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riassunto e schemi in preparazione alla seconda prova parziale, Schemi e mappe concettuali di Macroeconomia

schemi in preparazione alla seconda prova parziale del corso SID

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

2021/2022

Caricato il 19/05/2022

caterina-martello
caterina-martello 🇮🇹

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Scarica riassunto e schemi in preparazione alla seconda prova parziale e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Macroeconomia solo su Docsity! Il mercato dei beni e i mercati finanziari: il modello IS-LM Quando l’economista Keynes pubblicò nel 1936 la sua Teoria generale (general theory of employment, interest, and money), il lavoro fu accolto da molti come un’opera fondamentale, ma difficilmente comprensibile. Così nel 1937 John Hicks sintetizzò quello che considerava uno dei maggiori contributi di Keynes la descrizione congiunta (schema concettuale per determinare congiuntamente la produzione e il tasso d’interesse nel breve periodo) del mercato dei beni e del mercato finanziario. Questo modello venne poi esteso a Hansen Hicks e Hansen chiamarono la loro formalizzazione modello IS-LM (Investment-Saving e Liquidity-Money). Il mercato dei beni e la curva IS Sappiamo che l’equilibrio nel mercato dei beni è dato dall’ uguaglianza tra produzione, Y, e domanda Z relazione IS. Inoltre, abbiamo studiato che la domanda è la somma di consumo, investimento e spesa pubblica. Abbiamo assunto che il consumo fosse legato da una funzione lineare al reddito disponibile, mentre l’investimento, la spesa pubblica e le imposte vengono prese come date. Condizione di equilibrio Y=C(Y-T)+I+G Usando questo modello la principale semplificazione fatta è che il tasso di interesse non influenza la domanda dei beni. Investimento, vendite e tasso di interesse Finora l’investimento considerato era esogeno. In realtà, esso dipende principalmente da due fattori: • livello delle vendite: maggior livello di vendite (e, quindi, di produzione) ⇒ necessità di macchinari e impianti ⇒ maggiore investimento. Al contrario, un’impresa che registri una caduta delle vendite non avrà bisogno di realizzare nuovi investimenti. • tasso di interesse: quanto più alto 𝑖 , tanto meno conveniente indebitarsi per realizzare il nuovo investimento . Questo perché difronte ad un aumento della produzione, l’impresa deciderà di acquistare nuovi macchinari e per questo richiederà un prestito. Per il momento facciamo due semplificazioni, la prima è che tutte le imprese prendano a prestito allo stesso tasso d’interesse, anche se questo non è vero, la seconda è che ignoreremo la distinzione fra il tasso d’interesse reale e quello nominale. Caratterizzeremo l’investimento tramite la seguente equazione: l’equazione ci dice che I dipende da due variabili la produzione Y e il tasso d’interesse i  continuando ad assumere che l’investimento di scorta sia negativo, così con Y si denota sia la produzione che le vendite. ✓ un aumento della produzione (Y) provoca un aumento di I (+) ✓ un aumento del tasso di interesse (i) provoca una riduzione di I diventa meno conveniente per l’impresa fare degli investimenti (-) La determinazione della produzione: La condizione di equilibrio nel mercato dei beni diventa: Y=C(Y-T)+I(Y,i)+Gproduzione uguale a domanda di benirelazione IS estesa (caratterizza meglio le determinanti dell’investimento). La domanda è misurata sull’asse verticale, mentre la produzione su quello orizzontale. Per un dato valore di 𝑖 (fisso), domanda è funzione crescente della produzione a causa di due canali. Infatti: • Un aumento della produzione⇒ causa un aumento del reddito e del reddito disponibile ⇒ quindi, poi un aumento del consumo • Un aumento della produzione⇒ causa un aumento l’investimento Un aumento della produzione (attraverso effetti su C e I) fa aumentare la domanda di beni prima se aumentava la produzione questo aumento si rifletteva solo nel consumo, mentre ora fa aumentare anche gli investimenti. Questa relazione tra domanda e produzione, per un dato 𝑖, è rappresentata dalla curva ZZ, inclinata positivamente. È importante notare come la ZZ non sia una retta ma una curva e che sia più piatta della retta a 45°. Quindi, abbiamo assunto che un aumento di un’unità della produzione conduca un incremento della domanda di meno di un’unità anche se sappiamo che se la produzione aumenta la somma degli incrementi del consumo e dell’investimento potrebbe eccedere l’aumento iniziale della produzione. Tuttavia, l’evidenza empirica suggerisce che in realtà ciò non si verifica, quindi, assumeremo che la risposta della domanda alla produzione sia meno che proporzionale e disegneremo la curva ZZ più piatta di quella di 45°. Equilibrio in A: intersezione ZZ con retta a 45° Y è il livello di equilibrio della produzione. Finora abbiamo considerato l’equilibrio nel mercato dei beni con un tasso di interesse fissato. Cosa succede alla produzione di equilibrio quando 𝑖 cambia? prima non c’era nell’analisi precedente perché i tassi d’interesse non influenzavano la domanda e quindi la produzione d’equilibrio. Deriveremo curva IS, che ci dice come varia la produzione di equilibrio al variare del tasso di interesse qual è la relazione tra tasso d’interesse e produzione di equilibrio? La curva IS Utilizzeremo le informazioni del riquadro A per riportarle nel B, dove mettiamo in relazione la nuova produzione (che l’economia raggiunge in corrispondenza del nuovo tasso d’interesse) e il tasso d’interesse. Si parte dall’equilibrio del grafico A dato un certo tasso d’interesse, la produzione è Y. Nel riquadro B, portiamo queste informazioni sulla produzione d’equilibrio che noi abbiamo derivato in corrispondenza di un certo tasso d’interesse. Dopodiché, ragioniamo e vediamo cosa succede alla produzione se il tasso d’interesse aumenta (i’)? se aumenta il tasso d’interesse, si riduce I perché per le imprese è meno conveniente andare in banca a richiedere un prestito, e quindi la domanda aggregata, per ogni livello di produzione, diminuisce. Graficamente si rappresenta questa cosa tramite uno spostamento verso il basso della curva ZZ nel riquadro A perché la domanda diminuisce e ovviamente cambia l’equilibrio che non sarà più A ma A’. In altre parole, un aumento del tasso d’interesse riduce l’investimento, l’investimento ridotto fa ridurre la produzione, che a sua volta fa ridurre il consumo e l’investimento, attraverso l’effetto del moltiplicatore. Quindi, ora passiamo al riquadro B si tratteggia il nuovo livello di produzione di equilibrio più basso (Y’), raggiunto per l’aumento del tasso d’interesse. Utilizzando il riquadro (a) nella precedente figura individuiamo il valore di equilibrio di Y per ogni valore del tasso di interesse. La relazione fra produzione di equilibrio e tasso di interesse è rappresentata nel riquadro (b). I punti 𝐴 e 𝐴′ in (b) corrispondono ai rispettivi punti del riquadro (a). Curva IS: relazione negativa fra 𝑖 e produzione di equilibrio ⇒ un maggiore 𝑖 è associato a livello inferiore di produzione di equilibrio nel mercato dei beni. Spostamenti della curva IS: IS è stata derivata per dati valori di 𝑇 e 𝐺. Tuttavia, variazioni di 𝑇 e 𝐺 comportano spostamento di IS nel piano. Supponiamo, per es., 𝑇 aumenti a 𝑇′: o dato un certo livello di 𝑖, il reddito disponibile scende e quindi anche il consumo⇒ domanda di beni scende e così anche la produzione di equilibrio, che passa a 𝑌′ < 𝑌 o graficamente, IS si sposta verso sinistra: fissato 𝑖, livello di equilibrio della produzione sarà inferiore a quello precedente. Più in generale: dato un certo livello di tasso di interesse, ogni fattore che riduce il livello di equilibrio della produzione fa spostare la IS verso sinistra: o non solo aumento di T, ma anche riduzione di 𝐺 (a seguito della riduzione, si riduce la domanda aggregata e quindi anche la produzione aggregata) e una riduzione della fiducia dei consumatori 𝑐0 Fissato il tasso di interesse, ogni fattore che incrementa il livello di equilibrio della produzione fa spostare la IS verso destra: o riduzione di T, aumento di 𝐺 e della fiducia dei consumatori 𝑐0 I mercati finanziari e la curva LM Tasso di interesse è determinato dall’uguaglianza tra domanda e offerta di moneta: M= € YL(i) (2) La variabile M sul lato sinistro è lo stock nominale di moneta, mentre il lato destro rappresenta la domanda di moneta, funzione del reddito nominale, €Y, e del tasso di interesse nominale, i. Un aumento del reddito nominale fa aumentare la domanda di moneta e un aumento del tasso d’interesse riduce la domanda di moneta.  Tale equazione stabilisce una relazione tra moneta, reddito nominale e tasso di interesse. L’equilibrio richiede che l’offerta di moneta sia uguale alla domanda di moneta. Moneta reale, reddito reale e tasso di interesse L’equazione M= € YL(i) rappresenta anche una relazione tra moneta reale (moneta in termini di beni che possono essere acquistati), reddito reale (reddito in termini dei beni che possono essere acquistati) e tasso d’interesse. Ricordiamo che il reddito nominale diviso per il livello dei prezzi è uguale al reddito reale (Y).Dividendo entrambi i lati di eq. (2) per il livello dei prezzi, P, si ottiene: Supponiamo che il governo intenda ridurre notevole disavanzo di bilancio senza produrre una recessione: • supponiamo di trovarci in un’economia dove 𝑇 – 𝐺 è troppo elevato (disavanzo), ma con un 𝑌 adeguato quindi il consolidamento fiscale viene accompagnato da un’espansione monetaria Equilibrio iniziale in ASe aumenta 𝑇 o si riduce 𝐺 (o entrambe le cose), 𝐼𝑆 si sposta in 𝐼𝑆′. L’equilibrio in 𝐴′ con 𝑌′ < 𝑌: dato il tasso di interesse iniziale, consolidamento fiscale produce una riduzione della domanda e, attraverso il moltiplicatore, della produzione: la riduzione del disavanzo conduce a una recessione, che può essere evitata se viene utilizzata anche politica monetaria: se BC riduce 𝑖 da 𝑖 a 𝑖 ′, equilibrio in A’′ con 𝑌′′= 𝑌Possiamo ottenere una riduzione di disavanzo senza causare una recessione. Effetto su 𝐶: dipende dallo strumento fiscale (leva) che il governo adotta: ose avviene una riduzione del disavanzo tramite una diminuzione della 𝐺 , il reddito e reddito disponibile restano invariati𝐶 non cambia ose avviene una riduzione del disavanzo tramite un aumento di 𝑇 , il reddito rimane invariato ma reddito disponibile si riduce𝐶 diminuisce Effetto su 𝐼 nel nuovo equilibrio: 𝑌 è invariato (Y=Y’’) ma 𝑖 si riduce⇒ 𝐼 aumenta È un Mix adottato:  in USA nel 1992 Quando Bill Clinton fu eletto presidente, una delle sue priorità era quella di ridurre il disavanzo di bilancio usando una combinazione di tagli alla spesa e aumenti delle imposte. Tuttavia, temeva che una simile stretta fiscale provocasse un’altra recessione economica, andando a diminuire la domanda. Così la combinò con un’espansione monetaria il risultato di questa strategia fu una riduzione stabile del disavanzo di bilancio e un aumento stabile della produzione nel resto del decennio.  