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RIASSUNTO E COMMENTO LIBRO PALOMAR - Italo Calvino, Appunti di Letteratura

esame di Letteratura Italiana, linguaggi dei media, anno 2019/2020, Prof Ferro

Tipologia: Appunti

2019/2020

Caricato il 17/09/2020

martina.rocca1
martina.rocca1 🇮🇹

4.3

(76)

38 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica RIASSUNTO E COMMENTO LIBRO PALOMAR - Italo Calvino e più Appunti in PDF di Letteratura solo su Docsity! PALOMAR – Italo Calvino 1923 Italo Calvino nasce il 15 ottobre a Santiago de Las Vegas, una piccola città presso l’Havana. Il padre Mario è un agronomo di vecchia famiglia sanremese che dopo aver trascorso 20 anni in Messico si trova a Cuba per dirigere una stazione sperimentale di agricoltura e di scuola agraria. La madre, Eva Mameli, è laureata in scienze naturali e lavora come assistente di botanica all’università di Pavia. 1925 La famiglia fa ritorno in Italia. Questo era già programmato da tempo ma era stato rinviato a causa dell’arrivo del primogenito a Sanremo. I Calvino vivono tra la Villa Meridiana e la campagna di San Giovanni Battista. I genitori sono contrari al fascismo 1927 Calvino frequenta le scuole Valdesi e diventerà poi balilla negli ultimi anni delle elementari, quando l’obbligo dell’iscrizione verrà esteso alle scuole private. 1934 Superato l’esame di ammissione, frequenta il ginnasio-liceo Cassini. I genitori non danno ai figli un’educazione religiosa e in una scuola statale la richiesta di esonero dalle lezioni di religione e dai servizi di culto risulta anticonformista. Cresce tollerante verso le opinioni altrui, particolarmente nel campo religioso. 1935-1938 Il piacere della lettura inizia con Kipling e poi il libro della giungla. Leggeva anche riviste umoristiche ed era appassionato di cinema. Con la guerra Sanremo cessa di essere quel punto di incontro cosmopolita che era da un secolo. 1939-1940 La sua posizione ideologica rimane incerta, sospesa tra il recupero polemico di una scontrosa identità locale e un confuso anarchismo. Scrive brevi racconti, poesie, aumenta la passione per il disegno e la caricatura. 1941-1942 Si iscrive alla facoltà di agraria dell’Università di Torino Scrive recensioni per un film e presenta dei racconti giovanili Inizia l’amicizia con Eugenio Scalfari che trova stimolo per interessi culturali, politici 1943 Si trasferisce alla facoltà di agraria di Firenze Ritorna a Sanremo Passa un periodo nascosto, un periodo di solitudine e di letture intense che avranno un peso nella sua vocazione di scrittore. 1944 Dopo aver saputo della morte in combattimento del medico comunista Felice Cascione, chiede a un amico di presentarlo al PCI. Si unisce alla seconda divisione di assalto Garibaldi che opera sulle Alpi marittime, teatro dei più aspri scontri tra partigiani e nazifascisti. I genitori vengono sequestrati dai tedeschi e tenuti in ostaggio. L’esperienza della guerra partigiana risulta decisiva per la sua formazione umana e politica, soprattutto lo spirito e l’attitudine a superare gli ostacoli che animavano gli uomini della resistenza 1945 Partecipa alla Battaglia di Baiardo, dove i partigiani sono appoggiati dai caccia alleati. Dopo la liberazione inizia la “storia cosciente” delle idee di Calvino Scrive vari periodici per la provincia di Imperia Si iscrive alla facoltà di lettere a Torino Diventa amico di Cesare Pavese 1946 Pubblica su periodici numerosi racconti che confluiranno in “ultimo viene il corvo” Si dedica alla stesura del suo primo libro “il sentiero dei nidi di ragno” 1947 Laurea con tesi su Joseph Conrad Stringe amicizia con filosofi e storici come Norberto Bobbio e Felice Balbo Partecipa al festival della gioventù di Praga 1948 Lascia Einaudi per lavorare all’edizione torinese dell’Unità, dove si occupa della redazione della terza pagina 1949 Partecipa al congresso dei partigiani della pace di Parigi che gli costerà il divieto di entrare in Francia. Cura