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Riassunto Emanuela Campisi, "Che cos'è la gestualità", Sintesi del corso di Pedagogia

riassunto del libro, completo di tutti i concetti principali da sapere.

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

Caricato il 12/05/2020

vaga94
vaga94 🇮🇹

4.4

(33)

39 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Riassunto Emanuela Campisi, "Che cos'è la gestualità" e più Sintesi del corso in PDF di Pedagogia solo su Docsity! Che cos’è la gestualità – Emanuela Campisi Capitolo I – La natura interdisciplinare degli studi sul gesto. La gestualità è stata da sempre oggetto di indagine di discipline molto diverse tra loro, dalla retorica, all’antropologia, dall’etnografia alla psicologia e alle neuroscienze. Ciascuna di queste discipline si è occupata di alcuni aspetti del gesto e ne ha trascurati altri, a seconda degli scopi che si prefiggeva. Del gesto si possono analizzare le caratteristiche fisiche, il modo in cui interagisce con il parlato, lo sviluppo nei bambini, e i correlati neurali. Si è studiato il gesto per imparare a controllarlo e a usarlo efficacemente, per descriverne gli usi presso culture e lingue diverse, per risalire attraverso di esso a patologie del linguaggio e a disagi psichici, e persino per spiegare l’origine del linguaggio. Alla parola “gesto” sono state date molteplici definizioni e le funzioni più disparate, tra cui:  una terminologica, per cui “gesto” indica sia ogni movimento del corpo sia i soli movimenti delle mani e delle braccia;  una funzionale, secondo cui i gesti sarebbero per un verso il linguaggio universale e primitivo, che ci consente di esprimere emozioni e atteggiamenti interpersonali anche quando non parliamo la stessa lingua; Secondo alcuni psicologi, occuparsi di gestualità significa occuparsi del “linguaggio del corpo”: tutti quei segnali che permettono di capire gli altri in modo vero e completo. Il linguaggio del corpo – di cui il gesto è solo una componente – è considerato molto più veritiero del parlato: se in linea di principio possiamo sempre scegliere che cosa trasmettere a parole, infatti, difficilmente possiamo evitare che il nostro corpo “parli per noi” tradendo emozioni, segreti e finzioni. È opinione diffusa che i gesti non siano presenti in tutte le culture nella stessa misura: in particolare, si sente sostenere spesso che essi siano più accentuati nella gente meno colta, in chi parla in dialetto e nei popoli del Sud. Questa credenza si accompagna, a severi giudizi su chi gesticola troppo (frequentemente si dice che quando i gesti sono troppo grandi e numerosi diventerebbero fastidiosi e ostacolerebbero la comprensione) oppure alla convinzione che studiare i gesti sia interessante solo per i popoli che gesticolano di più. La storia degli studi sul gesto è, quindi, organizzata intorno alle tre discipline:  Retorica, introduce la riflessione sulla gestualità all’interno degli studi sul linguaggio.  Etnografia e la psicologia che sono caratterizzate per un atteggiamento più neutrale e descrittivo. 1.2 La retorica: il gesto da controllare Il primo testo che si occupò estensivamente della gestualità risale al I secolo d.C. ed è l’XI libro dell’Institutio oratoria di Quintilliano, in cui non si faceva distinzione tra gesti delle mani e movimenti del corpo in generale. Quintilliano considerava “gesti” i movimenti di tutto il corpo, compresa la postura, e fare un gesto significava usare il corpo per comunicare e rendere più persuasivo ciò di cui si stava parlando -> ci si occupa di gesti per imparare come disciplinarli. Era considerato un bravo oratore colui che non diceva con i gesti qualcosa che non fosse espresso anche dalle parole: i gesti dovevano essere solo un’enfasi, un rinforzo e non un sostituto della comunicazione. Secondo Schmitt (1991), il termine latino gestus presentava un doppio significato:  Da un lato indicava i movimenti di tutto il corpo.  Dall’altro i movimenti delle sole mani. Inoltre da gestus derivano anche:  Il verbo gestire, che significa “fare gesti”.  Il termine gesticulatio, che indica un uso dei gesti eccessivo e disordinato. Questa terminologia e questi atteggiamenti si mantennero durante tutto il medioevo e fino al XIX secolo. I gesti erano studiati al solo scopo di essere disciplinati, nella convinzione che dal modo di gesticolare si sarebbero riconosciuti la classe di appartenenza e il grado di istruzione. La disciplina che si occupava di queste indagini era la letteratura religiosa, in particolare le regole degli ordini monastici. Un’eccessiva gesticolazione era considerata un tratto distintivo degli eretici. Tra il XV e il XVI secolo avviene una rinascita degli studi sul gesto a cui contribuirono:  Il ritrovamento di molti classici tra cui la stessa Institutio oratoria.  Le prime scoperte geografiche, che costrinsero i conquistatori europei a dover comunicare con popoli che si esprimevano in lingue sconosciute. L’interesse per i gesti aumentò nei secoli seguenti, quando, per la prima volta, vennero pubblicati libri interamente dedicati all’argomento. Tra questi sono particolarmente degni di nota: L’Arte de’ cenni di Giovanni Bonifacio (1616), Chirologia: or the Natural language of the Hand, and Chironomia: or the Art of Manual Rethoric di John Bulwer (1644). 