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Riassunto esaustivo del libro Saba di Carrai, Sintesi del corso di Letteratura Italiana

il documento contiene il riassunto del libro e l'analisi delle poesie di Saba

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020
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Scarica Riassunto esaustivo del libro Saba di Carrai e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! Trieste all’epoca di Saba Nel 1719 Carlo VI d'Austria istituì a Trieste Il Porto Franco. Nel 1740 salì al trono Maria Teresa d'Austria che fece di Trieste uno dei principali porti europei e il più importante dell'impero austriaco. Fra il 1758 e il 1769 fu costruito un forte per la difesa del Molo e nelle vicinanze del Porto sorsero i primi edifici. In quegli anni inizio ad essere edificato Il Borgo teresiano per ospitare una popolazione in crescente aumento. Lo sviluppo demografico della città fu dovuto l'arrivo di numerosi immigrati provenienti dal bacino Adriatico (istriani, veneti, dalmati, friulani, sloveni) e, in minor misura, dall'Europa continentale (austriaci, ungheresi) e balcanica (serbi, greci, ecc...). Gli abitanti di Trieste usavano tre lingue diverse: L'italiano, il tergestino e lo sloveno. La lingua triestina, usata dalle persone semplici, non veniva capita dagli italiani. Molti abitanti della città e tutti quelli del circondario parlavano sloveno. Trieste fu occupata per tre volte dalle truppe di Napoleone. 1. la prima occupazione francese fu molto breve, iniziò nel 1797 e si concluse in due mesi. Spaventata dal l'imminente arrivò delle truppe napoleoniche, gran parte della popolazione abbandona la città. Chi era rimasto lottò contro i francesi, che però tennero sotto controllo la situazione. Dopo il Trattato di Leoben le truppe francesi lasciarono la città. 2. la seconda occupazione francese inizio nel 1805 e si concluse in 5 mesi. Le idee democratiche portate dalle truppe napoleoniche iniziarono a diffondersi anche a Trieste, dove cominciò a maturare l'identità nazionale italiana. 3. la terza occupazione francese ebbe inizio nel 1809. Trieste venne inglobata nelle province illiriche, governate dai francesi, ed esse comprendevano la Carinzia, la Carniola, il Goriziano, l'Istria Veneta, l'Istria asburgica, parte della Croazia e la Dalmazia. L'occupazione francese si concluse nel 1813, in seguito alla battaglia di Lipsia. Ritornata gli Asburgo nel 1813, Trieste continuò a svilupparsi anche grazie all'apertura della ferrovia con Vienna nel 1857. Trieste divenne il primo porto dell'impero austro-ungarico, inoltre la città diventò un centro fortemente cosmopolita, plurilingue e plurireligiosa. Nel XVIII secolo in città il dialetto triestino sostituì il dialetto tergestino. Trieste fu, con Trento, uno dei maggiori centri dell'irredentismo italiano. Alla fine della terza guerra d'indipendenza (1866), portò all'annessione del Veneto al Regno d'Italia, nacque in Italia un movimento che si dichiarava favorevole a creare le condizioni politiche e militari per il definitivo compimento dell'Unità nazionale attraverso il recupero delle tre regioni (Trentino, Friuli, Venezia Giulia) che furono definite “irredente”. Dopo l'annessione del Veneto al Regno d'italia, l'amministrazione Imperiale austriaca, per tutta la seconda metà del XIX secolo, aumentò le ingerenze sulla gestione politica del territorio per attenuare l'influenza del gruppo italiano tenendone la tendenza irredentista. L'Imperatore Francesco Giuseppe I d'Austria, traccia un progetto mirante alla germanizzazione o alla slavizzazione di quell'aria dell'impero con l'obiettivo di limitare l'influenza italiana. Nel 1868 scoppiarono a Trieste scontri e violenze con gli sloveni locali arruolati fra i soldati asburgici. Il 13 febbraio del 1902 iniziò uno sciopero generale a favore dei fuochisti del Lloyd. Il governo austriaco, tenendo una saldatura tra il Partito Socialista triestino in cui prevale vanno gli italiani ed elementi irredentisti, proclamò il 14 febbraio lo Stato d'assedio e la legge marziale. La repressione austriaca fu durissima. Nel 1909 il governatore austriaco proibì l'uso della lingua italiana in tutti gli edifici pubblici e con un altro decreto del 1913 l'Austria estromise ufficialmente gli italiani dalle Amministrazioni comunali e dalle aziende municipalizzate. Agli inizi del Novecento il gruppo sloveno di Trieste conobbe una fase di ascesa demografica, sociale ed economica. Ciò spiega come l'irredentismo assunse spesso dei caratteri antislavi che vennero incarnati dalla figura di Ruggero Timeus. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale 128 Triestini si rifiutarono di combattere sotto le bandiere austroungariche e subito dopo l'entrata in guerra dell'Italia contro gli Imperi Centrali (1915) si arruolarono nel Regio esercito italiano. Si è parlato di Grande Guerra in termini di Quarta Guerra d'Indipendenza, ma ciò non è corretto poiché la Prima Guerra Mondiale era sentita dagli italiani come conflitto fra imperialismi per fini imperiali i quali annullavano i fini nazionali della guerra. All'inizio, infatti, la destra nazionalista e quei settori economici più sensibili ad un controllo italiano sull'Adriatico fecero proprie le istanze irredentisti. L'abbraccio fra nazionalisti ed irredentisti non durò a lungo, in quanto il nazionalismo aveva riportato in primo piano l'imperialismo e in questo contesto l'irredentismo rappresentava una specie di imperialismo sentimentale da usare come mezzo di propaganda. La nascita dell'associazione nazionalista italiana nel 1910 e la guerra di Libia fanno del nazionalismo uno dei protagonisti della politica italiana e lo pongono in un ruolo di primo piano nel dibattito tra interventisti e neutralisti che precede l'entrata in guerra nel 1915. Il fronte interventista è molto articolato: un interventismo democratico e uno rivoluzionario ne costituiscono la sinistra, a destra e al centro troviamo l'interventismo nazionalista e quello liberale. Le motivazioni dell'interventismo democratico, del quale l'irredentismo è una costola con la sua Associazione Trento e Trieste (il cui presidente Giuriati invitava i suoi ad impedire anche con la violenza i comizi neutralisti in quanto tutte le libertà devono essere sacre, fuori che quella di tradire la patria)e con il Corpo di volontari Legione Mestre, vanno ricondotte all'ideale patriottico di origine risorgimentale e all'ostilità verso gli imperi centrali la cui sconfitta è ritenuta necessaria per la nascita di una Europa Democratica e pacifica. Le riunioni dell'associazione Trento e Trieste partorirono dei documenti di sconvolgente anticipazione sulla storia come quello del 5 maggio del 1915 nel quale si sosteneva la necessità di campi di concentrazione e il provvedimento dell'espulsione nei confronti degli stranieri i quali, rinchiusi, non avrebbero potuto nuocere agli organi della vita e della difesa nazionale Gli interventisti rivoluzionari, rafforzati dall'adesione di Mussolini, erano convinti che soltanto la sconfitta degli imperi centrali potesse avviare un processo avente come esito una rottura rivoluzionaria. Per i nazionalisti guerra e imperialismo erano la stessa cosa, non erano interessati alla democrazia o alla costruzione di una nuova Europa. Gli interventisti Liberali diffondevano la loro posizione intermedia tra quella dei nazionalisti e quella degli interventisti democratici, da un lato la guerra era necessaria affinché l'Italia restasse legata alle possibili svolte postbelliche in Europa, dall'altro lato bisognava impegnarsi per il controllo dell'Adriatico sottraendolo all'Austria. Questo variegato fronte interventista aveva un elemento comune: L'incapacità di mobilitazione politica e morale di ampie masse a favore della guerra insieme alla polemica contro i socialisti. L' arruolamento volontario di molti leader interventisti, efficace dal punto di vista propagandistico, non segnò le masse in modo profondo. Nel novembre del 1918, al termine del conflitto che vide l'Italia vittoriosa, il Regio esercito italiano entrò a Trieste dichiarando lo stato di occupazione e il coprifuoco. La sicura e imminente annessione della città e dell'intera Venezia Giulia all'Italia fu accompagnata da un forte inasprimento dei rapporti tra italiani e sloveni, traducendosi anche in scontri armati. Dopo la Prima Guerra Mondiale le truppe italiane occuparono militarmente la parte della Dalmazia promessa all' Italia dal Patto di Londra (accordo segreto firmato il 26 aprile 1915, che venne stipulato tra il Governo italiano e i rappresentanti della triplice intesa, con cui l'Italia si impegnò a scendere in guerra contro gli imperi centrali in cambio di cospicui compensi territoriali in seguito non completamente riconosciuti nel successivo trattato di Versailles del 1919 che fu firmato alla fine del conflitto). Lo sviluppo del Fascismo a Trieste fu precoce e rapido. Nel maggio del 1920 si costituirono in città le prime squadre volontarie di difesa cittadina. Nel giugno successivo veniva aperta la sede dell'avanguardia studentesca Triestina, anch'essa di chiara ispirazione fascista. L' 11 luglio 1920 a possibile. Entrambe sono vitali, l'una all'interno delle nazioni, l'altra fuori. Ma questo saccheggio delle idee marxistiche ai fini nazionalistici ha il torto di tutti gli adattamenti arbitrari; manca di una base storica, non poggia su nessuna esperienza tradizionale. Perché un fatto ci interessi, ci commuova, diventi una parte della nostra vita interiore, è necessario che esso avvenga vicino a noi. quando abbiamo sentito che i turchi avevano massacrato centinaia di migliaia di armeni, abbiamo sentito quello strappo lancinante delle carni che proviamo ogni volta che i nostri occhi cadono su della povera carne martoriata e che abbiamo sentito spasimando subito dopo che i tedeschi avevano invaso il Belgio? É un gran torto non essere conosciuti. Vuol dire rimanere isolati, chiusi nel proprio dolore, senza possibilità di aiuti, di conforto. Per un popolo significa l’abbandono a se stessi, inermi e miseri di fronte a chi non ha altra ragione che la spada e la coscienza di obbedire a un obbligo religioso distruggendo gli infedeli. Nel corso del 1917 gli avvenimenti subirono un’accelerazione impressionante: le due rivoluzioni russe, l’entrata in guerra degli Stati Uniti, la disfatta italiana a Caporetto, le giornate di agosto a Torino. Gramsci diventa segretario della Sezione torinese del Psi e direttore de «Il Grido del Popolo»; nel mese di novembre partecipa alla riunione clandestina della sinistra socialista a Firenze dove conosce Bordiga. Riflette sui