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Riassunto e spiegazione di "Don Gnocchi e Don Milani Maestri Di Vita" di L. Fiorani, Sintesi del corso di Pedagogia

Riassunto e spiegazione del testo adottato da D. Argiropoulos per il corso di Pedagogia Speciale alla facoltà di Scienze dell'educazione dell'Università di Parma.

Cosa imparerai

  • Perché è importante la comprensione, la tolleranza e l'integrazione nella pratica educativa?
  • Come Don Gnocchi ha esteso la visione di Decroly?
  • Come Don Milani ha sostenuto che la scuola deve servire al mondo?
  • Quali approcci all'educazione speciale hanno seguito Don Gnocchi e Don Milani?
  • Che due persone vengono discusse nel documento?

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021
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Caricato il 22/12/2021

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Scarica Riassunto e spiegazione di "Don Gnocchi e Don Milani Maestri Di Vita" di L. Fiorani e più Sintesi del corso in PDF di Pedagogia solo su Docsity! Don Gnocchi E Don Milani Maestri Di Vita Traiettorie Di Somiglianza Liana Fiorani Saggio di Dimitris Argiropoulos Essere Interessati: Inter-essere nella/dalla pratica educativa La Pedagogia Speciale tiene in considerazione gli esclusi, ha esteso le considerazioni a persone destinate alla “Perdita” poiché portatori di patologie e di condizioni sociali non conformi a maggioranze e a sistemi amministrativi informali. Una delle caratteristiche sostanziali e indispensabili della pedagogia speciale è la complessità. Per poter giungere alla conoscenza diventa necessario riordinare quegli elementi che si sono aggrovigliati fra di loro, andando a sanare le incertezze, identificando i concetti di ordine e certezza ed eliminando le ambiguità, attraverso la distinzione, la gerarchizzazione e la categorizzazione. Snodare è prospettare le possibilità, veicolate anche con l'educazione, di tessere con trame che permettono il cambiamento e l’umanizzazione delle relazioni. Ogni elemento della complessità deriva dalla relazione e dall'interazione con altri elementi, isolandone uno si rischia di perdere il senso sia di quel particolare singolo elemento sia dell'insieme in cui è inserito. Edgar Morin chiama questo rischio Iperspecializzazione e ci indirizza ad accrescere e potenziare le nostre attenzioni ogni che un elemento particolare del complesso “Copre” il complesso, rischiando di prevalere sugli altri elementi e sulle tessiture. Attenzione necessaria nell'attività educativa, che dovrebbe essere indirizzata alla comprensione della complessità. L'essere stesso della pedagogia si inserisce perfettamente nell’analisi svolta da Morin rispetto la natura delle cose della realtà. Secondo l'approccio della complessità diviene necessario ripensare all'intervento educativo come intervento complesso, in cui è richiesta la capacità di individuare i bisogni educativi secondo vari punti di vista e cambiare le prospettive di intervento secondo il modello più adeguato in relazione alla situazione. Questa strutturazione meta-teoretica è resa possibile da ciò che viene definito Aspetto Transitivo Della Scienza, infatti se ciascuna teoria rimane valida ed affidabile, la scelta su dove indirizzarsi e quale utilizzare diviene responsabilità dell’educatore, che si può avvalere di quella che ritiene più opportuna. Nell’approccio della pedagogia speciale è necessario tenere conto delle possibilità e della complessità del sistema “Mondo Reale” che non può essere ridotto o compresso in una serie di descrittori, derivati solamente da metodi analitici. In relazione alla disabilità occorre considerare la complessità adottando una pluralità di sguardi, densamente e dinamicamente puntati alle complessità dell'interazione tra l'educando e le sue caratteristiche individuali, dentro e con il suo ambiente sociale, come costruzione di una identità, sia intesa come identità personale/individuale che come costrutto sociale. La modalità di predisposizione dell'intervento educativo, la sua progettazione è mancante e insufficiente se non si imposta e si estende ad una visione ampia e complessa. In questa direzione e prospettiva, il senso educativo e la sua produzione vogliono gli educatori proiettati oltre una visione che fissi il mondo in modo lineare e monocromo, in cui problemi semplici abbiano soluzioni semplici. AI contrario, gli educatori esercitano la vista per poter captare e leggere il mondo in modo altamente interattivi, policromici, che derivano da interazioni in un mondo complesso. La vista di una visione espansa significa e dà senso agli elementi della complessità del quotidiano e ai suoi sistemi di riferimento. Significa e dà senso all’ordinario che considera e congiunge conoscenze ed esperienza, ma anche all’inconsueto, allo straordinario e allo speciale, che si realizza per raggiungere tutti e che potrebbe diventare ordinario. Significa e dà senso a quelle situazioni particolari per le quali le procedure ordinatamente considerate generali non hanno valenza e dovrebbero poter conquistarla. La complessità in ambito di pedagogia speciale vuole e indirizza l'educatore al cambiamento, alla mutevolezza e alla non prevedibilità; elementi questi dei sistemi dinamici dentro ai quali si opera e dentro ai quali la certezza è fornita solo da una visione artificiale del mondo. Ripensare la propria identità e i suoi percorsi nel divenire storico, esaminando il profilo delle questioni da affrontare, le direzioni di senso degli interventi e le soluzioni metodologiche e organizzative da intraprendere, rafforzando presenza, collegamenti, necessità di ricerca ed esigenza di interventi operativi. Esprimendo e indicando risposte valide per tutti, a partire da chi ha ed esprime istanze di bisogno più esigenti e comprendendolo. È nel paradigma della complessità