in Europa nel 2011 tramite le «Politiche di austerità» i governi per far fronte agli alti livelli di debito pubblico (provocati dalla crisi dell’euro), volevano ridurre i disavanzi pubblici. Il problema era che i tassi d’interesse erano già molto bassi, quindi, c’era poco spazio per una politica monetaria che potesse compensare gli effetti negativi di una contrazione fiscale sulla produzione. Questo portò ad un inteso dibattito tra: o coloro che pensano che l’austerità sia necessaria perché non comporta necessariamente effetti negativi sulla produzione o coloro che pensano che l’austerità non possa essere effettuata finché la politica monetaria non potrà essere utilizzata per compensare gli effetti negativi sulla produzione della politica fiscale. Un’ulteriore cosa da sapere è che gli effetti di aggiustamento della produzione al variare della politica fiscale e monetaria non sono immediati. Sappiamo però che il modello IS-LM è una buona base di partenza per l’analisi degli effetti della politica economica sull’andamento dell’economia nel breve periodo. Il modello IS-LM esteso Tasso di interesse nominale e reale Il tasso d’interesse ci dice quanto denaro dovremo restituire in futuro in cambio di una unità di denaro oggi. Ma noi non consumiamo euro, consumiamo beni. Quando prendiamo a prestito, ciò che ci interessa veramente sapere è quanti beni dovremo restituire in futuro in cambio dei beni che otteniamo oggi. Inoltre, la presenza dell’inflazione rende la distinzione tra euro e beni molto importante è privo di senso ricevere un pagamento di interessi in futuro se l’inflazione, nel frattempo, diviene così elevata che, quando ci verranno restituiti gli euro che abbiamo prestato, non saremo più in grado di acquistare un maggior numero di beni se i prezzi fossero costanti voi non vi preoccupereste della distinzione tra tasso d’interesse nominale e reale. Il tasso di interesse espresso in termini di valuta nazionale (ad esempio, euro) è chiamato tasso di interesse nominale (𝑖𝑡):  quanto danaro dobbiamo restituire in futuro in cambio di un’unità di danaro in più oggi. Se prendo a prestito un euro quest’anno dovrò restituire 1 + 𝑖𝑡 l’anno prossimo. Il tasso di interesse espresso «in termini beni» è chiamato tasso di interesse reale 𝑟𝑡:  se prendiamo a prestito l’equivalente di un paniere di beni quest’anno, occorre restituire l’equivalente di 1 + 𝑟𝑡 panieri di beni l’anno prossimo. Per 𝑖𝑡 e 𝜋e t+1 non molto elevati, il tasso di interesse reale può essere approssimato nel seguente modo: Il tasso di interesse reale è approssimativamente uguale al tasso di interesse nominale meno il tasso di inflazione attesa (aspettative di inflazione dell’anno successivo variazione attesa del prezzo del bene tra quest’anno e il prossimo, diviso per il prezzo del bene di quest’anno). Implicazioni della (1):  quando l’inflazione attesa è nulla, tasso di interesse nominale e tasso di interesse reale si equivalgono  dato che l’inflazione attesa è quasi sempre positiva, il tasso di interesse reale è generalmente inferiore al tasso di interesse nominale  per un dato tasso di interesse nominale (lo teniamo fisso), maggiore l’inflazione attesa minore il tasso di interesse reale  se inflazione attesa è uguale a tasso di interesse nominale, il tasso di interesse reale è uguale a zero Le decisioni di investimento sono influenzate dai tassi di interesse reale. Sebbene BC scelga tassi di interesse nominale (strumento di politica monetaria), essa si concentra anche sul tasso di interesse reale in quanto questo influenza le decisioni di spesa. Per conseguire un tasso di interesse reale desiderato, la BC nello scegliere il tasso nominale deve tener conto delle aspettative di inflazione.  Se target è 𝑟 = 4% e 𝜋𝑒 = 2%, BC dovrà fissare 𝑖 = 6% Se utilizziamo l’indice dei prezzi al consumo per misurare il livello generale dei prezzi, il tasso di interesse reale ci darà a quanto consumo dovremo rinunciare domani per consumare di più oggi. Zero lower bound La relazione tra tasso di interesse nominale e tasso di interesse reale implica che quando si raggiunge lo zero lower bound del tasso di interesse nominale: rt ≈ – πe t+1  il tasso di interesse reale non può essere minore del negativo dell’inflazione attesa  in presenza di inflazione attesa positiva, è possibile raggiungere tassi di interesse reali negativi  tuttavia, in presenza di deflazione (inflazione attesa negativa), il tasso reale diventa positivo (non consentendo, ad esempio, di stimolare in maniera sufficiente la domanda aggregata e l’economia che potrebbe rimanere in recessione). In molti paesi (come la Svizzera) il tasso d’interesse nominale è sceso sotto lo zero ma com’è possibile che gli individui non preferiscano detenere denaro contante anziché titoli con un tasso negativo? La risposta è che tenere a casa una quantità elevata di denaro contante è costoso (bisogna acquistare una cassaforte, o affittare una cassetta di sicurezza in banca). Se si tiene conto di questi costi, il tasso d’interesse sul contante non è più zero ma negativo e addirittura ancora più negativo del tasso di un’obbligazione. Ma in ogni caso c’è un limite a quanto negativo possa diventare un tasso di interesse, infatti, ad un certo punto converrà acquistare una cassaforte. Rischio e premio per il rischio Finora abbiamo assunto un solo tipo di titoli. In particolare, i titoli differiscono per scadenza (arco di tempo in cui garantiscono pagamenti ad esempio i titoli di stato a un anno o a dieci anni) e rischiosità (determinata dalla probabilità, più o meno elevata, che il debitore non ripaghi il debito). Non tutti i titoli sono caratterizzati dallo stesso livello di rischiosità. Infatti, in merito al rischio possiamo dire che esistono dei titoli privi di rischio, cioè quelli la cui probabilità che il debitore non ripaghi il debito è trascurabile, e quelli rischiosi, cioè quelli la cui probabilità che il debitore non ripaghi il debito non è trascurabile. Coloro che comprano titoli richiedono un premio per assumersi il rischio (premio per il rischio) che la controparte non possa (o non voglia) rimborsare quando preso a prestito. Uno dei Paesi più considerato solido dal punto di vista dei titoli è la Germania. Questa rischiosità varia tra controparti pubbliche e controparti private (meno solide), però anche nei governi ci sono diversi livelli di rischiosità. Il premio per il rischio è determinato da: 1. la probabilità di fallimento del debitore (𝒑) a. maggiore è tale probabilità, maggiore sarà il tasso di interesse richiesto dagli investitori 2. avversione al rischio di coloro che detengono i titoli (obbligazionisti): a. all’aumentare dell’avversione al rischio, il premio al rischio salirà, anche se la probabilità di insolvenza rimane invariata in particolare, l’avversione al rischio aumenta in un clima di recessione economica  x il premio per il rischio aumenta quando aumenta la probabilità di fallimento della controparte o quando gli investitori diventano più avversi al rischio  𝑖 il tasso di interesse nominale su titolo privo di rischio  𝑖 + 𝑥 il tasso di interesse sul titolo rischioso (cioè, con probabilità 𝑝 di fallimento). o Questo ci permetterà di inglobare anche gli effetti di uno shock finanziario Per determinare il premio (x) si dovrà fare x=(1+i)p/(1-p). Quindi, per esempio, se il tasso di interesse su un titolo privo di rischio è il 4% e la probabilità di fallimento sia del 2%, allora il premio per il rischio richiesto per rendere uguali il rendimento atteso del titolo privo di rischio e quello del titolo rischioso è pari al 2,1%. Fa vedere come si è evoluto il tasso d’interesse dei titoli nel tempo, andando ad esaminare tre diverse tipologie di titoli statunitensi dal 2000. Le società AAA sono considerate più solide sono comunque più rischiose rispetto quelle del governo, ma più affidabili rispetto alle società BBB (meno solide hanno un tasso d’interesse maggiore rispetto al tesoro di stato, e a quello delle AAA). DURANTE LA CRISI, mentre i tassi d’interesse pagati dai titoli di stato dopo il 2008 andarono giù perché seguivano le decisioni della FED (pagarono un rendimento minore), le linee in nero e in rosso andarono in su è aumentata la differenza del rendimento pagato da società private rispetto a quello pagato dal governo a causa dell’avversione al rischio e della possibile insolvenza del debitore, rendendo così sconveniente per queste ultime investire. In termini del modello IS-LM, questo mostra come non possiamo ipotizzare che sia il tasso controllato dalla banca centrale quello che entra nella relazione IS, perché il tasso a cui molti debitori prendono a prestito potrebbe essere molto più alto. La stessa cosa accadde se andiamo a valutare gli Stati con lo scoppio della crisi, alcuni paesi (come la Grecia, ma anche l’Italia), hanno iniziato a pagare dei rendimenti sui titoli decennali più alti rispetto a controparti statunitensi e tedesche, perché ritenuti più rischiosi rispetto ad altriSPREAD (differenza tra i titoli italiani e greci rispetto al titolo tedesco BUND). La logica è che paesi come USA e Gran Bretagna non hanno mai omesso di pagare i propri debiti, cosa che invece accade per la Grecia e per l’Italia. Il modello IS-LM esteso Il modello IS-LM che abbiamo introdotto in precedenza aveva solo un tasso di interesse. Questo tasso era stabilito dalla BC e determinava le decisioni di spesa, quindi, appariva sia nella relazione IS che in quella LM. Tuttavia, abbiamo capito che la realtà è più complessa e quindi è necessario estendere il nostro modello di partenza. Innanzitutto, dobbiamo tener conto di: • differenza tra tasso di interesse nominale e tasso di interesse reale • differenza tasso di interesse fissato da banche centrali e tassi a cui i debitori possono prendere a prestito, il quale è a sua volta influenzato da fattori quali il rischio associato a debitori. RELAZIONE IS Y= C(Y-T) + I(Y, i- πe + 𝑥) + G RELAZIONE IM i = i rimane invariata perché la BC continua a stabilire tasso di interesse nominale Le modifiche a IS dipendono da: • presenza di 𝜋 𝑒: decisioni di spesa e di investimento dipendono dal tasso di interesse reale e non da quello nominale o 𝑟 ≈ 𝑖 – 𝜋𝑒 • premio al rischio 𝑥  voi siete percepiti rischiosi, quindi, bisogna pagare questo premio per essere finanziati (non verrà restituito) o assume valori elevati in presenza di:  in presenza di un forte rischio che i debitori non ripaghino prestiti;  maggiore avversione al rischio da parte dei creditori Quindi, il tasso che entra nella relazione LM 𝑖 non è più lo stesso di quello di IS (𝑟 + 𝑥). Il tasso in LM viene chiamato «tasso di policy» poiché deciso da policy-maker (banca centrale), mentre il tasso in IS è detto «tasso sui prestiti», cioè il tasso a cui imprese e individui prendono a prestito (𝑟 + 𝑥). Semplificazione:  sebbene BC formalmente controlli 𝑖, può farlo in modo da conseguire il tasso di interesse reale desiderato 𝑟 (tralasciamo, per ora, questioni legate a «zero lower bound») quindi, assumiamo che BC fissi direttamente tasso di interesse reale.  𝑟 viene scelto dalla BC, mentre 𝑟 + 𝑥 è il tasso di interesse reale che influenza decisioni di spesa. LM è una retta orizzontale in corrispondenza del tasso di policy 𝑟 IS è disegnata per dati 𝐺, 𝑇 e 𝑥 (ci fa vedere come variazioni di x causano un cambiamento dell’equilibrio macroeconomico, perché sposta la IS nel piano). A parità di condizioni, un aumento del tasso di policy reale 𝑟 riduce 𝐼 e, quindi, la produzione di equilibrio inclinazione negativa IS (un aumento del tasso di policy reale r riduce gli investimenti e quindi la produzione la novità è che la IS è disegnata per dati valori di G, T e x).  Disoccupati persona che non ha lavoro ma lo cerca attivamente e che sarebbe disponibile a lavorare entro un termine prefissato se gli venisse offerto un posto di lavoro. Gli inattivi sono quelli che né sono occupati né cercano lavoro. o DOBBIAMO però considerare che i lavoratori scoraggiati, pur non essendo attivamente alla ricerca di un lavoro, lo accetterebbero nel caso se ne presentasse l’occasione. Per questa ragione gli economisti a volte considerano il tasso di occupazione cioè il rapporto tra il numero degli occupati sul totale della popolazione lavorativamaggiore è il tasso di disoccupazione, minore sarà quello di occupazione. Il problema infatti di considerare solo il tasso di disoccupazione, come faremo in realtà, è che di solito sottostima il numero di persone disponibili a lavorare.  