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Riassunto e analisi “La morte a Venezia” di Thomas Mann, Sintesi del corso di Letteratura Tedesca

Analisi del libro La morte a Venezia e riassunto trama. Esame di Letteratura tedesca superato con 28

Tipologia: Sintesi del corso

2021/2022

In vendita dal 06/02/2023

beatrice-cavallo
beatrice-cavallo 🇮🇹

4.5

(4)

20 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Riassunto e analisi “La morte a Venezia” di Thomas Mann e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura Tedesca solo su Docsity! Tho Mn Thomas Mann- Vita e opere Thomas Mann nacque a Lubecca nel 1875. Suo padre era un ricco commerciante di cereali e console d’Olanda, sua madre era brasiliana e appassionata di musica. Mann non fu uno studente brillante, ma ben presto rivelò un grande talento letterario. Alcuni anni dopo la morte del padre, avvenuta nel 1891, la famiglia si trasferì a Monaco di Baviera. Inizialmente lo scrittore lavorò per una compagnia di assicurazioni, in seguito s’iscrisse all’università. Nel 1898 pubblicò una raccolta di novelle Il Piccolo Signor Friedmann (Der kleine Herr Friedemann). Durante un viaggio in Italia, cominciò a scrivere il suo primo romanzo I Buddenbrook (Buddenbrooks - Verfall einer Familie), pubblicato nel 1901, che racconta la storia di un’agiata famiglia di mercanti di Lubecca e del loro declino economico attraverso quattro generazioni, dal 1835 al 1885. Il romanzo segue la tradizione del realismo ottocentesco che racconta anche il declino di Lubecca e della borghesia europea. I Buddenbrook è un romanzo autobiografico, in cui molti personaggi sono basati su membri della sua famiglia. In seguito pubblicò alcune novelle tra cui Tristan (1903) e Tonio Kröger (1903) in cui affrontò il tema dell’eroe incompreso ed emarginato dalla società già trattato da Johann Wolfgang Goethe nella sua opera I Dolori del Giovane Werther, pubblicato nel 1774. Tonio Kröger è un racconto di Thomas Mann (premio Nobel per la letteratura nel 1929), pubblicato nel febbraio del 1903 sulla Neue Deutsche Rundschau, e nello stesso anno presso l'editore Fischer nella raccolta Tristan. Sechs Novellen. La novella era stata terminata l'anno precedente. È la storia di una iniziazione: del lento pervenire del giovane Tonio alla coscienza di essere diverso dai coetanei, dell'isolamento della sua sensibilità, che si dibatte nell'antinomia tra le sue origini borghesi e l'attrazione per l'arte, quasi coincidente con l'autobiografia dello stesso Mann. Mann approfondisce nella prima parte del lavoro (capitoli I e II) l'analisi del disagio adolescenziale nel quale, con spirito veramente innovatore, ravvisa le fasi del formarsi di una coscienza artistica. Altro rilevante problema affrontato da Mann è quello relativo alla corretta individuazione e definizione del concetto di "artista": chi egli sia, quali i suoi problemi, come debba comportarsi nel mondo. Tale era l'importanza che Mann attribuiva al tema che, a lungo, il titolo provvisorio della novella rimase Literatur. Tonio è un ragazzo borghese, caratterizzato da un'estrema sensibilità e dall'incipiente temperamento artistico, figlio del console e grossista di grano Kröger e di una bella donna del Sud Europa o del Sud America. Dalla madre ha ereditato gli occhi scuri e il volto dalle fattezze squadrate (oltre che il nome inusuale, preso dallo zio materno Antonio). Vive in una vecchia casa in una città affacciata sul Mar Baltico. Cresciuto in ambiente mercantile, dove ciò che conta sono gli affari della ditta di famiglia, egli avverte una forte divaricazione fra questa vita e il sentimento di attrazione che esercitano su di lui gli artisti e il mondo intellettuale. La dicotomia tra il padre autoritario e la madre, spirito libero, sembra ricalcare questi poli contrapposti; soltanto nell'ultimo capitolo troverà quell'intuizione che farà da preludio ad una possibile risoluzione. Nel primo periodo Tonio si appassiona un po' morbosamente a due giovani, il compagno di scuola Hans Hansen[1] e la giovane ragazza Ingeborg Holm, entrambi di fattezze nordiche, occhi azzurri e capelli chiari. In seguito al dolore per la morte del padre e delle seconde nozze della madre, Tonio decide di girovagare per l'Italia, dove si perde nella concupiscenza dei sensi (capitolo III). Un Tonio Kröger più maturo ed ormai artista formato conversa (IV capitolo) con la pittrice Lisaweta Iwanowna sul tema dell'arte, interrogandosi su chi sia l'artista, e ricevendone la sentenza finale che egli è soltanto "un borghese su strade sbagliate". Nel 1912 pubblicò La Morte a Venezia (Der Tod in Venedig), un romanzo breve, da cui il regista Luchino Visconti ha realizzato un adattamento cinematografico nel 1971. Il protagonista, Gustav Von Aschenbach, un famoso scrittore che ha dedicato completamente la sua vita all’arte, sente l’improvviso desiderio di viaggiare per vivere nuove esperienze. Si reca a Venezia, dove si invaghisce di un giovane polacco, estremamente bello, ospite con la famiglia nel suo stesso albergo. Il ragazzo rappresenta per lui l’ideale di bellezza classica alla quale egli si è sempre ispirato e ne è ossessionato. Intanto a Venezia scoppia un’epidemia di colera, di cui Gustav morirà alla fine della storia. L’opera suscitò molto scalpore quando fu pubblicata a causa della passione di un uomo maturo per un ragazzo adolescente. I temi affrontati