che si riscontra la valenza pedagogica della lettura storica del pensiero educativo orientato ai temi della cura, della formazione e della considerazione e dei diritti delle persone con disabilità e in condizione di subalternità e disagio che consente di comprendere il presente mediante il passato, ma anche di comprendere e restituire le ragioni dei contesti sociali e culturali del passato. Muoversi nell’atipicità di bisogni speciali che denotano una imperfezione dell'individuo, derivati da situazioni di disabilità fisica, cognitiva, sensoriale o mista, comprese quelle che potrebbero determinare gli svantaggi socio-economici, le discriminazioni e il razzismo. Non esistono persone ineducabili e nello stesso tempo che non esistono contesti immodificabili. La modificabilità dei contesti e l'educazione delle persone si intrecciano in trame interessanti, di azioni, di possibilità, di soggetti che, intenzionalmente mossi da stimoli, teorie e tempi, nella e della loro epoca, così diventano storia che ci influenza. ® Jeanltard, vissuto in Francia a cavallo tra il Settecento e l’Ottocento. Itard, medico e pedagogista presso un istituto per sordomuti a Parigi, nel corso della sua carriera incontrerà Victor, un fanciullo che fino a quel momento aveva vissuto nei boschi in stato “Selvaggio”, in totale assenza di una qualsiasi presenza umana, ed era quindi cresciuto con un'elevata privazione cognitiva e sociale che gli aveva causato danni permanenti. La maggior parte della comunità scientifica dell’epoca aveva classificato Victor come “Ineducabile”. Non così Itard. Sarà il suo lavoro, raccolto negli scritti Mémoire Sur Le Premiers Développements De Victor De L'Aveyron (1801) e Rapport Sur Le Nouveaux Développements De Victor Dell’Aveyron, a porre le prime basi della pedagogia delle persone con disabilità. Nel libro che ci lasciò Itard vengono presi in considerazione bisogni educativi generali, ma riadattati e con cura declinati alla specificità della situazione di Victor. Itard interpreta e “Tratta Il Caso”: si accorge di quel che gli altri non vedono e afferma che “Ciò che è complesso non può venir ricondotto a elementi semplici, senza che di esso si perda ciò che è essenziale”. Itard sottolinea l'importanza di instaurare una relazione diretta nelle azioni che intraprende, considerandola come un obbligo nei confronti di Victor che richiede attenzione e cure particolari. L'obiettivo di Itard non è di studiare una determinata serie di fenomeni: imposta e crea un processo che è educativo, avvia una relazione educativa, tessuta e di durata, con teorie e con la sperimentazione. Itard vuole interpretare una vicenda Singolare - Concreta secondo le sue proprie caratteristiche, possibilità e finalità interne; elaborare gli opportuni schemi cognitivi e pratico - educativi per un verso attraverso certe precomprensioni generali e, per un altro verso, attraverso il contatto diretto - concreto col proprio soggetto/oggetto di analisi. Itard valorizza in primo luogo il momento pratica della sua indagine/intervento. L'uscita dall'istituto divenne occasione per Victor di conoscere Madame Guérin, donna e governante psicologico, il che permisero un notevole passo avanti al riconoscimento scientifico della pedagogia. L'esperienza teorico-pratica messa in atto dalla Montessori è estremamente rilevante, sia per i contenuti da lei proposti che per il percorso svolto nella sua ricerca. Si discosta dalle esperienze precedentemente riportate in quanto la prima analisi del pensiero pedagogico montessoriano si concretizza attraverso lo studio dei bambini con problemi psichici per poi ampliare le teorie sviluppate agli ambiti della pedagogia generale; similitudine che si riscontra tra l'approccio montessoriano e i percorsi di ricerca svolti da Decroly. L'assetto psicologico della Montessori è basato sul positivismo, perciò la teoria pedagogica da lei sviluppata si basa su un approccio scientifico, in cui l'intervento educativo comporta delle risposte ben identificabili e osservabili, basate su una correlazione diretta. Nella prima parte del suo percorso di ricerca, la Montessori è interessata a quella che viene definita Pedagogia Emendativa, cioè un assetto pedagogico che intende correggere quelli che sono gli aspetti del fanciullo ritenuti “Anormali” attraverso appositi metodi e strumenti che vadano a lavorare sui bisogni specifici dell’infante in esame. È nella seconda parte delle sue ricerche che la Montessori compie un grosso salto in avanti rispetto alle teorie della pedagogia speciale, sviluppando quella che definisce Pedagogia Scientifica e che poi sarà conosciuta come Metodo Montessori. Progressivamente la Montessori si emancipa dal determinismo positivista che soffoca la ricerca di quello che lei definisce lo Spirito Del Bambino, andando ad individuare nell'educazione non solo la necessità del recupero fisiologico, ma anche al recupero di tipo morale ponendo particolari attenzioni alle potenzialità del bambino. In particolare, quest’ultimo concetto, cioè l’attenzione alle potenzialità di ciascun bambino, le permette di allargare il campo pedagogico del suo metodo, che influenza la pedagogia speciale come quella generale, ponendo l'attenzione ai bisogni educativi specifici di ciascun bambino: Montessori fa coincidere le due discipline. È quindi possibile osservare come, nello sviluppo della sua pedagogia, indichi chiaramente come non esiste una educazione separata per i bambini disabili, bensì percorsi particolari, ma sempre a contatto con la realtà sociale in cui sono inseriti, andando a cancellare il principio di divisione supportato nella prima parte della ricerca. Secondo la Montessori l'osservazione del comportamento del bambino con disabilità permette di riconoscere comportamenti che per estensione sono di tutti i bambini; affermazione controcorrente