia della paziente Penelope. Una conclusione confortante, che non lascia spazio – almeno all’interno dell’opera di Omero – ad ulteriori avventurosi 43-45. La città (terra) che già sostenne (fé) il lungo assedio (prova) e compì il cruento massacro (mucchio) dei Francesi (Forlì), si trova sotto gli artigli del verde leone (lo stemma degli Ordelaffi). 46-48. E i mastini dei Verrucchio, padre e figlio (Malatesta e Malatestino), che compirono il terribile omicidio di Montagna (il ghibellino Montagna dei Parcitadi), nella terra dove sono soliti fanno strazio (succhio) con i denti. 49-51. Le città bagnate dal Lamone e dal Santerno (Faenza e Imola) le governa (conduce) il leoncello dal bianco nido (lo stemma di Maghinardo Pagani), che cambia partito dall’estate all’inverno. 52-54. E quella città (Cesena), cui il fiume Savio lambisce i margini (fianco), così come ella giace tra il piano e la collina, vive tra tirannia e libertà. 55-57. Ora ti prego di dirci chi sei tu; non essere restio più di quanto io (altri) sono stato, e possa il tuo nome lassù nel mondo resistere (tegna fronte) (al tempo)». 58-60. Dopo che il fuoco ebbe ruggito un poco a modo suo, mosse la punta aguzza di qua di là, e poi uscì con tali parole (fiato): 61-63. «Se io sapessi di rispondere a una persona che potesse ancora (mai) far ritorno su nel mondo, questa fiamma rimarrebbe senza più movimento (scosse); 64-66. ma poiché mai da questo abisso (fondo) nessuno tornò vivo, se io odo il vero, ti rispondo senza paura di disonore (infamia). 67-69. Io fui uomo d’armi, e poi francescano (cordigliero), pensando di far penitenza, così cinto; e certo quanto credevo si sarebbe avverato interamente, 70-72. se non fosse stato il più grande dei sacerdoti (il papa Bonifacio VIII), al quale mal prenda! che nuovamente mi spinse nelle colpe di un tempo; e voglio che ascolti come e perché. 73-75. Fin tanto che la mia anima fu la forma del corpo (d’ossa e di polpe) che mi diede la madre, le mie azioni non furono di leone, ma di volpe. 76-78. Io conobbi tutte le astuzie e i mezzi subdoli (coperte vie), e sfruttai (menai) talmente la loro tecnica (arte), che la fama raggiunse (uscie) gli estremi confini della terra. 79-81. Quando raggiunsi quel momento della vita (etade) in cui ognuno dovrebbe ammainare le vele e raccogliere le funi (sarte), 82-84. quanto prima mi affascinava, allora mi ripugnava, e, dopo essermi pentito e confessato, mi feci frate (mi rendei); ahi misero disgraziato! eppure la scelta avrebbe potuto salvarmi. 85-87. Il principe dei nuovi Farisei, conducendo la guerra (avendo guerra) dentro il Laterano (la sede del papa), e non contro i Saraceni o contro i Giudei, 88-90. poiché ogni suo nemico era cristiano, e nessuno era stato a combattere a San Giovanni d’Acri, né era stato mercante nella terra del Soldano, 91-93. non ebbe riguardo verso di sé per l’altissimo incarico e per gli ordini sacerdotali, e verso di me per quel cordone francescano che era solito rendere più mortificati quelli che lo cingevano. 94-96. Ma come Costantino mandò a chiamare (chiese) papa Silvestro dalla grotta del monte Soratte per guarire dalla lebbra, così costui chiamò me come medico (maestro) 97-99. per guarire dalla sua folle febbre (di potere); mi chiese consiglio, ma io tacqui poiché le sue mi parvero parole di chi delira (ebbre). 100-102. Poi mi disse di nuovo: ‘Il tuo cuore non abbia timori; io ti assolvo fin d’ora, e tu mostrami come io possa abbattere (la fortezza di) Palestrina. 103-105. Tu ben sai che io ho facoltà di aprire e chiudere (serrare e diserrare) il cielo; perciò due sono le chiavi che il mio predecessore non amò’. 