in questo racconto sono gli stessi che caratterizzarono tutta l’opera di Mann: il rapporto tra l’arte e la vita, tra la vita e la morte e tra l’amore e la morte. Nel 1914 lo scrittore pubblicò il saggio Pensieri di Guerra, in cui sostenne la causa tedesca, ciò lo portò a uno scontro con suo fratello, Heinrich, anch’egli scrittore, che invece era un convinto pacifista. Nel 1924 Mann pubblicò il suo capolavoro, La Montagna Incantata (Der Zauberberg), in cui descrive il decadimento dell’alta borghesia europea. Il romanzo gli valse il Premio Nobel per la Letteratura nel 1929. In seguito iniziò un ciclo di conferenze in Germania. Nel 1933 tenne una conferenza all’Università di Monaco su Richard Wagner, in cui criticò i rapporti tra l’arte tedesca e il Nazismo. Erano gli anni dell’ascesa al potere di Adolf Hitler e le parole di Mann non piacquero ai nazionalisti che ascoltarono il suo discorso. Da questo momento in poi, Mann lasciò la Germania e visse da esule in diversi paesi europei, tra cui la Svizzera e la Francia. Nel 1938 emigrò negli Stati Uniti, dove gli fu offerta una cattedra all’Università di Princeton, in questo periodo perse anche la cittadinanza tedesca e nel 1944 diventò cittadino statunitense. Tra il 1933 e il 1943 scrisse un’opera in quattro volumi, Giuseppe e i Suoi Fratelli (Joseph und seine Brüder). Durante la seconda guerra mondiale, iniziò una propaganda antinazista, tenendo dei discorsi alla radio americana e nel 1947 pubblicò un altro capolavoro, Dottor Faust (Doktor Faustus), il cui protagonista, Faustus, personaggio già presente nell’opera teatrale di Goethe, è il simbolo del popolo tedesco che si è alleato con il male, decretando quindi la propria fine. Dopo la guerra, Mann si ristabilì in Europa, perché non era più a suo agio negli Stati Uniti a causa della guerra fredda. Ormai la Germania era divisa in occidentale e orientale e Mann non riuscì ad accettare questa divisione, per lui la Germania era una. Decise di stabilirsi a Zurigo, dove continuò a scrivere e dove morì nel 1955. L’opera di Thomas Mann L’opera di Thomas Mann è un ritratto della società del suo tempo, anzi della fine di un’epoca. Il suo interesse principale è il contrasto tra vita, intesa come istinto, e spontaneità e spirito. Questo contrasto tra vita e spirito, per Thomas Mann, equivale all’antitesi tra vita e arte, e anche quando parla della società, il suo pensiero è riconducibile a un unico tema fondamentale presente in tutta la sua opera: il contrasto tra vita e arte e il tentativo di conciliare questi due mondi opposti. I protagonisti dei suoi romanzi e dei suoi racconti sono spesso degli artisti, come il bambino musicista nei Buddenbrooks, e i compositori, Gustav Von Aschenbach, protagonista di La Morte a Venezia o Adrian Leverkhün del Doctor Faustus. Sono personaggi dotati di grande sensibilità che si distinguono dal mondo borghese che li circonda, allo stesso tempo sono molto fragili e hanno tutti un destino tragico. Finiscono con l’ammalarsi e la malattia fisica è anche simbolo di una malattia spirituale, ciò polacco che nel racconto fa morire Aschenbach, Mann cambiò idea: aveva trovato un soggetto migliore (e più autobiografico) per quello che voleva scrivere. Quindi, Aschenbach ha molto di Thomas Mann, ma è anche un ritratto, certamente portato all'estremo, del tardo Goethe. Riassunto Gustav von Aschenbach, nobile e scrittore tedesco di cinquant’anni, si trova a passeggiare nei pressi della sua residenza a Monaco di Baviera. L’uomo, ormai vedovo e all’apice di una prolifica carriera a cui ha dedicato tutti i suoi sforzi e che gli è valsa pure il titolo aristocratico, sta attraversando un periodo di stanchezza fisica e di crisi creativa. Mentre sosta nei pressi di un cimitero, osservando uno strano forestiero che sembra comparso dal nulla, avverte un richiamo al viaggio e all’avventura che credeva sopito da diversi anni. Aschenbach sbriga così gli ultimi impegni letterari e organizza la sua partenza nel minor tempo possibile. Si dirige verso l’Istria, ma anche qui, complice il tempo infelice, la stessa irrequietezza interiore che lo ha fatto partire dalla Germania porta Aschenbach a spostarsi dopo solo pochi giorni a Venezia. Fin dal viaggio in traghetto da Pola a Venezia intorno ad Aschenbach si svolgono scene grottesche e strane, quasi fossero un oscuro presagio di quanto avverrà. L’attenzione di Aschenbach è ad esempio attratta da un uomo anziano che si accompagna a una comitiva di giovani e che, imbellettato e vestito come se fosse uno di loro, dà inconsapevolmente mostra di sé. Aschenbach trova quindi alloggio in un albergo del Lido dove, a cena, scorge per la prima volta un ragazzo di quattordici anni che gli sembra da subito bello come una divinità greca. Il ragazzo, con i tratti ancora femminei e infantili della preadolescenza, appartiene a una nobile famiglia polacca e si trova in villeggiatura in compagnia delle sorelle, della madre e dell’istitutrice. Il contrasto con le sorelle, vestite in modo rigido ed austero e da cui non traspare alcuna traccia di femminilità, contribuisce a rafforzare l’impressione di grazia ed eleganza che il ragazzino trasmette. Il giorno dopo, in spiaggia, Aschenbach osserva il ragazzino giocare con gli altri giovani dell’albergo e riesce a cogliere il suo nome: Tadzio. Tuttavia, il clima della laguna non è clemente e l’afa commista al tempo piovoso non fa