all’epoca che però permette la rivisitazione e modulazione di tutta la pedagogia. Centrale per la pedagogia montessoriana è l'autonomia, l'imparare facendo, l'auto “Correzione” dello studente: un attivismo puerocentrico, che parte dalla stimolazione sensoriale per sviluppare le abilità cognitive del bambino. La disabilità e i suoi svantaggi porta l’attenzione all’esame dei collegamenti pregiudiziali sull’handicap e alla necessità di approfondire il processo cognitivo che partecipa alla formazione, consolidamento e mantenimento dello stereotipo nei confronti della disabilità stessa. Il processo cognitivo che struttura la formazione delle rappresentazioni sociali, implica il consolidamento di immagini legate alle varie categorie di appartenenza della persona con disabilità che potrebbero investirlo e collocarlo nelle estraneità, nelle lontananze comunitarie e sociali, nel confino eremico e disinteressato. L’educatore dovrebbe partire da sé per evocare, rivisitare, indagare e modificare la propria rappresentazione sociale di fronte ad un avvenimento “Diverso” e insolito. Secondo Tajfel, infatti, gli stereotipi si insinuano nel processo di categorizzazione per mettere ordine la complessità del lavoro cognitivo. La condivisione nella comunità di appartenenza dello stereotipo porta all'aumento della distanza sociale con i soggetti che ne vengono identificati. Per Allport i concetti e le categorie, associati a cariche affettive, sono necessari per la conoscenza comune, per ridurre la complessità del mondo ai minimi termini, ma concorrono alla creazione di pregiudizi e conflittualità tra i gruppi sociali. Il pregiudizio, un pensiero calunnioso senza ragione fondata, si insinua nell’individuo e ne condiziona l'apprendimento. Allport teorizza che il processo alla base della nascita di un pregiudizio, si concretizza in atteggiamento di rifiuto od ostilità verso una persona appartenente ad un gruppo, semplicemente in quanto appartenente a quel gruppo e che pertanto si presume in possesso di qualità biasimevoli tipiche del medesimo gruppo. Il pregiudizio si materializza in diverse forme: attraverso la diffamazione, l’impedimento del contatto, la discriminazione, la violenza fisica, fino a culminare nello sterminio, in un progressivo e incentivato aumento di aggressività e violenza. Il processo cognitivo della categorizzazione è difficilmente flessibile ai cambiamenti e, al contrario, si muove alla continua ricerca di argomentazioni che la sostengano, la interiorizzino, la confermino “Nei Fatti”: la contraddizione non viene considerata e si scarta con facilità. Il capro incarna le paure e le mancanze che il soggetto non è disposto ad ammettere e ad accettare, ma preferisce riconoscerle ad altri, fuori da sé per preservare la propria immagine di autoefficacia ed autostima. | valori personali orientano la categorizzazione, facilitano l'introiezione dei fatti che ci circondano. Tutti i gruppi di minoranza occupano posti di marginalità e sono forzati a considerare i valori della maggioranza dominante come riferimento a cui tendere per adeguarsi: questo comporta lo sviluppo di un senso di frustrazione, irritazione, insicurezza, conflittualità perdente. Goffman tratta esplicitamente e provocatoriamente il tema della diversità, rappresentata dallo stigma che “Gli Altri” sono costretti indossare ed esibire, subendo la discriminazione dei “Normali”. L'autore inizia la sua riflessione dichiarando che, durante la storia, ci sono stati dei cambiamenti nel tipo di minorazione che suscita ribrezzo e preoccupazioni. La società, nel tempo, ha stabilito quali strumenti debbano essere utilizzati per dividere le persone in categorie e quale complesso di attribuiti debbano essere considerati ordinari e naturali nel definire l'appartenenza a una di quelle categorie. Sono i contesti sociali a stabilire quale tipo di categoria di persone si può incontrare. È così possibile stabilire l'identità sociale attuale di chi dimostra di possedere i requisiti richiesti dalla propria categoria sociale, sia l'identità virtuale che si proietta sul soggetto in base a quelli che dovrebbe possedere. Quando l’estraneo difetta dei requisiti che ci si aspetta di trovare, lo si cataloga immediatamente come una persona brutta, pericolosa o debole: viene quindi declassato da persona completa a persona segnata, screditata. La presenza di un attributo indesiderato, o l'assenza di uno richiesto dalla categoria sociale di appartenenza, costituisce lo stigma e segna una profonda frattura tra l'identità sociale virtuale e quella attuale. | “Normali” sono quelli che non si discostano dai comportamenti che ci si aspetta da loro, mentre gli stigmatizzati arrivano a rappresentare, nell'immaginario collettivo, qualcuno di disumano. Lo stigmatizzato, di reazione, cerca diverse strategie per sopravvivere nella società: prova ad eccellere in attività che il proprio stigma renderebbe proibitive, occulta e maschera se possibile i simboli della propria “Diversità”, si nasconde e vive nell'ombra ai margini, sviluppa rabbia e ostilità verso i normali. Il problema maggiore si riscontra nei contatti misti tra “Normali” e stigmatizzati: la vergogna per lo stigmatizzato di subire lo sguardo altrui sul suo attributo infamante, l'imbarazzo del normale nel simulare una falsa tranquillità nel trovarsi a disagio nella conversazione. Il linguaggio diventa fondamentale e le parole connotano i diversi significati e i risvolti dispregiativi delle parole: il primo rifiuto dell’eterogeneità, della “Diversità” si manifesta nel verbale. La ripugnanza sensoriale fa seguito a tutto ciò che infastidisce un determinato gruppo sociale. Per il vittimizzato poche sono le alternative per la sopravvivenza: si passa dalla negazione del gruppo di appartenenza all’acquiescenza passiva. Pregiudizi e stereotipi sono costrutti