1.3 L’etnografia: il gesto documentato Nell’Ottocento iniziarono a diffondersi i primi studi etnografici e antropologici, come i classici “La società antica”(1877) di Lewis Morgan e “Il ramo d’oro”(1906) di James Frazer, che ebbero come scopo descrivere le variazioni culturali scoperte nel corso delle massicce esplorazioni geografiche dei secoli precedenti. Fin dalle origini di queste discipline, la riflessione sul linguaggio assunse in esse un ruolo centrale non solo a causa della necessità che era emersa di dover comunicare con popoli di lingue diverse, ma anche per l’interesse degli antropologi verso l’origine della facoltà simbolica, di cui il linguaggio è solo una manifestazione. studiati separatamente, non soltanto per una questione metodologica, ma anche perché in realtà una distinzione così netta tra parole e non-parole non sussiste. Lo studio dello sviluppo linguistico del bambino non può prescindere dall’osservazione dei primi gesti. Infatti, tali gesti, oltre a precedere le prime parole, sono atti linguistici veri e propri e hanno un ruolo fondamentale nello sviluppo linguistico e comunicativo e, come tali, non possono essere considerati fenomeni esterni al linguaggio. Gli studi moderni sul gesto, in particolar modo quelli di McNeill, invitano i linguisti a occuparsi anche dei gesti delle mani, e quindi a guardare al linguaggio non come ce lo presentano certi linguisti, ma così come si presenta ai nostri occhi, sotto forma di conversazione. I gesti condividono con il parlato la stessa struttura psicologica, e sono quindi parte del medesimo fenomeno. I motivi alla base della distinzione tra verbale e non verbale sono da rintracciare nella costruzione culturale di cui i linguisti non riescono a liberarsi. McNeill si propone di presentare prove che possano convincere anche i linguisti della necessità di un approccio integrato al parlante che tenga conto dei gesti delle mani, definiti “simboli manuali”, non scindibili dalla produzione linguistica. A prova del fatto che i gesti e il parlato siano due componenti dello stesso fenomeno, sarebbero le seguenti considerazioni:  I gesti compaiono solo durante il parlato.  Gesti e parlato hanno funzioni semantiche e pragmatiche parallele.  I gesti sono sincronizzati con le unità linguistiche corrispondenti.  Gesto e parlato si dissolvono insieme nelle afasie.  I gesti si sviluppano nei bambini in parallelo con il parlato. L’articolo provocò un acceso dibattito che ancora non si è concluso. Le ricerche sperimentali dagli anni Ottanta a oggi hanno per obiettivo testare uno delle cinque ipotesi avanzate da McNeill, generando un considerevole numero di evidenze in direzioni opposte e di conseguenza, teorie diverse. 1.5 Gli studi sul gesto oggi Il metodo classico con cui si è iniziato a guardare alla produzione e alla comprensione dei gesti è quello dell’analisi di videoregistrazioni raccolte in un contesto naturalistico oppure in laboratorio. Le prime codifiche erano realizzate interamente a mano e consistevano di solito in una serie di simboli arbitrari (parentesi,grassetti,asterischi) che venivano aggiunti alla trascrizione del parlato e che indicavano la presenza di un gesto in corrispondenza di una determinata parola. L’ideazione di software altamente specializzati, infatti, ha permesso di annotare i gesti, ma anche il parlato, facendo riferimento direttamente alla sequenza temporale interessata. In particolare, il software ELAN è al primo posto oggi per sottigliezza di analisi consentita grazie alla possibilità di creare livelli indipendenti a cui far corrispondere un diverso aspetto dell’analisi. Grazie anche alla possibilità di osservare e annotare i gesti in modo così dettagliato, gli studiosi hanno iniziato a realizzare semplici esperimenti per indagare quali fattori determinano variazioni nel modo in cui i parlanti utilizzano i gesti. Il paradigma sperimentale è abbastanza semplice: si chiede a un campione di partecipanti di eseguire un compito linguistico (ad esempio una narrazione, una descrizione) e poi si modifica una variabile, come le condizioni di visibilità tra i partecipanti o il tipo di destinatario, per misurarne l’effetto. Con questo paradigma è stato dimostrato che i gesti aumentano quando i partecipanti possono vedersi l’un l’altro, oppure quando di discute di argomenti che il destinatario non conosce. Grazie a questo paradigma, numerosi studi hanno dimostrato il ruolo attivo del gesto nella comprensione di un enunciato, specialmente quando questo è ambiguo o richiede una interpretazione pragmatica. Inoltre, grazie all’eye tracker, un apparecchio che misura il punto esatto in cui si sta guardando, è stato possibile analizzare quando i destinatari guardano i gesti dei parlanti, dimostrando, ad esempio, che se il parlante guarda il proprio gesto, allora anche il destinatario focalizzerà la sua attenzione su di esso. Accanto a questi metodi più classici, si sono moltiplicati gli studi di neuroimmagine, volti a stabilire i correlati neurali del gesto. È stato possibile provare che quando i soggetti sono esposti a enunciati che possono essere compresi soltanto grazie all’informazioni veicolata dal gesto, si attivano le stesse aree cerebrali coinvolte nella comprensione del parlato, in particolare la parte inferiore sinistra della corteccia prefrontale in cui si trova anche l’area di Broca. Risultati simili si ottengono con i potenziali evento-relati o potenziali evocati (Event- Related Potentials o ERP: una tecnica sperimentale che permette di esaminare la risposta del sistema nervoso a uno stimolo, ad esempio linguistico) grazie a cui si è potuto mostrare come il cervello processi l’informazione proveniente dai gesti attraverso gli stessi meccanismi con cui processa il parlato. Man mano che la tecnologia si affina, diventa sempre più evidente come i gesti possano svolgere un ruolo fondamentale nello sviluppo del linguaggio, nell’apprendimento di una lingua seconda, e persino in casi in cui le capacità linguistiche sono compromesse, come le afasie o l’autismo. Capitolo II – Che cos’è un gesto: componenti cinetiche e semantiche 2.1 Le unità minime della gesticolazione Si possono classificare i gesti in due grandi categorie:  quelli che si accompagnano al parlato, a cui appartiene la cosiddetta “gesticolazione”.  