106-108. Gli autorevoli (gravi) argomenti mi spinsero al punto di considerare (mi fu avviso) il tacere come il partito peggiore (peggio), e dissi: ‘Padre, dal momento che tu mi assolvi 109-111. da quel peccato in cui io ora (mo) sono obbligato (deggio) a cadere, ti farà trionfare sull’alto seggio il promettere molto e il mantenere poco (corto)’. 112-114. Quando io morii, giunse Francesco per la mia anima (per me); ma uno dei neri Cherubini gli disse: ‘Non portarmelo via, non mi far torto. 115-117. Deve venire giù tra i miei sudditi perché ha dato un consiglio fraudolento e da allora in poi (dal quale in qua) gli sono stato accanto, pronto ad afferrarlo per i capelli (a’ crini); 118-120. poiché non si può assolvere chi non si pente, e neppure si può insieme pentirsi e desiderare la colpa, per la contraddizione che non lo consente’. 121-123. Oh me infelice! come mi riscossi quando mi prese dicendomi: ‘Tu forse non credevi che io fossi un maestro di logica (löico)!’. 124-126. Mi portò di fronte a Minosse; e questi avvolse la coda per otto volte al suo busto rigido (dosso duro); e dopo che se la morse per la gran rabbia, 127-129. disse: ‘Costui è dei dannati del fuoco che nasconde (furo)’; perciò io sono perduto dove vedi, e così avvolto dalla fiamma (vestito), andando, mi tormento (rancuro)». 130-132. Quando ebbe terminato il suo discorso, la fiamma tra i lamenti (dolorando) se ne partì, piegando e scuotendo la punta alta. 133-135. Noi andammo oltre, io e la mia guida, su per il ponte (scoglio) fin su quello seguente che sovrasta la bolgia (fosso) in cui si fa pagare il fio 136. a quelli che si aggravano di colpe con il seminar discordie (scommettendo) FIGURE RETORICHE 1, <<dritta e queta>>: endiadi 3, <<dolce poeta>>: perifrasi per dire Virgilio 4, <<che dietro a lei venia>>: anastrofe che significa ‘che veniva dietro di essa’ 6, <<confuso suon>>: anastrofe per ‘suono confuso’ 7-15, << Come ’l bue cicilian che mugghiò prima / col pianto di colui, e ciò fu dritto, / che l’avea temperato con sua lima, / mugghiava con la voce de l’afflitto, / sì che, con tutto che fosse di rame, / pur el pareva dal dolor trafitto; / così, per non aver via né forame / dal principio nel foco, in suo linguaggio / si convertian le parole grame>>: similitudine che vuol significare’ Come il bue siciliano che la prima volta muggì proprio con i lamenti di colui che l’aveva forgiato con la sua opera, e questa fu cosa giusta, muggiva per mezzo della voce di colui che era dentro torturato, così che, nonostante fosse di rame, sembrava tuttavia tormentato dal dolore; così le dolenti (parole all’inizio, poiché non avevano né un tragitto né un’uscita attraverso la fiamma, si trasformavano nel suo linguaggio’ 35, <<sanza indugio a parlare incominciai>>: anastrofe per dire ‘incominciai a parlare senza indugio’ 59, <<l’aguta punta>>: anastrofe per dire ‘la punta aguzza’ 63, <<staria sanza più scosse>>: litote, invece di dire ‘resterebbe quieta’ 70, <<il gran prete>>: perifrasi per dire Bonifacio 8° 75, <<non furon leonine, ma di volpe>>: metonimia, concreto per l’astratto, cioè leonine invece di violenza e volpe invece di astuzia 97, <<superba febbre>>: perifrasi per malattia del potere 98, <<domandommi consiglio, e io tacetti>>: antitesi, il consiglio è qualcosa che si dà a voce, il tacere è qualcosa che non si dà a voce 109, <<cader deggio>>: anastrofe per ‘devo cadere’ 132, <<torcendo e dibattendo>>: endiadi, cioè ‘piegando e scuotendo’ ANALISI  La struttura Il canto ha una funzione analoga al precedente: ambientato nella stessa bolgia e si ha modo di parlare con un altro dannato, Guido da Montefeltro, con il quale si viene a creare un confronto indiretto con Ulisse per quanto riguarda il tema dell'intelligenza e l'astuzia non supportate dalla fede. La struttura del canto è suddivisibile in tre parti: 1. l'incontro con Guido (vv. 1-33); 2. il tema geo-politico di Dante sulle terre di Romagna (vv. 36-54); 3. il racconto di Guido sulla sua condizione di dannato (vv. 61-129).  