culturali e la parola, il discorso, è il luogo che veicola gli stessi nella società. Il pregiudizio è un potere agito subito, che lo esercita allo stesso tempo lo subisce nei termini di una riduzione della possibilità di comprendere la realtà: il potere del pregiudizio consiste in un'azione limitante, attiva e passiva. Il pregiudizio sull’handicap invece è espressione di un sistema simbolico che alimenta la cultura dello scarto > Nella disabilità subentra anche un meccanismo estetico, che scarta ciò che non è bello alla vista. La vera integrazione è scartare lo scarto, andare oltre il frammento e vedere la persona nella sua integrità; e integrare significa modificare il contesto, la cultura che genera e costituisce lo scarto dell'alterità. Ogni civiltà produce scarti che vengono recuperati da quella successiva e diventano parte costitutiva di nuove forme di civiltà. Considerare gli altri inferiori e “Diversi”, aumenta la legittimazione dell'esercizio del potere nei loro confronti. La sovrageneralizzazione degli atti o eventi negativi è alla base della stereotipizzazione, del pregiudizio e della strategia di autopresentazione positiva. Le opinioni di un’ideologia e le sue argomentazioni si rispecchiano nella scelta lessicale di chi si esprime e nei suoi atteggiamenti quotidiani, anche paraverbali. L'handicap rappresenta una sorta di resistenza all'educazione, un impedimento allo sviluppo complessivo della persona. La cultura può diventare strumento di oppressione e di alienazione per le fasce sociali più deboli. Difficile trovare riferimenti assiologici nella civiltà moderna, perennemente in crisi: se non si riesce a comprendere il mondo, ci si rifugia nel magico e nell’irrazionale. La percezione dell'altro viene mediata dalla cultura di riferimento dell'individuo, del suo apprendimento sociale. L'atteggiamento di rifiuto e la rinuncia a conoscere l’altro, alzano il muro verso la disabilità e rinforzano la mentalità dell’assistenzialismo, della compassione e della dipendenza. Recuperare la vista dell'altro, partendo dall’'educazione e favorendo l’incontro e il contatto con l’alterità: la parte più difficile è disimparare, perdere le vecchie abitudini, sgretolare le proprie credenze, fondanti l'identità di ognuno. Sospendere il giudizio, importantissimo nella pratica educativa, adottare atteggiamenti di comprensione, problematizzare la tolleranza, approssimarsi con rispetto alle persone, riconoscere la possibile ricchezza delle differenze, togliere lo sguardo dallo stigma, dotta le prassi educative, prassi che si possono apprendere, significando quel prendersi cura dell’altro con interesse che tracciano i percorsi dell’inclusione sociale. La paura della diversità sfocia nel categorizzare con pregiudizio l’immagine del malato e del disabile che viene tenuta a parte isolata, marchiata di stigma e segregata nei luoghi di cura adibiti al suo trattamento. La condivisione sociale di questo stereotipo ha portato disumanizzare il paziente psichiatrico e il disabile permettendo di gestire ciò che fa paura e che ignoriamo come la malattia mentale. Considerare inferiore la categoria dei folli e dei disabili serve a giustificare i provvedimenti coercitivi e prescrittivi perpetrati nella storia nei loro confronti, una sorta di assoluzione morale necessaria per la cosiddetta “Normalità”. Nel Novecento, secolo dello sfruttamento capitalistico e della repressione, secolo dell’universo della concentrazione da parte dei regimi totalitari destinati al diverso, i luoghi chiusi, lontani, segregati, come ospedali, manicomi, carceri, istituti speciali. Rimane, e si afferma il dovere dei rappresentanti al potere, medico, parroco e sindaco, allontanare ed internare soggetti devianti considerati pericolosi per la società. Il malato psichiatrico non ha nessun diritto di replica. L'educatore, per questo, è chiamato a capire le differenze, senza avere la pretesa di cancellarle, riconoscendo nell'altro comunque un valore. Liberarsi dal pregiudizio, significa abbandonare non solo gli atteggiamenti discriminatori e di superiorità, ma anche quelli pietistici e compassionevoli. La curiosità scientifica da parte dell’indignazione dello studioso, in particolare dell’educatore: un'indignazione critica che apre la prospettiva del riconoscimento della molteplicità umana. tenere presente il libero pensiero del soggetto, per cui esigeva totale obbedienza ai suoi principi- Diverso il pensiero di don Carlo: egli riteneva che il compito dell’educatore fosse di fare venire alla luce la potenziale intelligenza nascosta dell'individuo, senza limitare la sua libertà di pensiero. Sosteneva con fermezza la necessità dello sviluppo armonico della persona, dove la maturità è il raggiungimento di un equilibrio, difficile ma possibile a tutti, per il quale occorre creare premesse e condizioni nella famiglia e nella scuola; vuole portare i suoi allievi al traguardo della sovranità responsabile, seguendone lo sviluppo affettivo in un quadro più ampio, a confronto con la modernità e col progresso scientifico e tecnico. Don Carlo, dopo la perdita della madre, si trovò nell'incertezza, dovendo scegliere tra gli obblighi educativi all'Istituto “Gonzaga” e la volontà di seguire i suoi giovani al fronte: decise di farsi cappellano militare volontario, dunque inviò all'Ordinariato militare, a Mons. Rusticoni a cui aveva esplicitamente chiesto di essere assegnato agli alpini, prima in Albania poi in Russia. Nel 1941, fra Marzo e Aprile, partì per il fronte greco-albanese, come cappellano nel battaglione “Val Tagliamento” della divisione “Julia”, rimanendo fino a ottobre. Al ritorno dal fronte greco-albanese, il 20 Settembre 1941, chiede di partire per il fronte russo; la richiesta venne accordata e parti il 14 Novembre 1941. All'arrivo si trova in un deserto di neve, una realtà