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Riassunto donne d’algeri, Sintesi del corso di Pedagogia dell'infanzia e pratiche narrative

Riassunto per educazione interculturale

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021
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30 Punti
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Caricato il 23/06/2021

Liviayanna
Liviayanna 🇮🇹

4.6

(10)

5 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Riassunto donne d’algeri e più Sintesi del corso in PDF di Pedagogia dell'infanzia e pratiche narrative solo su Docsity! CAPITOLO 1 Sarah, una giovane donna araba, con gli occhi bendati, il collo rovesciato, i capelli tirati, la metà sinistra del volto bendato di bianco, l’altra metà è grondante nel silenzio più completo, o meglio ancora nel suono tronco, l’altra parte del viso simile alla pietra che continuerà a oscillare sempre indietro. Provengono rumori dalla stanza opaca, un via vai di uomini a petto nudo che possiedono una mascherina da infermieri, così robusti e atletici, una campagna da sfondo e una capra che bela. Si risveglierà Sarah? La giovane donna è immobilizzata, forse senza collo, nel mezzo di una sala operatoria. La camera dove vive Sarah è invasa dal sole, con un balcone che affaccia sulla veduta delle imbarcazioni della città. Sarah è impegnata nella preparazione della colazione, vede Ali alzarsi dal letto e andare in bagno, nel frattempo sente il telefono squillare: è Anne, che con voce isolata e una scia d’angoscia le dice di non stare bene. Sarah di fretta abbandona la casa e corre in macchina da Anne, la quale è in una vecchia dimora. Sarah percorre un corridoio di mosaici e raggiunge il bagno di marmo verdastro, dove trova Anne chinata su una vasca a vomitare. Sarah ripulisce, sistema la stanza, si prende cura di Anne, dei suoi capelli, che chiede scusa. Sara si occupa della stanza di fianco, dove ha dormito la sera prima una francese di passaggio. Anne dice a Sarah di aver tentato il suicidio poiché abbandonata in un momento di crisi, in preda alla disperazione, racconta in un’ora la storia del marito, dei figli, di quindici anni di un’esistenza estranea, pensa di essere tornata nella città bianca dove è nata, per morire. Sarah si alza a fine racconto e spazza via una grande tenda a righe rosse, Anne con le mani strette sugli occhi, come per bendarli dice di non sopportare la luce, e continua a disfarsi in una stanchezza differente. INTERLUDIO Nel quartiere di villette dove vi era la vecchia dimora abbandonata, risiedeva l’hazab, il lettore del corano, colui che si occupava delle letture e delle preghiere, possedeva anche una bottega di calzolaio, luogo di incontro degli esperti della giurisdizione islamica. Hazab, portava una lunga toga bianca, che cambiava giorno dopo gioeno, era un uomo anziano che più di 30 anni prima era stato condannato a morti durante i moti del ’45, fu graziato e tre anni dopo nel 48 si sposò, ed ebbe 4 figlie. Trascorse in seguito ben 5 anni in carcere, dall’inizio dei fatti di Algeria, sin dal primo sospetto di attività clandestina. Con sua moglie ebbe 10 figlie in totale, e solo al dodicesimo parto arrivò l’atteso figlio maschio su concessione di Allah, l’erede dell’hazab, poiché la moglie ebbe un aborto e una gravidanza fallì. A 6 anni il bambino era pronto per la festa della circoncisione, nel mentre le 3 figlie prima dell’indipendenza, avevano qualche problema, poiché la prima (24 anni) praticava judo e si ostinava ad uscire in pantaloni (22 anni), la seconda stava in prossimità della laurea in scienze naturali e la terza (20 anni ), la micro narratrice di questo racconto si allenava con l’atletica, col sogno di diventare insegnante di educazione fisica e di vivere in uno stadio. Sarah entrò nella casa dell’hazab mentre le figlie più piccole giocavano nell’acqua, consacrò un lungo momento come rito di cortesia in un cortiletto, dopodiché lasciò detto di pregare Sonia al ritorno dal suo allenamento di andare a trovare Anne. Arrivò l’hazab e Sarah le baciò la spalla destra. Lei rimase ad ascoltare l’hazab scusarsi delle immondizie circostanti . Dopo due ore Sonia, passò per il frutteto