Il gioco dell'equivoco Nel canto 19 dell'Inferno Niccolò III, non potendo vedere chi avesse davanti e scambiando Dante per Bonifacio VIII gli racconta le sue colpe. Accade un equivoco simile anche per Guido che scambia Dante per un dannato della bolgia (a dimostrazione che l'astuzia che lo contraddistingueva in vita, non ha più efficacia nell'inferno, anzi viene a sua volta ingannato) e va a raccontare tutte le sue colpe commesse in vita e che mai avrebbe voluto che sulla terra ne venissero a conoscenza (ancora una volta uno spirito che cerca di mantenere una buon ricordo di sé in terra).  Situazione politica della Romagna Quando Dante risponde alla domanda di Guido da Montefeltro sulle attuali condizioni della sua terra, la Romagna (se sia in pace o in guerra), nomina i luoghi di quella terra 82-84. si muovano Capraia e Gorgona, e creino uno sbarramento sulla foce dell’Arno, così che esso anneghi ogni tuo abitante! 85-87. Perché se il conte Ugolino aveva fama d’averti tradita riguardo ai [tuoi] castelli, non avresti dovuto sottoporre i [suoi] figli a una tale croce. 88-90. La giovane età rendeva innocenti, o nuova Tebe, Uguccione e il Brigata e gli altri due, che il canto in precedenza nomina. 91-93. Noi passammo oltre, là dove il ghiaccio imprigiona crudelmente altre anime, poste non a testa in giù, ma del tutto supine. 94-96. Il pianto stesso qui non permette di piangere, e le lacrime che trovano un ostacolo sugli occhi, si rivolgono all’interno ad aumentare il dolore; 97-99. poiché le prime lacrime formano un nodo e, così come visiere di cristallo, riempiono tutta la cavità oculare sotto le palpebre. 100-102. E sebbene, così come in un callo, a causa del freddo ogni sentimento aveva cessato di stare sul mio viso, 103-105. tuttavia, mi sembrò di udire un po’ di vento; per cui io [dissi]: «Maestro mio, chi produce questo [vento]? Non è quaggiù assente ogni vapore?». 106-108. Ed egli a me: «Presto sarai nel posto in cui i tuoi occhi ti daranno la risposta, vedendo il motivo per cui il vento scende dall’alto». 109-111. Ed uno dei dannati [imprigionato] nella lastra ghiacciata gridò a noi: «O anime crudeli, dato che voi siete destinati all’ultima zona, 112-114. levatemi dal viso le incrostazioni ghiacciate, così che io possa sfogare un po’ il dolore che mi riempie il cuore, prima che il pianto si congeli». 115-117. Ed io a lui: «Se vuoi che io ti aiuti, dimmi chi sei, e se io non ti libererò, possa io andare al fondo della palude ghiacciata». 118-120. Quindi rispose: «Io sono frate Alberigo; io sono quello dei frutti dell’orto del peccato, e qui ricevo datteri in cambio di fichi». 121-123. «Oh», dissi io a lui, «sei tu già morto?». Ed egli a me: «Di come il mio corpo stia nel mondo terreno, non ne ho conoscenza. 124-126. Questo vantaggio ha la Tolomea, in cui molte volte l’anima sprofonda prima che Atropo le dia la spinta mortale. 127-129. E poiché tu mi tolga più volentieri mi tolga le lagrime ghiacciate dal viso, sappi che, non appena l’anima tradisce 130-132. così come feci io, il suo corpo viene preso da un demonio, che in seguito lo governa finché sia interamente trascorso il suo tempo terreno. 133-135. L’anima precipita in questo pozzo; e forse è ancora ancora visibile sulla Terra il corpo dell’anima che qui dentro si ghiaccia. 136-138. Tu lo devi sapere, se solo ora vieni quaggiù: quello è Sir Branca Doria, e sono passati diversi anni da quando egli fu qui rinchiuso». 139-141. «Io credo», dissi io a lui «che tu mi stia ingannando; poiché Branca Doria non è ancora morto, e mangia, beve, dorme e indossa abiti». 142-144. «Nella bolgia sopra», disse egli, «dei [diavoli] Malebranche, là dove ribolle la pece vischiosa, non era ancora arrivato Michel Zanche, 145-147. quando questi lasciò nel suo corpo un demonio al posto suo, come anche un suo parente che con lui commise il tradimento. 