indescrivibile: molte sono state le sue lettere, scritte per trasmettere la grande sofferenza, lo sgomento della guerra nella gelida Russia, il dolore e lo strazio per tante perdite umane. Spesso pensa agli ordini ricevuti alla partenza e alle regole da rispettare, ma di fronte all'inumana guerra non vi erano né leggi, né regole, solo una lotta per la sopravvivenza portata vanti con forza d'animo e umana coscienza. Sarà quell’offerta di sé ai bisogni a portarlo, dopo il conflitto, a un radioso impegno umano e cristiano, a donarsi con tutto il cuore agli orfani, ai mutilatini, ai poliomielitici. AI fronte, il suo compito non era solo quello di cappellano ma di padre tra i figli in armi in terre lontane, fra dune sconfinate, dove le lettere in arrivo e in partenza, da e verso casa, erano per lui e i suoi alpini l’unica ragione di vita, fra il gelo e gli spietati combattimenti. Da quell’orribile inferno arrivavano strazianti testimonianze, che descrivono la raccolta dei miseri resti sul campo dopo ogni battaglia, di morti e feriti deformati, dalle gambe e dalle braccia troncate. Ci raccontano pure del ritrovamento di vari oggetti rimasti sul luogo. Grande è la sofferenza di don Carlo quando trova segni di uomini che non ci sono più. Il ritrovamento acquista un tono solenne e impegnativo verso lo scomparso combattente e verso la sua famiglia. Dà pure conferma che la fede dell’Alpino è sempre presente, tanto nella gioia che nel pericolo, che l'innesto tra l'umano e il divino è tipico di ogni avvenimento, che la devozione è forte e presente in tutte le coscienze e balza improvvisamente alle mente, a dare speranza anche nei momenti più frustranti e drammatici di quell’indescrivibile inferno. Oltre all'indescrivibile brutalità della guerra, Don Gnocchi ci da testimonianza di un'altra realtà, della povertà civile e culturale dei suoi Alpini, che anche nei momenti più strazianti raccontano la ricchezza dei loro sentimenti, parlando di affetti, di casi, di terra, di Dio, di Patria: dall'insieme di questi bene trovano la suprema forza per guardare al futuro e alla vita, realtà che spinge anche noi a profonde e incancellabili riflessioni. Dalla tragedia del fronte russo don Gnocchi, quando è possibile, ci trasmette la gioia all'arrivo della posta e la tristezza di chi aspetta notizie da casa che non arrivano, dell’Alpino pensoso che guarda con speranza al giorno dopo. Dice anche delle lettere che arrivano da casa quando il soldato non è più tra loro: bisognava tornarle al mittente. Dalla forza della sua fede, nasce in lui la volontà di dare aiuto morale a chi ha perduto un figlio, agli orfani e ai mutilatini, ai piccoli innocenti, durante il calvario che dovevano sopportare per poter guardare al futuro. La bruttura della guerra l’ha straziato, le troppe perdite umane l'hanno trasformato: esce dalla disastrosa guerra al limite delle forze fisiche e morali e dà un severo giudizio all’utopia politica che ha esaltato la mente dei giovani verso il conflitto, in nome del quale, senza loro colpa, molti si sono offerti al martirio. Anche e soprattutto nel dopoguerra si è rivelato come padre di coloro che avevano veramente bisogno di aiuto: sempre ha operato e ha seminato ovunque fede, solidarietà e speranza. Don Gnocchi rientra in Italia già il 18 Marzo 19483 e fin dal mese di aprile, dal “Gonzaga”, si era immediatamente adoperato per offrire sostegno delle famiglie dei compagni caduti al fronte. Inizia così il suo pellegrinaggio attraverso le valli, alla ricerca dei familiari degli Alpini caduti, per dare loro testimonianza della tragica morte dei loro cari, per infondere a quelle madri straziate il coraggio di guardare avanti, per raccogliere i primi orfani di guerra e i mutilati. Don Gnocchi fonda la Casa Del Piccolo Mutilato all’interno del Piccolo Cottolengo degli Orionini a Milano. Il rapporto di collaborazione era nato dopo la scomparsa del fondatore, con il successore don Sterpi, col quale l'impegno collaborativo sembrava progredire e prendere corpo, rilevandosi di breve durata. Tra le cause di rottura ritroviamo sicuramente le diversità di assistenza tra i mutilatini e gli ospiti di Cottolengo, soprattutto rispetto alle modalità d'intervento sul paziente che don Carlo Gnocchi non condivideva. Vedeva un vuoto che aveva a che fare con la mancanza di rispetto ma anche con l’idea che i soggetti con disabilità non fossero recuperabili. Viste le differenze tra persone con deficit fisico e psichico, don Gnocchi capì che i suoi mutilatini necessitavano di trattamenti appropriati alla loro condizione, sia nell’impostazione educativa che, e soprattutto, nel modo di intendere la carità. La fine della collaborazione tra le due diverse realtà sanciva inoltre il divario tra Assistenza e Riabilitazione. Con interventi chirurgici, protesi e riabilitazione i mutilati possono giungere all’autosufficienza, per cui l'intervento non deve puntare solo all'assistenza ma deve tendere al recupero della persona e alla conquista dell’indipendenza, ove possibile. Questa la volontà portata avanti da don Gnocchi, che in diversi interventi annuncia a Chiesa e società il suo modo d'intendere la cura dei mutilatini di guerra, caritevole, educativo, istruttivo, finalizzato al recupero integrale della persona umana; il suo obiettivo finale era quello di giungere alla riabilitazione necessaria e alla gestione personale e autonoma di ciascun mutilato. La grandezza di Don Gnocchi era tutta nella volontà di recuperare la persona nella sua totalità, per portarla all'indipendenza mentale, etica e materiale, indispensabile per guardare serenamente alla vita con le proprie capacità e senza pesare sulla società nel futuro né doversi mai sentire inadeguato o diverso. In Don Gnocchi hanno sempre prevalso l’altruismo, l'ottimismo, la coerenza; non si è mai perso d'animo, nemmeno nelle