Tasso di partecipazione rapporto tra forza di lavoro e popolazione in età lavorativa tutto moltiplicato per 100 Queste grandezze vengono usate per varie categorie di persone il tasso di partecipazione femminile è cresciuto nel tempo: la tendenza di genere è quella che un numero sempre maggiore di donne entri nella forza lavoro (in Europa, come nella maggior parte degli altri paesi dell’Ocse tra cui l’Italia). La tendenza preoccupante è che le donne hanno un tasso di disoccupazione più alto degli uomini: per vari motivi perché le donne di una fascia d’età tendenzialmente tra 35 anni e in su tendono ad essere meno qualificate rispetto agli uomini di questa fascia: questo gap è stato colmato ma da non molti anni. Le donne hanno un’altra caratteristica: sono studentesse mediamente migliori degli uomini è un altro motivo per cui la concorrenza è maggiore nell’ambito del mercato del lavoro. Durata della disoccupazione è un elemento importante perché un breve periodo di disoccupazione non è un problema per le persone (come un mese), non è un problema finanziario (stare un mese senza stipendio non rovina una persona) e non deteriora le skills. Tuttavia, se il periodo di disoccupazione è molto lungo è un problema deteriora le skills (si aggrava col passare del tempo perché la tecnologia si evolve in modo molto rapido, per cui è un problema maggiore non lavorare oggi per 6 mesi di quanto non lo fosse 10 anni fa). Le tue conoscenze diventano obsolete in modo molto rapido. Ciclo di isteresi l’ammazzatoio di E. Zolà storia riguarda un operaio che si occupa di montare le grondaie sui tetti dei palazzi e si costruisce una vita che consente a sua moglie di costruire la sua attività. Il problema sorge quando la moglie decide di andare sotto il palazzo a mostrargli il bambino: lui vede il bambino e cade e non muore ma sta all’ospedale per 3 mesi. Esce dall’ospedale e deve affrontare un lungo periodo di recupero, dopodiché iniziò ad uscire di giorno per non annoiarsi, inizia a frequentare una locanda e diventa alcolizzato muore, muore la moglie e il figlio. Se tu perdi il lavoro perdi anche l’abitudine a lavorare e quindi se passa molto tempo non riprenderai più il ritmo di un’attività e questo è un problema quando la disoccupazione si prolunga troppo  diventa un problema sociale oltre che finanziario. Perdo le connessioni sociali che il lavoro mi aveva dato, e quindi è sempre più difficile trovare lavoro, crolla la mia autostima e altro ancora. In media la durata della disoccupazione, cioè il tempo medio che le persone passano disoccupate è pari a poco meno di 2 trimestri. Disoccupato che si stanca di cercare lavoro non tutti quelli che cercano lavoro sono gli unici percettori di reddito familiare e per cui possono smettere di cercare lavoro esiste gente che decide se lavorare o no. Il problema è che non saranno più disoccupati ma passano nella categoria degli inattivi (scoraggiati) e la disoccupazione diminuisce. Per questo non si deve solo considerare il tasso di disoccupazione ma anche quello di partecipazione perché se il primo scende ma il secondo sale allora va bene, ma se il primo scende e lo stesso il secondo allora non va bene è quello che è successo in Italia con il lockdown del 2020: il tasso di disoccupazione è crollato perché le persone non cercavano più lavoro o molto meno, molte imprese erano chiuse, ma questo non significa che l’economia andasse bene, ma significa che le persone sono diventate inattive (scoraggiate). Per scoprire quale realtà si nasconde dietro ad un tasso di disoccupazione è necessario disporre di informazioni circa i flussi di lavoratori questi dati in Europa sono raccolti tramite l’Indagine sulle forze lavoro (labour force survey) trimestrale. Infatti, è necessario dover distinguere due ragioni per le quali un rapporto di lavoro si interrompe:  Dimissioni riguarda lavoratori che lasciano volontariamente il proprio posto di lavoro per una occupazione migliore  Licenziamenti questi possono aver luogo per effetto di una redistribuzione dei livelli di occupazione tra le imprese. Infatti, se il numero complessivo di occupati rimane stabile, l’elevato numero di licenziamenti è il riflesso di un processo di continua creazione e distruzione di posti di lavoro, questo perché alcune imprese subiscono cali nella domanda dei propri beni e sono costrette a ridurre il personale mentre altre beneficiano di un incremento della domanda e creano nuovi posti di lavoro. Ci sono altre grandezze di cui si occupa l’ISTAT ma che hanno un certe interesse: 1. NEET not in education, employment or training  ragazzi con età tra 15 e 29 anni che non fanno assolutamente nulla, cioè non sono iscritti in istituzioni educative, che non lavorano e che non stanno facendo un corso di formazione professionale (esempio: anno sabbatico). 2. Tasso di occupazione rapporto fra occupati e popolazione in età lavorativa tutto moltiplicato per 100. Tutte queste grandezze sono calcolate oltre che per genere anche per fasce d’età: è molto popolare il tasso di disoccupazione giovanile che di regola risulta molto alto per alcuni motivi, mediamente i ragazzi tendono ad essere meno qualificati rispetto ai lavoratori con età maggiore, i ragazzi di quella età hanno meno responsabilità. Una persona con 10 anni in più e con un figlio, un mutuo e altro ancora, tende ad essere più ancorato al posto di lavoro e quindi ad essere meno disoccupato questo dipende anche dal tipo di area geografica in cui ci troviamo (es. Provincia di Bolzano ha un tasso di disoccupazione tra i più bassi, a differenza di quello della provincia di Caltanissetta). Se la domanda cala le imprese hanno bisogno di meno lavoratori, e viceversa per produrre di più a parità di tutte le altre condizioni ci vogliono più persone per produrre di più e a parità di tutte le altre condizioni ci vogliono meno persone per produrre di meno. Il numero di lavoratori si riduce in due modi, sebbene si preferisca prima rallentare o ridurre a zero l’assunzione di nuovi lavoratori, affidandosi a dimissioni e pensionamenti per ridurre il numero di occupati. Tuttavia, questo potrebbe essere non sufficiente quando la domanda si riduce drasticamente, così le imprese si trovano costrette a:  Ridurre il numero di assunzioni nei periodi nei quali la domanda è bassa la probabilità di un disoccupato di trovare lavoro diminuisce e viceversa. Questo perché essendoci meno assunzioni ci saranno meno posti vacanti, minori posti vacanti e più lavoratori in cerca di lavoro rendono ancora più difficile per i disoccupati trovare un lavoro.  Aumentare i licenziamenti se la domanda è bassa aumentano i licenziamenti, cioè aumenta la probabilità degli occupati di perdere lavoro e viceversa se la domanda è alta. o In generale, poiché le imprese agiscono in entrambi i modi, una maggiore disoccupazione è associata sia a una minore probabilità di trovare lavoro per un disoccupato, sia a una maggiore probabilità di perdere il lavoro per un lavoratore occupato i disoccupati si aspettano di rimanere tali per un periodo di tempo più lungo. o Le fluttuazioni annuali del tasso di disoccupazione sono associate a periodi di recessione ed espansione economica. Queste fluttuazioni nel tasso di disoccupazione impattano i singoli lavoratori per due ragioni:  Fa variare il benessere dei singoli lavoratori  I cambiamenti del tasso di disoccupazione determinano dei cambiamenti sui salari Modello di mercato di lavoro Vogliamo trovare una relazione tra salari (Wwages) e disoccupazione (U unemployment). Come si determinano i salari? Si determinano in modo diverso da un paese ad un altro; un metodo molto usato è la contrattazione collettiva contratto della categoria che è stato firmato (le organizzazioni datoriali e i sindacati si incontrano e raggiungono un accordo sulla struttura dei salari di una categoria), specialmente per le posizioni che richiedono molte competenze la contrattazione si svolge tra lavoratore e datore di lavoro direttamente). I salari offerti per i lavori meno qualificati, per esempio da McDonald’s, sono del tipo prendere o lasciare. Questa determinazione dei salari ha due elementi rilevanti: 1. Il salario di regola è maggiore del salario di riserva il salario di riserva è quel salario per il quale il lavoratore è indifferente se lavorare o no. Vi offrono un posto di lavoro per 302 euro al mese e voi dite no: vi offrono lo stesso posto per 3200 euro al mese, voi aderite con molto entusiasmo. Immaginate di muovervi verso il centro di questo intervallo (302-3200), se io aumento il salario partendo da 302 ancora per un po’ dirò no, se io diminuisco i 3200 ancora sarete d’accordo ma sempre meno contenti. Esiste un limite che è il salario di riserva per il quale accettare o no è indifferente perché corrisponde al valore che date al vostro tempo libero. Cosa comporta questo? La grande maggioranza dei lavoratori preferisce essere occupata che disoccupata perché percepisce un salario maggiore di quello di riserva; 2. Esiste una relazione tra disoccupazione e salari se la disoccupazione (U) è bassa i salari sono alti, mentre se U è alta i salari sono bassi. Perché? Io riesco a trovare dei lavoratori per un salario basso quando la disoccupazione è alta perché sanno che se non lavorano a quel salario non lavoreranno. E viceversa se la disoccupazione è bassa ci sono molte persone disponibili a lavorare quindi chiedono di lavorare a un salario maggiore. Quali sono le variabili dalle quali dipende la forza contrattuale dei lavoratori? 1. Costo che l’impresa dovrebbe pagare per sostituirlo farlo è costoso ragion per cui l’impresa se può evitare di farlo non lo fa. Siamo l’impresario e io lavoro per voi e vogliamo sostituirti perché non sono molto produttivo. Quindi, dovrò fare una ricerca (mettere annunci, …) e se siamo fortunati una serie di lavoratori rispondono alla ricerca, dovremo parlare con ciascuno di essi, leggere i curriculum, fare il colloqui, alla fine decidete che lavoratore prendere e alla fine fare un contratto di lavoro, fare tutte quelle attività che sono necessarie perché il lavoratore possa iniziare a lavorare costano tempo e soldi. Esiste anche un costo per licenziare la persona precedente. Se il costo è basso la forza contrattuale del lavoratore è bassa e viceversa se siamo specializzati trovare una persona specializzata costa di più (c’è poca gente specializzata come me) quindi aumenta la nostra forza contrattuale. 2. Difficoltà per il lavoratore di trovare un altro lavoro se sono molto competente allora la mia forza contrattuale aumenta e quindi potrò facilmente trovare lavoro e a uno stipendio alto perché se non lavoriamo lì domani potremmo trovare lavoro da un’altra parte tranquillamente. Viceversa, se per voi trovare lavoro è difficile per qualsiasi motivo la forza contrattuale è bassa. Due sono le conseguenze:  la forza contrattuale dipende chiaramente dalla natura del lavoro sostituire un lavoratore del McDonald’s non è molto costoso: le competenze necessarie possono essere apprese velocemente e di solito molte persone sono disposte a occupare un posto simile. In questo caso, il lavoratore ha una forza contrattuale bassa, quindi se chiede un salario maggiore l’impresa può licenziarlo con costi trascurabili, mentre se ci troviamo di fronte ad un lavoratore qualificato che si è dimostrato abile, questo difficilmente verrà rimpiazzatoper questo ha una forza contrattuale maggiore, perché se chiedesse un salario maggiore l’impresa potrebbe trovare conveniente concederglielo.  Le condizioni prevalenti nel mercato del lavoro influenzano la forza contrattuale quando il tasso di disoccupazione è basso, l’impresa avrà difficoltà a trovare validi sostituti e allo stesso tempo per i lavoratori è più facile ottenere un lavoro aumenta la loro forza contrattuale, il che permette loro di ottenere dei salari maggiori. In un mercato con un alto livello di disoccupazione trovare dei validi sostituti è facile lavoratori perdono la loro forza contrattuale (si abbassa) quindi saranno costretti ad accettare salari minori. La sostituzione dei lavoratori è detta turnover le imprese vogliono ridurre i costi del turnover. C’è un altro punto importante per una serie di lavori è essenziale il morale e l’impegno dei lavoratori perché in una serie di attività è difficile controllare l’operato dei lavoratori; i lavoratori devono essere contenti e devono trovare in loro la motivazione per impegnarsi. Una motivazione per farlo potrebbe essere un salario alto (leva). Un motivo deriva da una caratteristica dell’animo umano se io sono gentile nei suoi confronti, lei troverà difficoltà a trattarmi male. Quindi, l’idea è che se io datore pago un salario più alto al lavoratore quello mi ricompenserà con un livello più alto di lavoro. I salari che pagano le imprese sono più alto di quello di riserva si parla di salario di efficienza (perché se il salario è uguale a quello di riserva il lavoratore sarà indifferente se lavorare o meno mentre corrispondere un salario superiore a quello di riserva rende più conveniente per il lavoratore rimanere nell’impresa, riducendo il turnover e aumentando quindi la produttività), che nasce da un’intuizione di Henry Ford (teoria dei salari di efficienza) questo inizia a produrre negli anni 30 il cosiddetto modello T, cioè la prima automobile prodotta usando la catena di montaggio fu un disastro a livello di relazione fra lavoratori e impresa. C’erano continuamente lavoratori assenti, ammalati, lavoratori che appena potevano se ne andavano. Henry Ford decise di raddoppiare il salario per coloro che lavoravano alla catena di montaggio nessuno se ne voleva più andare: si formavano lunghe file per lavorare migliore decisione di contenimento dei costi che avesse mai assunto. I salari dipendono quindi da:  La considerazione che l’impresa ha nei confronti del lavoratore se si considera l’impegno dei lavoratori come elementi essenziali per la qualità del lavoro, si pagherà un salario maggiore di quello pagato nelle imprese dove i lavoratori svolgono attività di routine.  