Quelli che sono indipendenti, e in cui rientrano i cosiddetti emblemi, gesti altamente convenzionalizzati che hanno un significato più o meno stabile indipendente dal contesto. In generale, ci sono gesti che non possono essere compresi senza parlato e gesti che sono perfettamente comprensibili anche da soli. Per un verso, molto spesso gesti altamente convenzionalizzati vengono integrati all’interno della gesticolazione per completare o rafforzare ciò che è espresso a parole; per un altro verso, non ci sono limiti alla libertà dei parlanti di creare gesti che sono in un dato contesto perfettamente comprensibili senza parlato. McNeill propone di considerare i gesti dipendenti dal parlato e quelli indipendenti non come i due poli di quello che egli chiama Kendon’s continuum, in onore di Kendon. Gesticolazione > gesti languange-like > pantomima > emblemi > lingue segnate Ad un estremo del continuum troviamo i movimenti delle mani e delle braccia totalmente dipendenti dal parlato. Muovendo verso destra, arriviamo ai gesti che somigliano alla gesticolazione ma che sono grammaticalmente integrati nell’enunciato: in altre parole, i gesti aggiungono qualcosa al significato globale (i casi a cui pensa McNeill sono quelli in cui una frase comincia a parole ed è terminata da un gesto). Procedendo nel continuum si arriva alla pantomima, cioè ai gesti che mimano oggetti o azioni e in cui il parlato non è necessariamente presente (si pensi, ad esempio, a come si può chiedere a un collega se vuole fare una pausa da lontano, senza usare le parole) e quindi agli emblemi, gesti che sostituiscono il parlato. Terminano il continuum le lingue segnate, sia quelle usate dalle comunità di sordi, sia i sistemi di comunicazione alternativi che una comunità adotta in circostanze particolari. Riassumendo, se guardiamo al continuum da sinistra verso destra, assistiamo a un progressivo aumento dell’indipendenza dei gesti dal parlato da uno stadio iniziale, in cui esso è necessarimente presente, a uno finale, in cui è necessariamente assente. In maniera direttamente proporzionale all’indipendenza del parlato, secondo McNeill, aumentano il grado di convenzionalità dei gesti e la presenza di proprietà linguistiche, come la composizionalità (cioè la possibilità di combinarsi per creare un’unità gestuale più complessa) e l’intenzionalità (McNeill afferma che più un gesto è prodotto senza parole, più il parlante deve scegliere volontariamente e consapevolmente di eseguirlo). I lavori di de Jorio e Kendon sembrano suggerire che, sebbene alcuni gesti abbiano significati molto simili in culture molto diverse tra loro, solitamente lo stesso gesto assume significati diversi e gradi diversi di convenzionalizzazione a seconda dell’area geografica presa in considerazione. Oggetto principale di indagine di chi si occupa di gestualità in linguistica e psicologia è la gesticolazione, che corrisponde sia ai gesti che rafforzano il signficato del parlato sia a quelli che lo completano. Innanzitutto è necessario individuare le unità minime nelle quali scomporre il flusso continuo in cui la gesticolazione si presenta. Secondo Kendon è possibile suddividere il flusso gestuale in unità gerarchiche, partendo da quelle più complesse fino ad arrivare all’elemento minimo, non ulteriormente scomponibile. L’intera escursione dei movimenti, da quando le mani iniziano a muoversi a quando tornano a una posizione di riposo, è detta “unità gestuale”. Un “unità gestuale” può essere più o meno lunga, e può corrispondere o È necessario mostrare come tutti i tentativi di classificazione, sebbene utili per capire quali varietà di usi i gesti abbiano all’interno della conversazione, rischino di fornire una visione distorta della gestualità. È preferibile distinguere i gesti rispetto a un certo numero di parametri che, incrociandosi, definiscono il gesto preso in esame senza costringerlo dentro una categoria fissa. Un esempio è rappresentato dal grado di dipendenza dal parlato: durante una coversazione, gesto e parlato interagiscono in una relazione dinamica che va oltre l’avere bisogno o meno delle parole, e che comprende un’alternanza di gesti e parole con lo stesso significato, gesti con significato aggiuntivo, parlato senza gesti e gesti senza parlato. La presenza del parlato, tuttavia, non è l’unico parametro possibile. Un aspetto ulteriore in base a cui analizzare i gesti è quello proposto da Kendon, che raggruppa i gesti in base al modo in cui il loro significato interagisce con quello delle parole. Secondo questa prospettiva, è possibile distinguere tra gesti che esprimono lo stesso significato delle parole (detti “ridondanti”) e gesti che esprimono un significato aggiuntivo, non espresso a parole, o che specificano un concetto espresso in modo generico. I gesti si possono differenziare per il tipo di relazione tra il significato che rappresentano e il modo di significazione. In questo caso, una buona strategia potrebbe essere quella di prendere come punto di partenza la nota classificazione dei segni proposta da Peirce in icone, indici e simboli,e distinguere tra:  Gesti iconici, che esprimono un significato per mezzo di una somiglianza con il referente.  