situazioni estreme. La sua opera è espressione del suo impegno, ha sempre cercato con volontà e forza di riscattare il dolore in prospettiva futura, prima al Fronte, tra gli Alpini, poi tra le vittime innocenti della guerra, orfani e mutilati, e in seguito coi poliomielitici, colpiti da una malattia terribile a quel tempo ancora sconosciuta. La sua maturazione sacerdotale e umana avvenne a due livelli, distinti e integrati: quello religioso e quello sociale. Il primo era un impegno ecclesiale, un'opera di umana carità, svolta in comunità d’intenti con gli Orionini, per assicurare l'assistenza ai bisognosi. Il secondo fu da lui voluto come impegno sociale rivolto a soggetti recuperabili che necessitano per questo di un trattamento e un processo di accoglienza particolari, per accompagnarli all’autosufficienza, gratificarli con l'indipendenza, non lasciarli pesare solo ed esclusivamente sulla società, né errare raminghi nella dimenticanza. Vero educatore, voleva che dietro ogni decisione ci fosse una coscienza riflessiva per avere solidi radici tra vita e responsabilità, pensiero e azione, voleva un impegno capace di dare cultura e maturazione umana responsabile: solo così il soggetto poteva avere la possibilità di giungere a una solida fede cristiana. Per curare e sostenere gli innocenti mutilatini, cercò in tutti i modi di fare riflettere sui tristi effetti di un conflitto insensato e spregiudicato che aveva lacerato la coscienza e il futuro di molti. Nel 1945, a Giugno, a Milano si costituì l'’“Associazione Amici Di Arosio”; vi presero parte, come sostenitori, nomi illustri della politica dell'imprenditoria e dell’arte milanese. Così la Casa per accogliere orfani e mutilatini divenne velocemente operativa: l'8 Dicembre dello stesso anno, col sostegno dell’“Associazione”, accolse il primo mutilato, segnando per sempre la missione pastorale di Don Carlo. Un grande aiuto al moltiplicarsi dell'Opera di Don Gnocchi fu dato da Mons. Giovanni Battista Montini, suo stimato amico ed estimatore, allora Sostituto della Segreteria di Stato Vaticana sotto Pio XII. Un generoso sostegno venne anche dalla società e dalle Istituzioni civili. Sempre nel 1946 iniziò anche la collaborazione con i Fratelli delle Scuole Cristiane fondati da De La Salle. Educatore e sacerdote coraggioso, guidato dalla grande fede, nel 1948 prese l'iniziativa di presentarsi al Quirinale con un gruppo di mutilatini, di fronte al presidente del Consiglio e al sottosegretario, per chiedere aiuti di Stato. Quella visita, che ottenne ottimi risultati, segnò il coinvolgimento diretto del Governo nell'opera di Don Gnocchi e il suo lancio a livello nazionale. Nel 1949 vennero inoltre promosse altre due spettacolari iniziative: il primo volo transatlantico sulla rotta Milano - Buenos Aires, condotto da piloti Bonzi e Lualdi, denominato “Angelo Dei Bimbi”, e finalizzato a far conoscere all'opinione pubblica il problema dei mutilatini di guerra; l’altra impresa, denominata la Freccia Rossa Della Bontà, un raid motociclistico Milano - Oslo condotto con la collaborazione degli Scout, venne promossa per far crescere la sensibilità europea verso il problema dei mutilatini e per incentivare le donazioni. A Ginevra, al Congresso Internazionale Dell’Educazione, Don Gnocchi con la collaborazione di Fratel Beniamino Bonetto, espose il Problema Del Fanciullo Motuleso, proponendo che l'educazione dei minorati fisici, negli Istituti, diventasse un impegno patrocinato dell'Unesco, per preparare gli sventurati al domani; per farlo, occorreva l'avviamento ad arti e mestieri, per poter inserire i ragazzi nel cammino della vita. La “Federazione Pro Infanzia Mutilata” divenne presto un fatto nazionale, cui la proclamazione dell’Anno Santo giovò moltissimo: il 3 Marzo 1951 la “Federazione Pro Infanzia Mutilata” divenne “Fondazione Pro Juventute”. Don Gnocchi puntava da tempo a giungere a un ordinamento nazionale dei vari Istituti, che fosse sostenuto anche dal Vaticano e dalla Presidenza del Consiglio, per poter aggiudicare alla Fondazione un ruolo pedagogico - scientifico. Don Gnocchi fu un anticipatore: in breve tempo i suoi Istituti furono presenti in tutta Italia, che fu la prima tra le Nazioni europee a provvedere ai bambini con disabilità indotta dalla brutalità della guerra. È stato un vero padre che col suo popolo ha condiviso sofferenza, speranza e delusioni, e che con generosità ha dato dignità e coraggio ad ognuno. Nel Febbraio del 1951 Don Gnocchi entrò a far parte del Consiglio di amministrazione dell'Opera Nazionale Invalidi Di Guerra (ONIG). Fu in tale veste che nel mese di marzo di quell’anno partecipò, inviando il suo più stretto collaboratore Giuseppe Bonetto, o Fratel Beniamino, al congresso mondiale di Stoccolma sulla disabilità, ottenendo di conseguenza la sua nomina di esperto di riabilitazione all’Organizzazione Mondiale Della Sanità (OMS). In quegli anni già si pensava alla posa della prima pietra di un Centro Pilota, destinato alla cura e alla ricerca scientifica, da realizzare a Milano. Nel frattempo, tutti i Centri si stavano aprendo anche alle vittime della poliomielite, grazie all'avvio di una nuova collaborazione con la “Scuola Moderna Encefalopatici E Poliomielitici”. La Poliomielite, allora totalmente sconosciuta e inaspettata, era il nuovo vero traguardo. La scienza medica non poteva essere più impreparata nei confronti di questi nuovi malati, non facilmente recuperabili, che avevano bisogno di carità e cuore. Scienza e fede dovevano collaborare con il massimo impegno e al limite del possibile per dare a quei disabili l'autonomia e poi consegnarli alla società nel migliore modo possibile. I ragazzi colpiti dal male, in maggioranza agli arti inferiori, tutti al di sotto dei 10 anni, furono circa 30.000. Si trattava di una malattia infettiva, che nella maggior