che peggiorare la saluta precaria di Aschenbach. Lo scrittore decide così di partire anche da Venezia, sebbene non voglia abbandonare il giovane che tanto lo affascina, né farsi sconfiggere dalle condizioni esterne, continuando quindi a vagare da un luogo all’altro. Aschenbach disdice la propria stanza e manda il bagaglio in stazione tramite un fattorino. Una volta arrivato in stazione però scopre che il destino ha giocato in suo favore: il bagaglio è stato infatti spedito a Como per errore. Così, intimamente sollevato per la possibilità di rivedere Tadzio, Aschenbach decide di tornare in albergo in attesa che rispediscano indietro le sue valigie. Il nobile scrittore sviluppa per il ragazzino una vera e propria ossessione. Si ferma a guardarlo mentre gioca in spiaggia, lo segue a distanza durante le passeggiate per la città insieme alle sorelle e all’istitutrice, arriva persino a compiacersi dell’aspetto debole del ragazzino, che probabilmente non diventerà mai adulto, provando una segreta soddisfazione all’idea che forse nessuno potrà amarlo. L’uomo è così succube del suo delirio amoroso che, quando gli riconsegnano il bagaglio, sceglie di restare a Venezia per altro tempo. Nel frattempo Tadzio comincia a rendersi conto dell’insistente sguardo dell’uomo e spesso, con espressione seria e occhi bassi, ricambia, pur senza mai palesare esplicitamente una reazione chiara. Con il passare dei giorni, Aschenbach si accorge che sono sempre meno i villeggianti tedeschi a Venezia, dove intanto sono comparsi per le strade, impestate da un forte odore di disinfettante, dei misteriosi cartelli sanitari. Lo scrittore chiede così informazioni in albergo e per le calli, ma tutti gli rispondono che la città viene disinfettata preventivamente per il caldo e per lo scirocco. Sembrandogli un’ipotesi poco probabile, Aschenbach recupera qualche giornale tedesco (dove si cita una non meglio precisata pestilenza) e, facendo pressioni su un impiegato dell’ufficio del turismo inglese, scopre che a Venezia imperversa ormai da mesi un’epidemia di colera asiatico, tenuta nascosta dal governo ai turisti stranieri per non rovinare gli introiti economici della città. Anche i giornali tedeschi, preventivamente fatti sparire dalla circolazione, hanno scoperto la notizia solo dopo la morte di un turista austriaco. Aschenbach potrebbe dare l’allarme tra gli ospiti dell’albergo, ma decide di tenere per sé il segreto perché più della malattia teme la partenza di Tadzio. La sua passione amorosa si è infatti di giorno in giorno trasformata in follia, tanto che egli si è ormai convinto che anche altri (e in particolar modo le sorelle e l’istitutrice, che si mostrano ostili nei suoi confronti) si siano accorti dei suoi sguardi verso il ragazzo. Ossessionato dal proprio aspetto Aschenbach prova vergogna per la propria età, e si reca continuamente dal parrucchiere, si tinge i capelli e si fa truccare, finendo per somigliare a quell’uomo che sul traghetto tanto aveva deriso. Così acconciato segue ancora una volta Tadzio attraverso le calli: il ragazzino lo vede, ma non dice nulla all’istitutrice. Attraversato un ponte però Aschenbach lo perde di vista, è febbricitante e affaticato e si accascia su un pozzo. La mattina dopo, al risveglio dopo una notte tormentata in cui sogna di prendere parte a un baccanale, scopre che la famiglia polacca è in procinto di partire. Si reca così stancamente in spiaggia, dove osserva da lontano una lite tra Tadzio e un altro ragazzino. I due cominciano a picchiarsi e il contendente, più forte di Tadzio, lo spinge con la testa nella sabbia facendolo quasi soffocare. Una volta liberato Tadzio si avvia verso il mare e si allontana passeggiando su una secca. Immergendosi in acqua, il ragazzino si volta ancora una volta e guarda verso Aschenbach. Allo scrittore sembra quasi che il ragazzo gli sorrida, sta per alzarsi e raggiungerlo ma cade riverso sulla sua sdraio. Poco ore dopo, Gustav von Aschenbach muore. PERSONAGGI PRINCIPALI: Gustav von Aschenbach è un uomo che ha superato i 50 anni ed ha ricevuto dal principe un titolo nobiliare non trasmissibile; nato a L., capoluogo di circondario della provincia di Slesia, è lio di un magistrato eminente e di una donna, lia di un direttore d'orchestra boemo, che ha dato al lio alcuni segni della sua razza (per questi motivi ricorda molto l'autore). Egli è uno scrittore abbastanza famoso che si è evoluto da solo, quasi costretto alla solitudine per il suo fisico debole. Ama il lavoro, odia la solitudine e possiede un grande impegno. Egli è di statura lievemente inferiore alla media, bruno, sbarbato, con la testa che sembra più grande rispetto alla corporatura minima. Tiene i capelli spazzolati all'indietro, radi sul cocuzzolo, folti e brizzolati alle tempie; essi incorniciano una fronte alta, segnata da rughe profonde. Tadzio (Taddeo) è un ragazzo dai capelli lunghi che ha circa 14 anni. Ha il volto pallido e assorto, incorniciato da capelli biondi, caratterizzato da un'espressione soave. Dimostra più anni di quelli che ha. E' ammirato, circondato dagli amici, conteso da tutti. Venezia viene percepita dal protagonista nel suo aspetto più cupo di città in declino, oppressa dal clima afoso. La città accoglie il morbo del colera con rassegnata apatia, poiché vi abita gente cenciosa e pittoresca, ma tutto ciò affascina Aschenbach e lo rende felice. PERSONAGGI MINORI: L'uomo