la rubrica delle cronache teatrali Torna a lavorare a Einaudi Esce “ultimo viene il corvo” 1950 Pavese si toglie la vita 1951 Conclude il romanzo “giovani del Po” e scrive “il visconte dimezzato” Muore il padre e ne ricorderà all’interno de “la strada di San Giovanni” 1952 Diventa direttore del “notiziario Einaudi” Scrive “la formica argentina” e le novelle di “Marcovaldo” 1953 Lavora a “La collana della regina” destinato all’ambiente torinese e operaio 1954 Collaborazione con il settimanale “il contemporaneo” Esce “l’entrata in guerra” Viene definito il progetto delle “fiabe italiane”, raccolta di oltre 200 racconti popolari delle varie regioni d’Italia 1955 Ottiene da Einaudi la qualifica di dirigente e diventa poi consulente editoriale Esce “il midollo del leone”, primo di una serie di importanti saggi, volti a definire la propria idea di letteratura Stringe una relazione con l’attrice Elsa de Giorgi 1956 Viene nominato dal Pci membro della Commissione culturale nazionale. Ha come punto di riferimento Giolitti 1957 Esce “il barone rampante” Rassegna la propria dimissione dal Pci, dimostrando fiducia nei confronti delle prospettive democratiche del socialismo. 1958-1959 Appare il grande volume antologico “Racconti” ed esce il “Cavaliere inesistente” Coltiva interesse per il teatro, la musica e lo spettacolo Parte per un viaggio negli Usa 1960-1961 Rifiuta di collaborare al Corriere della Sera perché riteneva non si fosse più nulla da scrivere Compie un viaggio in Scandinavia e nell’Isola di Maiorca, poi a Monaco e a Francoforte per la fiera del libro 1962 A Parigi fa conoscenza con Esther Judith Singer, traduttrice argentina che lavora presso organismi internazionali come l’Unesco 1963 Prende avvio il movimento della neoavanguardia e Calvino ne segue gli sviluppi con interesse Compie un viaggio in Libia e a Corfù e poi in Francia 1964 Sposa Esther a l’Avana e a Cuba visita i luoghi dove era stato da bambino con i suoi genitori Si stabilisce a Roma con il figlio della donna Marcelo Weil 1965 Nasce la figlia Giovanna 1966 Muore Vittorini e Calvino pubblicherà un saggio dedicato a lui. Segue un periodo di cambiamento 1967 Si trasferisce a Parigi 1968 Nasce l’interesse per la semiologia Segue la contestazione con interesse ma senza condividere atteggiamenti e ideologia l'immagine dettagliata vista ieri sera, e cerca d'inserirla in quella minuscola macchia di luce sperando d'essersi appropriato veramente del pianeta. Quando c'è una bella notte stellata deve guardare le stelle e dice deve perché odia gli sprechi e pensa che non sia giusto sprecare tutta quella quantità di stelle che gli viene messa a disposizione. La prima difficoltà è quella di trovare un posto dal quale il suo sguardo possa spaziare per tutta la cupola del cielo senza ostacoli e senza l'invadenza dell'illuminazione elettrica e l’altra condizione è il portarsi dietro una mappa astronomica. Potrebbe far uso di un telescopio ma l'esperienza del cielo che interessa a lui è quella a occhio nudo. Dall'ultima volta in cui il signor Palomar ha guardato le stelle sono passate settimane o mesi; il cielo è tutto cambiato; Quella notte il cielo sembrava molto più affollato di qualsiasi mappa; Per riconoscere una costellazione, la prova decisiva è vedere come risponde quando la si chiama. I nomi delle stelle per gli orfani di ogni mitologia sembrano arbitrari. Quando il nome che Palomar ha trovato è quello giusto, se ne accorge subito, perché esso dà alla stella una necessità e un'evidenza che prima non aveva; se invece è un nome sbagliato, la stella lo perde dopo pochi secondi. Palomar decide che la Chioma di Berenice, la costellazione da lui amata, è quello sciame luminoso dalle parti di Ofiuco: ma non torna a sentire il palpito altre volte provato e solo in seguito si rende conto che se non la trova è perché la Chioma di Berenice di questa stagione non si vede. Trovandosi davvero in presenza del cielo stellato, tutto sembra che gli sfugga. Se i corpi luminosi sono carichi d'incertezza, non resta che affidarsi al buio. Cosa può esserci di più stabile del nulla? Eppure anche del nulla non si può essere sicuri al cento per cento. Se lui si obbligasse a contemplare le costellazioni notte per notte e anno per anno, forse alla fine conquisterebbe anche lui la nozione d'un tempo continuo e immutabile, separato dal tempo frammentario degli accadimenti terrestri. 