ossia il ritrovo di tutte le ragazze e arrivò così da Anne, la quale preparò un thé al profumo di gelsomino. Così Sonia , con una sola visita, si trasformò in cornista familiare. Nazim attraverso il vetro della porta, osservò su un grande schermo quanto diceva Ali in sala operatoria, una sala che sembrava stretta, semi – illuminata, percorse il corridoio, attraversò una sala d’attesa e arrivò nell’ufficio del chirurgo, dove accese la televisione e vide l’operazione in corso di suo padre. Di lì prese un foglio bianco e iniziò a scrivere in arabo in modo trasversale. Il reparto di chirurgia dov’era il padre di Nazim era uno dei più moderni del Paese; il chirurgo che se ne occupò era Ali, colui che chiamò il reparto di citologia per contattate Baya, una laboratorista del villaggio, per la traduzione di un brano di letteratura familiare. I due guardano Nazim come un adolescente viziato, troppo libero, ma per Baya era un cuginetto allegro. Nazim, di corsa scese le scale, sperando di rovare qualcuno di famiglia cui potesse tener a voce alta il discorso per suo padre, raccontando dei 5 anni di Dipendenza, intorno agli anni ’70. Continuò attraversando la strada, preso dalle parole, arrivò al vecchio porto, e si sedette su un parapetto. Vide una fila di case antiche di pescatori, un viale rumoroso sopra il quale la vita delle donne sembrava essere meno sottoposta alla solita rigidità, tanto che si intrecciavano tra loro capelli e alcune si misero a giocare con l’ubriacone e il giovane del porto. Al contempo Ali, si preparava ad aprire un fegato con poche possibilità di farcela, e appena entro nella sala operatoria molto stretta a triangolo, gli venne in mente un lampo, ebbe un’esitazione, si stava realizzando il suo sogno delle notti precedenti. Una giornata afosa: in un laboratorio dell’Istituto Musicale, Sarah si sistemò i capelli, si massaggiò la nuca, ma tornò con la mente a calcolare come recuperare quelle due ore perdute, poi prese il magnetofono e iniziò a suonare, nel mentre l’ingegnere responsabile del laboratorio, le raccontò la sua vacanza di famiglia con suo marito e suo figlio. Si concentrò nello studio dei canti delle donne di un tempo e vicino al registratore, mise due fogli di diverso colore bianco e rosa, su uno scrisse tutto quello che aveva passato in quei giorni con un’aria assente apparentemente, mentre sull’altro un documento sulle strade d’Algeri. Erano i “canti dell’altalena”, da lì fece subito partire il nastro e ricordò l’aria di quando era piccola, momenti in cui le sue zie l’applaudivano in cortile, intonavano quegli stessi canti puerili. Sarah trascriveva con un ritmo pià lento di quello con cui si svolgevano i versi arabi; così continuava il canto e ogni tanto una delle donne che cantavano si ricordava una strofa e soffocava una risata. Sarah percepiva il tono nostalgico dalle voci delle donne, un tono tenero. Un tempo nei cortili, non esisteva la speranza di un incontro amoroso in terrazza. Bayla, dall’ospedale lesse il messaggio di Nazim, chiamò Sarah che dopo la notizia rimase immobile. Così Sarah tornò in postazione, riprese le cuffie e riscrisse le note come se si trattasse dall’inizio di un poema. Vagò con la fantasia, “Si potrebbe immaginare un mondo dove le nostre donne invece di essere rese invisibili, sarebbero rese sorde”. Ali in ospedale è nervoso, è morto l’industriale malato la fegato, e decise di dimenticare quanto avvenuto facendo visita ad un suo amico, presso una villa umida. Si trattava di un pittore, che aveva ritratto anche corpi di madri scarne e accusatrici, coloro che non hanno saputo intuire che è non solo il colonialismo la causa dei problemi psicologici, ma anche il ventre delle donne frustrate. Tra un bicchiere e la’ltro di thè e wisky i due raccontarono di una donna Leila, una donna rinchiusa in un carcere all’età do 20 anni, giudicata da psichiatri che non sanno del suo passato ed è così che il pittore confessò di volerla sposare, un gesto silenzio, ma se avesse potuto avrebbe pianto lacrime di tenerezza disfatta. Baya doveva sposarsi ma il suo fidanzato ha voluto rinviarlo per permettere a sua sorella ad Algeri, di tornare ed assistere, lei le confessa