Fatto che il salario è legato alle condizioni presenti nel mercato un tasso di disoccupazione basso rende più conveniente per i lavoratori dare le dimissioni perché è più facile trovare occupazione, quindi, l’impresa dovrà aumentare i salari man mano che il tasso di disoccupazione scende. Al contrario, un aumento della disoccupazione tenderà a far scendere i salari. Esiste una relazione fra tasso di disoccupazione e le dimissioni: se il tasso di disoccupazione è alto avrò meno lavoratori che si dimettono perché non riescono a trovare un altro lavoro. Andiamo a formalizzare la relazione fra salari e livelli di prezzi: Il salario nominale aggregato W dipende da:  Il livello atteso dei prezzi Pe;  Il tasso di disoccupazione u  Una generica variabile z che rappresenta tutte le altre variabili che influenzano la determinazione dei salari. o livello atteso dei prezzi per una funzione di tasso di disoccupazione e altri fattori. Noi lavoriamo perché per con il denaro ci procuriamo delle cose che ci sono utili cibo, vestiti, … allora io come lavoratore non sono interessato a quello che ricevo (salario nominale 3200 euro che ricevo nell’esempio precedente), ma sono interessato al potere d’acquisto del salario (salario reale rapporto tra salario nominale e il livello dei prezzi  W/P ). Allo stesso modo le imprese sono interessate al salario in termini del prezzo della produzione venduta cioè anche loro sono interessate a W/P. In altre parole, se i lavoratori si aspettassero che il livello futuro dei prezzi raddoppiasse, richiederebbero un salario nominale doppio; analogamente, le imprese se si aspettano che il livello generale dei prezzi raddoppi (prezzo al quale i beni vengono venduti), loro saranno disposte a raddoppiare i salari nominalise entrambe, quindi, si aspettano che il livello generale dei prezzi raddoppi, concorderebbero nell’aumentare i salari in misura proporzionale, mantenendo costante il salario realeNell’equazione il fatto che il livello atteso dei prezzi raddoppi provoca un aumento proporzionale del salario nominale stabilito. Qual è il problema? Io vado a contrattare oggi il salario nominale, ma non so quale sarà il livello dei prezzi durante il periodo di validità del contratto. Allora cosa facciamo io e il datore di lavoro? Contrattiamo il salario non sulla base del livello dei prezzi, ma su quello che ci aspettiamo che sarà il livello dei prezzi (livello dei prezzi atteso) salario dipende direttamente dal livello dei prezzi atteso perchè vogliamo arrivare ad un certo livello di salario reale, in quanto il rischio è che se non venisse considerato il livello dei prezzi atteso, se durante l’anno aumenta il livello dei prezzi aumenta inaspettatamente, il salario nominale non potrà essere modificato (contratto collettivo). Il tasso di disoccupazione Il tasso di disoccupazione (u) come abbiamo indicato col segno meno (-) sotto la funzione, è inversamente proporzionale ai salari perché se il tasso di disoccupazione aumenta i salari scendono, mentre se il tasso di disoccupazione scende i salari aumentano. Se consideriamo il fatto che i salari vengano determinati a partire da considerazioni basate sulle teorie dell’efficienza allora una disoccupazione più alta permetterà di pagare salari minori, senza rinunciare all’efficienza dei lavoratori. Gli altri fattori: Z: fattori diversi dal livello dei prezzi attesi e dal tasso di disoccupazione quali sono i principali fattori? di disoccupazione involontaria questo descrive meglio la realtà di quanto non faccia il modello concorrenziale di domanda e offerta le imprese fissano i prezzi nella realtà. L’equazione dei salari, quindi, è influenzata dalla contrattazione dei salari e dalla determinazione unilaterale dei prezzi dalle aziende per questo si preferisce rappresentare l’equilibrio in termini di equazione dei prezzi e dei salari. Salari di equilibrio e disoccupazione L’equilibrio richiede che il salario reale risultante dall’equazione dei salari sia uguale al salario reale derivante dall’equazione dei prezzi. L’equilibrio si trova nel punto A e il tasso di disoccupazione di equilibrio è pari a un. Sostituendo W/P delle due equazioni otteniamo che: F(un,z)= 1 1+m Il tasso di disoccupazione deve essere tale per cui il salario reale scelto nella determinazione dei salari sia uguale a quello scelto nella fissazione dei prezzi. Effetto dei cambiamenti del tasso naturale di disoccupazione se accade che…  se aumenta Z (ad esempio se aumenta il sussidio di disoccupazione), mentre tutto il resto resta constante. Cosa accade al tasso di disoccupazione: La curva dei salari si sposta verso l’alto quindi il tasso natura di disoccupazione naturale aumenta a causa del fatto che z fa aumentare i salari. Quindi, maggiori sussidi portano a un salario reale maggiore quindi, è necessario un tasso di disoccupazione maggiore per riportare il salario reale al livello che le imprese siano disposte a pagarlo. Se z scendei salari scendono e quindi la curva si sposta verso il basso e quindi diminuisce un.  cosa accade al tasso naturale di disoccupazione se cambiano le leggi antitrust? Se diventa meno restrittiva la politica (mercati meno concorrenziali) il mark up diventa più alto. Se questo aumenta allora 1/1+m diminuisce, quindi la curva dei prezzi si sposta verso il basso quindi la un aumenta (meno antitrust più è alto il tasso di disoccupazione diventa meno conveniente per i lavorati e più per le imprese). Un aumento del mark up provoca una riduzione del salario reale e si genera un aumento della disoccupazione. Sarà necessaria una disoccupazione più elevata per costringere i lavoratori ad accettare anche un salario minore e questo farà aumentare il tasso naturale di disoccupazione. Se diventa più restrittiva (mercati più concorrenziali) il mark up diventa più basso. Se questo scende allora 1/1+m aumenta, quindi la curva dei prezzi si sposta verso l’alto quindi la un scende (più antitrust c’è più è basso tasso di disoccupazione diventa meno conveniente per le imprese, mentre conviene per i lavoratori). La curva di Philips, il tasso naturale di disoccupazione e l’inflazione Nel 1958 A. W. Philips disegnò un grafico che riportava il tasso di inflazione in funzione del tasso di disoccupazione relazione negativa: quando la disoccupazione è alta l’inflazione è bassa (delle volte anche negativa), viceversa quando la disoccupazione è bassa l’inflazione è alta. Due anni dopo, Samuelson e Solow, due economisti statunitensi vincitori del premio Nobel, replicarono l’esercizio di Philips negli USA. Questa relazione, che Samuelson e Solow denominarono come curva di Philips, giunse ben presto a occupare un ruolo centrale nel pensiero e nelle politiche macroeconomiche. Negli anni 70, tuttavia, la relazione fra queste due variabili si ruppe sia negli USA che in altri paesi membri dell’OCSE si registrarono contemporaneamente sia un’elevata inflazione che un’elevata disoccupazione. La relazione riapparve dopo come relazione fra tasso di disoccupazione e variazione del tasso di inflazione. Sappiamo che per la determinazione dei salari possiamo usare la funzioneW=Pe*F(u,z). Quindi, il salario nominale (W) dipende dal livello generale dei prezzi Pe, dal tasso di disoccupazione e dalla variabile z. Supponiamo che la F(u,z)=1-αu+z quanto maggiore è u, tanto minore è il salario; mentre tanto maggiore è z, tanto maggiore è il salario. Il parametro α è l’effetto della disoccupazione sui salari. Sostituendo F nell’equazione sopra otteniamo: W=Pe(1-αu+z). Sapendo l’equazione dei prezzi P(1+m)W, sappiamo anche che il prezzo di P scelto dalle imprese è uguale al salario nominale (W), moltiplicato per 1 più il mark up (m). Se sostituiamo il salario nominale nella seconda equazione dei prezzi otteniamo P=Pe(1+m)(1- αu+z): questo ci dice che c’è una relazione tra il livello dei prezzi, il livello atteso e il tasso di disoccupazione. Se il tasso di inflazione lo indichiamo come π e quello atteso come πe, otteniamo una nuova equazione (mostra la relazione tra l’inflazione, l’inflazione attesa e il tasso di disoccupazione)π= πe+ (m+z)- αu.  Un aumento dell’inflazione attesa πe porta a un aumento dell’inflazione effettiva π. Per spiegarlo torniamo ad analizzare l’equazione con P; un aumento di Pe, porta un aumento del livello dei prezzi P questo perché se chi fissa i salari si aspetta un maggior livello dei prezzi, richiederà un maggior livello dei salari nominali, determinando un aumento del livello dei prezzi effettivo. Questo significa, un maggiore tasso di crescita del livello dei prezzi rispetto allo scorso periodo, cioè un’inflazione maggiore.  Data l’inflazione attesa, un aumento del markup (m) o un aumento dei fattori che influiscono sulla determinazione dei salari (z), causano un aumento dell’inflazione π.  Data l’inflazione attesa, una riduzione del tasso di disoccupazione u, porta a un aumento dell’inflazione effettiva π e viceversa. Questa relazione la posso scrivere al tempo t πt= πe t+m+z- αut. Le variabili πt, πe t , αut si riferiscono rispettivamente all’inflazione, all’inflazione attesa e alla disoccupazione nell’anno t. Notiamo che non ci sono indici temporali per m e z perché, sebbene m e z varino nel tempo, lo fanno molto lentamente, specialmente a paragone dell’inflazione e della disoccupazione. Perciò le terremo come costanti. Cosa ci dice questa? Esiste una relazione tra inflazione, inflazione attesa e disoccupazione questa è la prima formulazione della curva di Philips. Consideriamo l’inflazione costante cosa succede se aumenta la disoccupazione? Diminuisce l’inflazione. Se diminuisce la disoccupazione? Aumenta l’inflazione. L’inflazione è bassa rispetto ad un valore di inflazione di riferimento l’inflazione negli anni passati viaggiava intorno al 2% ma non si poteva dire cosa accadeva nell’anno dopo. Le aspettative erano ancorate a questo livello di inflazione di riferimento quindi la curva di Philips si poteva scrivere cosìπt=π*(m+z)- αut. Cosa significa questo? Che l’inflazione dell’anno precedente non è un buon valore di riferimento dell’inflazione dell’anno successivo. Sembrò come se i policy maker fronteggiassero un trade-off tra inflazione e disoccupazione se avessero accettato una maggiore inflazione, avrebbero potuto ottenere una minore disoccupazione. Qual è il problema degli anni 70? È cambiato il modo di formulare le aspettative sulle inflazioni: non esiste più alcuna relazione evidente tra tasso di disoccupazione e di inflazione. Questo cambiamento fu il risultato di un cambiamento nel comportamento dell’inflazione: il tasso di inflazione divenne più persistente, cioè un anno di inflazione elevata sarebbe stato seguito da un altro anno di inflazione elevata. Di conseguenza, gli individui nel momento in cui dovevano formare le proprie aspettative sull’inflazione futura, iniziarono a tenere in considerazione la persistenza dell’inflazione. Supponiamo che le aspettative future si formino in base alla relazione seguenteπe t=(1-Ɵ)π+ Ɵπt-1 in poche parole, l’inflazione attesa di quest’anno dipende da π con peso (1- Ɵ) e dall’inflazione dell’anno precedente che denoteremo con πt-1 che ha un peso . Ɵ Quanto maggiore è Ɵ tanto più l’inflazione passata spinge i lavoratori e le imprese a rivedere le proprie aspettative sull’inflazione futura. Quindi, un aumento dell’inflazione nell’anno t-1 determina un aumento dell’inflazione attesa nell’anno t. Perché hanno rivisto i loro piani? Perché hanno pensato che se l’inflazione era stata alta nell’anno precedente, sarebbe stata alta anche nell’anno t. Il parametro Ɵ misura quindi l’effetto del tasso di inflazione passato su quello precedente. In particolare, le persone hanno iniziato ad assumere che il parametro sarebbe risultato pari a 1 a causa del fatto che l’inflazione restava la stessa. Se sostituiamo il valore πe t con quello riguardante la relazione dell’inflazione e disoccupazione nell’anno t verrebbe che: πe t =(1- Ɵ)π+ Ɵ πt-1+(m+z)- αut.  