148-150. Ma ora distendi qua la tua mano; apri i miei occhi». Ed io non glieli aprii, e fu una cortesia essere scortese con lui. 151-153. Ahi genovesi, uomini lontani da ogni buon costume e ricchi di ogni vizio, perché non siete cacciati dal mondo? 154-156. Poiché con lo spirito peggiore della Romagna, trovai un vostro concittadino la cui anima, a causa del suo operato, già è immersa nel Cocito, 157. mentre il suo corpo pare ancora vivo sulla Terra. FIGURE RETORICHE 31, «cagne magre, studiose e conte»: metafora per indicare il popolo pisano 54, «infin che l’altro sol nel mondo uscìo»: perifrasi per indicare l’alba 75, «Poscia, più che ’l dolor, poté ’l digiuno»: allitterazione 80, «del bel paese là dove ’l sì suona»: perifrasi per indicare l’Italia 95, «duol»: metonimia per indicare il pianto  ANALISI  La colpa: i traditori della patria o del partito e i traditori degli ospiti e degli amici Siamo in uno dei punti più bassi dell'Inferno: qui si trovano i traditori degli amici. All’interno del Canto XXXIII dell’Inferno sono due le colpe condannate, entrambe legate al tradimento: Dante e Virgilio attraversano dapprima l’Antenòra, dove sono puniti i traditori della patria o del partito, e poi la Tolomea, dove sono puniti i traditori degli ospiti o degli amici. Dal punto di vista della geografia dei peccati, siamo di fronte a uno dei punti più bassi dell’Inferno, dove sono quindi destinate le anime che si sono macchiate, secondo Dante, delle più gravi colpe: più in basso vi è solo la Giudecca, dove sono condannati i traditori dei benefattori e dove si trova Lucifero.      Il tradimento per Dante è una delle peggiori colpe. Le anime dei traditori sono sottoposte ad una simile pena: esse sono tutte immerse nel Cocito, il lago ghiacciato che ricopre il nono Cerchio dell’Inferno. La condanna richiama la colpa: il tradimento si configura infatti come manifestazione più grande della perdita di umanità, raggelamento dell’agire umano che ha completamente perso il necessario calore della carità. Siamo quindi di fronte ad un contrappasso per analogia.   Diversa è la posizione delle anime: mentre i dannati dell’Antenòra sono immersi fino al collo con la testa dritta, quelli della Tolomea sono in posizione supina, con il volto rivolto all’insù. Questo ne aumenta pena: le loro lacrime, infatti, si solidificano immediatamente nelle orbite, impedendo alle altre di fuoriuscire e amplificando il dolore. Importante è sottolineare quanto grave sia, per Dante, il tradimento degli ospiti e degli amici: nelle vicende di Frate Alberigo e di Branca Doria, condannando i due personaggi alla Tolomea nonostante essi siano ancora in vita, l’autore ipotizza una deroga teologica alla misericordia di Dio e alla possibilità di un’anima di redimersi fino all’ultimo istante della sua vita.     «Poscia, più che 'l dolor, poté 'l digiuno» Il verso 75 del Canto XXXIII dell’Inferno, «Poscia, più che 'l dolor, poté 'l digiuno», ha da sempre stimolato un forte dibattito critico a causa della sua voluta ambiguità, dando vita a diverse interpretazioni. Parafrasando il verso, il cui significato è “dopodiché, la fame prevalse sul dolore”, due possono essere le possibili spiegazioni:   o che il conte Ugolino morì non a causa del dolore provocatogli dalla condizione in cui si trovavano lui e, soprattutto, i suoi figli e nipoti, bensì per via della fame; o che la fame ebbe il sopravvento sul dolore per la morte dei suoi familiari e, di conseguenza, se ne cibò. Ugolino probabilmente non si cibò dei suoi familiari. In linea di massima, la tradizione ha optato per la prima ipotesi interpretativa, poiché – qualora si fosse cibato delle carni dei suoi figli e dei suoi nipoti – il conte Ugolino sarebbe riuscito a sopravvivere per discreto tempo. Questo contrasterebbe con le cronache dell’epoca, secondo le quali i cadaveri di Ugolino e dei suoi familiari sarebbero stati tolti dalla torre della Muda il nono giorno.   