che il protagonista vede vicino al cimitero è una persona normale, ma gli abiti indicano che è uno straniero; ciò fa pensare a Gustav di partire per un viaggio. Il marinaio del piroscafo che porta Gustav a Venezia: è un uomo gobbo e sudicio, con un ghigno che vuole essere affabile. Il capitano della nave, caratterizzato da una rapidità nei gesti che frastornano e suggestionano il protagonista. Uno dei viaggiatori, con un abito color giallino all'ultima moda, con una cravatta rossa e un panama dal risvolto baldanzoso, si segnala tra gli altri per la voce bercia: vuole sembrare un giovanotto ma è un vecchio, scoperta che inorridisce lo scrittore e che lo fa stupire per il fatto che coloro che gli stanno attorno sembra non si accorgano di questa stranezza Il gondoliere è un uomo dall'aspetto al tempo stesso piacevole e brutale. Il chitarrista è di esile corporatura, non ha l'aspetto del veneziano ma del partenopeo, pericoloso e spassoso. Commento Egli conduce quindi in modo ritirato quella sua esistenza “confinata nella bella città scelta a patria adottiva e nella rustica dimora di campagna che si era fabbricato fra i monti e in cui trascorreva le estati piovose”. Né egli era aduso ai viaggi di piacere in quanto “i viaggi per lui non erano stati altro che una misura igienica, di quando in quando necessaria anche se presa a malincuore”. Ne scaturisce l’esistenza di un uomo severo con se stesso, lontano dal concedersi alcuna rilassatezza, dominato da quella sua vocazione artistica in cui vive segregato e da cui riceve i suoi riconoscimenti. Né trapela dalla descrizione della sua vita alcuna presenza che lo accompagni o lo affianchi, fatte salve quelle a cui i suoi stessi pensieri lo conducono: “Pensò con repulsione all’estate campagnola, alla solitudine nella piccola casa con la fantesca che gli preparava i pasti e il domestico che glieli serviva”. D’altro canto Gustav von Aschenbach è abituato a quel tipo di esistenza, in quanto “fin dall’adolescenza…non aveva mai conosciuto gli ozi, le beate indolenze proprie della giovinezza…[ed] era cresciuto solo, senza compagni”. C’è quindi nella vita di Gustav von Aschenbach uno scarto, una distanza profonda tra l’altezza mirabile dei suoi intenti e delle sue occupazioni e la realtà della sua vita, della possibilità che egli si dà di dare a quella vita sfogo e consistenza, di esprimerne le pulsioni e gli istinti, di viverne il piacere e i piaceri. Perché tutto in lui è assorbito e riassorbito da quell’ ”elegante padronanza di sé”, da quell’ ”amabilità del tratto nel culto vacuo e duro della forma”.La sua oggettiva vulnerabilità è stata quindi, da sempre, strenuamente sorretta da quell’impalcatura che è il rigore “della forma” che egli ha dato alla sua vita e nella quale ha avvolto se stesso che ne fa, in questo senso, un tipico personaggio manniano: “…[è] quell’eroe debole, il personaggio animato dal manniano eroismo della debolezza, di chi sa d’essere debole e ciononostante stringe i denti e va avanti come Thomas Buddenbrook, Tonio Kröger, il principe Klaus Heinrich, Hans Castorp. Aschenbach vive sempre in tensione, con il pugno della sinistra chiuso a segno di uno sforzo continuo, l’uomo manniano è sempre tirato, è dominato dall’ethos borghese protestante del rendimento, dal comandamento quasi disumano dell’ascesi, del lavoro al di là di ogni mollezza…” (1) Ma Gustav von Aschenbach è così anche perché: “L’attività letteraria di Gustav von Aschenbach è volta alla produzione di un’arte formale, estremamente disciplinata[e]…Per creare un tale tipo di opere, per restar fedele alla forma e alla dedizione totale che essa esige, occorre una capacità di abnegazione che, in nome dell’umano che viene trasfuso nell’opera, finisce per annullare l’umanità dell’artista, per logorarne la salute e la volontà totalmente volta alla produzione. In ciò risiede l’eroismo dell’artista…” (2) E così in ragione di tutto ciò Gustav von Aschenbach ha scelto la sublimazione degli istinti vitali nell’illusione di trovare pace al turbinio dell’esistenza, estraniandosi da essa. Ha assoggettato il desiderio al perseguimento estetico, ha sottoposto il dissidio fra arte e vita ad un opzione dogmatica e sacrificale, facendo dell’arte un valore assoluto, il suo valore assoluto, fino al punto di fare della figura di san Sebastiano – colui la cui iconografia ce lo mostra martire immobile mentre spade e lance gli trapassano il corpo – il suo ideale estetico: “…e la figura di san Sebastiano è il simbolo più bello, se non dell’arte in assoluto, per lo meno di quest’arte”, riferisce Thomas Mann evocando la concezione che Aschenbach ha della sua arte. Ma quelle regole alle quali egli soggiace non offrono alcun nutrimento alla vita. Non consentono di per sé di stare compiutamente al mondo, lasciano un deliberatamente da Mann per evidenziare ed esasperare, anche stilisticamente, quell’altra “forma” che Aschenbach ha dato alla sua vita e alla sua arte. In questo senso la natura in sé tragica de “La morte a Venezia” – dato che anche “la sua struttura suddivisa in cinque capitoli, richiama quella in cinque atti della tragedia attica; e Thomas Mann stesso ha sempre parlato di “tragedia” a proposito della sua creazione”(4) – non esaurisce in se stessa il senso e il tono della novella. In quanto quel tono paludato, scelto da Mann, è esso stesso una chiave di lettura: “La fitta trama simbolica che si condensa