2- PALOMAR IN CITTA’ PALOMAR SUL TERRAZZO Il cielo della città di Roma è da tempo caduto in balia della sovrappopolazione di piccioni, i quali mangiano le foglie delle piante di Palomar, e che rendono la vita difficile a ogni altra specie d'uccelli intorno. Il rigoglio del terrazzo risponde al desiderio d'ogni membro della famiglia, ma mentre alla signora Palomar è venuto naturale di trasferire sulle piante la sua attenzione alle cose singole, scelte e fatte proprie per identificazione interiore e così entrate a comporre un insieme dalle multiple variazioni, una collezione emblematica, questa dimensione dello spirito fa difetto agli altri familiari; alla figlia perché la giovinezza non può né deve fissarsi sul qui ma solo sul più in là; al marito perché è arrivato troppo tardi a liberarsi dalle impazienze giovanili e a capire che l'unica salvezza è nell'applicarsi alle cose che ci sono. Le preoccupazioni del coltivatore per cui ciò che conta è quella data pianta, quel dato pezzo di terreno esposto al sole dalla tale ora alla tale ora, quella data malattia delle foglie sono estranee alla mente dell'industria, portata a decidere sulle impostazioni generali e sui prototipi. Alla prosperità del terrazzo, Palomar contribuisce correndo ogni tanto a spaventare i piccioni, risvegliando in sé il sentimento della difesa del territorio. Se sulla terrazza si posano uccelli diversi dai piccioni, anziché cacciarli dà loro il benvenuto. Inizia poi a pensare il mondo com'è visto dai volatili; a differenza di lui gli uccelli hanno il vuoto che s'apre sotto di loro, ma forse non guardano mai in giù, vedono solo ai lati, e il loro sguardo, dovunque si diriga non incontra altro che tetti più alti o più bassi. Che là sotto esistano delle vie e delle piazze, che il vero suolo sia quello a livello del suolo, lui lo sa in base ad altre esperienze; ora come ora, da quel che vede di quassù, non potrebbe sospettarlo. Gli uccelli non si domandano cosa sta sulla terra in quanto è già tanto ricca e varia la vista in superficie. Il protagonista afferma che solo dopo aver conosciuto la superficie delle cose, ci si può spingere a cercare quel che c'è sotto, anche se la superficie delle cose è inesauribile. Sul terrazzo, come tutte le estati, è tornato il geco. Un eccezionale punto d'osservazione permette di vederlo non di schiena, come da sempre siamo abituati a vederli, ma di pancia. La scelta tra televisione e geco non avviene sempre senza incertezze; i due spettacoli hanno ognuno delle informazioni da dare che l'altro non dà: la televisione descrive la faccia visibile delle cose; il geco invece rappresenta l'aspetto nascosto, il rovescio di ciò che si mostra alla vista. La cosa più straordinaria sono le zampe e il modo con cui cattura la preda. Infatti quando un moscerino passa vicino alla gola, la lingua scatta e inghiotte; il ventre premuto contro il vetro illuminato è trasparente come ai raggi X e si può seguire l'ombra della preda nel suo tragitto attraverso le viscere. Se ogni materia fosse trasparente, tutto apparirebbe come un inferno di stritolamenti e ingerimenti. Il geco resta immobile per ore; altri insetti, invece, pare non li registri. E' la pupilla verticale dei suoi occhi divaricati ai lati che non li scorge? O ha motivi di scelta e di rifiuto che noi non sappiamo? O agisce mosso dal caso o dal capriccio? Il geco è all’apparenza di congegno meccanico; una macchina elaboratissima, tanto che viene da chiedersi se una tale perfezione non sia sprecata, viste le operazioni