di voler sposarsi in fretta, altrimenti non troverà la tranquillità, si sente sfortunata ma Sarah la rassicura dicendole di essere fortunata per aver ricevuto una promozione in laboratorio. Sarah si spostò nella stanza calda, dove poteva sostare per un tempo di 15 minuti per non affaticare il suo cuore, si sedette insieme ad Anne, e fu lì che la francese si accorse della cicatrice larga e bluastra dell’amica. Sarah non disse nulla, avrebbe dovuto dire ferita da guerra, ma Anne ignorava tutto ciò che era accaduto nella città durante il periodo di fuoco e di assassini: donne in strada sotto gli spari, veli bianchi bucati da macchie di sangue. Questa era la gioventù di Sarah, tra le strade aperte sotto il fuoco e la prigione ammassata con altre donne. Decise di lavorare al documentario forse per rispondere a quella domanda che le occupava la mente da tempo: Come aveva inaridito la sua gioventù? Le due erano amiche dai tempi delle elementari, poi il padre di Anne, magistrato, venne trasferito in un’altra colonia, erano due bambine molto differenti, durante la notte si incontravano per danzare, ma anche piangere sotto l’albero d’acacia nel frutteto dell’hazab, risate infantili tra le voci di donne adulte. Anne è tornata da Sarah l’anno prima, le due in aeroporto si emozionarono al loro ritrovo, è anche per questo che Anne ha fatto rimpatrio. Nella stanza ci fu un incidente, la massaggiatrice cadde battendo sulla lastra di marmo il dorso della mano destra, Sarah nervosa per la disorganizzazione prevedibile per i giorni successivi: come avrebbe trovato la proprietaria una nuova portatrice d’acqua? Sarah si occupò della massaggiatrice, in taxi la trasportò fino all’ospedale, dove richiese un intervento d’urgenza, dove venne subito rassicurata da un giovane medico che la riconobbe. Una volta ricoverata, Anne le rimase accanto in una sala in cui le altre donne stavano riposando, come se fosse una nuora premurosa. Sarah tornò in ospedale accompagnata da suo marito Ali, che dopo esami le preannunciò di dover fare un’operazione, alla quale la vecchia voleva sottrarsi per la sua fede. Pronunciò con vivacità il suo nome Fatma, mostrando la bocca sdentata, poiché aveva tolto durante il viaggio in taxi la sua dentiera d’oro per paura che gli avrebbero fatto pagare l’ospedale. Sarah disse ad Anne che sarebbe tornata con una chirurga esperta nel ramo, Anne la sentiva così vicina quella vecchia, come se avesse avuto un legame con lei. Fatma in ambulanza fu trasportata verso il reparto dove lavorava la chirurga specializzata, in quegli istanti il suo sogno sembrava simile ad una sofferenza troppo antica, fu così che cominciò a gemere, come se stesse ancora spostando i bidoni . PER UN DIWAN DELLA PORTATRICE D’ACQUA Il corpo pesante steso in orizzontale, il palmo della mani rivolto al cielo, la destra inturbantata di bianco, parole liberate che seguono il corpo della vecchia scultrice, ogni invocazione al Profeta o alle sue vedove si fa di piombo, parole informi di un bianco abbagliante, le parole ora non opprimono più, mentre le mani , una bianca e l’altra rossastra scivolano gli sforzi assecondando gli sforzi delle bagnanti infedeli: “io sono l’addormentata e il mio corpo viene portato via”, “io sono la svelata”, “io sono l’esclusa”, “Sono io –io? – che hanno esclusa, colei alla quale è stato posto il divieto, colei che hanno umiliata, ingabbiata, che hanno cercato di piegare ponendomi le mani sulla testa, per farmi sprofondare giù, fino allo stato del male, dalla faccia di scimmia ,io fra i marmi della disgrazia sorda, io fra le rocce del silenzio velato di bianco, io sono colei che hanno voluto soffocare e ghermire fin dal buco del fuoco, colei che hanno creduto di marchiare, lasciandole sulla pelle cicatrici spalancate, io, sono io?”diceva la vecchia durante il viaggio in ospedale, mentre la chirurga si preparava a tapparsi la bocca di bianco. “Io ero colei che pretendevano di dare in sposa nell’aurora del mondo.” Si trovava oltre il Sahara, i suoi genitori erano nomadi, lei aveva una capra bianca, e una ricca fattoria paterna che lei stessa credeva opulenta (ricca), il padre vestito da legionario, la madre morta di