attorno al fatto narrato e il linguaggio solenne paludato di classico, ricco di figure retoriche, di aggettivi e participi sostantivati, di ritmi interni – insomma lo stile aschenbachiano adottato da Mann per narrare la caduta di Aschenbach – liberano la sostanziale natura patologica del fatto dal suo carattere naturalistico e la innalzano su un piano di altissima ironia: ironia consustanziale alla forma stessa e non inerente a particolari contenutistici.” (5) In altre parole Mann, “imitando” Aschenbach, al tempo stesso ne fa la parodia, ma così facendo decreta, anche a questo livello e in modo ancora più tragico, la fine di Aschenbach. Peraltro ciò non fa che esaltare ancor più lo sprigionarsi dell’elemento tragico contenuto nelle vicende narrate. Infatti: “… parodia e ironia hanno ne “La morte a Venezia” la stessa funzione che ha il sarcasmo nella tragedia greca… si esaspera così il risvolto drammatico dell’episodio, lo si lacera con il divario tra l’ineluttabilità del momento e l’illudersi insensato del protagonista stretto nella morsa del suo destino” (6) Ma l’ambiguità dei personaggi con cui entra in contatto Aschenbach, sin qui vista, veicola non solo l’ambiguo che pervade la situazione narrativa, né solo l’ambiguo insito nella deriva etico/esistenziale a cui andrà incontro Aschenbach che lo condurrà a quel disfacimento simbolo di e della decadenza. Qui, in modo assai più organico, l’ambiguo permea e penetra dovunque e si fa protagonista, smontando tutta la struttura interna della novella e designando, con la sua sistematica presenza, l’inconciliabilità di una sintesi fra entità che resteranno irresolubilmente in opposizione, prive di qualsiasi possibile integrazione. E rivelando, proprio tale ambiguità, l’intrinseca bifrontalità che le stesse categorie chiave della novella possiedono. In questo senso è paradigmatico e fondamentale l’iter e l’approdo che avrà nella novella il significato “della forma”, termine, quello di “forma”, la cui rilevanza, peraltro, è già rinvenibile a livello di frequenza semantica, evidenziando ciò la valenza di tale concetto per Mann. Infatti, “Ne “La morte a Venezia” ricorre di continuo la parola “forma”, sia come generico “Form”, sia come “Gestalt”… Quella di “forma” nelle due accezioni, è parola che ritorna quasi ossessivamente in tutta la produzione di Mann. E’ fra l’altro l’ultima parola pronunciata (come “Gestalt”), a tre mesi dalla morte, in occasione del discorso su Schiller tenuto l’8 maggio 1955 nello Staatstheater di Stoccarda.” (7) Ebbene, ricapitolando i significati “della forma” introdotti da Mann nella novella essa, all’inizio, come abbiamo visto, appare come modello esistenziale della vita di Aschenbach, poi si manifesta nella sua valenza di canone estetico dell’arte di Aschenbach, volutamente e “paradossalmente” adottato come canone stilistico da Mann, per diventare infine, così come vedremo lo farà diventare Mann, il contenitore simbolico/concettuale, nonché la causa, della corruzione/dissoluzione di Aschenbach sia in quanto artista che in quanto uomo. Vi è infatti nella “forma” la compresenza “ambigua” di una duplice significanza che corrode dall’ interno la sua apparente solidità concettuale. Dice infatti a un certo punto Mann: “Non è qualcosa di bifronte il fatto stesso della forma, morale e immorale – morale in quanto portato ed espressione di disciplina, immorale e, anzi, antimorale in quanto costituzionalmente comporta una posizione di indifferenza ai problemi etici e ad altro non tende che a piegare sotto il suo scettro superbo e dispotico ogni moralità?”. Quell’arte di Aschenbach dominata dalla forma sarebbe perciò essa stessa intrinsecamente ambigua perché nel momento stesso in cui persegue il suo canone proprio questo suo canone la sgretola e la consuma. In quanto votata al perseguimento del suo ideale estetico quell’arte conduce l’artista a non mantenere più le distanze dall’oggetto artistico trascinandolo al perseguimento di quell’ideale a prescindere dalle implicazioni e dalle ricadute morali che esso può comportare. E inducendo la ricerca di un assoluto e di una perfezione che riducono l’arte ad insterilirsi nella forma che diventa un vuoto ed astratto guscio che la uccide. Non instaurandosi alcun rapporto critico con il suo oggetto e dove la forma diventa tout court il contenuto. Come quindi Aschenbach è indifeso nella vita dall’irruzione della “vita”, anche il rapporto con la sua arte lo espone pericolosamente all’irruzione della perdita del controllo e al divenirne ostaggio a causa della concezione estetica insita in quell’arte. Aschemnbach insomma non è esente da quell’ “ambigua natura dell’arte e della professione d’artista”che Aschenbach stesso – riferisce Mann – da giovane aveva fatto trapelare di avere intuito, estendendo in tal modo Mann quest’idea problematizzata dell’arte all’arte in sé nel momento in cui essa è dominata dal perseguimento di un suo canone assunto come imperativo assoluto. In altre parole proprio l’opposto di quello che fa qui Mann con la sua strategia dell’ironia la quale, parodiando Aschenbach, diventa il suo modo per prendere le distanze da Aschenbach. Ma è anche il modo per prendere le distanze da ciò che egli stesso sta creando, cioè da Aschenbach in quanto oggetto artistico e, perciò, per prendere le distanze dalla (sua) opera d’arte. In tal modo Mann si sottrae con un’operazione stilistico-concettuale