Altri critici, però, non escludono l’ipotesi di tecnofagia. Secondo tali studiosi, diversi sarebbero gli elementi atti ad avvalorare questa tesi: dai richiami continui, all’interno del Canto XXXIII dell’Inferno, al linguaggio legato al tema della fame, fino ai gesti stessi del conte Ugolino, il quale viene descritto mentre si morde le mani ed è condannato a rosicchiare in eterno il cranio del suo nemico. Siamo di fronte a un chiaro esempio di “retorica della reticenza”: Dante volutamente non rende palese il significato del verso, in modo da lasciarci soltanto sospettare del cannibalismo di Ugolino.  PERSONAGGI  Ugolino della Gherardesca Ugolino nasce da famiglia ghibellina ma diventa guelfo. Ugolino della Gherardesca fu un nobile pisano, nato da un’antica famiglia feudale ghibellina intorno al 1210. In quanto consuocero del re di Sardegna Enzo, figlio di Federico II, egli ne divenne ben presto vicario; fu così che, legato da un'amicizia profonda e filiale col ramo pisano dei Visconti – Giovanni Visconti, Giudice di Gallura, sposò sua figlia Giovanna – il conte Ugolino si avvicinò al partito guelfo, abbandonando la linea politica della famiglia. Nel 1284 partecipò alla battaglia navale della Meloria, nella quale Pisa venne sconfitta da Genova, allora alleata di Firenze e Lucca. Alcune testimonianze vogliono che Ugolino avesse provato a fuggire durante la battaglia, generando il sospetto che fosse un codardo e disertore. Nonostante queste accuse, nello stesso anno egli venne nominato podestà e, due anni dopo, capitano del popolo di Pisa; avere un capo guelfo in una città ghibellina avrebbe reso più semplici le trattative di pace con le città di Firenze e Lucca. Fu così che, per tentare di garantire un periodo di pace alla città, il conte Ugolino cedette alle due città toscane alcuni castelli del territorio pisano.   Ugolino muore rinchiuso in una torre con due figli e due nipoti. Rotta l’alleanza col nipote Nino Visconti, egli si avvicinò all’arcivescovo Ruggieri, capo dei Ghibellini pisani. Ruggieri, però, insieme ad alcune potenti famiglie ghibelline, aizzò il popolo contro Ugolino e nel 1288, nel momento in cui il conte si recò dall’arcivescovo per concludere l’accordo, quest’ultimo lo tradì e lo fece incarcerare nella torre della Muda con due figli e due nipoti. Qui i cinque morirono di fame, probabilmente nel marzo 1289.    70-72. Come Virgilio volle, mi avvinghiai al suo collo; ed egli colse i punti propizi (poste) di tempo e di luogo, e quando le ali furono aperte abbastanza, 73-75. si aggrappò ai fianchi villosi (le vellute coste); da una manciata di pelo all’altra discese poi tenendosi tra i fianchi fittamente pelosi e le incrostazioni della «ghiaccia». 76-78. Quando arrivammo nel punto in cui la coscia si articola (si volge), esattamente in corrispondenza con l’ingrossarsi dell’anca, la guida, con fatica e con respiro affannoso, 79-81. girò la testa dove teneva le gambe, e si aggrappò al pelo come chi sale, tanto che io credevo di tornare di nuovo (anche) in Inferno. 82-84. Ansimando come uomo affaticato il maestro disse: «Tienti ben stretto a me, poiché per scale così ardue è necessario allontanarsi da tanta malvagità». 85-87. Poi sbucò lungo la spaccatura (lo fóro) di una roccia (sasso) e mi depose ai bordi; dopo diresse verso di me (a me) il passo pronto (accorto). 88-90. Io alzai gli occhi ed ero convinto di vedere Lucifero nella stessa posizione in cui lo avevo lasciato, e invece (e) vidi che teneva le gambe per aria; 91-93. e se io allora restai confuso (travagliato), lo immagini la gente ignorante (grossa), la quale non comprende (non vede) qual è il punto che avevo oltrepassato. 