Quando Ɵ è uguale a zero otteniamo la curva di Philips originaria  Quando Ɵ è positivo il tasso di inflazione dipende non solo dal tasso di disoccupazione, ma anche dal tasso di inflazione dell’anno prima:  Quando Ɵ=1 l’equazione precedente diventa , quindi, il tasso di disoccupazione non influenza il tasso di inflazione, ma piuttosto la sua variazione una disoccupazione elevata comporta un’inflazione decrescente e una disoccupazione bassa comporta un’inflazione crescente. Con l’aumento del parametro fino a 1, non esiste più una relazione tra disoccupazione e inflazione, ma tra disoccupazione e variazione di inflazione (curva di Philips accelerata per indicare che un basso tasso di disoccupazione fa aumentare il tasso di inflazione e quindi provoca un’accelerazione del livello dei prezzi). Il ritorno all’ancoraggio delle aspettative? Negli anni 90 (così come per gli anni 60) la curva di Philips originaria (πt=π*(m+z)- αut) è tornata ad essere valida; questo perché dai primi anni 80 in poi, molte banche centrali hanno rafforzato il loro impegno di mantenere l’inflazione bassa e stabile in particolare vicino al 2%. La BCE (banca centrale dell’UE) si era impegnata ad assumere che l’inflazione fosse intorno a questo valore. L’inflazione così rimase stabile e così cambiò anche il modo in cui le persone formavano le loro aspettative sull’inflazione futura, questo perché anche se in un determinato anno l’inflazione è superiore rispetto all’obbiettivo, la gente suppone che la BC adotterà delle misure sufficienti per riportare l’inflazione al suo obbiettivo in questo modo l’inflazione attesa sarà pari a quella fissata dalla Banca Centrale. Sappiamo che la Curva di Philips è una relazione tra inflazione, inflazione attesa e disoccupazione quindi, la relazione tra inflazione e disoccupazione dipende da come le persone formano le loro aspettative, che a sua volta dipende dal comportamento dell’inflazione. Può succedere però che le aspettative non funzionino più in questo modo perdono l’ancoraggio: l’inflazione sarà uguale a quella del periodo precedenteπe= πt-1+(m+z)- αut  inflazione attesa pari all’inflazione del periodo precedente successo negli anni 70 e 80 con la curva di Philips accelerata (cambiò il modo in cui la gente formava le proprie aspettative). Il grande interrogativo è se questo accadrà in questo periodo attuale perché ci aspettavamo quella del 2%, ma siamo oltre il 6%, quindi se vediamo che torna al 2% ci aspetteremo quella del 2%, ma se non avvenisse le nostre aspettative perderanno ancoraggio grande problema che le autorità monetarie europee e americane si trovano ad affrontare. Se l’inflazione perde l’ancoraggio si perde il rapporto diretto tra disoccupazione e inflazione: si perde molto della possibilità della politica monetaria di essere usata come stimolo per l’economia. La curva di Philips e il tasso naturale di disoccupazione Per definizione il tasso naturale di disoccupazione è quello in presenza del quale il livello dei prezzi (P) è uguale a quello dei prezzi attesi (Pe) questo implica che l’inflazione è uguale all’inflazione attesa. Ricordiamoci l’espressione della curva di Philips Come diventa questa se il livello di inflazione è uguale a quella attesa (π-πe=0)0=m+z-α*unt Ora posso ricavarmi il tasso di disoccupazione naturale α*unt=m+z  divido per α unt= m+z α Il mark up è il ricarico che le imprese possono apporre ai prezzi meno il mercato è concorrenziale più aumenta m e più aumenta il tasso di disoccupazione naturale: la concorrenza sul mercato fa tanto bene ai lavoratori m è una misura della concorrenza. Mentre, quando aumenta la concorrenza le imprese devono ridurre il mark up, quindi si riduce anche il tasso di disoccupazione naturale. Il tasso di disoccupazione dipende anche da z che dipendeva dal livello di tutela del lavoro, dal sussidio di disoccupazione aumenta z aumenta la tutela del lavoro, il sussidio e aumenta il tasso naturale di disoccupazione e lo stesso per il salario minimoAumenta il salario minimo aumenta il tasso naturale di disoccupazione. All’equazione , andiamo a sostituire un t  πt- πe t =-α(ut - m+z α ) relazione fra la differenza tra inflazione e quella attesa e disoccupazione e disoccupazione naturale. Infatti, se vediamo (m+z/ α) è anche un, quindi possiamo riscrivere l’equazione come:πt- πe t =-α (ut-un). Questa equazione collega il tasso di inflazione, il tasso di inflazione atteso e la deviazione del tasso di disoccupazione dal tasso di disoccupazione naturale.  Ut<Un=> πt>πe t Se io banca centrale riesco a portare l’inflazione al disopra di quella attesa, possono portare la disoccupazione al di sotto di quella naturale ma questo significa sorprendere i mercati con le mie mosse, ma i mercati sono attentissimi a tutto.  Ut>Un=> πt<πe t Se la disoccupazione è maggiore di quella naturale, l’inflazione sarà minore del livello di inflazione attesa.  Ut=Un=> πt=πe t  se la disoccupazione è al tasso naturale, allora l’inflazione sarà uguale a quella prevista. Negli USA dalla metà degli anni 90 la curva di Philips aveva un’espressione: πt= 2,8%-0,16ut l’inflazione era stabile intorno al 2%  2%=2,8% -0,16un quindi un=0,8/0,16 5% (valore standard del tasso di disoccupazione naturale). Per molti anni la disoccupazione è stata inferiore del 5% perché negli USA è migliorato l’incontro tra domanda e offerta di lavoro grazie a internet, perché oggi è più facile trovare i lavoratori che cercano lavoro e viceversa. Per spiegare le differenze dei tassi naturali di disoccupazione tra paesi, è necessario analizzare i fattori che influenzano la determinazione dei salari e la determinazione dei prezzi. Inflazione elevata e curva di Philips L’episodio degli anni 70 ci ha insegnato che la relazione tra disoccupazione e inflazione tende a cambiare al variare del livello e della persistenza dell’inflazione. Quando l’inflazione diventa elevata i lavoratori e le imprese sono più riluttanti dal firmare contratti di lavoro che fissano i salari nominali per un lungo periodo di tempo: se l’inflazione risultasse alta nel periodo previsto, i salari reali scenderebbero e i lavoratori perderebbero il loro potere d’acquisto. Se l’inflazione risultasse più bassa del previsto, i salari reali aumenterebbero e le imprese non sarebbero più in grado di pagare i lavoratori e rischierebbero di fallire. Per questa ragione le condizioni delle contrattazioni salariali cambiano al variare del livello di inflazione. Con alta inflazione si tende a fissare i salari nominali per periodi brevi (un anno)  l’indicizzazione dei salari parliamo di questo fenomeno con la curva di Philips. I lavoratori e imprese sono interessate al salario reale ma che visto che quando raggiungono un accordo il livello dei prezzi non è ancora noto, l’accordo si raggiunge sul salario reale atteso è valido fino a quando l’inflazione è al 2% sempre perché viene fissato un salario nominale che corrisponde al salario reale obbiettivo. Questo discorso non vale più con un’inflazione alta i salari vengono adeguati all’inflazione e fissati per tempi più brevi. Come si può modellare l’indicizzazione nell’ambito della curva di Philips e che conseguenze ha? Supponiamo che λ (landa) sia la porzione di contratti indicizzati (salari nominali si muovono nella stessa direzione dei prezzi) e che (1- λ ) sia la porzione di contratti non indicizzati (salari nominali sono fissati sulla base dell’inflazione attesa). Condizione di equilibrio nel mercato della monetaè che l’offerta deve uguagliare la domanda di moneta. L’offerta M/P: saldi monetari reali (nel medio periodo). La domanda di moneta nel medio periodo è uguale a Yn (reddito al suo livello naturale) che moltiplica una funzione del tasso di interesse reale L(rn+ tasso di inflazione obiettivo). M P = Yn L (rn+ π) Considerazione siamo nel medio periodo, Yn è costante, di conseguenza rn è costante e idem l’inflazione. Nel medio periodo quindi la domanda di moneta è costante l’offerta di saldi monetari è costante. Questo significa che il livello dei prezzi P deve crescere allo stesso modo dello stock nominale di moneta. Gm= tasso di crescita di moneta: perché M/P deve rimanere costante allora anche l’inflazione deve essere costante. Quindi nel medio periodo Gm= π. Quindi possiamo dire che nel medio periodo il tasso di interesse nominale è uguale a rn+gM in parole povere, nel medio periodo la politica monetaria può influenzare solo il tasso di interesse nominale e il tasso di inflazione, ma non è in grado di influenzare le variabili reali che sono quello che ci interessano di più perché sono la produzione, disoccupazione, tasso di interesse reale quindi non influenza l’economia reale (neutralità della moneta). Molte delle dispute fra diverse ricerche di politica economica si focalizzano su quanto siano lunghi i periodi, breve, lungo e medio. A seconda della risposta, le opzioni di politica economica consigliabili sono diverse. Se voi ritenete che il breve periodo sia realmente breve siamo un conservatore c’è poco spazio per le politiche economiche, bisogna lasciare in pace il mercato, se invece il breve periodo è più lungo siamo dei liberali, c’è spazio per l’intervento pubblico nell’economia. Questo chiaramente, dipende da quanto rapidamente i prezzi si aggiustano al variare delle condizioni del mercato. Considerazione: la BC molto difficilmente conosce il livello naturale di prodotto (Yn). Facciamo un passo indietro, riscriviamo la curva di Philips π- π= ( α L )(Y-Yn) Se aumenta l’inflazione in realtà questo determinerebbe un segnale dell’aumento dell’output gap il segnale non è così chiaro. Possiamo presentare come esempio la situazione degli USA nel 2019. Nel 2019 c’era un tasso di disoccupazione del 3,9%, cioè bassa disoccupazione (se facessimo un giro sul sito dell’ISTAT, vedremmo che l’unica provincia ad avere un tasso di disoccupazione del 3% è quella di Bolzano) e l’inflazione era del 2,3% (tempi belli e felici, non sapevamo cosa fosse il COVID o cosa fosse la guerra). Questa significa che è alta perché al di sopra delle aspettative ancorate al 2%. La bassa disoccupazione determina un alto prodotto probabilmente ci sarà un output gap positivo. Bisognerà raffreddare l’economia aumentando il tasso di interesse. Ma se fosse cambiato il tasso di disoccupazione naturale (il periodo di ricerca di lavoro si abbrevia, il tasso di disoccupazione naturale scende era del 5%), magari non avremmo più un output gap positivo, quindi non ci sarà ragione di aumentare r, perché provocherei una recessione. Come funziona la politica monetaria? Io alzo il tasso d’interesse perché l’economia si è surriscaldata; quindi, gli investimenti diminuiscono (il denaro è più caro), diminuisce la produzione, diminuisce il reddito disponibile (Y- T), diminuiscono i consumiquesto processo richiede tempo. Io sono Christine Lagarde posso decidere di alzare r la politica monetaria è priva di ritardi interni (da quando è stata presa la decisione a quando viene attuata passa poco tempo ma non avviene la stessa cosa per la politica fiscale devo alzare le tasse, devo convincere il mio governo, devo fare una legge parlamentare, che deve passare alla Camera e al Senato da quando il governo decide di attuare una politica fiscale a quando viene attuata: passa molto TEMPO). Gli investimenti non diminuiscono subito perché le imprese programmano i loro investimenti con largo anticipo la produzione cala lentamente, cala lentamente il reddito disponibile ancora più lentamente (l’adeguamento dei salari è una cosa complicata io sono l’impresario, c’è un problema non posso subito tagliare i salari, perché il lavoratore non sarà contento, perché lavorerà peggio, poi se è bravo deciderà di licenziarsi perchè saprà di trovare un altro posto migliore, io resterò, quindi, con quelli meno bravi)prima di prendere questo provvedimento ci devo pensare bene. Tutto questo processo richiede molto tempo ed è chiamato ritardo esterno. Quindi, in altre parole possiamo dire che diminuire troppo rapidamente la domanda e la produzione può essere difficile o addirittura controproducente; ma anche muoversi troppo lentamente comporta un altro rischio se l’inflazione rimane al di sopra dell’obbiettivo troppo a lungo, le aspettative di inflazione si destabilizzano, portando a un aumento dell’inflazione e richiedendo, da parte della BC, un aggiustamento più costoso. Andiamo a vedere graficamente questa situazione. Supponiamo di essere al punto A quindi di avere un output gap positivo (Y> Yn). Per raffreddare l’economia potrei decidere di aumentare gradualmente un tasso di interesse, al quale corrisponderà una diminuzione di Y, portandolo al suo livello naturale. Con una politica cauta l’inflazione non scende, le aspettative di inflazione perdono l’ancoraggio quindi l’intervento risulterà molto costoso. Procedere rapidamente comporterebbe un altro di problema alzo molto i tassi di interesse, ciò provoca problemi politici e sociali (disorientamento della società), dopodiché se questa è troppo forte e non conosco Yn, potrei alzare troppo il tasso di