motivi per cui scoppiano le guerre: I socialisti affermano che le guerre sono un portato dei sistemi di privilegio. Essendo oggi classe privilegiata la borghesia, essendo il capitalismo la forma economica specifica che il privilegio ha oggi assunto, i socialisti affermano che oggi la guerra è una fatalità borghese. (…) il conflitto esiste perenne, ma non è perennemente di fatto; perché tale diventi è necessaria una iniziativa umana, è necessario ci sia chi giudichi essere arrivato il momento dell’azione, il momento utile per la realizzazione di un nuovo privilegio, oppure per impedire che un privilegio acquisito decada a beneficio altrui, e la guerra scoppia. Troppo pochi sono ancora gli uomini che si preoccupino veramente di ciò che accade loro d’intorno, che si preoccupino di non lasciar aggruppare dei nodi che poi domanderanno l’intervento della spada per sciogliersi e faranno diventare di fatto la guerra che è immanente nella società attuale. Perché c’è chi lavora sempre per iniziare le guerre. Perché c’è chi suscita dubbi, e semina il panico. Perché ci sono i professionisti della guerra, perché c’è chi dalla guerra guadagna, anche se la collettività non ne ricavano che lutti e rovine. Poiché è pur necessario che la guerra scoppi in un certo momento, bisogna impedire che questo momento arrivi mai Già all’inizio del 1918, con la guerra ancora in corso, lo sguardo di Gramsci si dirige sul dopoguerra, in specie sulla proposta wilsoniana di Società delle Nazioni: Woodrow Wilson è arrivato alla presidenza degli Stati Uniti per rappresentarvi gli interessi politici di un ceto capitalista: i produttori non protetti, e che non possono essere protetti; gli industriali che esportano, che hanno bisogno di nuovi mercati, che possono essere danneggiati nel loro vigoroso e spontaneo sviluppo dai protezionismi degli altri paesi. La loro ideologia politica è la democrazia liberale e liberista, che nelle penultime elezioni ha sconfitto la democrazia radicale, affaristica, trustaiola, protezionista. Per questa borghesia Lega delle Nazioni vuol dire dissolvimento delle reliquie politiche del feudalismo. L'economia borghese ha in un primo momento dissolto le piccole nazionalità, i piccoli aggruppamenti feudali: ha liberato i mercati interni da tutte le pastoie mercantili che inceppavano i traffici, che impedivano alla produzione di trasformarsi e di espandersi. L'economia borghese ha così suscitato le grandi nazioni moderne. Nei paesi anglosassoni è andata oltre: all'interno la pratica liberale ha creato meravigliose individualità, energie sicure, agguerrite alla lotta e alla concorrenza, ha discentrato gli Stati, li ha sburocratizzati: la produzione, non insidiata continuamente da forze non economiche, si è sviluppata con un respiro d'ampiezza mondiale, ha rovesciato sui mercati mondiali cumuli di merce e di ricchezza. Continua ad operare; si sente soffocata dalla sopravvivenza del protezionismo in molti dei mercati europei e del mondo. Le lotte di tariffe non la sollecitano: le sa, per esperienza pratica, dannose ad ambe le parti belligeranti. Crea l'ideologia pacifista di Norman Angell, ma si addimostra capace di far la guerra e di perdurarvi tenacemente non meno dei più agguerriti Stati militareschi. Dopo il 4 Novembre 1918, a Milano e a Bologna, si manifestò un’insorgenza di espliciti atteggiamenti antisocialisti da parte di interventisti, esaltati dalla notizia della conquista di Trento e Trieste. La situazione nella città di Torino appariva ancora più grave e nei giorni successivi al 4 novembre, le strade erano invase da cortei di operai che, chiuse le fabbriche, sfilavano con bandiere rosse in contrapposizione alle manifestazioni di carattere nazionalistico. Questa la ricostruzione dei fatti da parte di Antonio Gramsci: Subito dopo l’armistizio si verificò a Torino una serie d’avvenimenti: 1. Gli operai venivano aggrediti e percossi; Fu possibile a un avventuriero tenere da padrone per otto giorni le vie e le piazze di Torino, arringare i soldati di recente tornati dal fronte e sobillarli a organizzare pogroms contro i socialisti; 2. un ardito, in via Roma, per mostrare la sua bravura, entrò in una vettura tranviaria dal finestrino e pugnalò il primo che ebbe la disgrazia di capitare sotto la punta del suo pugnale; un altro ardito, in piazza Castello, per mostrare a un gruppo di curiosi “come lavorano gli arditi”, tagliò la faccia a un disgraziato fermo sul marciapiede; 3. fu organizzato un pogrom contro la Camera del lavoro; al pogrom parteciparono carabinieri e agenti di polizia. Il palazzo era gremito; vi erano donne e bambini. Gli ufficiali fecero la sassaiola contro le finestre. Il palazzo fu circondato. Le donne furono terrorizzate; i bambini strillavano. I carabinieri e gli agenti irruppero nei locali operai. Tutti i presenti furono brutalmente percossi; le donne furono bestialmente malmenate. La forza pubblica si assicurò che nessuno degli operai avesse armi di qualsiasi genere 4. Il tranviere Cerea fu massacrato dagli agenti della forza pubblica; gli fu schiantato il fegato. Gli operai vollero accompagnarlo in corteo al camposanto. Si trovò un funzionario sciacallo che prese le redini dei cavalli del carro funebre e tentò di sciogliere l’immenso corteo. E prosegue l’articolo rimproverando il silenzio dei «tre giornali