limitate che compie. O forse è quello il suo segreto: soddisfatto d'essere, riduce il fare al minimo? Sarà questa la sua lezione, l'opposto della morale che in gioventù il signor Palomar aveva voluto far sua: cercare sempre di fare qualcosa un po' al di là dei propri mezzi? Dopo aver inghiottito anche una farfalla Palomar si domanda: Ne avrà abbastanza, per stanotte? Se ne andrà? Era questo il culmine d'ogni desiderio che lui attendeva di soddisfare? C'è una cosa straordinaria da vedere a Roma in questa fine d'autunno ed è il cielo gremito d'uccelli. Sono storni che si raccolgono a centinaia di migliaia, provenienti dal Nord, in attesa di partire tutti insieme per le coste dell'Africa. Dove vadano durante il giorno, che funzione abbia nella strategia della migrazione questa sosta prolungata in una città non è riuscito ancora a capirlo. Quella che fin qui gli era sembrata un'immensità tranquilla si rivela tutta percorsa da presenze rapidissime e leggere. Palomar sente come un senso d'apprensione. Sarà perché questo affollarsi del cielo ci ricorda che l'equilibrio della natura è perduto? O perché il nostro senso d'insicurezza proietta dovunque minacce di catastrofe? Quando si pensa agli uccelli migratori ci si immagina di solito una formazione di volo molto ordinata e compatta, ma quest' immagine non vale per gli storni; si diradano e disperdono. All'interno dello stormo sembra che vi sia una compattezza dove alcuni sono vicini e altri lontani ma questa illusione di regolarità è traditrice, in quanto vi sono anche voragini di vuoto. Palomar si sente come se facesse parte di questo corpo in movimento composto ma il cui insieme costituisce un oggetto unitario, ma seguendo con lo sguardo un singolo pennuto si vede che ogni uccello ha infatti una direzione diversa e sente il bisogno di comunicare con i suoi amici. Hai visto come riescono sempre a evitarsi anche dove volano più fitti, anche quando i loro percorsi s'incrociano? Non è vero. Ho trovato sul selciato degli uccelli, agonizzanti o morti. Sono le vittime degli scontri in volo. Ho capito perché alla sera continuano a sorvolare tutti insieme questa zona della città. Sono come gli aerei che girano sopra l'aeroporto finché non ricevono il segnale di "via libera" per atterrare. Per questo li vediamo volare intorno così a lungo; aspettano il loro turno per posarsi sugli alberi dove passeranno la notte. Ogni uccello ha un albero che è il suo, un suo ramo e un suo posto sul ramo. Lo distingue dall'alto e si butta. PALOMAR FA LA SPESA Palomar fa la coda in una charcuterie di Parigi, e contempla i flaconi di vetro, in particolare il grasso d’oca. Cerca di trovare un posto nei suoi ricordi per il cassoulet, di cui il grasso d'oca è ingrediente essenziale; ma né la memoria del palato né quella culturale gli sono d'aiuto. Eppure il nome, la visione, l'idea lo attraggono, risvegliano un'istantanea fantasticheria non tanto della gola quanto dell'eros: dal grasso d'oca affiora una figura femminile. Al contrario della vastità e varietà di prodotti, la gente è grigia e opaca. Ognuno di costoro sa esattamente quello che vuole, punta diritto sul suo obiettivo con una determinazione senza incertezze. Il signor Palomar vorrebbe cogliere nei loro sguardi un riflesso della fascinazione di quei tesori, ma i visi e i gesti sono solo impazienti e sfuggenti, di persone concentrate in se stesse, a nervi tesi, preoccupate di ciò che ha e ciò che non ha. Esiste un legame profondo, tra loro e quei cibi. S'accorge di provare un sentimento molto simile alla gelosia: vorrebbe che dai loro vassoi i paté d'anatra e di lepre dimostrassero di preferire lui agli altri, di riconoscere in lui il solo che merita i loro doni. Palomar si trova in un negozio di formaggi, a Parigi. L’ assortimento sembra voler documentare ogni forma di latticino pensabile; C'è chi dagli incontri con altri conoscenti trae ispirazione per nuovi desideri, cambia idea su quel che stava per chiedere