raffinatissima a quelle contraddizioni insite in una concezione idealistica dell’arte che egli sta qui smascherando. Ed è in questo quadro che si inserisce l’incontro di Aschenbach con colui che sarà l’incarnazione della forma e perciò causa e simbolo della sua caduta mortale. Sceso nell’ovattato ed esclusivo Hotel Des Bains, Aschenbach la sera stessa del suo arrivo vi scorge “un ragazzo dai capelli lunghi sui quattordici anni”, i cui tratti e le cui fattezze, nel loro insieme, “ricordavano le sculture greche dell’epoca aurea”, e colpito, altresì, dai modi del ragazzo “lo scrittore si confessò di non aver mai veduto, né in natura né in alcun prodotto delle arti figurative, un simile capolavoro”. Quel ragazzo dalla “bellezza realmente sovraumana” appartiene ad una nobile famiglia polacca e si trova lì in villeggiatura con la sua famiglia. Il suo nome è Tadzio e diverrà per Aschenbach l’oggetto di una vera e propria ossessione: si soffermerà a guardarlo mentre gioca in spiaggia, lo osserverà affascinato quando prende posto a tavola, lo seguirà a distanza in giro per la città. Aschenbach sarà preda di una passione che lo getterà in balia di un vero e proprio tormento, segnato, come egli sarà, dall’irraggiungibilità di ciò che vorrebbe e quindi da un senso di perenne e inesorabile impotenza. Perché anche quando Tadzio, resosi conto degli insistenti sguardi di Aschenbach, ricambierà quegli sguardi, ciò non determinerà mai da parte del ragazzo reazioni esplicite, né vi sarà tra di loro alcun contatto, dominando l’allusione e alimentandosi un’ambiguità carica di Eros che moltiplicherà in Aschenbach struggimento e desiderio. Aschenbach artista e Aschenbach uomo si trovano quindi, di fatto, alla mercé di Tadzio che incarna una duplice aspirazione da cui Aschenbach è attratto. Come artista quella di poter raggiungere l’assoluto estetico contenuto nella purezza di Tadzio, come uomo quella di vivere il suo innamoramento per Tadzio. Ma entrambe queste aspirazioni non solo si riveleranno irrealizzabili ma condurranno, tragicamente, Aschenbach alla dissoluzione della sua integrità esistenziale e del suo raziocinio di artista: il dominio “della forma” connaturato alla sua esistenza e connaturato alla sua estetica lo condurrà alla morte. Aschenbach finirà stritolato fra il perseguimento dell’ideale di Bellezza apollineo insito in Tadzio e il desiderio di abbandono all’ Ebbrezza dionisiaca suscitatagli da Tadzio Come accennato, Aschenbach non entra mai in contatto con Tadzio se non a livello visivo, egli cioè si “forma” un’immagine di Tadzio in base ai suoi canoni artistici facendone “…una imitazione di un giovane dio, una scultura, una creazione apollinea…Tadzio non parla, non acquisisce dimensione reale…[ma] appare [come]un’opera d’arte…[la quale] vive solo fintanto che Aschenbach la crea…l’esistenza di Tadzio [è] un’ esistenza intangibile, fatta di forma…”(8) Ed è in questi termini infatti che Mann descrive il modo in cui Ascenbach “osserva” Tadzio: “Lo sguardo rapito nell’estasi abbracciava la nobile figuretta ferma laggiù sul lembo dell’ azzurro; e in quella visione mirava il bello in sé, la forma come sacro pensiero, la perfezione una e certa che vive nello spirito e di cui la copia, il facsimile umano era lì, lieve e leggiadro, adorabile.” Persino il nome di Tadzio è, in realtà, una “creazione” di Aschenbach che egli deduce a partire da quell’ “Adgio” sentito da lontano: “E nello scoprire, nello studiare quale nome potesse corrispondere a quell’indistinto suono di “Adgio”…con l’aiuto di qualche reminescenza di polacco, stabilì che si doveva trattare di “Tadzio”, abbreviazione di Taddeo” Aschenbach quindi crea Tadzio e nella sua rappresentazione Tadzio è quell’ideale di Bellezza che orienta da sempre la sua arte formale. Ma se “In Tadzio, Aschenbach vede realizzata la forma compiuta del bello…La contemplazione del fanciullo induce quello stato di ebbrezza che…assume, a contatto col sembiante reale del giovane Tadzio, un carattere erotico che egli cerca di ricondurre alla purezza e… al valore…della bellezza” (9), tenta cioè di ricondurre anche l’eros alla “forma” destituendolo della sua pulsione. Fa infatti dire Mann ad Aschenbach: “…solo la bellezza è insieme amabile ed evidente: essa è…l’unica forma …che i nostri sensi riescono ad accogliere e a sopportare. Altrimenti…Non periremmo, non bruceremmo d’amore, come già Semele di fronte a Zeus?” Ma il modo in cui la bellezza si farà strada indurrà inesorabilmente Eros, ma un eros che assumerà un potere disgregante, i cui effetti, in Aschenbach, Mann descrive così: “…ciò che egli desiderava, era…di prendere la figura del giovinetto a modello del suo scritto, di lasciare che lo stile seguisse le linee di quel corpo d’apparenza divina, fino a trasferire la bellezza nel regno dello spirito…Mai gli era parso più dolce il gaudio della parola, mai era stato così certo della presenza di Eros in essa…compose ispirandosi alla bellezza di Tadzio il suo breve trattato…Strana e snervante fatica! Singolare risultanza del contatto fra lo spirito e un corpo! Quando Aschenbach mise da parte il suo lavoro e lasciò la spiaggia, si sentiva spossato, disfatto, come dopo un’orgia…” Tadzio diverrà quindi ispiratore in Aschenbach di un Eros che sarà portatore di dissoluzione e disfacimento, che prenderà il sopravvento e lo travolgerà, conducendolo in un percorso di sofferenza