parte dei casi si prendeva a scuola dai compagni. Per le cure riabilitative si rese necessaria la collaborazione di vari specialisti, neurologi e fisioterapisti, ma l'azione di recupero si rivelò lunga e non sempre possibile, pur dando i trattamenti risultati sceglie la via della montagna per salvarsi dalle deportazioni, ma quella del Seminario. La scelta religiosa per lui è fortemente motivata, in essa ha trovato quel senso della vita lungamente cercato, è una scelta interiore che nasce dal profondo rigore della sua personalità, vede in essa la possibilità di realizzare l'amore e la fraterna solidarietà come insegna il Vangelo. Nell'ottobre del 1947 Don Lorenzo viene inviato a San Donato di Calenzano, nella periferia fiorentina, quale aiuto al vecchio parroco. Il difficile cammino del primo dopoguerra ha visto la nascita della Corte Costituzionale, fondata sul lavoro entrata in vigore il primo gennaio 1948; essa dava grande speranza alla società, perché oltre che i doveri parlava di diritti inviolabili, l'obbligo scolastico, la sanità per tutti, la pensione di vecchiaia, grandi conquiste per il popolo, sempre ignorato nei diritti, solo chiamato all'obbligo e ai doveri. Don Milani ritiene quella Carta un secondo Vangelo, e i diritti l'ottavo Sacramento. Don Milani comprende che coloro che abbandonano la scuola erano quasi sempre ragazzi abbandonati dalla scuola stessa. Di fronte alla triste situazione scolastica, egli si pose a difesa dei ragazzi definiti senza speranza. Subito si rese conto che la scuola dell'obbligo, estesa a tutta la società, non aiutava la povera arretrata popolazione a progredire verso l'emancipazione. 1 Don Milani sostanzialmente sostiene che la scuola dell'obbligo non tiene in considerazione i bisogni di bambini e ragazzi con delle difficoltà dovute, soprattutto, alla loro situazione sociale e familiare. Anzi, premia coloro che conoscono già e hanno già delle capacità perché sono nati nella giusta ricca famiglia. Don Milani, prete che sapeva camminare avanti ai tempi, capiva che solo straordinarie forze innovative potevano recuperare l'etica, la morale, e la giustizia sociale, assenti nella nostra società, le sole capaci di portare serenità al popolo. Nonostante fosse consapevole delle avversità del potere ai suoi insegnamenti, non aveva nessuna intenzione di rinunciare al suo impegno di educatore, convinto che per la classe operaia la scuola fosse un bene e il conformismo un danno: il suo pensiero chiama tutti a riflettere. Pastore, educatore con principi universali, riteneva che la conoscenza fosse indispensabile per capire sé stessi, per farsi uomini responsabili capaci di vivere in società e di tenere testa a soggetti che si ritenevano speciali e superiori. Don Milani, per aiutare il suo popolo, ha operato sotto la mano di Dio con paterna coerenza, saggezza e intelligenza, guidato dalla fede con capacità educativa e culturale verso i parrocchiani a lui affidati: la sua opera non trova uguali. Ammirabile nell'avere capito che la vita triste e vuota della povertà non era data solo dalla mancanza di mezzi per la sopravvivenza, ma dall’incultura, dall'abbandono delle istituzioni. Quando venne esiliato a Barbiana non perse tempo: organizzò subito una scuola, convinto che ogni individuo abbia una coscienza che vada aiutata a crescere per renderla responsabile delle proprie azioni. Con la ferma convinzione che il soggetto senza cultura non posso produrre pensiero e che il gioco non lasci nulla a chi lo pratica, con la certezza che “Solo l'istruzione lascia un bagaglio che serve tutta la vita”, non si concesse un attimo di pace. Riteneva che la cultura educativa fosse un bene da condividere, un cammino verso la giustizia sociale. L'istruzione, per lui, aveva un senso e uno scopo solo se aiutava il soggetto a crescere, a prendere coscienza dei valori essenziali della dignità umana e a conseguire autonomia di pensiero. Tutti dovevano progredire alla pari, anche aiutandosi fra di loro, perché riteneva ingiusto mandare all'esame ragazzi diseguali. Come maestro, Don Milani cercava nei suoi ragazzi le potenzialità nascoste da fare emergere e sviluppare, convinto che solo la scuola possa portare il soggetto a raggiungere la piena responsabilità etica per arrivare alla fraterna collaborazione umana. L'impegno del vero educatore non è quello di sedersi in cattedra ma è quello di essere in grado di creare un autentico dialogo con il proprio allievo permettendo così un reciproco e autentico scambio tra professore e allievo, una collaborazione che diventasse originale cooperazione, un percorso per prendere coscienza dell’appartenenza, un'educazione nel compiere scelte e nell'essere responsabili. Don Milani, inoltre, riteneva che la selezione, prima di farla negli allievi, andasse effettuata sugli educatori: è dovere dell'educatore capire il ragazzo che ha bisogno di maggiore aiuto, non di mandarlo a svantaggio alla selezione. La differenza è tutta tra chi fa scuola con fede e amore e sa dare impegno ai suoi allievi, e tra chi fa scuola per il regolamento e lo stipendio. Se non vengono messi in aula educatori meritevoli, scelti da giuste graduatorie e non con il prevalere del nepotismo e delle raccomandazioni, avremo sempre una povera scuola senza valore. Questo viene denunciato proprio in “Lettera A Una Professoressa”. Questa lettera proponeva i risultati di un lavoro di gruppo, di fatto un esercizio di scrittura collettiva, in cui i ragazzi della scuola di Barbiana conducevano una forte analisi critica al sistema scolastico italiano e in particolare alla gestione dell'obbligo scolastico, strutturalmente antiquato, fortemente selettivo, totalmente estraneo nei programmi alla realtà del Paese e ai mutamenti socio-economici in esso in atto. l ragazzi di Barbiana, nella lettera, fanno una dura requisitoria ad una scuola