interesse, perché non conosco nemmeno rn quindi potrei generare una recessione artificiale generata da me perché ho sbagliato la mia decisione sui tassi d’interesse. Stabilito questo, consideriamo un’economia in recessione significa che c’è un output gap negativo (Y<Yn) e che ci sia la deflazione. La BC per sostenere l’economia deve ridurre il tasso di interesse reale fino a che la produzione non aumenta fino a raggiungere il suo livello potenziale. Il problema è che riducendolo potrebbe doverlo ridurre fino a portarlo sotto zero (supponiamo che Rn sia sotto lo zero). Di per sé non è questo il cuore del nostro problema, perché prendiamo a prestito un tasso pari a rn+x. Quindi anche se rn è negativo, io continuo a prendere a prestito ad un tasso di interesse nominale positivo. Bisogna tenere presente che c’è un altro vincolo tasso di interesse nominale deve essere sempre maggiore di zero, perché altrimenti nessuno prenderebbe a prestito. Quindi, io al massimo posso raggiungere un tasso di interesse nominale pari a zero al massimo posso fissare il tasso di interesse reale pari alla deflazione. Se la deflazione è al 2%  r= al minimo deve essere al 2%. Esiste un limite al di sotto del quale la BC non può far scendere il tasso di interesse reale: zero lower bound : ciò significa che la BC potrebbe non essere in grado di ridurre il tasso d’interesse reale in maniera sufficiente da riportare la produzione al potenziale. L’economia è in recessione e in deflazione  al punto A la variazione di inflazione è negativa (la curva di Philips è al di sotto di quella costante). Ricordiamoci che io al minimo posso avere un tasso di interesse reale uguale al tasso di deflazione quindi supponiamo che io non posso scendere al di sotto di r diventa lo zero lower bound. Succede che in quella situazione le aspettative perdono l’ancoraggio mi aspetto che ogni anno le aspettative di consumo diminuiscano le cose andranno sempre peggio. Quando la gente vede l’inflazione bassa e che l’economia è al di sotto del suo potenziale, inizierà a cambiare le proprie aspettative. Ma se tutti aspettano prima di investire o consumare, l’economia rallenta ulteriormente. Quindi, succede che se mi aspetto la deflazione, l’economia si muove in questo senso, quindi, lo zero lower bound aumenta aumenterà ulteriormente la deflazione. Man mano che la deflazione diventa maggiore, il tasso di interesse reale (uguale alla deflazione) aumenta più grande è la deflazione, maggiore sarà il tasso d’interesse reale, più basso è l’output, e così viaSPIRALE INFLAZIONISTICA. Nel 2008 le aspettative di inflazione non hanno perso l’ancoraggio quindi siamo andati in deflazione ma limitatamente e per un breve periodo di tempo (non si è verificata la spirale inflazionistica), e lo stessa cosa per la crisi pandemica dove la cosa è stata limitata perché ci aspettavamo che la fasa più acuta della pandemia sarebbe durata poco la deflazione è andata avanti ma per poco tempo le aspettative sono rimaste quelle, quindi, la spirale deflazionistica non si è innescata. Una ridotta inflazione ha portato a una ridotta inflazione e, in alcuni casi, a una leggera deflazione, ma mai ad una sistematica e crescente deflazione. Consolidamento fiscale decidiamo di aumentare le TASSE per diminuire il disavanzo di bilancio. Aumentano le tasse, di conseguenza la curva IS si sposta verso sinistra, dopodiché Yn diminuisce, quindi l’inflazione scende. Prima conclusione l’economia era al suo livello potenziale (naturale), con l’aumento delle tasse ho provocato una recessione perché ho aumentato le tasse, di conseguenza è sceso il reddito disponibile, sono scesi i consumi, poi il prodotto e gli investimenti (nel breve periodo). Nel medio periodo se la BC vede che siamo in recessione diminuisce r. Yn ritorna al suo livello naturale iniziale. Le tasse si sono alzate, il reddito disponibile è sceso, i consumi sono scesi (medio periodo). R è sceso, quindi I sono aumentati (la produzione non è variata) è variata la composizione del prodotto. La riduzione dei consumi è controbilanciata da un aumento dell’investimento così che la domanda rimanga invariata. All’inizio del 900 l’Italia era un paese da cui si emigrava verso l’America e all’epoca andare in Argentina o negli USA era lo stesso erano due paesi dello stesso peso economico. Oggi non è più così, perché l’Argentina è rimasta uguale mentre gli USA sono diventati più ricchi. Come si può evitare questa recessione nel breve periodo? Se la BC avesse immediatamente abbassato il tasso di interesse reale quando il governo aumentava le tasse (servirebbe che il governo e la BC si coordinassero) la recessione non sarebbe avvenuta (una corretta combinazione di politica fiscale e monetaria può raggiungere l’equilibrio di medio periodo già nel breve periodo), ma non è sempre possibile questo è quello che è successo con la crisi del 2011 in Italia. Dato che il tasso di interesse era pari a ZERO, la BC si è trovata in difficoltà perché non poteva ridurre i tassi di interesse (zero lower boundmargini di manovra limitati), e ha messo in atto interventi di politica monetaria non convenzionali la politica monetaria non è riuscita a compensare gli effetti negativi sulla produzione causati dal consolidamento fiscale. Gli effetti di un aumento del prezzo del petrolio Esistono tipologie di shock che producono un effetto sia sulla domanda che sul livello potenziale di produzione: i movimenti nel prezzo del petrolio sono uno di questi shock. In due occasioni nel corso degli ultimi 50 anni l’economia statunitense è stata colpita da un aumento pari a 5 volte del prezzo reale del petrolio la prima vota negli anni 70 e la seconda negli anni 2000.  Negli anni 70 i fattori principali furono la formazione dell’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (cartello di produttori di petrolio che è stato in grado di monopolizzare il mercato e aumentare i prezzi) e le interruzioni nella produzione a causa di guerre e rivoluzioni nel Medio Oriente.  Negli anni 2000 il fattore principale fu la forte crescita delle economie emergenti: la Cina, che ha portato a un rapido aumento della domanda mondiale di petrolio e a un costante aumento del prezzo reale del petrolio. In entrambi i casi ci troviamo difronte ad un petrolio più costoso e per vedere gli effetti di questo nel breve e nel medio periodo dobbiamo considerare che la produzione oltre che dipendere dal lavoro, dipende anche dall’energia e da altri fattori. Ora potremmo chiederci quale sia l’effetto di un aumento del prezzo del petrolio sui prezzi stabiliti dalle imprese e sulla relazione tra produzione e occupazione. Per farlo cattureremo l’effetto di un aumento del prezzo del petrolio attraverso un aumento di m (mark up) sui salari nominali. Questo perché, dati i salari, un aumento del prezzo del petrolio aumenta il costo di produzione, spingendo le imprese ad aumentare i prezzi per mantenere lo stesso tasso di profitto. Prezzo del petrolio: i prezzi si determinano facendo (1+m)W si determinano in riferimento ai salari ai quali le imprese aggiungevano un mark up (che dipende dai costi non solo del lavoro ma anche dal prezzo delle fonti di energia). La curva che descrive la determinazione dei salari (WS) è inclinata negativamente, perché un maggior tasso di disoccupazione fa diminuire i salari. La curva che descrive la determinazione dei prezzi è una retta orizzontale in corrispondenza di W/P= (1+m)W. L’equilibrio iniziale è in corrispondenza del punto A e il tasso naturale di disoccupazione è un. Un aumento di m, fa spostare verso il basso PS (scende 1/1+m), questo perché maggiore è il mark up, minore è il salario reale determinato dalla relazione fra prezzi e disoccupazione. Di conseguenza, il salario reale scende e un aumenta. Questo perchè se diminuisce il tasso di disoccupazione il salario aumenta (se tu te ne vai io imprenditore farò molta fatica a sostituirti quindi se tu mi chiedi un aumento io sarò più propenso a concedertelo), mentre se il tasso di disoccupazione aumenta il salario scende. Nell’ottica del prezzo del petrolio che aumenta avviene che le imprese potranno pagare un salario ai lavoratori minore rispetto al solito per convincerli ad accettare un salario minore dovranno far aumentare il tasso di disoccupazione. Se non cambia la funzione di produzione (un’unità aggiuntiva di prodotto richiede un lavoratore in più), la relazione fra lavoro e prodotto, a un aumento del tasso di disoccupazione naturale corrisponde una diminuzione del prodotto naturale (Yn) tutto questo a causa di un aumento del prezzo dell’energia. Andiamo ad approfondire questo discorso utilizzando il nostro ISLM-PC. L’economia si trova nel punto A (equilibrio iniziale), la produzione è al suo livello potenziale Y, l’inflazione è stabile e il tasso di interesse è pari a rn. Un aumento il prezzo del petrolio fa scendere il prodotto naturale (Yn). Se questo avviene, la curva di Philips si sposta verso l’alto questo perché se cala il prodotto naturale cresce la differenza tra prodotto e prodotto naturale e quindi cresce la differenza tra inflazione e inflazione attesa. Nella nostra economia succede che l’inflazione cresce: è aumentato il prezzo del petrolio, le imprese hanno visto i loro costi aumentare, fanno aumentare quindi il loro mark up rispetto ai salari. Cosa succede ora? Supponiamo che la BC non ritocchi il tasso di interesse. Succede che l’inflazione continua ad aumentare e questa inflazione maggiore è associata allo stesso livello di produzione Y. L’equilibrio in questa situazione passa dal punto A al punto A’ la produzione (Y) non cambia ma l’inflazione è maggiore di prima. Ad un certo punto la BC si accorge che deve far qualcosa contro l’inflazione. Cosa fa? Aumenta r, portandolo da rn a rn’, di conseguenza il prodotto naturale scende (si sposta da Yn a Yn’). L’equilibrio passa, così, da A’ ad A’’ mentre la produzione cala, abbiamo un’alta inflazione che continua ad aumentare lentamente fino a che non ritorna stabile. Una volta che l’economia raggiunge il punto A’’ si ritrova nell’equilibrio di medio periodo. Questa situazione è la stagflazione (“stag” sta per stagnazione e “flazione” sta per inflazione) scoperta negli anni 70. Fino a questo momento abbiamo sempre associato la crescita dell’inflazione ad una produzione che cresceva al di sopra del suo livello naturale. Ora vediamo invece che la produzione cala quindi abbiamo molto disoccupati, gente che guadagna poco e nel frattempo i prezzi crescono perchè se guadagno poco vorrei che i prezzi rimangano stabili si fa difficile per il paese perché chi ha dei problemi tende ad essere meno ragionevole di chi non ne ha conseguenze negative sul piano sociale: cosa vera che disse Keynes parlando delle conseguenze economiche del trattato di Versailles che mise fine alla prima guerra mondiale: se trattiamo così male i tedeschi, ci saranno delle ripercussioni spingiamo la gente alla disperazione, causandoli a provocare degli atti inconsulti (Hitler). 