Gesti indicali o deittici, quando la relazione tra il segno e il referente è di contiguità.  Gesti simbolici, cioè gli emblemi, quando il significato espresso è rappresentato da una convenzione. Possiamo classificare i gesti a seconda della funzione che svolgono all’interno dell’enunciato. In questo senso, Efron distingueva tra:  gesti logico-discorsivi, legati al flusso del pensiero e del parlato.  Gesti oggettivi, che rappresentano un referente. Bavelas propone di classificare i gesti in gesti tema (topic) e gesti interattivi(interactive). Kendon contrappone i gesti con funzione referenziale ai gesti con funzione pragmatica. Queste proposte hanno in comune l’idea secondo cui mentre alcuni gesti sembrano più legati al contenuto del discorso, altri sembrano riferirsi al modo stesso in cui il discorso di sviluppa all’interno dell’interazione. Utilizzare le classificazioni mostra come esiste un gesto che abbia un solo significato in tutte le sue occorrenze e non esiste un gesto che, all’interno della stessa occorrenza, abbia un solo significato. 2.4 I gesti deittici Il gesto deittico è un gesto che indica un oggetto, una posizione, o una direzione, che è scoperta proiettando una linea dritta dal punto estremo della parte del corpo che è stata estesa verso l’esterno sullo spazio che si estende oltre il parlante. Un gesto deittico è una parte del corpo che proietta un vettore, cioè un segmento orientato e dotato di una direzione e di un verso, che usiamo principalmente allo scopo di attirare l’attenzione di qualcuno su qualcosa Ad esempio, i bambini molto piccoli (circa 1 anno di età) usano i gesti deittici – in isolamento oppure accompagnandoli a vocalizzazioni o alle prime parole – per ottenere qualcosa che non riescono a raggiungere o per condividere l’attenzione dell’adulto su qualcosa che reputano interessante. I gesti deittici, inseriti all’interno della gesticolazione, assumono le funzioni dei “gesti deittici astratti”, che presuppongono una buona padronanza delle tecniche di narrazione, dei processi anaforici e delle regole pragmatiche della conversazione. Un gesto deittico è usato con funzione astratta quando non indica qualcosa di realmente presente nel contesto della comunicazione, ma rimanda a qualcosa di assente, che assume comunque una posizione ben precisa nello spazio gestuale costruito dai parlanti. Ad esempio, se nel riferirsi a due entità in contrapposizione il parlante ha accompagnato i due termini con due gesti, uno con la mano destra e uno con la mano sinistra, potrebbe più avanti tornare a riferirsi a una delle due entità con un gesto che indica il luogo in cui il gesto corrispondente era stato eseguito. In questo caso, il gesto deittico indicherebbe lo spazio vuoto, senza alcun riferimento a ciò che è realmente presente nella scena. Un gesto deittico astratto può riferirsi a qualcosa o qualcuno che è fisicamente presente, ma che in quel determinato contesto non va considerato come il referente del gesto, bensì assume una funzione di rimando: ad esempio, posso indicare una scatola di biscotti vuota per fare riferimento ai biscotti stessi -> il gesto si riferisce al contenitore per il contenuto, al luogo per l’entità, in tutti i casi in cui la funzione metonimica viene applicata in riferimento a una persona anziché a un oggetto, si parla di citing pointing. Infine, quando un gesto deittico è usato nel flusso della gesticolazione, non è raro assistere a casi in cui la funzione indicale si combina con altre funzioni: in questo caso, si parla di “gesti deittici combinati”. Nelle culture occidentali, la configurazione tipica dei gesti deittici è il dito indice esteso nella direzione del punto che si vuole indicare (pointing), ma si può indicare con la mano aperta, con il pollica: la scelta su quale forma usare non è casuale, ma dipende dallo scopo del gesto deittico; ad esempio, il modo in cui indichiamo un oggetto quando vogliamo metterlo in risalto rispetto ad altri è diverso dal modo in cui lo facciamo quando vogliamo usarlo come esempio di qualcosa: nel primo caso è molto probabile che useremo l’indice, mentre nel secondo la mano aperta con il palmo rivolto verso l’alto. Anche nei casi in cui la configurazione è la stessa, i gesti deittici di due culture possono essere molto diversi a causa del fatto che una potrebbe basarsi su un sistema di riferimento allo spazio in termini relativi (destra/sinistra, su/giù) mentre l’altra in termini assoluti (ad es. i punti cardinali). 