e trasformazione di cui sarà succube e che gli farà perdere qualsiasi difesa, a partire da quell’ Haltung, cioè quel contegno che egli ha posto a fondamento di tutto se stesso. Di quel groviglio di sensazioni e di sentimenti che Aschenbach proverà egli non ha consapevolezza, li vive divenendone preda, ma non li conosce e non li riconosce. Perché Aschenbach non ha mai vissuto, né la sua arte ha mai affrontato la vita. Ed “…è in questo che risiede il problema di Aschenbach, così tragicamente privo di consapevolezza, e di tutti coloro che praticano una siffatta arte:…una letteratura che trasforma la vita in pura forma, in filosofia, in mito è destinata a fallire, perché nulla sa della vita”(10). Come peraltro “Nel [suo] “Saggio sul matrimonio” Mann [stesso] aveva scritto: “Ove regna il concetto della bellezza l’imperativo vitale perde in valore assoluto. Il principio della bellezza e della forma non procede dalla sfera della vita…Esso si contrappone alla vita,…e alle radici è collegato all’idea della morte e della sterilità””(11) E giunge così a compimento l’itinerario “antimorale” di Aschenbach, la sua dissoluzione toccherà il punto più alto introiettando ed elaborando nel suo inconscio, in modo esplicito e per lui devastante, un furioso senso del piacere, privo di ogni controllo e dedito ad una lussuria animalesca e primordiale che sovverte e annienta la sua natura apollinea e gli rivela la presenza di Dioniso a cui egli si dà totalmente. E ciò in quel “sogno tremendo” il cui “teatro” sarà “la sua propria anima”. “Nel sogno dionisiaco di Aschenbach ogni illusione classico-apollinea viene “smascherata”…fino a rovesciarsi in un dionisismo turpe e oscuro, animato da suoni al limite tra la musica e il rumore, [in cui] il suono del flauto alimenta la lussuria svincolata ormai da ogni forma d’amore e di sublimazione…Sconvolto dall’orrore e dal delirio, Aschenbach prende parte all’orgia”(15) E così infatti Mann descrive quel “sogno tremendo”: “All’inizio fu paura, paura e gioia, e un atterrito senso di curiosità per quello che doveva venire…da lungi si appressava un rombo, un frastuono, una quantità di rumori mescolati assieme:…in uno con laceranti grida di giubilo…il tutto frammisto e con orrenda dolcezza dominato da un suono di flauto,…così lussurioso e penetrante da attanagliare le viscere…Al ritmo dei timpani si squassava il suo cuore, il cervello vorticava; ira, accecamento, stordimento voluttuoso invadevano la sua anima, smaniosa di accordarsi al tripudio del dio. Ed ecco, enorme, ligneo, scoprirsi e innalzarsi l’osceno simbolo; a quella vista, tra sfrenati clamori, tutti gridarono la formula rituale e con la schiuma alle labbra si precipitarono in un’orgia pazzesca…Ma ormai egli non era più semplice spettatore del sogno: si era unito a loro, era entrato in loro, faceva tutt’uno col dio straniero. Si, essi erano lui quando sbranando, sgozzando, si gettarono sulle bestie e ne divorarono brandelli fumanti; quando sul muschio sconvolto ebbe inizio, in onore del dio, una copula scatenata. E l’anima sua assaporò la libidine e il delirio dell’abiezione. Da quel sogno l’infelice si destò svigorito, devastato, irremissibilmente consegnato al demone.” Ormai Aschenbach arriva al punto di considerare esplicitamente e senza remore “la legge morale una futilità”, convinto della sua inutilità e caducità ed è pronto a vestire i panni del vecchio damerino incontrato sul battello durante il suo arrivo a Venezia: “Un istinto lo spingeva a cercar nuovo vigore, nuovo rigoglio fisico; era diventato assiduo cliente del parrucchiere”. Pur di piacere all’amato Aschenbach sarà preso da un’ansia di giovinezza alla quale sacrificherà anche la propria dignità senile. Ma, intanto, il contagio lo ha colpito, forse per quelle fragole “troppo mature”, veicolo di infezione, che ha improvvidamente mangiato, anche se, su questo, Mann ci lascia ambiguamente in sospeso. In balia di un alternarsi di delirio e di sogno Aschenbach si avvede, in quella sorta di accorato appello che pronuncia prima di morire, come la sua arte e la sua vita abbiano vanamente perseguito un’illusoria astrattezza, incapace di nutrirle e di preservarle dall’abisso. Nel dichiarare le verità sull’arte e su se stesso, Aschenbach coglie la funzione disvelatrice insita in quell’ Eros che lo ha travolto, illuso, come egli è stato, di poterlo ripudiare: “…noi poeti, non possiamo percorrere la via della bellezza senza trovarvi Eros, che ben presto ci impone la sua guida”. Laddove vita e arte, votate solo a quella bellezza “della forma” che non contempla Eros, che non lo prevede e non lo integra, saranno consumate da quello stesso Eros che le assoggetterà. Aschenbach ha così sperimentato tutta la fallacia di una vita edificata sull’autoinganno, sull’insensata pretesa di scindere spirito e corpo, e sulla ricerca di un’impossibile innocenza nel solco dell’ideale classico la cui dissoluzione e il cui rovesciamento nel dionisismo ne sanciscono il fallimento proprio perché lo spirito critico e il distanziamento necessari all’arte sono stati smarriti. E, in un’ideale ricongiungersi della fine con il suo inizio, Tadzio chiuderà il cerchio dei traghettatori di Aschenbach verso la morte, aperto da quell’ “uomo dall’aspetto inusitato” visto nel cimitero di Monaco. Tadzio sarà infatti anche quel “pallido e gentile psicagogo” cioè Ermes che conduce nell’oltretomba le anime