parto alla sua nascita, le zie all’età di 13 anni la truccarono, le depilarono sopracciglia e pube, le comprarono delle babbucce ricamate e la prepararono per il suo primo viaggio verso nord. Lei con splendidi capelli neri, le palme dalle mani rosse di henna. Scesa dal calesse, venne accolta dal calesse. Quella stessa notte incontrò lo sposo, un adolescente che con le mani tastò il suo corpo freddo. Insultata dall’astio delle altre donne, un giorno fuggì, corse veloce in avanti, fino all’alba, senza velo, con una veste rossa. Al sorgere del sole lungo il suo cammino le apparse una città, vide dei vecchi parlare in un angolo del mercato, con il tè fumante alla menta. E così passò due anni e fare il tappeto di giorno e a servire una signora la notte. Tornò in viaggio nuovamente, per fuggire e fu consegnata ad un uomo, al termine del viaggio nella capitale, aveva una casa certificata, clienti, dunque 5 anni, 10 anni … Le disse che il tempo sarebbe volato. E così la sua vita tra clienti e bidoni trascorreva, allo stesso modo fuori dal bordello e fuori dall’hammam. Fu con un cliente che lei comprese anche che suo padre venne ucciso essendo stato uno dei collaborazionisti all’inizio della guerra d’Indipendenza, ad essere ospitato dal cliente. Così le se gelò il cuore. La chirurga è pronta per intervenire chirurgicamente su Fatma, mentre Anne è immobile in sala d’attesa. PER UN DIWAN DELLA PORTATRICE DI FUOCO L’avevano proclamato ai quattro venti che era sta torturata. Leila proseguì e Sarah, nello stesso tempo ricordava. Gli occhi stralunati, i corpi sfruttati a piccoli pezzi. Tutti i corpi che sono stati considerati “altrui” esplodono e quelli che sono rimasti vivi, lo sono rimasti davvero? Sarah disse a Leila di non continuare, ma ella aveva bisogno di parlare. Si vergognavano di lei. Sarah non aveva mai parlato delle sue turture, ma Leila aveva avuto spesso deliri pubblici. Poi si avvicinò a Leila e le accarezzò la fronte, avrebbe voluto mettersi a piangere su di lei e Leila delirava ancora, quando il pittore entrò nella stanza e si avvicinò a Sarah. Le disse di non stare a tormentarsi e di occuparsi, piuttosto, di far tornare il figlio di Ali. Sarah gli disse se si fosse mai chiesto il vero motivo per se n’è andato. Probabilmente il ragazzo aveva visto lei e suo padre mentre si piacchiavano. “Forse dovrei andare dalla vecchia zia”, si disse Sarah. Bisognava andare alla Casbah, dove Nazim si era rifugiato le utlime notti prima di scappare. Parcheggiò la macchina all’entrata dell’ospedale e, poco dopo, Anne la informò che la mano di Fatma sarebbe guarita. IV CAPITOLO Sarah attraversò la stanza immersa nell’oscurità e fumava nervosamente, sentondosi uscire da uno stato di tensione accumultato in tutti quei giorni. Anne chiese a Sarah come era trascorso il tempo quando era in prigione e lei le rispose che il giorno più difficile era stato quello in cui le diedero la notizia della morte della madre e ciò la straziò: forse perché era venuta a saperlo lì dentro. Dopo un po' si interruppe e riprese: - “Credo di avere pensato che non sarei più uscita da quella prigione. […] Per anni, dopo Barberousse, ho continuato a portare dentro di me la mia prigione”. Anne, intanto, pensava. Quella strana città, ebbra di sole ma piena di prigioni che chiudono dall’alto ogni strada, ogni donna vive per sé oppure per la lunga catena di donne che sono state rinchiuse in passato, generazione dopo generazione? Sarah ripensava alla morta di sua madre. Dopo aver vissuto un solo dramma: ha avuto lei e poi più niente. Doveva aver vissuto nella paura di essere ripudiata, supponeva. Era come se sua madre si fosse unita a loro in prigione. Quando era viva passava le sue giornate in silenzio, lavorando tutto il giorno in casa. Ogni sera, quando il padre rientrava, la madre gli lavava i piedi meticolosamente. Sarah la osservava senza pensare a niente e mai si era posta qualche domanda. All’epoca, trovava la scena del tutto normale. Così la mamma, era morta nel silenzio e non avrebbe mai avuto la sua rivincata e Sarah non l’ha mai potuto ammettere veramente. Anna ascoltava. Non intervinava durante le pause, evitando persino di muoversi. Sarah continuò parlando del padre che in famiglia passava per un marito abbastanza buono. Raccontò di quando un giorno, con un tono piuttosto impacciato, le disse che aveva ripreso moglie. Sarah si chiedeva perché il padre fosse così imbarazzato. Ma sua madre, con la sua ombra, non riusciva a liberarla. Una sola domanda le rodeva in quel momento: “Quella libertà la possiedo davvero?”