2.5 I gesti rappresentativi Un gesto può rappresentare un referente attraverso un’immagine che lo raffiguri. Quando un gesto assolve questa funzione è detto gesto “rappresentativo”, che include oltre ai gesti deittici astratti, i gesti iconici e metaforici. Un gesto iconico è contenuto semantico del discorso e lo esprime con un’immagine corrispondente. Un gesto metaforico, invece, ha con il referente una relazione astratta: in altre parole, crea un’immagine concreta per un concetto astratto. Spesso ci si è interrogati su che cosa significhi per un gesto avere proprietà iconiche e quanti tipi di iconicità gestuale esistano. Secondo McNeill, i gesti che rappresentano un’azione possono farlo dal punto di vista di un osservatore esterno o dal punto di vista di chi compie l’azione, rivelando due possibili atteggiamenti del parlante nei confronti del contenuto del discorso: una sorta di immedesimazione nel secondo caso dove le mani di chi parla diventano le mani dell’attore, e una presa di distanza nel primo, dove la mano impersona l’attore stesso o, in modo più astratto, il movimento che sta eseguendo. (Ad esempio, per descrivere qualcuno che si sta arrampicando con una fune imito il movimento che compiono le mani). Oltre al punto di vista da cui rappresentare l’azione, i gesti iconici possono raffigurare i referenti nei modi più svariati, e diversi tentativi di classificazione sono stati proposti al riguardo. I gesti possono rappresentare un referente attraverso la sua forma, oppure attraverso una caratteristica definitoria o associata ad esso (ad es. indicare una casa facendo un gesto che rappresenta un tetto spiovente), oppure ancora attraverso una sua affordance, cioè il modo in cui interagiamo con esso abitualmente (es. il gesto di tenere in mano una tazza per raffigurarla). I gesti rappresentativi sono stati distinti in: - Hand-as-object, se la mano rappresenta l’oggetto in questione; - Hand-as-hand, se rappresenta l’azione abitualmente eseguita con l’oggetto; - Size-and-shape, quando il gesto raffigura la forma; - Own-body per i gesti che mimano un’azione, come ad esempio quella di nuotare. La varietà di possibilità di rappresentazione di un gesto iconico ha spinto studiosi come Streeck a sostenere che, sebben sia facile affermare che un gesto iconico è in qualche modo simile a ciò che esso rappresenta, capire che cosa questo significhi esattamente non lo è affatto. Questo punto di discussione è stato usato spesso come prova del fatto che i gesti non sono affatto usati allo scopo di comunicare: se il loro significato non è comprensibile senza parlato, allora essi sono soltanto o un ridondante abbellimento della conversazione o uno strumento cognitivo, nel senso che non servono all’ascoltatore, ma al parlante che li esegue. La questione è stata affrontata da diverse prospettive, supportate da osservazioni en plein air e da esperimenti comportamentali, i psilinguistica o di neuroimmagine. Alcuni studiosi si sono posti il problema da un punto di vista causale, chiedendosi ad esempio se i gesti siano prodotti dagli stessi meccanismi cognitivi coinvolti nel linguaggio e se reclutino aree del cervello tradizionalmente associate alla produzione linguistica. Altri, invece, si sono interessati alla questione più da un punto di vista finale, nel senso che non si sono occupati dei meccanismi cognitivi ma si sono interrogati sullo scopo per cui gesticoliamo: lo facciamo per beneficiare gli altri, agevolandoli nel processo di comprensione oppure per aiutare noi stessi nella pianificazione linguistica o in compiti cognitivi particolarmente dispendiosi. Il dibattito sul ruolo dei gesti, riguarda principalmente la gesticolazione: poiché pe definizione essa si accompagna sempre al parlato, ci si chiede se essa sia parte del processo che genera il parlato stesso, oppure un fenomeno coesistente ma autonomo, a disposizione del parlante per fini diversi da quello comunicativo e spiegabile con meccanismi cognitivi propri, indipendenti dal linguaggio. Spesso, a determinare la scelta di una posizione piuttosto che di un’altra hanno contribuito non soltanto la definizione di gesto che si decide di adottare, ma anche la visione del linguaggio sottostante. Se usiamo “linguaggio” come sinonimo di “parlato” dobbiamo rassegnarci ad ammettere che, chiaramente i gesti non sono linguaggio e questo per il fatto che i gesti non si comportano come le parole e non ne condividono molte caratteristiche. È in questa prospettiva che si inseriscono i primi studi sulla gestualità, radicati nella convinzione che il linguaggio comprendesse solo il parlato da classificare tutti gli altri comportamenti come non verbali. Tuttavia, asserire che i gesti siano diversi dalle parole non deve necessariamente implicare che essi non abbiamo un ruolo nel determinare il significato generale della frase; quindi, l’unica alternativa è allargare la definizione di “linguaggio” per eliminare ogni riferimento al mezzo espressivo e limitarsi a evidenziare solo la funzione. La definizione di linguaggio che, secondo Kendon, meglio si presta al suo scopo è quella di William Dwight Whitney secondo cui il linguaggio è << il mezzo di espressione del pensiero umano>>. Adottando questa accezione, si consente ai gesti di essere parte de linguaggio come le parole. McNeill propone di considerare l’unità minima alla base dell’enunciato come una combinazione di qualcosa che può essere espresso sia con le parole che con i gesti (quello che lui chiama growth point); sostanzialmente, poiché l’enunciato è fatto anche di gesti, non dobbiamo considerare come sue componenti minime le singole parole, ma l’insieme multimodale di un sintagma e il gesto corrispondente. 