2) lo potrei anche definire come il prezzo di unità di valuta estera in termini di valuta nazionale un dollaro= 0,8847 euro. Questo si chiama tasso di cambio incerto per certo (quantità di valuta nazionale incerta espresso in termini di valuta estera certa). Per acquistare un dollaro ci vogliono 0,8847 euro. I tassi di cambio tra monete sono determinati nei mercati dei cambi e mutano ogni giorno, anzi ogni minuto del giorno. Queste variazioni prendono il nome di apprezzamento della moneta nazionale (aumento del tasso di nominale di E) o deprezzamento della moneta nazionale (diminuzione del suo prezzo espresso in valuta estera E scende). Il regime di cambi fissi (quando E non varia tutti i giorni ma è fissato dalla BC per periodi più o meno lunghi), ci fa parlare di rivalutazione quando E aumenta (il prezzo di valuta nazionale espresso in valuta estera aumenta) e parliamo di svalutazione quando E scende. Il cambio dell’euro non è completamento libero, (non è lasciato completamente alle decisioni del mercato dei cambi) perché la BC interviene per smussare i deprezzamenti o gli apprezzamenti troppo ampi. Ci sono vari tassi di cambio flessibili e fissi. Nel mondo reale ci sono regimi intermedi tra questi due. Tuttavia, quello che ci interessa sapere non è tanto quanti dollari otterremo in cambio di un euro, ma quanto costano i beni stranieri rispetto a quelli nazionali. Detto ciò, possiamo parlare di tassi di cambio reale. Supponiamo che l’Eurozona produca solo un bene (automobili Ferrari) e lo stesso il Regno Unito (automobili Jaguar) e che il tasso di cambio nominale tra euro e sterlina è di 1 euro= 0,87 sterline. Una Ferrari viene 200 mila euro e una Jaguar 30 mila sterline. Ci facciamo una domanda? Qual è il prezzo relativo della Ferrari espresso in termini di Jaguar? Se rinuncio ad una Ferrari quante Jaguar posso comprare? Per comparare i due prezzi la prima cosa che dobbiamo fare è esprimerli nella stessa valuta facciamolo tutto in sterline. Prezzo della Ferrari in sterline 200 mila euro per 0,87: 174 mila sterline. Quindi, il tasso di cambio reale tra euro e sterline in questo caso, cioè considerando l’automobile, sarà pari a 174 mila diviso 30 mila= 5,8 (devo rinunciare a 5,8 Jaguar per comprarmi una Ferrari, oppure se rinuncio alla Ferrari posso comprare 5,8 Jaguar). C’è un trade off tra Ferrari e Jaguar. Il problema di questa costruzione è che l’Eurozona e il Regno Unito non producono solo automobili, ma molti beni, per cui è necessario costruire un tasso di cambio reale che rifletta il prezzo relativo di tutti i beni prodotti nell’Eurozona e nel Regno Unito. Quindi, dobbiamo usare un indice dei prezzi di tutti i beni prodotti nel Regno Unito e un indice dei prezzi di tutti i beni prodotti nell’Eurozona. Quello che ci serve, infatti, è il DEFLATORE DEL PIL cioè l’indice dei prezzi dei beni e servizi finali prodotti in un’economia. Consideriamo P (livello dei prezzi nell’Eurozona paesi che hanno adottato l’euro), P* (livello dei prezzi nel Regno Unito) ed E (tasso di cambio nominale tra euro e sterlina). Quindi, il tasso di cambio reale= EP (prezzo deibeni acquistati nell ’ Eurozona espressi∈sterline) P∗( prezzo dello stesso panieredei beni espresso∈sterline) Cosa bisogna dire? Il tasso di cambio reale è un indice perché costruito usando un livello dei prezzi che è un numero indice, quindi, il livello assoluto del tasso di cambio reale non ci dice nulla. E allora perché ce ne dobbiamo occupare? Quelle che sono interessanti sono le variazioni del tasso reale se il tasso reale di cambio tra Eurozona e Regno Unito variasse del 20%, vorrebbe dire che adesso i beni europei sono più costosi di quelli britannici del 20%. Le variazioni del tasso di cambio reale sono chiamate:  apprezzamento reale della valuta cioè un aumento del prezzo dei beni nazionali espresso in beni esteri (beni nazionali sono meno convenienti dei beni esteri).  deprezzamento reale cioè il prezzo relativo dei beni nazionali espresso in termini di beni esteri diminuisce del 20%. I beni nazionali diventano più convenienti dei beni esteri. Quando resta costante il rapporto tra prezzi nazionali e quello dei prezzi esteri? quando la variazione dei prezzi nazionali è uguale alla variazione dei prezzi esteri, cioè se le inflazioni sono uguali il tasso di cambio nominale e reale si muovono insieme, in modo proporzionale e nella stessa direzione. Se invece i tassi di inflazione tra paesi sono diversi, si muovono in direzioni opposte. Inoltre, le fluttuazioni del tasso di cambio reale sono principalmente determinate dalle variazioni del tasso di cambio nominale. Finora abbiamo considerato che il tasso d’interesse reale fosse il tasso di cambio per il livello di prezzi domestico/livello di prezzo estero. Il tasso d’interesse reale è indicativo del prezzo relativo dei beni nazionali espresso in termini di quelli esteri. Tuttavia, così facendo si considera che l’Eurozona commerci solo con un paese, ma in realtà questa commercia con tre gruppi di paesi:  paesi che appartengono all’UE ma non all’Eurozona  paesi asiatici  USA Quindi, dovremmo passare dai tassi di cambio bilaterali (tra Eurozona e Regno Unito) a tassi di cambio multilaterali che riflettono questa composizione del commercio. Quindi, dobbiamo assegnare a ciascun paese un peso che tenga conto non solo di quanto l’eurozona commercia con questo paese, ma anche di quanto questo paese compete con l’Eurozona negli altri paesi così abbiamo il tasso di cambio reale effettivo. La novità è che noi non ci occupiamo di ricavare il tasso di cambio reale effettivo. I mercati finanziari in economia aperta L’apertura dei mercati finanziari consente agli investitori di detenere attività finanziarie sia nazionali che estere e, quindi, di diversificare il proprio portafoglio, di speculare sulle fluttuazioni dei tassi di interesse e dei tassi di cambio, e così via. Dato che l’acquisto o la vendita di attività finanziarie estere comporta l’acquisto o la vendita di moneta estera, il volume delle transazioni sul mercato delle valute è un indicatore dell’importanza delle transazioni finanziarie internazionali. Questo perché per la quasi totalità le transazioni non sono legate al commercio internazionale ma riguardano solo la compravendita di attività finanziarie compro dollari perché penso di guadagnarci comprandoli; per questo motivo il paese può avere avanzi o disavanzi commerciali, non è necessario che il valore di quello che compriamo e vendiamo sia uguale (bilancia dei pagamenti). Se un paese si trova di fronte ad un disavanzo commerciale significa che compra dall’estero più di quanto non venda al resto del mondo è quindi necessario che prenda a prestito la differenza tra il valore delle sue importazioni e il valore delle sue esportazioni. La bilancia dei pagamenti riassume le transazioni commerciali e finanziarie tra un paese e il resto del mondo. Si divide in due: conto corrente e conto capitale (ha sempre saldo pari a zero). Il conto corrente registra i pagamenti dal resto del mondo e per il resto del mondo regola numero 1 dal resto del mondo verso il paese (+), dal paese verso il resto del mondo (-). Nel conto corrente inseriamo le esportazioni un’esportazione comporta un pagamento dall’estero verso l’Italia. Quindi, le esportazioni vanno inserite nel conto corrente col segno +. Poi ci sono le importazioni che vanno inserite col segno meno: io importo i calzini cinesi e devo pagarli al cinese: c’è un pagamento dall’Italia verso la Cina. Possiamo definire la prima grandezza legata al conto corrente che è il saldo della bilancia commerciale differenza tra esportazioni e importazioni. Spesso e volentieri quando sentite la bilancia dei pagamenti ha registrato un attivo o un passivo, ci si riferisce al saldo della bilancia commerciale. Nel conto corrente non ci sono solo importazioni ed esportazioni, ma ci sono anche:  redditi da investimenti esteri: fatto da un italiano residente in Italia: si acquista 1000 azioni della Microsoft e a fine anno questa paga un dividendo per le azioni pagamento fatto da un’azienda estera verso l’Italia (+)  redditi delle attività finanziarie domestiche possedute da residenti esteri: residente estero che acquista azioni di un’azienda italiana l’azienda italiana alla fine dell’anno paga un dividendo agli investitori stranieri (-) o la differenza tra i redditi da investimenti esteri e i redditi delle attività finanziarie domestiche possedute da residenti esteri è il reddito netto.  Ipotesi che un residente americano faccia un pagamento a favore di un residente italiano: quindi, va registrato nel conto corrente col segno +. Un pagamento di questo tipo è un trasferimento (non mi chiede nulla in cambio perché è un regalo i trasferimenti includono una grande varietà di transazioni, come i trasferimenti dovuti a brevetti e a diritti d’autore, o le donazioni internazionali).  Pagamento da Italia verso paese estero: trasferimento con segno – nel conto corrente. I trasferimenti di regola sono aiuti che un paese manda ad un altro paese (aiuti allo sviluppo: paesi sviluppati devolvono una cifra limitata a paesi in difficoltà). Il saldo di conto corrente è la somma del saldo della bilancia commerciale (esportazioni-importazioni) + redditi da investimenti + trasferimenti. Questo può essere positivo o negativo se il saldo del c.c. è maggiore di zero abbiamo un avanzo di conto corrente, ma se invece il saldo c.c. è minore di zero abbiamo un disavanzo di conto corrente. Il conto capitale si compone degli investimenti esteri che possono essere divisi in due:  Investimenti diretti: è quando acquisto una quota del capitale azionario di un’impresa con l’obbiettivo di controllarla o influenzarne la gestione. Per gestire un’impresa non è necessario avere una maggioranza assoluta delle azioni, ma basta averne una quota significativa.  Investimenti di portafoglio: investitori che hanno acquistato un po’ di azioni semplicemente per diversificare il proprio portafoglio non hanno l’obbiettivo di influenzare le decisioni di un’azienda o di gestirla. Questo avviene perché se io non metto le mie risorse in un solo posto è meno probabile perderle. Se il conto capitale ha un saldo positivo abbiamo un avanzo di conto capitale, se è negativo abbiamo un disavanzo di conto capitale. Non è possibile registrare tutti i trasferimenti in dettaglio c’è una discrepanza tra saldo di c.c. e saldo di conto capitale: non arriviamo al saldo di conto corrente= saldo di conto capitale teoricamente dovrebbero essere uguale ma nella realtà non è così. A questo punto riprendiamo un argomento a cui abbiamo accennato, cioè la differenza tra due alternative di produzione: il Pil e il Pnl.  PIL: si può definire come valore aggiunto all’interno di un Paese valore aggiunto di un italiano che produce in Italia.  PNL: valore aggiunto dei fattori di produzione nazionale valore aggiunto di un italiano che produce all’estero. Quando un’economia è chiusa i due valori coincidono, ma quando è aperta possono differire. Infatti, parte del reddito prodotto da imprese italiane può andare all’estero se ci sono investitori stranieri e parte del reddito straniero viene in Italia per le imprese straniere di cui gli italiani sono azionisti. Così per passare dal Pil al Pnl, è necessario partire dal Pil e aggiungere il reddito netto, cioè il reddito ricevuto dal resto del mondo (per le attività estere possedute) meno il reddito pagato al resto del mondo (per attività italiane possedute)Il PNL è uguale al PIL+RN (trasferimenti di reddito). In alcuni paesi può essere grande, quando si possiede molte attività all’estero. La scelta tra attività finanziarie nazionali ed estere L’apertura dei mercati finanziari consente alle persone di investire scegliendo tra attività finanziarie nazionali ed estere. Siamo al tempo t e ho un euro e potrei investirlo in attività italiane o in attività estere. Investire un euro significa che al tempo t+1 avrò €1+it (tasso d’interesse in Italia). Se volessi investire nel Regno Unito, per investire un mio euro, dovrò comprare delle sterline e poi investire le sterline, poi quando mi daranno i soldi dopo un anno li dovrò convertire in euro. Quindi, quando comprerò inizialmente sterline al tempo t mi daranno un valore pari a E t (tasso di cambio nominale tra euro e sterlina) in cambio di €1. Investo le mie sterline e al tempo t+1 mi restituiranno €Et (1+it*) it* tasso d’interesse nel Regno Unito). Ora devo riportare in Italia le sterline quanti euro mi daranno? Non lo so perché non so quanto vale la sterlina tra un anno. Questa scelta la posso fare solo in base a quello che mi aspetto sarà il tasso di cambio, cioè quanti euro mi aspetterò dopo l’investimento. Per ogni € investito otterrò= Et ⋅1+it ¿ E t+ 1 e Arbitraggio: azione di acquistare dove costa poco e rivendere dove costa tanto. Se investire in Italia rendesse di più di investire all’estero, tutti investirebbero in Italia, ma dopo qui i tassi diminuirebbero mentre all’estero poca gente investirà, quindi ci sarà un tasso d’interesse maggiore. Ad un certo punto arriviamo che per via degli arbitraggisti investire in Italia o all’estero è indifferente (1+it)= Et ⋅1+it ¿ E t+ 1 e Questa equazione è chiamata parità scoperta dei tassi d’interesse. Questa ha due limiti fondamentali: per investire all’estero io devo vendere l’euro e comprare le sterline e poi dopo vendere le sterline e comprare l’euro. Queste transazioni valutarie hanno un costo. Il rendimento in Italia lo so, ma quello all’estero no dipende da quello che mi aspetto, quindi, le mie aspettative possono essere influenzate da imprevisti potrebbe accadere che il ritorno dell’investimento all’esterno non sarà quello che mi aspettavo. Quindi, piccole variazioni dei tassi di interesse o notizie di apprezzamenti o deprezzamenti possono spostare miliardi di dollari nel giro di pochi minuti. Per i paesi ricchi, la condizione di arbitraggio espressa nell’equazione è una buona approssimazione della realtà. Mentre in altri paesi, dove i mercati dei capitali sono più piccoli e meno