o aggiunge una nuova voce alla lista; e c'è chi non si lascia distrarre nemmeno per un istante dall'obiettivo che sta perseguendo. L'animo di Palomar oscilla tra spinte contrastanti: quella che tende a una conoscenza completa, esaustiva, e potrebbe essere soddisfatta solo assaporando tutte le qualità; o quella che tende a una scelta assoluta, all'identificazione del formaggio che solo è suo. Non è questione di scegliere il proprio formaggio ma d'essere scelti. Infatti c'è un rapporto reciproco tra formaggio e cliente: ogni formaggio aspetta il suo cliente, si atteggia in modo d'attrarlo. A lui invece basterebbe stabilire la semplicità d'un rapporto fisico diretto tra uomo e formaggio. La formaggeria si presenta come un'enciclopedia; potrebbe memorizzare tutti i nomi e tentare una classificazione, ma questo non l'avvicinerebbe d'un passo alla vera conoscenza, che sta nell'esperienza dei sapori. Questo negozio è un museo: visitandolo sente, come al Louvre, dietro ogni oggetto esposto la presenza della civiltà che gli ha dato forma e che da esso prende forma. E’ anche un dizionario: la lingua è il sistema dei formaggi nel suo insieme, una lingua che registra le varianti; per lui impararsi un po' di nomenclatura resta sempre la prima misura da prendere se si vuole conoscere qualcosa. Estrae quindi dalla tasca una penna e comincia a scriversi dei nomi, segnando qualche qualifica e disegna anche la sua forma. L'ordinazione elaborata e ghiotta che aveva intenzione di fare gli sfugge dalla memoria, dopo essere stato chiamato dalla commessa e ripiega sul più ovvio, sul più banale, sul più pubblicizzato, come se gli automatismi della civiltà di massa non aspettassero che quel suo momento d'incertezza. Le riflessioni che il negozio del macellaio ispira chiunque vi entri. La sapienza macellatrice e quella culinaria appartengono alle scienze esatte, verificabili in base a esperimenti, tenendo conto dei costumi e delle tecniche che variano da paese a paese; la sapienza sacrificale invece è dominata dall'incertezza. In un cartellone al muro, il profilo d'un bue appare come una carta geografica percorsa da linee di confine che delimitano le aree d'interesse mangereccio, comprendenti l'intera anatomia dell'animale. La mappa dell'habitat umano è questa, non meno del planisfero del pianeta, entrambi protocolli che dovrebbero sancire i diritti che l'uomo s'è attribuito, di possesso, spartizione e divoramento senza residui dei continenti terrestri e dei lombi del corpo animale. Occorre dire che la simbiosi uomo-bue ha raggiunto nei secoli un suo equilibrio e ha garantito il fiorire della civiltà detta umana, che almeno per una sua porzione andrebbe detta umano-bovina. Il signor Palomar partecipa a questa simbiosi con lucida coscienza e pieno consenso: pur riconoscendo nella carcassa di bue penzolante la persona del proprio fratello squartato, egli sa d'essere carnivoro, condizionato dalla sua tradizione alimentare a cogliere da un negozio di macellaio la promessa della felicità gustativa. PALOMAR ALLO ZOO Palomar allo zoo di Vincennes si ferma davanti al recinto delle giraffe. Ogni tanto le giraffe adulte si mettono a correre seguite dalle giraffe bambine, girano su se stesse, ripetono il percorso e si fermano. Non si stanca d'osservare la corsa delle giraffe, affascinato dalla disarmonia dei loro movimenti. La giraffa sembra un meccanismo costruito mettendo insieme pezzi provenienti da macchine eterogenee, ma che tuttavia funziona perfettamente. Si rende conto d'una complicata armonia che comanda quel movimento disarmonico, d'una grazia naturale che vien fuori da quelle movenze sgraziate. L'elemento unificatore è dato dalle macchie del pelo, disposte in figure irregolari ma omogenee. Afferma che forse il suo interesse per le giraffe è perché il mondo intorno a lui si muove in modo disarmonico ed egli spera sempre di scoprirvi un disegno. Nello zoo di Barcellona esiste l'unico esemplare che si conosca al