94-96. Il maestro disse: «Alzati in piedi: la strada è ancora lunga e il cammino è difficile, e già il sole ritorna a metà tra l’inizio del mattino e la terza (ora del giorno)». 97-99. Non era una sala spaziosa (camminata di palagio) il luogo in cui ci trovavamo, ma una caverna (burella) naturale che aveva suolo sconnesso e luce scarsa. 100-102. Quando mi fui alzato dissi: «Prima che mi stacchi (divella) dall’abisso infernale, parlami un poco per togliermi di dubbio: 103-105. dov’è la ghiaccia? e come mai Lucifero (questi) è conficcato così a rovescio? e com’è accaduto, in così breve tempo, che il sole abbia compiuto il percorso dalla sera al mattino?». 106-108. E Virgilio a me: «Tu credi di essere ancora dall’altra parte del centro della Terra, dove io mi aggrappai (mi presi) al vello del verme malvagio che buca il mondo. 109-111. Ti trovasti nell’emisfero boreale per il tempo da me impiegato a scendere; quando mi capovolsi, oltrepassasti il punto sul quale da ogni parte gravitano i corpi. 112-114. Ora sei giunto sotto l’emisfero contrapposto a quello che ricopre (coverchia) la terra emersa (la gran secca), e sotto il cui più alto punto fu ucciso (consunto) 115-117. l’uomo che nacque e visse senza peccato; tu poggi i piedi su un piccolo spazio circolare (spera) che costituisce (fa) l’altra faccia della Giudecca. 118-120. Qui è mattina (da man), quando di là è sera, e Lucifero (questi), che con il suo pelo ci fece da scala, è tuttora confitto nella stessa posizione di prima. 121-123. Precipitò giù dal cielo dalla parte di questo emisfero; e la terra, che originariamente emerse di qua, per paura di lui si inabissò sotto le acque (fé del mar velo), 124-126. ed emerse nel nostro emisfero; e forse per evitare il contatto con Lucifero, la terra che si vede nel nostro emisfero lasciò qui questa cavità e si proiettò in su». 127-129. Laggiù c’è un luogo lontano da Belzebù quanto è lunga la caverna (tomba), ed esso è riconoscibile non per mezzo della vista ma per il mormorio di un piccolo ruscello 130-132. che sfocia a quell’altezza (quivi discende) attraverso l’apertura di una roccia, che ha scavato con il suo corso sinuoso e poco ripido (e poco pende). 133-135. La guida e io ci avviammo lungo quel cammino quasi invisibile (ascoso) per tornare nel mondo luminoso (chiaro); e senza curarci di riposare, 136-138. salimmo, lui davanti (primo) e io dietro (secondo), finché io vidi, attraverso un foro rotondo, alcune delle luci (le cose belle) che stanno nel cielo. 139. E passando di qui (quindi) uscimmo a riveder le stelle. FIGURE RETORICHE 1, <<regis inferni>>: perifrasi per ‘re dell’inferno’, Lucifero 4-7, << Come quando una grossa nebbia spira, / o quando l’emisperio nostro annotta, / par di lungi un molin che ’l vento gira, / veder mi parve un tal dificio allotta>>: similitudine che significa ‘Come quando c'è una nebbia fitta o quando nel nostro emisfero cala la notte, e appare in lontananza un mulino a vento, così allora mi parve di vedere un'enorme costruzione’ 7, <<veder mi parve>>: anastrofe per ‘mi parve di vedere’ 12, <<trasparien come festuca in vesto>>: similitudine per ‘trasparenti come una pagliuzza nel vetro’ 21, <<fortezza t’armi>>: anastrofe per ‘ti armi di coraggio’ 25, <<io non mori’ e non rimasi vivo>>: antitesi 56, <<a guisa di maciulla>>: similitudine per ‘come una gramola’ 83, <<ansando com’uom lasso>>: similitudine per ‘ansimando come un uomo affaticato’ 90, <<e vidili le gambe in su terre>>: anastrofe per ‘invece vidi che teneva le gambe per aria’ 99, <<mal suolo>>: anastrofe per ‘suolo sconnesso’ 115, <<l’uom che nacque e visse sanza pecca>>: perifrasi per Gesù ANALISI Il canto è diviso nettamente in