che non fa il suo dovere, che con la selezione condanna gli ultimi a rimanere tali. Paulo Freire, come Don Milani, era ben convinto che gli uomini si educano stando insieme, che è l'isolamento la causa che fa il ragazzo diverso. Capitolo 5: Don Lorenzo Milani E Don Carlo Gnocchi. Diversi E Simili. Don Gnocchi e Don Milani ritenevano entrambi che l'ignoranza fosse la massima povertà dell’uomo e si sono fatti maestri di vita, con la certezza che nessuno appartenesse a una razza inferiore: entrambi hanno ammesso di avere imparato a vivere tra gli ultimi. La realtà dei tristi momenti vissuti ha portato i due sacerdoti a donarsi ai dimenticati, ritenendo l'ingiustizia sociale la peggiore colpa istituzionale. Simili anche nel ritenere che il vero maestro è colui che sa amare e farsi amare, con la certezza che solo l'insegnante cooperante riesce a fornire agli allievi l'impegno e gli stimoli per camminare insieme. Il maestro deve avere la volontà e la capacità di tenere vivo il dialogo e l'amicizia, nella speranza di convertire anche il più ribelle, per dargli la responsabilità di guardare al futuro. Entrambi erano convinti che l’uomo possa trovare la strada attraverso la liberazione del suo pensiero, e attraverso l'etica può giungere all’umanizzazione di sé, della società che lo circonda e del mondo. Ritenevano il sottosviluppo e l'emarginazione non più accettabili; convinti della necessità di costruire un cittadino sovrano, si sono donati totalmente ai dimenticati. | giovani hanno risorse spontanee per guardare avanti, ma vanno aiutati perché prestino attenzione alle sofferenze degli altri, perché capiscano che ogni simile è parte di sé e che è dovere dell'umanità camminare insieme nel reciproco rispetto. Dev’esserci reciproco impegno fra i due ruoli, un confronto tra positivo e negativo è necessario per far capire al giovane ciò che gli può nuocere e da cui si deve allontanare per non rimanerne coinvolto. Se l'educatore operasse nella libera ricerca del bene comune, aiutato dalla forte sensibilità dei giovani, dall'insieme dei vari soggetti potrebbero nascere solo buoni frutti. Il ragazzo stima, ama, apprende dal bravo educatore e se si sente amato non lascerà mancare il suo impegno, né mai dimenticherà, nello scorrere del tempo, l'insegnamento ricevuto dall'amico intellettuale. Il maestro non deve mai dimenticare che il ragazzo prima d'essere giudicato va studiato e capito; sono troppi i giovani che sono stati condannati alla mediocrità, all'infelicità, a camminare nella vita impreparati, senza energia e senza scopo, dai loro genitori e dai loro educatori. L'educatore che non sa costruire la coscienza dell'allievo non è un maestro, per essere tale deve avere la capacità di seguire anche il più svogliato, dev'essere capace di stimolare il dialogo e l'amicizia nella speranza di convertire anche il più ribelle, per dargli la possibilità di diventare un cittadino responsabile. I due sacerdoti ritenevano che il male peggiore dell'umanità fosse la mancanza della parola, della cultura e del dialogo: questa è stata la ragione che li ha fatti simili e spinti a dedicarsi con impegno agli ultimi, convinti che l'ignoranza porta spesso il soggetto e non sapere nemmeno fare distinzione tra la politica e l'ideologia, mentre sono due posizioni con compiti molto diversi. La politica ha il compito di tenere il giusto rapporto tra economia e giustizia, l'ideologia è un insieme di idee che cerca di unire le voci per farsi ascoltare, per ottenere maggiore attenzione. L'educatore deve avere uno spazio liberto per elaborare programmi propri, avere la possibilità di espletare la sua specifica capacità, un proprio spazio, collaborativo, dialogante con gli allievi. Un impegno fortemente sentito e messo in pratica da Don Milani. Lui vedeva aprirsi un periodo storico in cui la società sarebbe stata multietnica, ma nell’incapacità di socializzare. Riteneva la difficoltà di vivere con altri popoli, altre razze, altre religioni, un amaro frutto germogliato da secolari confini imposti dagli Stati. Voleva che la cultura uscisse dalla classe dominante e calasse nella realtà sociale. Educatore attento all'adolescenza, convinto che l'emarginazione impedisce la formazione del soggetto e che la scuola ha il compito di svolgere un servizio al mondo, riteneva che il compito del maestro non fosse di fare supremi discorsi ma di cercare la differenza tra la parola e il dialogo, tra comunicare, ascoltare e imparare: con questa meditazione si è fatto tutore e guida, ritenendo il dialogo sacro, la canonica diventa luogo dialogante, e don Milani ne è la coscienza. Convinto che solo l'emancipazione è promozione umana e salvezza della coscienza, da lui ritenuti i soli principi che hanno la possibilità di salvare l'uomo e l’anima, si era fatto maestro con impegno e disciplina per costruire l'uomo del futuro, per dare voce e parola a coloro che non l'avevano mai avuta. L'educatore ha il compito non facile di portare i giovani al rispetto di sé stessi e degli altri e soprattutto di farli responsabili del loro futuro. Essi ritenevano che ogni soggetto avesse il diritto d'essere aiutato a sviluppare le proprie capacità cognitive per arrivare a camminare con indipendenza sotto la guida della propria coscienza ben costruita. In loro era la convinzione che all'individuo, se ha una coscienza ben costruita, basti obbedire a sé stesso, alla propria natura ragionevole, all'impegno sociale, senza bisogno di comandi esterni. È l’uomo incolto, dormiente e impreparato che, mancando d’autonomia, deve sottostare all'autorità, la sola capace di vedere le cose dall'alto. L'obbligo scolastico è sacro, dà voce alla parola, rispetto alle regole e ai doveri, aiuta a socializzare, porta a conoscere meglio noi stessi e il mondo in cui viviamo.
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