3.2 Le origini del dibattito: le prime critiche a McNeill Le prime fasi del dibattito, che caratterizzarono la fine degli anni Ottanta, ruotano intorno alle affermazioni di McNeill raccolte nel libro Hand and Mind (1992), in cui sostiene che i gesti fanno parte de linguaggio proprio come le parole perché: a) Compaiono solo durante il parlato b) Sono sincronizzati con le unità linguistiche corrispondenti ed esprimono con essi significati paralleli c) Compaiono (nello sviluppo) e si dissolvono (nelle patologie) insieme al parlato. La maggior parte delle critiche ricevute parte proprio da questi punti: man mano che le evidenze sperimentali aumentavano, ci si è subito resi conto che il quadro era molto più complicato di quanto McNeill sembrava prospettare, e questa ha portato alcuni studiosi a rigettare la sua tesi:  La prima critica è stata quella di Feyereisen in cui contesta McNeill di proporre una visione dei gesti troppo riduttiva: infatti, se è vro che in alcuni casi gesti e parlato possono apparire insieme e presentare due aspetti diversi del pensiero, tuttavia questo non è il solo modo in cui essi interagiscono. Secondo Feyereisen, i gesti compaiono non solo insieme al parlato, ma anche quando i parlanti incontrano qualche difficoltà nell’espressione e durante tutti quei casi in cui il parlato si presenta frammentato o irregolare, come le false partenze, le parole interrotte o le autocorrezioni. Tutte queste osservazioni sembrerebbero dimostrare che i parlanti gesticolano anche quando il processo di scelta delle parole e di pianificazione del messaggio diventa difficile, suggerendo così che i gesti possono svolgere un ruolo attivo nel processo di ritrovamento del termine che si stava cercando. Questa ipotesi è diventata famosa con il nome di “ipotesi del recupero lessicale”.  Butterworth e Hadar sostengono che McNeill è troppo impreciso quando parla di sincronizzazione tra gesto e parlato. Il punto che tentano di smentire è quello secondo cui gesti e parole sono prodotti in parallelo: tale affermazione sarebbe falsa, infatti, poiché i gesti non sono mai allineati esattamente con il parlato a cui si riferiscono, ma lo precedono; inoltre, il fatto stesso che i gesti si verificano spesso durante pause di silenzio dimostrerebbe che gesto e parlato sono in linea di principio separabili. I due autori criticano anche l’affermazione di McNeill secondo cui gesto e parlato hanno funzioni semantiche o pragmatiche parallele: al contrario, sostengono che spesso i gesti esprimono significati diversi da quelli delle parole, a volte opposti.  A sostegno di queste tesi, Feyereisen, Van de Wiele e Dubois, sembrerebbero dimostrare come, in realtà, il gesto abbia un ruolo quasi nullo nel processo di comprensione linguistica. Gli autori riportano che i soggetti non sono in grado di attribuire un significato corretto a un gesto quando questo viene presentato senza il parlato corrispondente.  Krauss e colleghi dimostrano che quando i soggetti devono identificare un referente non ottengono risultati migliori se la descrizione include solo parlato o parlato e gesti insieme. I partecipanti di questo studio non interagiscono con il parlante, ma vedono un video preregistrato. A queste critiche McNeill risponde con un altro articolo, in cui afferma che gli argomenti avanzati da Feyereisen e colleghi non intaccano le sue tesi in quando non riguardano la gesticolazione, ma la pantomima e gli emblemi. Ciò che sembra mancare al bidattico delle origini, sia in alcune delle affermazioni di McNeill sia nelle repliche degli oppositori, è la consapevolezza che l’integrazione di gesti e parole, sia in produzione sia in comprensione, non è qualcosa che può essere testata (e spiegata), ma un fenomeno dinamico, soggetto al tipo di interazione, al contesto in cui si svolge e alle caratteristiche dei partecipanti. Negli anni successivi alla teoria di McNeill e all’ipotesi del recupero lessicale se ne sono affiancate altre, a volte compatibili con esse e a volte in aperta opposizione. Le ipotesi successive hanno iniziato a distinguere espressamente tra un senso causale e uno finale per cui i gesti sarebbero indipendenti dal linguaggio. 3.3 Gesto e azione: un binomio imprescindibile Fra tutte le teorie a favore dell’indipendenza dei gesti dal linguaggio godono oggi di un particolare favore quelle secondo cui i gesti non sono linguaggio perché sono, prima di tutto, azioni. L’idea di base è che poiché i gesti derivano la loro forma dalle azioni quotidiane che compiamo su oggetti o su altri individui, allora essi devono condividere con tali azioni i sistemi cognitivi responsabili della loro produzione e/o comprensione. Sostenere che i gesti facciano capo al sistema motorio può significare qualcosa di abbastanza scontato: i gesti sono movimenti eseguiti con le mani e, come tali, sono atti motori con corrispondenti rappresentazioni motorie nelle aree del cervello dedicate. Il punto teorico di cui si discuterà riguarda soprattutto il modo in cui le azioni che eseguiamo quotidianamente influenzano la produzione di un gesto, e in particolare la forma gestuale adoperata per rappresentare il concetto che si vuole esprimere. È sulla natura di questa rappresentazione che ci si è interrogati, e in particolare sul suo legame con le rappresentazioni originate dall’uso primario della mano. Il legame tra gesto e azione non riguarda soltanto i gesti iconici, ma può essere esteso anche a tutte le categorie. Ad esempio, i