mondo di scimmione albino, un gorilla dell'Africa. Quello che attira l’attenzione di Palomar è il fatto che le zampe del gorilla stringono contro il petto un copertone di pneumatico d'auto. Cosa sarà questo oggetto per lui? Un giocattolo? Un talismano? Gli sembra di capire perfettamente il suo bisogno d'una cosa da tener stretta mentre tutto gli sfugge, una cosa in cui placare l'angoscia dell'isolamento, della diversità, della condanna a essere sempre considerato un fenomeno vivente. Anche la femmina lo possiede ma questo per lei è un oggetto d'uso, con cui ha un rapporto pratico e senza problemi: ci sta seduta dentro come in una poltrona. Per il maschio invece il contatto col pneumatico sembra essere qualcosa d'affettivo, di possessivo e di simbolico. Che cosa meglio d'un cerchio vuoto è in grado d'assumere tutti i significati che si vuole attribuirgli? Forse il gorilla è sul punto di stabilire un flusso di rapporti tra i suoi pensieri e l'irreducibile evidenza dei fatti che determinano la sua vita. Tutti rigiriamo tra le mani un vecchio copertone vuoto mediante il quale vorremmo raggiungere il senso ultimo a cui le parole non giungono. Il signor Palomar vorrebbe capire perché le iguane lo attirano così tanto; quello che guarda maggiormente sono la quantità d'accessori e guarnizioni difensive, troppa roba per trovarsi tutta addosso a una sola bestia, cosa ci sta a fare? Serve a mascherare qualcuno che ci sta guardando da lì dentro? E' questo ambiente, più che i rettili in sé, ciò che oscuramente attrae Palomar? Al di là del vetro d'ogni gabbia c'è il mondo di prima dell'uomo, o di dopo, a dimostrare che il mondo dell'uomo non è eterno e non è l'unico. Palomar attraversa poi la gran sala dei coccodrilli e studiandoli vede come uno di loro si scuote lentamente, si solleva sulle zampe, striscia sull'orlo della vasca, si lascia cadere con un tonfo piatto sollevando un'ondata, fluttua e poi, immobile come prima. E' una smisurata pazienza, la loro, o una disperazione senza fine? Cosa aspettano, o cosa hanno smesso d'aspettare? In quale tempo sono immersi? Non rimane che esporre questi bei pensieri in forma sistematica, ma uno scrupolo lo trattiene: e se ne venisse fuori un modello? Così preferisce tenere le sue convinzioni allo stato fluido, verificarle caso per caso e farne la regola implicita del proprio comportamento quotidiano, nel fare o nel non fare, nello scegliere o escludere, nel parlare o nel tacere. LE MEDITAZIONI DI PALOMAR In seguito a una serie di disavventure intellettuali, Palomar ha deciso che la sua principale attività sarà guardare le cose dal di fuori. Un po' miope, distratto, introverso ma raddoppiandone l’ attenzione: primo, nel non lasciarsi sfuggire questi richiami che gli arrivano dalle cose; secondo, nell'attribuire all'operazione dell'osservare l'importanza che essa merita. E’ sicuro che d'ora in poi il mondo gli svelerà una ricchezza infinita di cose da guardare e che le cose da guardare sono solo alcune e non altre avendo ogni volta problemi di scelte, esclusioni, gerarchie di preferenze? Ma come si fa a guardare qualcosa lasciando da parte l'io? Di chi sono gli occhi che guardano? Palomar guarderà le cose con uno sguardo che viene dal di fuori, non da dentro di lui. Dalla muta distesa delle cose deve partire un segno, un richiamo: una cosa si stacca dalle altre con l'intenzione di significare qualcosa e in particolare se stessa, in mezzo alle cose che significano se stesse e nient'altro. Palomar soffre molto della sua difficoltà di rapporti col prossimo. Invidia le persone che hanno il dono di trovare sempre la cosa giusta da dire, il modo giusto di rivolgersi; che sono a loro agio con chiunque si trovino. Queste doti sono concesse a chi vive in armonia col mondo. A costoro riesce naturale stabilire un accordo non solo con le persone ma pure con le cose, con i luoghi, le situazioni, le occasioni. Decide quindi di provare a imitarli. Tutti i suoi sforzi saranno