torinesi» che non hanno fatto alcun cenno a «questi episodi macabri, degni di epoche barbariche, cannibalesche». Il giornalismo, infatti, è un mezzo di dominio «spirituale» della borghesia sulla classe proletaria, accanto ai mezzi di dominio materiale che sono lo Stato economico capitalista e lo «Stato poliziesco che dal governo centrale si dirama in una gerarchia di prefetti, di questori, di poliziotti, di ufficiali di carabinieri, in una gerarchia militare che dallo stato maggiore arriva fino al soldato inquadrato nella sua disciplina».13 In questo clima, perciò, prendeva consistenza l’atteggiamento di connivenza fra organi dello Stato e forze reazionarie, esaltate dalla vittoria e, poi, da imprese come quella dannunziana a Fiume. Di lì a poco sarebbe nato il movimento fascista che, abbandonati i presupposti sansepolcristi del 1919, si sarebbe ben presto orientato verso posizioni esplicitamente antioperaie e antisocialiste. Già fra il 1918 e il 1919 i giornali di partito si facevano cassa di risonanza dei dubbi e degli interrogativi sulla condotta degli organi dello Stato. Così Gramsci: Perché, se un gruppo di piccoli operai disoccupati, se un gruppo di giovani socialisti entusiasti osano avventurarsi nelle vie con un piccolo vessillo ed emettono un qualche grido, le carceri si spalancano ad inghiottire i criminali violatori di decreti, di bandi, di regolamenti: l’amministrazione della giustizia si sgranchisce le membra anchilosate e procede per direttissima, sbucano i testimoni che giurano su oltraggi alla forza pubblica, su ribellioni, sassate, matricidi, stupri, rapine, e fioccano i mesi e gli anni di reclusione? Si trattava dunque di fare i conti con apparati dello Stato e forze della società complici e, allo stesso tempo, con il nerbo della reazione di studenti. Gli avvenimenti dell’ultima parte del 1918, dopo l’armistizio, prefigurarono chiaramente ciò che sarebbe avvenuto nel biennio successivo. La guerra civile era ormai nelle cose. Stefano Carrai Saba Capitolo 1-Nascere a Trieste nel 1883 1.L’ambiente Trieste era strettamente collegata al Istria e all'altopiano del Carso, fino alla fine della Prima Guerra Mondiale la città fece parte dell'Impero austro-ungarico, di cui costituiva il porto più grande e il più importante per i traffici mercantili soprattutto con l'Oriente. Trieste quindi era un crogiolo di razze: L'amministrazione pubblica era di etnia tedesca, convivevano la più numerosa popolazione di lingua e cultura italiana e quella di origine slovena. A questi tre gruppi etnici principali si aggiunge una moltitudine di greci e levantini richiamati dalle attività portuali. Cospicua era la comunità ebraica che popolava L'Antico ghetto. Lo scontro era reso vivace dall’irredentismo della componente italofona, cioè dall'aspirazione della comunità numericamente più elevata al passaggio della città e del suo territorio sotto il Regno d'Italia, così da completare l'unità politica della penisola anche insieme al Trentino. La nota dominante della città e quindi la multiculturalità che generava un clima favorevole alla letteratura, poiché tutti Sono alla ricerca della propria identità che riescono a ritrovare grazie all'utilizzo della poesia. Tra la fine dell'800 e l'ingresso nel Regno d'Italia col 1918, nei caffè e negli altri trovi di Trieste si infoltisce un gruppo di scrittori di lingua italiana che ebbe in Svevo il Saba le sue punte di eccellenza. Gli scrittori erano accomunati dall'apertura verso un orizzonte europeo, dalla precoce ricezione delle istanze della psicanalisi, dall'inquietudine, dai riflessi della crisi e del disfacimento del mondo. Con l'annessione all'Italia questo patrimonio letterario configurò Trieste come una terra sí di confine, ma straordinariamente fertile. 2. La famiglia Umberto Poli nacque a Trieste nel 1883, non nel cuore della città vecchia, ma in Via Pondares che stava dall'altra parte della città. Solo nel 1928 avrebbe mutato il proprio cognome anche al registro dell'anagrafe sostituendolo con Saba, pseudonimo letterario assunto nel 1910. Il padre era Ugo Edoardo Poli, triestino di nascita ma di cittadinanza italiana; la madre Felicita Rachele Coen. Il matrimonio era stato combinato, così il padre di Saba si fece circoncidere e cambiò il suo nome in Abramo e sposò Rachele. Pochi mesi dopo il padre abbandonò la moglie e abiurò alla religione ebraica. Di lì a poco venne arrestato dalla polizia per sentimenti anti-austriaci e in seguito fu bandito dai territori dell'impero austro-ungarico. Quando venne scarcerato non fece ritorno a casa. L'originaria lacerazione famigliare divenne per Saba la chiave interpretativa della propria nevrosi e della propria infelicità (come emerge nel secondo sonetto dell’Autobiografia, p. 241 del Canzoniere). Del conflitto e dell'antitesi fa il carattere del padre assente e quello della madre Saba ne farà un personale mito negativo (come si evince nel sonetto dell'Autobiografia). Nell'età matura il poeta faceva risalire la sua intima scissione al contrasto fra la natura leggera e gaia del padre e quella angosciosa arcigna della madre. A causa dell'abbandono da parte del marito, la madre di Saba andò a lavorare nel negozio di mobili della sorella e per questo dovette assumere una balia. La scelta ricadde su Peppa, una donna di origine solvena e di religione cattolica che aveva perso il proprio figlio e che per questo si affezionò molto a Saba. All'età di 3 anni Saba venne tolto alla baia, a causa della gelosia della madre, e venne mandato a Padova da una zia per l'imperversare del colera. Qui rimase fino ai 10 anni. Tornato nella sua città si riunisse all'Italia. Nel 1915 venne richiamato alle armi e durante questo periodo il poeta si appassionò alla lettura di Nietzsche. La vena poetica andava attenuandosi tanto che nel penultimo sonetto dell'Autobiografia scrisse fui cattivo poeta e buon soldato. L'anno successivo cominciò a organizzare in una grande raccolta, cui pensava di dare come titolo Canzoniere di un poeta minore e poi La serena disperazione, quasi tutte le liriche scritte fino ad allora. 