gesti deittici possono essere considerati semplificazioni del tentativo di afferrare un oggetto. Anche i gesti che sembrerebbero meno legati alle azioni a causa del loro significato non riconducibile a funzioni semantiche, come i gesti pragmatici, possono essere spiegati come astrazioni di azioni manipolative: ad esempio, il palm-up potrebbe derivare la sua forma dal mostrare all’interlocutore le mani vuote, in segno di impossibilità di agire. In questo senso, tutta la gestualità può essere ricondotta al modo di agire sulle cose proprio dell’essere umano, al punto da portare Kendon a sostenere che anche i gesti sono uno dei modi in cui la nostra specie modifica l’ambiente circostante. Da questa prospettiva, non è solo la gestualità a essere intimamente connessa all’azione manipolativa, ma tutto il linguaggio in generale. Streeck propone di guardare al gesto come a una “famiglia di pratiche umane”: non come un codice o un sistema simbolico o linguaggio, ma come un insieme che evolve costantemente di pratiche di usare le mani per produrre comprensione situata. Per questo motivo, dobbiamo studiare i gesti nei loro contesti naturali di occorrenza, dove contesto non significa solo l’ambiente fisico e sociale, ma anche gli atti contemporanei e precedenti dei co-partecipanti nel dispiegarsi dei turni e nelle sequenze di azioni. 3.5 Gesti e cognizione: alcune evidenze sperimentali I gesti non servono (solo) alla comunicazione, ma anche alla cognizione: se facciamo gesti anche quando gli altri non possono vederci e se abbiamo difficoltà a parlare se non siamo liberi di gesticolare, allora vorrà dire che c’è un senso per cui fare gesti ci aiuta in qualcosa. Secondo l’ipotesi del recupero lessicale, i gesti aiutano a selezione le parole giuste per esprimere al meglio la nostra intenzione comunicativa; secondo l’ipotesi di Kita, aiutano a organizzare il pensiero spazio-motorio in modo tale che possa interagire con quello analitico per produrre l’enunciato; secondo la GSA, rispecchiano l’immagine mentale, di cui sono la manifestazione visibile. È ormai ampiamente dimostrato che quando ascoltiamo qualcuno che parla mentre gesticolare la nostra comprensione migliora. I benefici del gesto, non sono limitati al destinatario: anche se sembra meno intuitivo, infatti, quando facciamo gesti otteniamo noi stessi risultati migliori. I benefici dei gesti sono evidenti anche durante l’esecuzione di compiti più complicati, come nel paradigma del cosiddetto interference effect, in cui si testa in quale misura, durante l’esecuzione di due compiti contemporaneamente, uno influisce sull’altro. Per spiegare questo effetto di facilitazione è stato ipotizzato che i gesti aiutino a ridurre il carico della memoria di lavoro, cioè quella parte della memoria che si occupa di manipolare l’informazione necessaria allo svolgimento di compiti immediati (online). In altri termini, il cervello passerebbe alle mani parte dell’informazione da manipolare in modo da poter liberare spazio per eseguire altri compiti. Pouw e colleghi hanno ipotizzato che la visione dei gesti che si ricava da teorie come la GSA è troppo riduttiva, almeno dal punto di vista del loro essere considerati un sempice specchio dell’immagine mentale: se così fosse, essi non sarebbero altro che una conseguenza di processi cognitivi autosufficienti, e non si spiegherebbe come mai abbiano un ruolo tanto determinante nel migliorare tali processi. Per questo motivo, gli autori propongono di sostituire a una visione embodied del gesto, quella che essi, riprendendo la nozione di mente estesa di Clark e Chalmers definiscono una prospettiva estesa/situata. La nozione di mente estesa, si basa sulla constatazione che la nostra mente trascende i confini fisici del nostro cervello per estendersi a tutto il corpo e persino all’ambiente circostante e agli altri: ad esempio, per ricordare qualcosa, possiamo fare affidamento sulla nostra memoria, oppure possiamo delegare il ricordo a un appunto scritto. Dal punto di vista funzionale, questi casi sono equivalenti, con il risultato che la nostra mente non è altro che una rete di rimandi tra l’esterno e l’interno. Alla luce i quanto visto fin ora, sembra innegabile che i gesti svolgano un importante ruolo cognitivo: la natura di tale ruolo rimane ancora da definire, nel senso che non sappiamo ancora quanto esso sia limitato alla produzione linguistica in senso stretto oppure si estenda a capacità cognitive più complesse, come la memoria. Tuttavia, è innegabile che, quando siamo liberi di gesticolare, otteniamo prestazioni migliori. Capitolo IV – Gesto e linguaggio 4.1 Gesti, comunicazione, linguaggio Il fatto che i gesti abbiano un ruolo comunicativo può significare due cose: - che il destinatario, nel vedere un gesto, utilizza l’informazione in esso contenuta per comprendere meglio il significato globale dell’enunciato; - che il parlante, nel fare un gesto, intende comunicare qualcosa con esso. Queste due proprietà del gesto, benché complementari, non devono essere necessariamente copresenti: Ekman e Friesen definivano i gesti del primo tipo “comunicativi”, e i gesti del secondo tipo “interattivi”, specificando che un gesto può essere allo stesso tempo comunicativo e interattivo (cioè prodotto con l’intenzione di comunicare ed effettivamente efficace nel realizzare tale intenzione), ma può anche presentare solo una delle due caratteristiche. In