dei morti. Con quell’ultimo sorriso che ad Aschenbach sembra di percepire: “… a lui parve che il pallido e gentile psicagogo laggiù gli sorridesse”, che è un’ennesima parvenza di realtà, in quella che sarà l’ultima ed estrema visione di Aschenbach, Tadzio lo guiderà, con quel gesto della mano a “…indicare un punto lontano…verso benefiche immensità”, nel mondo dei morti. Ed Aschenbach, ancora una volta, “…come già tante volte aveva fatto, si dispose a seguirlo. La morte a Venezia racconta l’amore platonico e autodistruttivo che un vecchio scrittore tedesco prova per un ragazzino in villeggiatura con la famiglia a Venezia. Questo amore che porta un uomo assennato, riconosciuto dalla società benestante e benpensante come un punto di riferimento etico ed estetico, a far crollare progressivamente tutte le proprie certezze fino a rifuggere persino la propria salute fisica, rischiando il contagio del colera e quindi la morte. Thomas Mann fa così convergere nel personaggio di Aschenbach due aspetti della propria personalità e della propria attività artistica: da un lato la compostezza e la ricerca dell’ordine borghese e dall’altro la tensione spirituale dell’arte e dell’amore a rompere gli schemi e a contraddire la logica del successo materiale. Questa antitesi, insolubile per Mann (come si vede anche nei suoi romanzi maggiori), è alla base della crisi e della sconfitta di Aschenbach, su cui lo scrittore proietta in parte motivi autobiografici: la morte, quasi involontariamente cercata dal protagonista nel suo rifiuto di abbandonare Venezia, può essere letta come quella “pulsione di morte” indicata da Sigmund Freud come una tensione autodistruttiva del soggetto, correlata appunto alla coazione a ripetere. L’atmosfera di morte è infatti dominante sin dalle prime pagine del libro. Aschenbach avverte il richiamo alla partenza nei pressi di un cimitero, dopo l’apparizione di una strana figura, che è metafora del destino che l’attende. Anche la visione del vecchio imbellettato sulla nave verso Venezia che si intrattiene con ragazzi molto più giovani di lui non è solo un dettaglio comico ma preannuncia la trasformazione di Aschenbach quando pedina Tadzio per le calli veneziane. La città stessa, d’altronde, ben si presta a rappresentare l’ambiguo connubio tra Amore e Morte: seducente erede di un passato glorioso e culla di artisti, Venezia è ormai l’oscuro fantasma degli sfarzi di un tempo. La sua estetica decadente con le strette calli, i portici e le acque ristagnanti si ricollega quindi alla funzione allegorica del colera, che rappresenta la crisi etica ed esistenziale del protagonista e la sua crescente mania morbosa. L’esito della vicenda indica per Mann l’impossibilità di risolvere l’enigma che lega realtà ed esperienza artistica (o pulsione dei sensi): se la prima sembra negare e proibire la seconda, tuttavia senza di essa perde valore; al tempo stesso, l’esperienza sensuale e aritistica, se vissuta pienamente, porta inevitabilmente ad una drammatica sconfitta. Non è allora casuale che nelle ultime pagine del testo Aschenbach sia sconvolto da un incubo tormentoso, che mette in luce tutte le sue contraddizioni. Lo scrittore sogna infatti di trovarsi in un baccanale, descritto con toni cupi e immagini carnali e violente, ben lontane dalla serena bellezza classica di Tadzio. → È un racconto sul rapporto tra bellezza, arte e vita, tra borghesia e decadenza, tematiche spesso trattate da Thomas Mann all'inizio del '900. Per Mann il mondo borghese significa vitalità, quello dell'arte, al contrario, raffinatezza ma anche decadenza che conduce alla morte. In questo racconto il contrasto tra arte e vita è portato all'estremo, sono due cerchi inconciliabili: la bellezza concreta e reale della vita sopravive, l'artista invece muore. → Non so se La Morte a Venezia abbia un palese messaggio. Tuttavia ne ho percepito uno: anche l’uomo più saggio e disciplinato del mondo può inciampare, cadere, e perdere sé stesso. La morte può simboleggiare il cambiamento che provoca in noi una persona che amiamo. La trasformazione è truce se l’amore non viene ricambiato, più dolce se invece esiste una corrispondenza. Però qua ci sono in ballo gli abissi dell’anima umana. Cosa succede quando si spegne la lampadina della ragione e incominciano a mescolarsi moralità e immoralità? “Ma la risolutezza morale al di là della scienza, della conoscenza che scioglie e inceppa, non è a sua volta una semplificazione, una chiarificazione morale del mondo e dell’anima, e quindi anche un invigorimento verso il male, l’illecito, il moralmente proibito? E la forma non ha due facce diverse? Non è morale e immorale a un tempo – morale come risultato ed espressione della decenza, immorale invece e addirittura antimorale in quanto contiene in sé per natura un’indifferenza morale, e anzi tende essenzialmente a sommettere l’etica al suo dominio superbo e assoluto?” Come avrete notato leggendo la citazione, tocchiamo alti livelli di riflessione filosofica. La morte a Venezia è un libro sulle radici oscure del desiderio – prendo in prestito la definizione di Piero Dorfles – in cui si scandaglia la complessità dell’animo umano. Thomas Mann getta in faccia al lettore la brutalità delle passioni di Aschenbach, condendo il racconto con elementi romantici che mitigano l’atmosfera drammatica del breve romanzo.
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