avanzati, o dove esistono controlli sui movimenti di capitale, gli investitori sono più propensi a scegliere il tasso di interesse nazionale di quanto non risulti nell’equazione. I mercati valutari si dividono in mercati valutari SPOT e a termine. Io posso andare in banca e acquistare le sterline transazioni si conclude immediatamente. Oppure posso acquistare delle sterline a termine pagamento e consegna a 6 mesi, ma a condizioni che stabiliamo ora. Se io voglio investire in UK oggi posso acquistare sterline a SPOT, e allo stesso tempo rivendere sterline a termine per la durata dell’investimento, quindi il tasso di cambio sarà quello di oggi copro il rischio di cambio, e al posto del cambio atteso, avrò una parità coperta dei tassi di interesse perché ho coperto il rischio di cambio. Per capire meglio questa condizione riscriviamo: E t Et+1 e = Et Et+E t+1 e −Et = Et Et E t+Et+1 e −E t Et = 1 1+ Et+1 e −Et Et (1+it) = Et ⋅1+it ¿ E t+1 e  (1+it) 1+ Et+1 e −Et Et Questa espressione mostra la relazione fra il tasso di interesse nominale nazionale it, il tasso di interesse nominale estero, it*, e il tasso di apprezzamento atteso Et+1 e −Et E t . Se i tassi di interesse e il tasso di apprezzamento atteso non sono troppo alti, una buona approssimazione è it=it*- Et+1 e −Et E t (se non ci aspettiamo forti apprezzamenti o deprezzamenti i tassi d’interesse nazionali ed esteri si muovono insieme). Quindi, l’arbitraggio fa sì che il tasso di interesse interno sia uguale a quello estero meno il tasso di apprezzamento atteso. Ma è anche vero che il tasso di interesse nazionale deve essere uguale al tasso di interesse estero meno il tasso di deprezzamento atteso. Quindi in sintesi: l’apertura nel mercato dei beni permette a individui e imprese di scegliere tra i beni nazionali e i beni esteri (scelta che dipende dal tasso di interesse reale: prezzo relativo dei beni nazionali in termini di beni esteri), mentre l’apertura dei mercati finanziari permette agli investitori di scegliere tra attività finanziarie nazionali ed estere (scelta che dipende dai tassi di rendimenti relativi, che dipendono dai tassi di interesse nazionali ed esteri, e dal tasso di apprezzamento atteso della valuta nazionale). Mercato dei beni in un’economia aperta Finora abbiamo assunto che l’economia fosse chiusa quindi non c’era bisogno di distinguere la domanda nazionale di beni dalla domanda di beni nazionali. Tuttavia, nel contesto dell’economia aperta parte della domanda nazionale di beni è rivolta a beni esteri e parte della domanda di beni nazionali proviene dall’estero. In un’economia aperta, la domanda di beni nazionali z= C+I+G+X-IM/ε. La somma dei primi tre termini costituisce la domanda nazionale di beni (nazionali o esteri). Se l’economia fosse chiusa, C+I+G sarebbe la domanda di beni nazionali. In un’economia aperta dobbiamo sottrarre le importazioni (parte di domanda nazionale rivolta ai beni esteri). Tuttavia, dobbiamo considerare che i beni esteri sono diversi rispetto a quelli nazionali, quindi non possiamo semplicemente sottrarre IM dalla domanda Z, ma dobbiamo esprimere il valore delle importazioni in termini di beni nazionali  è per questo che faccio IM/ε. La lettera ε rappresenta il tasso di cambio reale, che stimolino la domanda interna, aspettando che sia un altro paese invece ad adottarle; ma se tutti aspettassero allora non accadrà nulla e la recessione persisterà. Se invece, tutti i paesi coordinasse le loro politiche macroeconomiche in modo da aumentare la domanda interna simultaneamente, potrebbero aumentare la produzione senza generare disavanzi commerciali tra di lorol'aumento coordinato della domanda genererebbe aumenti sia delle importazioni che delle esportazioni di ogni paese. Infatti, è sempre vero che l'espansione della domanda interna induce maggiori importazioni, ma questo aumento delle importazioni sarebbe compensato da un aumento delle esportazioni, derivante dall'espansione delle domande estere. Il coordinamento potrebbe richiedere però ad alcuni paesi di intervenire più di altri e non è detto che essi siano disposti a farlo Poiché quello che è un mio interesse non necessariamente è un tuo interesse. Il risultato di questa situazione è che, nonostante le dichiarazioni dei governi agli incontri internazionali, il coordinamento della politica economica spesso fallisce. Infatti, i governi molto spesso non mantengono la parola data e solo quando la situazione si fa veramente critica il coordinamento viene raggiunto. Deprezzamento, bilancia commerciale e produzione. Tasso nominale di cambio (E) è il prezzo della moneta nazionale espresso in termini di valuta estera: Ε: (EP)/P*  prezzo relativo dei beni nazionali rispetto a quelli esteri. Nel breve periodo i prezzi sono vischiosi, quindi, nel breve periodo il livello di prezzo interno è costante come il livello dei prezzi esteri: hanno bisogno di tempo per aggiustarsi. La gran parte del dibattito economico e politico riguarda la velocità con la quale i prezzi si aggiustano, ma comunque nel breve periodo i prezzi sono costanti: impiegano tempo per modificarsi ed aggiustarsi. Se nel breve periodo P e P* sono costanti, sarà costante anche il loro rapporto, di conseguenza, il tasso di cambio reale e nominale si muovono insieme e proporzionale e nella stessa direzione. Se il dollaro si deprezza del 10% rispetto all'euro, e se il livello dei prezzi nell'eurozona e negli Stati Uniti non varia, i beni statunitensi saranno più convenienti di quelli dell'eurozona del 10%. Cosa succede alla bilancia commerciale nel caso di un deprezzamento reale? Il tasso reale di cambio diminuisce, quindi cosa accade a NX di un paese? Partiamo dalla definizione di esportazioni nette: esportazioni(x)-(importazioni/tasso di cambio reale) (valore delle importazioni espresso in termini di beni nazionali). Le esportazioni dipendono dal reddito estero (Y*) e dal tasso di cambio reale (ε). Le importazioni dipendono dal reddito nazionale (Y) e dal tasso di cambio reale (ε). Cosa succede in caso di deprezzamento reale?  Le esportazioni aumentano perché il deprezzamento reale rende i beni nazionali meno costosi all’estero e quindi aumenta la domanda estera di beni nazionali.  Le importazioni calano di conseguenza, perché i beni esteri diventano più cari rispetto ai nostri beni, quindi, ne importiamo meno perché preferiamo consumare beni di produzione nazionale.  Succede anche un’altra cosa se ε cala, 1/ ε cresce e di conseguenza il rapporto tra IM/ ε CRESCE. La stessa quantità di importazioni costa di più in termini di beni nazionali: il prezzo relativo di una quantità data di importazioni, espresso in termini nazionali, costa di più. Cosa succede alle esportazioni nette (NX)? Dovrebbe crescere perché le esportazioni salgono e lo stesso il rapporto tra importazioni e ε. NX cresce se l’aumento delle esportazioni e la diminuzione delle importazioni compensano l’aumento di prezzo dei beni importati a un deprezzamento reale corrisponde un miglioramento della bilancia commerciale del paese, perché la crescita delle esportazioni e la diminuzione delle importazioni è più che sufficiente per compensare l’aumento del prezzo dei beni importati condizione di Marshall- Lerner (domanda esame) risposta al test: a un deprezzamento reale corrisponde un aumento delle esportazioni nette e quindi un miglioramento della bilancia commerciale di un paese. Deprezzamento reale: cosa succede alla produzione nazionale in caso di deprezzamento reale? Riduzione di ε: NX cresce ma Y? La domanda di beni nazionali aumenta: sono aumentate le esportazioni (i nostri beni costano meno per via del deprezzamento della valuta), quindi, si sposta la curva ZZ verso l’alto. Lo stesso anche la curva NX si sposta verso l’alto. L’equilibrio si sposta da A ad A’, e la produzione passa da Y a Y’. Lo spostamento della curva ZZ indica l’aumento della domanda di beni di produzione interna il reddito di equilibrio aumenta e migliora la bilancia commerciale (l’aumento delle importazioni indotto da un incremento della produzione è inferiore rispetto al miglioramento della bilancia commerciale indotto direttamente dal deprezzamento) e, quindi, c’è un avanzo commerciale. Però c’è un problema: se io deprezzo la moneta ho dei pro: migliora la bilancia commerciale e aumentano il reddito, i prezzi di produzione estera aumentano rispetto a quelli nazionali. Tuttavia, un deprezzamento agisce rendendo i beni esteri più costosi e dato che ognuno di noi consuma un paniere di beni nazionali ed esteri, i consumatori, dato il loro reddito, vedono il loro tenore di vita ridotto; i cittadini provocano dei disordini sociali che costano perché se noi siamo in piazza a ribellarci, non stiamo lavorando e non produciamo ricchezza e dopo ci sarà meno ricchezza a disposizione di tutti. Se aumenta il prezzo di beni importati dobbiamo consumarne di meno, e alle persone non fa piacere da origine a problemi sociale se aumentano le esportazioni sono contenti i produttori, ma diminuiscono le importazioni: c’è carenza di beni esteri perché costano di più. Supponiamo che in equilibrio il paese presenti un disavanzo commerciale. Il governo vuole ridurre il disavanzo commerciale ma al tempo stesso non vuole generare un aumento della produzione, perché se la produzione va oltre al suo livello di equilibrio rischio di generare inflazione. Come possiamo fare? Possiamo decidere di adottare una politica economica composta da una combinazione di interventi diversi. Supponiamo che l’equilibrio iniziale sia nel punto A, associato ad una produzione Y e a un disavanzo commerciale rappresentato dalla distanza BC nella figura sotto. Il governo deve agire nel seguente modo: se vogliamo ridurre il disavanzo, devo spostare verso l’alto la curva NX dobbiamo deprezzare la moneta nazionale il saldo commerciale migliora. Così facendo sposto la curva ZZ verso l’alto e di conseguenza aumenta il reddito di equilibrio aumenta. Quindi, devo ridurre la domanda interna. Come? riducendo la spesa pubblica (G), in modo che la curva ZZ ritorni nella posizione originaria. In questo modo, questa combinazione di deprezzamento e stretta fiscale lascia invariato il livello di produzione e migliora la bilancia commerciale QUINDI, se il governo si preoccupa sia del livello di produzione che della bilancia commerciale, deve usare la politica fiscale insieme alla politica del tasso di cambio. Risparmio, investimento e saldo commerciale Abbiamo visto che in un’economia chiusa l’equilibrio si ottiene quando Y=C+I+G, ma in un’economia aperta si raggiunge con Y=C+I+G- IM/ε+x. Sappiamo anche che NX=x- IM/ε possiamo sostituire, quindi, NX alla iniziale equazione di equilibrio in un’economia aperta, dopodiché andiamo a sottrarre a destra e sinistra T e spostiamo C a sinistra e otteniamo Y-T-C=I+(G-T)+NX. Chiamiamo NI: reddito netto proveniente dall’estero, posso aggiungerlo sia a destra che a sinistra (Y+NI-T)-C=I+(G-T)+(NX+NI).  Y+NI-T: reddito disponibile totale in un’economia reddito prodotto internamente (Y-T) e reddito prodotto dall’esterno (NI)  Reddito disponibile meno consumi: (Y+NI-T)-C: risparmio privato (S)  NX+NI: saldo di conto corrente (CA)  T-G: risparmio pubblico Possiamo riscrivere l’equazione: S=I+(G-T)+CA andiamo a trasformarla in modo da isolare a sinistra CA: CA=S+(T-G)-I. Se il CA è positivo (avanzo commerciale) il risparmio è maggiore dell’investimento stiamo facendo un prestito al resto del mondo. Viceversa, se CA è negativo ci stiamo indebitando nei confronti del resto del mondo perchè risparmiamo meno di quello che investiamo e quindi di conseguenza stiamo prendendo a prestito dall’estero.  Supponiamo che I aumenti: per mantenere la condizione di equilibrio bisogna che S aumenti (finanziamo gli investimenti con il risparmio), potrebbe aumentare il risparmio pubblico (sia aumentando T o diminuendo G la maggior parte della spesa pubblica dello Stato riguarda le pensioni, quindi, o riduco le pensioni o si riducono i servizi) o riducendo il CA (se eravamo in avanzo va bene, ma se eravamo in pareggio andremmo in disavanzo).  Supponiamo che (T-G) venga ridotto: aumentiamo S oppure riduciamo I (ma questo vuol dire ridurre la dotazione di capitale a disposizione di chi lavora, cioè ridurre il prodotto, e ridurre il tenore di vita del paese nel lungo periodo). Oppure possiamo ridurre CA (se eravamo in avanzo va bene, ma se eravamo in pareggio andremmo in disavanzo). Se riduciamo le Tasse andiamo a creare dei debiti.
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