due parti:    1. l’arrivo nel punto più basso dell’Inferno dove si trova Lucifero (vv. 1-67) 2. il faticoso viaggio per uscire dall’Inferno attraverso il passaggio nel centro della Terra (vv. 68-139). La descrizione della Giudecca – quarta zona del IX cerchio – è piuttosto rapida, con pennellate molto nette e con una precisione che rischia di essere non evocativa, ma mera informazione. Tra l’altro non cita nessuna anima di questa zona, cosa che non era accaduta neanche nell’antinferno tra gli ignavi dove almeno, seppur con una misteriosa perifrasi, aveva citato un’anima famosa: «colui che fece per viltade il gran rifiuto».  I dannati sono i traditori dei benefattori, ma non essendo nominati dobbiamo concentrarci sui tre che sono in pasto a Lucifero: Giuda, traditore di Cristo e quindi della Chiesa, Bruto e Cassio, traditori di Cesare e quindi dell’Impero. Dunque il ben-fare si esprime per Dante nell’equilibrio spirituale-politico garantito dalla Chiesa e dall’Impero, i due soli che sono espressione in terra dell’unico sole dell’Universo, cioè Dio.  Lucifero, è parodia della Trinità. La descrizione di Lucifero riprende quella dei giganti rispetto ai quali egli è immensamente più grande, oltrepassando di molto i mille metri. Lucifero si rivela ben presto una parodia della Trinità: tre facce, tre induzioni verso il male, che saranno allora impotenza, ignoranza, malvagità.  Tutto si svolge rapidamente e così ci troviamo in un anello di passaggio dove Virgilio e Dante si lanciano in un’impresa alpinistica, scalando il grosso corpo di Lucifero.  C’è addirittura tempo per una descrizione dottrinale in cui il poeta latino spiega l’origine della struttura infernale (la caduta di Lucifero, lo spostamento conseguente della Terra) e poi eccoli di nuovo a piedi, sempre più rapidi, attraverso la «natural burella» giungendo infine a rivedere le stelle.   Uno scenario desolante Davanti allo scenario dell’acquario ghiacciato dove le anime sono imprigionate e del vento che spira addosso, Dante si nasconde istintivamente dietro il maestro Virgilio: l’allievo si nasconde dietro la ragione illuminante, si ripara dalle spire fredde del male, si affida al maestro completamente. Infine, Dante vede Lucifero quando il momento è opportuno. Ci siamo già soffermati sulla descrizione, vediamo invece il particolare tecnico-retorico che Dante utilizza per sottolineare le sue reazioni.  Dante si serve di un’ineffabile negativo. Spieghiamoci meglio: di solito l’ineffabile è associato a esperienze positive (il bacio degli innamorati, la bellezza mozzafiato di un tramonto, etc.; o la visione di Dio di cui Dante parlerà più avanti). Qui invece l’ineffabile è il negativo, cioè lo stato tra la vita e la morte in cui Dante si trova. Confida quindi che il lettore capisca lo stato in cui si è trovato alla vista del male assoluto.  L’immensa macchina del male: Lucifero. Ciononostante grazie alla lucidità datagli da Virgilio, Dante – poeta dell’esattezza – cerca di descriverlo in modo convincente. L’immensa macchina del male deve essere inanimata, non ci sono persone, non c’è vita, non c’è ricordo. La solennità di quest’incontro desolante è scandita dal vento che turbina tutt’intorno e dal sibilo delle ali luciferine. Qual è lo scenario che abbiamo di fronte? Un acquario ghiacciato, perché il Cocito è stato gelato. Ma pensandoci meglio sembrerebbe davvero di percorrere il campo di una battaglia dove le vittime giacciono sconfitte e morte. Resta difficile capire se il loro nemico sia stato Lucifero o se esse siano un’allegorica torma guerriera al suo servizio: cuori gelidi, capaci di tutto. Come sempre, Dante lascia tutto sospeso nella sua dimensione poetica in cui le diverse interpretazioni creano un’unica atmosfera.
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