tesi a raggiungere un'armonia tanto col genere umano. Per cominciare cercherà di migliorare i suoi rapporti con l'universo. Allontana e riduce al minimo la frequentazione dei suoi simili; s'abitua a fare il vuoto nella sua mente, espellendone tutte le presenze indiscrete; osserva il cielo nelle notti stellate; legge libri d'astronomia. Applica poi questo modello con l’umano e torna in società, riallaccia conoscenze, amicizie, rapporti d'affari ma comincia a impelagarsi in un garbuglio di malintesi, vacillazioni, compromessi, atti mancati; proprio perchè contemplando gli astri lui s'è abituato a considerarsi un punto anonimo e incorporeo, quasi a dimenticarsi d'esistere; mentre ora con gli esseri umani non può fare a meno di mettere in gioco se stesso, e il suo se stesso lui non sa più dove si trova. La conoscenza del prossimo passa necessariamente attraverso la conoscenza di se stesso ed è da questo punto che Palomar decide di riniziare, esplorando la propria geografia interiore, da cui ricaverà le formule e i teoremi. Palomar decide che d'ora in poi farà come se fosse morto, per vedere come va il mondo senza di lui. Da un po' di tempo s'è accorto che tra lui e il mondo le cose non vanno più come prima; se prima gli pareva che s'aspettassero qualcosa l'uno dall'altro, adesso non ricorda più cosa ci fosse da aspettarsi. Dunque ora dovrebbe provare una sensazione di sollievo, non avendo più da chiedersi cosa il mondo gli prepara. Essere morto è meno facile di quel che può sembrare infatti il mondo può benissimo fare a meno di lui, e lui può considerarsi morto in tutta tranquillità, senza nemmeno cambiare le sue abitudini ma il problema è il cambiamento non in ciò che lui fa ma in ciò che lui è in rapporto al mondo. Il mondo meno lui vorrà dire la fine dell'ansia? Il sollievo d'essere morto dovrebbe essere che eliminata quella macchia d'inquietudine che è la nostra presenza, la sola cosa che conta è l'estendersi e il succedersi delle cose sotto il sole, nella loro serenità impassibile. Forse essere morto è passare nell'oceano delle onde che restano onde per sempre, dunque è inutile aspettare che il mare si calmi. Ai morti non dovrebbe importare più niente di niente perché non tocca più a loro pensarci; e anche se ciò può sembrare immorale, è in questa irresponsabilità che i morti trovano la loro allegria. A tratti s'illude d'essersi liberato dall'impazienza che l'ha accompagnato tutta la vita al vedere gli altri sbagliare in tutte le cose che fanno ma capisce che l'insofferenza per gli sbagli propri e altrui si perpetuerà insieme agli sbagli stessi che nessuna morte cancella. Dunque tanto vale abituarcisi: essere morto per Palomar significa abituarsi alla delusione di ritrovarsi uguale a se stesso in uno stato definitivo che non può più sperare di cambiare. Palomar non sottovaluta i vantaggi che la condizione del vivo può avere su quella del morto, nel senso della possibilità di migliorare la forma del proprio passato. La vita d'una persona consiste in un insieme d'avvenimenti di cui l'ultimo potrebbe anche cambiare il senso di tutto l'insieme, non perché conti di più dei precedenti ma perché una volta inclusi in una vita gli avvenimenti si dispongono in un ordine che non è cronologico ma risponde a un'architettura interna. Questo è il passo più difficile per chi vuole imparare a essere morto: convincersi che la propria vita è un insieme chiuso, tutto al passato, a cui non si può più aggiungere nulla, né introdurre cambiamenti. Ognuno è fatto di ciò che ha vissuto e del modo in cui l'ha vissuto, e questo nessuno può toglierglielo. "Se il tempo deve finire, lo si può descrivere, istante per istante, e ogni istante, a descriverlo, si dilata tanto che non se ne vede più la fine". Decide che si metterà a descrivere ogni istante della sua vita, e finché non li avrà descritti tutti non penserà più d'essere morto. In quel momento muore.
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