linea di principio, nei gesti, come nella comunicazione in generale, è possibile che un parlante voglia comunicare qualcosa ma che il destinatario non colga questa intenzione e, viceversa, che un destinatario possa interpretare come comunicativo un atto che non era stato prodotto intenzionalmente. Per testare se un gesto sia effettivamente stato integrato nella comprensione da parte del destinatario, è necessario creare alcune condizioni sperimentali che permettano di stabilire in modo oggettivo che l’informazione che il parlante ha ottenuto venga effettivamente da tale festo, e non dal parlato che lo accompagna. Per ottenere questo scopo, sono possibili diversi approcci, dai classici esperimenti comportamentali . in cui si presentano ai soggetti enunciati multimodali che contengono l’informazione più importante solo nel gesto per poi chiedersi se questa informazione è stata assimilata – agli esperimenti di neuroimmagine – in cui si indaga l’effetto di un gesto, usato in modo corretto o inappropriato, sull’attività celebrale. Il metodo più semplice per testare l’ipotesi che i gesti siano comunicativi, è quello di analizzare la produzione gestuale dello stesso individuo o di due gruppi di individui in due circostanze identiche tranne che per un’unica variabile che riguardi il contesto o il destinatario. Ad esempio, potremmo chiedere allo stesso partecipante di spiegare la medesima azione prima a un adulto e poi a un bambino, per poi analizzare in che cosa differiscono i gesti prodotti nelle due condizioni. Per quanto riguarda l’analisi, un attimo punto di partenza è certamente quello di contare i gesti per vedere se sono di più in una condizione rispetto a un’altra. Inoltre, bisogna tenere a mente che le differenze nella produzione gestuale non sono solo una questione di numeri. Il patrimonio gestuale a dispozione dei parlanti è così vario e il suo impiego così dinamico da non poter essere studiato semplicemente contando: due unità gestuali con lo stesso numero di frasi gestuali, infatti, possono rivelarsi molto diverse tra loro per le funzioni dei gesti presenti, per le loro dimensioni, per la modalità di rappresentazione e per la relazione che intercorre tra gesti e parole. Gerwing e Bavelas sostengono che diverse rappresentazioni gestuali della stessa azione dovrebbero differire perché la forma di ciascuna descrizione è vincolata non solo dall’azione originale, ma anche dalla particolare funzione comunicativa del gesto al momento esatto in cui occorre -> in altre parole, se il parlante è in grado di variare così tanto le sue scelte al variare di alcuni fattori, questo significa che lo scopo primario non è rispecchiare un immagine motoria, né ritrovare le parole nella sua memoria lessicale, bensì creare, insieme al parlato a cui si accompagnano, un messaggio efficace per l’ascoltatore. Possiamo raggruppare questi fattori in quattro grandi gruppi:  tipo di co-presenza tra parlante e ascoltatore: posizione degli ascoltatori, visibilità tra i partecipanti, modalità di comunicazione (dialogo faccia a faccia, conversazione al telefono, monologo);  common ground, cioè le conoscenze condivise dai partecipanti;  lingua madre;  cultura di appartenenza. È chiaro come i fattori linguistici e comunicativi hanno un peso così determinante nella produzione gestuale da legittimare le posizioni di chi sostiene che il gesto sia linguaggio, e che gesto e parole siano il risultato dello stesso processo pianificazione. 4.2 Gesti efficaci: i benefici della presenza di un gesto Secondo Kendon, i partecipanti a un’intenzione sono in grado di riconoscere, semplicemente dal modo in cui un’azione è eseguita, se è intesa come comunicativa o meno. Ad esempio, quando alcuni soggetti guardano dei video di gente che parla, senza però ascoltare il sonoro, sono in grado di decidere se un dato movimento è parte del messaggio che il parlante sta veicolando; inoltre, sono anche in grado di attribuire ad esso un significato. I partecipanti a uno scambio comunicativo tengono conto dei gesti e ne traggono beneficio per arrivare a una piena comprensione dell’enunciato. È dimostrato che i soggetti ottengono risultati migliori nell’identificare una forma astratta descritta da un altro partecipante se questi accompagna la descrizione con gesti rispetto a quando non gesticolare. Sembra anche che questa capacità di integrare gesti e parole non sia tipica solo degli adulti, ma anche dei bambini molto piccoli: già a partire dai 14 mesi di età sono in grado di attribuirre ai gesti un significato e di integrare questo significato con il parlato che li accompagna. Sembra anche chiaro che, quando essi sono stati in modo appropriato, utilizziamo tale significato per interpretare correttamente un enunciato. Kelly e Barr mostrano come i soggetti siano più propensi a interpretare un enunciato come una richiesta indiretta (ad esempio, “fa freddo qui” pronunciato per chiedere all’altro di chiudere la finestra) quando esso è accompagnato da un gesto – in questo caso il gesto deittico di indicare la finestra – di quando invece, l’enunciato è espresso solo a parole. In Ozyurek e Maris, i partecipanti sono più veloci nell’associare due stimoli(prime e target) presentati uno di seguito all’altro, in questo caso un video di qualcuno che esegue un azione, seguito da un gesto che rappresenta l’azione precedente).
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