. La mamma era morta senza concepire nemmeno lontanamente una vita vagabonda come la sua. Sarah aveva asciugato le sue lacrime, ma soffriva. – “Per me è mia madre, per le altre saranno altri fantasmi familiari”. Per le donne arabe vedeva solo un modo di sbloccare quella situazione: parlare, parlare senza sosta di ieri e di oggi, parlare fra loro in tutti i ginicei, parlare e guardare fuori dalle mura e dalle prigioni. Sarah pensò a queste generazioni di donne e immaginò di averle conosciute tutte. Pensava a Leila che rimetteva a nudo le sue schegge. Sarah concluse, mentre Anne preparava la valiga per la partenza prossima: -“E ora Ismaele urlerà per davvero nel suo deseto: i muri che abbiamo abbatutto continueranno a circondare lui solo”. Così Sarah espresse la sua speranza o la sua sfida ignorando se riguardasse i prossimi giorni o l’anno successivo o la generazione che non sempre è quella delle “altre”. L’aereo che Anna doveva prendere l’indomani all’alba era in ritardo. Le due donne attesero in mezzo a un gruppo di operai emigrati e la più bella aveva tolto il velo proprio quella mattina. – “Non parto”, esclamò Anne all’improvviso, raggiungendo in fretta Sarah che stava uscendo dall’aereporto. Percorrendo la strada con la vecchia carretta, le due donne canticchiavano. Una disse che un giorno avrebbero preso insieme la nave; ma non per partire, ma per conteplare la città quando si apriranno tutte le porte. L’altra aggiunse che avrebbero finalmente fatto rinascere la gioia orgogliosa dei corsari di un tempo, gli unici della città che fossero stati chiamati “re”, certo anche perché erano dei rinnegati. DONNA CHE PIANGE Le avevano detto tutti che aveva torto. Gliele aveva date; le aveva soaccato la faccia nel vero senso della parola. Camminava in continuazione per le strade di Algeri con la sensazione che la faccia stesse per cadermi nella mani, che ne dovesse raccattare i pezzi per terra, che il dolore colasse da ogni tratto della sua fisionomia. Si alzò lasciando ai piedi il suo passato: - “ Me ne vado”. Levando le braccia al cielo, d’infilò in un attimo una stretta veste di cotone sbiadito sul corpo che il mare non aveva bagnato. Si avvolse interamente la stoffa che, all’inizio, resisteva e poi, sgualcendosi. L’uomo, sempre silenzioso, notò quei rumori. Ora la figura femminile formava un parallelepipedo fluttuante di fronte a lui. Per la prima volta, malgrado tutto, il bianco le sorrise. Poi tirò fuori un fazzoletto e lo appoggiò sulla linea del naso. –“Arrivederci!”. Le parole rimasero sospese mentra la figura bianca e curva si allontanava. L’uomo volse la testa un mometno, poi tornò a fissare il mare. L’indomani il tempo si mantenne uguale. L’uomo riprese il posto del giorno precedente. La donna posò lo sguardo su quel tratto irregolare quando parlò. In quegli ultimi mesi si era detta: -“Ascoltare gli altri e nulla più: questo basta”. Ascoltare l’altro, ascoltarlo semplicemente guardandolo. Amare l’altro, amarlo contemplandolo. Molto tempo dopo, la sua mano si mosse e quella volta, il velo che aveva indosso giaceva come pelle morta. C’erano momenti in cui si diceva che non sapeva dove fossero i suoi contorni, quali confini avessero le sue forme, a che servivano gli specchi. Più tardi l’uomo ricordò la durata di quell’istante, mentre di nuovo di raggomitolava tristemente nel suo buco oscuro. Lo accarezzava scrupolosamente. L’uomo, a sua volta, aveva posato la mano sulle dita sottili quando erano arrivate al ginocchio e alla coscia. Rimasero così con le mani intrecciate, guardandosi bene l’un l’altra, pazientemente. Poi l’uomo le toccò il seno destro senza I MORTI PARLANO Al funerale della nonna la conversazione procede spedita. Aisha guardò assente. Il maraggio di quegli anni aveva rivestito ogni cosa del piombo dell’amarezza