5. Il mestiere di librario Terminata la guerra il poeta tornò a Trieste. Saba insieme con Fano rilevo una libreria con l'idea di votarla e rivendere il fondo a prezzo più alto. Invece i due si affezionarono all' di gestire una libreria, ma Fano voleva abbandonare il commercio antiquario per dedicarsi alle novità internazionali, mentre Saba mantenere la tradizione del vecchio negozio. Fano rinunciò alla libreria e rivendette la sua quota all'amico. Iniziava così l'attività di libraio antiquario di Saba che gli consentirà una duratura tranquillità economica. Nella sua nuova professione Saba si riconoscerà in pieno, infatti essere custode di nobili morti non implicava un rapporto schizofrenico con la poesia, anzi favoriva la meditazione l'aspirazione. Lina sopportava che il poeta si innamorasse delle varie commesse da lui assunte in libreria e che facesse loro le avance registrate in Cose leggere e vaganti e in L' amorosa Spina. Col marchio della propria Libreria Antica e Moderna egli pubblicò nel 1920 un libricino autonomo Cose leggere e vaganti. Poi mise mano a una nuova aggregazione delle proprie poesie confezionando dieci volumetti. L'idea era quella di fare una tiratura limitatissima, ma l'iniziativa abortí e lasciò il campo alla stampa del primo Canzoniere. Come molti reduci, Saba simpatizzava per i neonati Fasci di combattimento, ma presto ne hai prese le distanze. Nel 1921 morì sua madre e il lutto gli provocò un dolore che risultò improvvisamente più profondo di quanto Saba si sarebbe aspettato. Nel 1921 con il titolo di Canzoniere uscì a Trieste la nuova raccolta delle sue poesie, stampata col marchio della Libreria Antica e Moderna. 6. Dall’oscurità al successo Nemmeno il Canzoniere destò l'attenzione della critica. I pochi critici che ne parlarono continuarono a classificare il poeta, facendolo infuriare, come un successore di Gozzano e dei crepuscolari. Nella prima metà degli anni Venti Saba rinvigorì il suo impegno poetico e compose poesie adottando uno stile nuovo. Entrò in contatto col gruppo torinese di Primo Tempo e strinse un intenso legame di amicizia con Giacomo Debenedetti, che nel 1923 scrisse un saggio intitolato La poesia di Saba, dove negava l'omologazione del poeta ai crepuscolari, che rischiava ormai di diventare un luogo comune. Fu Figure e Canti a consacrare Saba come poeta emergente nei circoli letterari di tutta Italia, mentre il Canzoniere del 1921 era rimasto in gran parte invenduto, circolando soprattutto fra gli amici del poeta e restando sostanzialmente privo di una vera eco, ad eccezione del messaggio di Debenedetti. Figure e canti rappresentò un punto di svolta nella storia nella carriera poetica di Saba: fu il libro che lo lanciò procurandogli una vasta attenzione e numerosi consensi. Montale era stato un buon profeta quando scrisse, riguardo Figure e Canti, “è probabile che il nuovo volume di liriche ottenga un successo molto notevole” Fra il 1925 e il 1926 Montale contribuì al lancio di Italo Svevo e subito dopo all'affermazione di Saba da lui incontrato di persona a Trieste. Il 1926 Saba cominciò a frequentare Svevo che si aggiunse alla compagnia del Caffè Garibaldi (sito a Trieste), frequentato anche da James Joyce. Fu allora che Saba concepì un ingenuo e fanatico amore per l'opera di Proust. Per il tramite di Montale anche il gruppo fiorentino di Solaria lo accolse come uno dei maestri della poesia moderna dedicandogli un intero fascicolo della rivista nel maggio del 1928 e pubblicando in volumetto la Suite inedita Preludio e Fughe. Sempre nel 28 alcune sue poesie vennero diffuse a Parigi. L’instabilità di umore di Saba crebbe verso la metà degli anni 20, con l'aumentare delle sue ossessioni. Saba infatti aveva paura di aver firmato contratti non validi per aver usato un nome d'arte, quindi cambio i suoi connotati anagrafici facendoli corrispondere a Umberto Saba. Nei primi del 1929 i suoi disturbi nervosi peggiorarono fino a dar luogo a una grave depressione che lo indusse a iniziare l'analisi con il dottor Edoardo Weiss già allievo di Freud a Vienna. Intrapresa la cura il poeta fu costretto a interrompere la presto perché nel 1931 Weiss si trasferì a Roma. L'analisi lascerà un segno indelebile nel suo animo e nella sua visione delle cose, dotandolo di uno strumento di introspezione a cui da allora in poi non rinuncerà più (come lui stesso affermerà in una lettera destinata da Vittorio Sereni). Dall'esperienza psicoanalitica nel 31 usciva su Solaria il breve ciclo di poesie intitolato Il piccolo Berto. Saba poi espresse a Montale