per alcune. Aisha si accovacciò per terra, senza piangere. Il dolore tornava tornava a farsi sentire acuto quando la casa doveva essere riaperta. Nel cicaleccio delle visitatrice torna a una successione di luoghi ai quali la sua memoria si àncora, nel quali trova le stesse donne di città intente a celebrare le cerimonie del tempo. Immagini fisse, ferme dietro il suo sguardo immobile. Da ogni parte, da tutti quegli anni barcollanti, spintonati dalla guerra, le bocche imbavagliate… Aisha scuote la testa e tenta di disperdere quei rumori, conservando visioni mute. In fondo erano sedute tre donne. La meno giovane aveva visto cadere nella polvere lo sposo di cinquanta anni e i suoi due figli. Tre uomini abbattuti nella stessa notte. Quella donna era rimasta muta per due anni, apparendo in pubblico soltanto nelle occasioni gravi, quando era costretta a condividere altri lutti. Aisha la guarda parlare. Naturalmente non sorride. Il rumore circondava quelle palpitazioni sorde, circondate dalle lacrime trattenute e dalle formule ripetute per trovare una via d’uscita. Per Aisha, sempre immobile, il quadro diviene all’improvviso irreale. Alcune contadine si rinfrescavano con il ventaglio. Nel centro esatto della stanza, il cadavere. Aisha seduta. Yemma non parlerà mai più. Non appena divenuta madre, Aisha aveva trovato soltanto la sicurezza virile di Yemma, una lontana zia. Un mattino si era presentato alla porta con una valigia in mano e un bambino di cinque mesi in braccio. Erano passati cinque anni da quando era arrivata, cinque anni per “Aisha la ripudiata”. Un attimo di silenzio. Tutte le teste si abbassano. Si intravede la faccia di Hadda. Aisha immobile, nessuno sa. E poi cosa si dovrebbe sapere? Il bambino… -“Si chiama Hassan”, bisbiglia una donna che sta portando il piccolo dove è seduta la madre. I realtà il nome del bambino era Amin, ma la vecchia aveva cominciato a chiamarlo Hassan da quando era entrato in casa sua. Il bambino tace rassicurato: sta uscendo da un sonno stordito, senza piangere. Non piange mai. Amin si volge verso la madre silenziosa. Amin scruta attentamente il lenzuolo e Aisha si interrogava se stesse capendo cosa stava succedendo, teendolo fermo contro il suo fianco. -“E’ tutto quello che resta”, mormora una vicina che sta sulla soglia della camera. Si chiedevano se la famgilia contasse qalcosa in quei giorni. –“Hadda, come Dio ha voluto, ha aperto per un’ultima volta gli occhi su queste giornate”. Aisha teneva la mano sulla spalla fragile del bambino e ricominciò in lei, il ritornello davanti a tutte le donne della città. Quelle donno il cui destino era sempre stato di essere le orecchie e i sussurri della città, la cui vocazione era stata accovacciarsi ai piedi dello sposo per toglierli le scarpe quando tornava a casa. Tutte quelle donne sedute in mucchi dentro quella stanza, credevano di tenere, con la stessa positura, degna compagnia alla morta; credevano insomma di seppellirla. Come se si seppellissero i morti, come se i morti continuassero a vivere in un altro luogo… ma dove? Allora il ritornello riprese dentro Aisha e le parole la turbarono fortemente fino a farle provare paura. Ora tutte salmodiavano intorno ad Aisha che, con le labbra strette, d’improvviso, sentì il suo bambino ripetere dommessamente qualche brano del canto: “…Non c’è altro dio che Dio”. Solo la cantante chiamava la morta “Yemma”. La litania collettiva s’indeboliva e non perché il coro si sentisse stanco, ma perché la solista precipitava il ritmo. - “Che cosa ha detto alla fine?”, chiese una delle due giovani vedove. Col volto inondato di lacrime Aisha si girò verso colei che le aveva fatto la domanda. Malgrado il suo viso baganto, sorrise e le rispose: “Ha detto: ‘O Yemma, parlami’”. Continuava –“Perché ci hai lasciati?”, mentre le lacrime scorrevano sul viso smagrito di Aisha. Quelle parole sorpesero Aisha che ne ascoltava l’eco dentro di sé: ormai non guardava più le altre. –“Tu sola mi resti del sangue di mia madre”: queste erano state le prime parole della ripudiata, accolta dalla soglia di casa di Hadda. Le aveva dette macchinalmente più che con umiltà.
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