la sua intenzione di ristampare le vecchie le poesie suddividendole in tre volumi: vol. 1) il Canzoniere (molto ridotto) vol. 2) figure e canti (edizione raddoppiata in confronto alla precedente) vol. 3) l'uomo. Preludio e fughe. Il piccolo Berto. Nel luglio del 33 la casa editrice Treccani stampò Tre composizioni, opuscolo che favorì la temporanea annessione di Saba in chiave ermetica, al triumvirato Cardarelli Ungaretti Montale. Intanto il poeta vagheggiava una ristampa rivista e accresciuta del Canzoniere e la pubblicazione di un libro di aforismi in prosa, intitolata Scorciatoie, che proprio allora aveva cominciato a scrivere. Saba intensificò i rapporti con i circoli romani e fiorentini, affievolendo quelli con i vecchi amici triestini. Questo perché Saba si sentiva sottovalutato dai suoi concittadini, infatti i triestini lo avevano considerato fino a poco tempo prima non più di un libraio antiquario dagli umori difficili e ci vuole la tromba della fama nazionale per sorprenderli nella loro ignoranza (come scrisse Stuparic nel 38). 7. Il periodo della persecuzione e gli ultimi anni Alla promulgazione delle leggi razziali, in virtù del padre di razza ariana Saba riuscì a sottrarsi alle restrizioni più gravi, ma la situazione divenne più difficile. Perciò andò a Parigi nella speranza di trovare un rifugio per sé e per la propria famiglia. A causa dell'ennesima crisi di angoscia ricorse a uno psicoanalista, il dottor Allendy, quiete informazioni sulla possibilità di suicidarsi in modo indolore, in quanto non poteva più sopravvivere in un mondo travolto da così paurose catastrofi. Andata a vuoto il tentativo di trasferirsi nella capitale francese il poeta rientra in Italia e si recò in cerca di appoggio a Roma, dov'è prete a frequentare Ungaretti. Saba venne aiutato a ottenere la discriminazione dall'applicazione delle leggi razziali per sé per la sua famiglia; a tale scopo fu costretto a scrivere un'istanza Mussolini che rivela tutta la prostrazione del suo animo. Il discorso di Saba è servile e mortificante, infatti cercava di farsi forte di aver conosciuto di persona il Duce alla vigilia della grande guerra e di aver collaborato al suo giornale. Inoltre vantava i propri meriti di poeta sperando di indurlo a concedergli quella discriminazione dalle leggi razziali che equivaleva alla salvezza sua e dei suoi cari. Un simile atto di sottomissione è costato al poeta in quanto provava una profonda avversione per Mussolini all'indomani della marcia su Roma. In quel periodo Saba si sentiva ricondotto a forza quelle origini ebraiche dalle quali aveva preso precocemente le distanze, inoltre c'erano in gioco la vita Lina e di Linuccia. Tornato da Roma a Trieste Saba uscì ufficialmente dalla comunità ebraica ma non sia soggetto a farsi battezzare. Nel 39 giunse il provvedimento di discriminazione che fu esteso anche alle due Line. Restavano in atto comunque alcuni divieti tanto che Mondadori Jesi inutilmente a Mussolini il permesso di ristampare il Canzoniere. Nel 1940 pur di non ricevere il battesimo Saba rinunciò formalmente alla proprietà della patente della libreria che venne ceduta al fido commesso Carlo. Nel 1941 Linuccia sposò con rito cattolico e all'insaputa dei genitori Lionello Giorni. La reazione di Saba fu di sdegno e sorpresa sia per essere stato tenuto all'oscuro della cerimonia sia per la scelta del matrimonio cattolico. Dopo l'8 settembre Saba dovette scappare da Trieste per sottrarsi alla persecuzione perché gli sarebbe stato difficile nascondersi e scappare, lui ebreo notissimo in città. Si rifugiò a Firenze e grazie all' aiuto di Bruno Sanguinetti e agli amici letterati, stesse con Lina e Linuccia in ben 11 nascondigli diversi prima della Liberazione della città nell’agosto del 1944. Il penultimo rifugio fu nella casa presa in affitto da Mario Spinella, che cadde nelle mani del famigerato torturatore fascista Mario carità. Il nascondiglio di Saba non fu più sicuro e perciò trovò un nuovo rifugio vicino al Comitato Toscano di Liberazione Nazionale. Nel grande appartamento affacciato su Palazzo Pitti era rifugiato Carlo Levi e tra i due nacque un'amicizia profonda. Montale fece visita ogni giorno a Saba, e lo stesso Saba fece con lui. A seguito della Liberazione l'animo di Saba era provato dai tanti mesi di clandestinità e la neuropatia in breve si fece per lui insopportabile. L'ultimo dell'anno del 44 Saba convinse linea consentirgli di assumere una dose di veleno e a lasciarlo morire nel sonno, poi scrisse una lettera Linuccia per ottenere il suo consenso. Il progetto di suicidio, anche per intervento di Linuccia, rientrò e nel gennaio 1945 il poeta partí da Firenze per arrivare a Roma. Lì il suo umore andò migliorando tanto da fargli apparire quell'anno come il più felice della sua vita. Oltre alla figlia Linuccia e Carlo Levi, ritrovò Debenedetti e frequentò anche Elsa Morante. Nella capitale incontrò Giulio Einaudi che accettò di pubblicare la nuova edizione riviste accresciuta del Canzoniere. Intanto Saba lavorava alle prose di Scorciatoie e raccontini e cominciò a scrivere le prime poesie di Mediterranee. Nell'estate del 45 ritorno a Trieste e poi parti per Milano dove fu ospite di Almansi. Qui dormiva con il figlio Federico, con cui era legato da un aspetto morboso. L'amore provato per il ragazzo rete insostenibili rapporti fra lui e i genitori. Quello con Federico fu un sentimento complesso, fatto di ammirazione da parte del ragazzo, mentre da parte di Saba si trattò di un affetto irrefrenabile e possessivo anche di malcelata gelosia verso la ragazza con cui il giovane si era fidanzato. Il loro affetto divenne presto difficile e combattuto, anche a causa del disagio provato dal ragazzo per il sentirsi plagiato dalla persona di Saba che lo psicanalizzava. Considerando un amore socratico il poeta non aveva scrupoli a parlarne per lettere a moglie e figlia le quali a distanza non si rendevano conto di quanto fosse morboso quell'affetto. Delle implicazioni erotiche Peraltro non faceva mistero una poesia come Angelo di Mediterranee dedicata allo stesso Federico. Nel 1946 il Canzoniere vinse il premio Viareggio ripristinato dopo l'interruzione degli anni di guerra, fu allora che il poeta cominciò a collaborare al Corriere della Sera. Alla fine dell'anno tornò a Trieste e strinse nuove amicizie anche con i giovani impegnati politicamente sul versante azionista ovvero su quello comunista. Saba poi riprese con fatica la professione di libraio antiquario. Nel 1947 il Ministro degli Affari Esteri gli offre una cattedra presso l'Università di San Paolo in Brasile ma Saba Rifiuta. Nello stesso anno Saba portò a conclusione il progetto di storia e cronistoria del canzoniere, abbozzato due anni prima a Firenze, e il libro uscirà la nota per Mondadori. Il poeta maturò una certa avversione nei confronti dei colleghi più celebrati, anche se gli erano stati particolarmente vicini anche nei momenti difficili, come Ungaretti da lui considerato un opportunista e come lo stesso Montale colpevole ai suoi occhi di aver avallato presso i critici l'idea che fosse suo il merito del rinnovamento formale di Saba e del suo approdo a una poetica più moderna. Nel 1948 continuava l'apprensione per la sorte di Trieste dichiarata territorio libero ma di fatto ancora contesa fra Italia e Jugoslavia. In quell'anno Saba pubblicò sul Corriere della Sera il paradossale articolo Se fossi nominato governatore di Trieste, in cui illustrava il provocatorio programma di un ideale concordia fra italiani e slavi (riallacciandosi al finale della propria Caffè tergeste) così da far tornare Trieste a essere la città allegramente nevrotica che era stata. In politica si schierò con il fronte della cultura Popolare, ma nel 48 apprese con sconforto della vittoria alle elezioni della Democrazia Cristiana. Saba, anche a seguito delle sue simpatie per la sinistra espresse in teatro degli artigianelli, veniva spesso accostato al Partito Comunista. In realtà egli era fortemente antifascista e antidemocratico, ma non si sentì mai comunista ne condivise le idee marxiste (infatti scrisse a Linuccia che lui non viene da Karl Marx, ma da Leopardi, da Nietzsche, da Freud e da tutt' altro mondo); infatti dopo che il Fronte della Cultura Popolare perse le elezioni Saba non si identificò più veramente con nessuno ideale politico. L'iniziale ingenuo affetto è stato sostituito nel nativo dialetto, che introduce nel verso una nota realistica perfettamente intonata allo spirito di naturalezza e di semplice verità proprio del Canzoniere. Dal generico e melodrammatico amico mio si è passati al tanto più spontaneo e familiare Umberto, mentre l'astratto e vago senso misterioso è stato sostituito dall’espressione concreta un dolore o un mistero. Gli aulici lavacri sono diventati le tanto più vere e colorite azzurre onde, e il raro aggettivo dilettoso è diventato immaginoso. Infine la forma interrogativa è stata sostituita da una forma esclamativa più colloquiale. Figure retoriche in Glauco Allitterazioni: v.1: Glauco, un fanciullo dalla chioma bionda; v.11: e che da noi, così a un tratto, t’invola; v.14: a me il mio tempo, allegro e immaginoso; Enjambements: vv. 3-4; 5-6; 8-9; 10-11; 12-13; 13-14; Metafore: v. 9: le “azzurre onde” del mare rappresentano il flusso gioioso della vita giovanile Metonimia:v. 1: “chioma bionda” e v. 2 “bel vestito da marinaretto”, v. 3: “occhio sereno”, vv. 3-4: “gioconda/voce”; Glauco viene descritto attraverso dettagli in rilievo che lo distinguono dagli altri giovani, secondo un procedimento verbale che ricorda il cosiddetto “accusativo alla greca” (si ricordino i celebri esempi omerici “Achille piè veloce”, “Andromaca braccio bianco” etc.); Allocuzione: v. 5 “Umberto”; Iperbato: vv. 6-7: “e par nasconda/ un dolore o un mistero ogni tuo detto”; v.9: “che in sue azzurre onde c’invita”; vv. 10-11: “Qual è il pensiero che non dici, ascoso,/ e che da noi, così a un tratto, t’invola?”; Paronomasia: vv. 4-5: ”dialetto” – “diletto”; Assonanze v. 5: “Umberto” – “diletto”; v. 14: “tempo”- “allegro”; Il testo poetico Glauco di Umberto Saba fa parte delle prime Poesie dell’adolescenza e giovanili, composte tra il 1900 e il 1903. In queste prime prove poetiche si avverte la volontà da parte dell’autore di inserirsi all’interno della tradizione italiana senza rinunciare alla “semplicità” di un’ispirazione autentica. Nella raccolta pubblicata nel ’21 si dispiegano infatti i principali nuclei poetici che caratterizzeranno anche in futuro la lirica sabiana: i lacerti di vissuto autobiografico, le figure archetipiche dell’infanzia e dell’adolescenza, la purezza di un sentito amore per la vita che convive con la consapevolezza dei propri tormenti psichici. L’impalcatura classicheggiante dei componimenti accoglie dunque l’“onestà”¹ di una parola che, sin dagli albori, ha tentato di scandagliare le verità profonde dell’essere umano. In Glauco Saba opta per l’utilizzo di una forma metrica tradizionale, quella del sonetto in endecasillabi costituito da due quartine a rima alternata (ABAB ABAB) e due terzine a rima incrociata (CDE CED). La prima quartina si apre con la presentazione del giovane Glauco attraverso una serie di tratti distintivi, la “chioma bionda” al v. 1, il “bel vestito da marinaretto” al v.2, l’”occhio sereno” e la “gioconda voce”. Il nome dell’amico evoca una pluralità di figure mitologiche, fra le quali ricordiamo la divinità marina di cui narra Ovidio nelle Metamorfosi², in origine un pescatore della Beozia che acquisì l’immortalità dopo aver mangiato un’erba miracolosa, ma che fu destinato tuttavia a invecchiare. Nell’Iliade³ Glauco è invece il combattente alleato dei Troiani che tentò di strappare le armi al cadavere di Achille, gesto che gli costò a sua volta la vita; nella Biblioteca di Apollodoro⁴ e nelle Favole di Igino⁵ Glauco è inoltre il figlio di Minosse, morto quando era ancora bambino e risuscitato da Polido. Nella mitologia classica il personaggio di Glauco è insomma associato, attraverso una serie di variazioni, sia all’elemento marino (fluido, magico, in movimento), sia a un rapporto perturbante fra la vita e la morte. Il giovane amico di Saba, con la sua bellezza tutta terrena e con l’ingenuità tipica di quegli anni, chiama a sé l’autore con l’allocuzione iniziale della seconda quartina – che crea pertanto una simmetria con la prima – e gli chiede conto della sua separazione dagli altri compagni. L’io lirico risulta infatti estraneo al “diletto” che dovrebbe accomunare le vite di tutti i ragazzi, e questa sua estraneità è dovuta a “un dolore o un mistero” che sembra celarsi dietro ogni sua frase o comportamento. Da questo punto in poi è evidente la forte ascendenza leopardiana che si propaga lungo la lirica: è da Leopardi che Saba prende in prestito la tematica della gioventù come epoca dell’immaginazione e dell’ingenuità, così come il contrasto fra le «favole antiche» del passato e l’«arido vero» del tempo presente, ma anche l’ineludibile separazione fra il poeta e il resto del consorzio umano, sin dall’età giovanile. Nelle due terzine, mentre Glauco invita il giovane Saba a seguirlo fra le “azzurre onde” del mare (metafora del flusso vitale e della spensieratezza gioiosa), la radicale distanza dell’autore è tratteggiata attraverso un lessico sempre più marcatamente leopardiano: “pensiero”, “ascoso”, “dolce”, fino all’ultimo verso, nel quale lo stesso Glauco si dimostra cosciente della fugacità del tempo, sebbene il suo presente di fanciullo riesca ad essere “allegro e immaginoso”⁶. L’invito di Glauco e, di contro, la condizione tormentata dell’io lirico, sono entrambe costruite linguisticamente intorno a un “non detto” che percorre il testo: c’è una reticenza di fondo che induce l’autore ad allontanarsi dai compagni e l’amico a incalzare con un’interrogazione infinita (la sua domanda occupa infatti la seconda quartina e le due terzine), mentre adombra il presentimento che non riceverà risposta. Saba si era dedicato sin dagli anni giovanili allo studio di Freud e della psicoanalisi, ed è proprio Freud a parlare delle reticenze e a descrivere l’improvviso affiorare dei pensieri inconsci nei gesti della vita quotidiana. In questo caso il pensiero occultato dell’io lirico è di natura duplice: emergono dal testo sia l’ossessione del tempo e della morte sia il delinearsi di un potenziale rapporto omoerotico fra il soggetto e il giovane amico, in quel periodo storico inevitabilmente soggetto a discriminazione e repressione. Nell’analisi del testo di Glauco abbiamo dunque rinvenuto elementi metrici, linguistici e stilistici di matrice chiaramente classica e tradizionale, ma i contenuti veicolati dall’autore si rivelano decisamente attuali e «contemporanei», avendo origine da uno scavo profondo negli abissi dell’io e da una coscienza mai conciliata del proprio tormento, di uomo e di poeta. Saba nella maturità aveva acquisito piena consapevolezza del suo stile giovanile caratterizzato da una sintassi interiore e da giri di frase di ascendenza letteraria. Quello che lo divise dai crepuscolari fu l’appassionato impegno col quale si pose di fronte alla vita e all'arte, senza nessun tentativo di evadere né attraverso l'amplificazione né attraverso l'ironia. Le scelte metriche del primo Saba muovono dalla linea post-risorgimentale, infatti si tratta di un Corpus metrico tardo ottocentesco o tardo romantico, culturalmente anteriore alle inquietudini tecniche di molti lirici. I contemporanei di Saba si rifanno soprattutto a Pascoli a D'Annunzio, invece lui, nonostante vari calchi da quei due, è immerso in quella tradizione caratterizzata da Leopardi, Parini, Metastasio e Petrarca. Leopardi e Petrarca erano la base su cui si sviluppava la poesia sabiana, ma erano un Leopardi e un Petrarca, fortemente introiettati e fatti propri. Petrarca si ritrova nel sonetto “Nella sera della domenica di Pasqua" poiché Saba scrive “Solo e pensoso dalla spiaggia i lenti/ passi rivolgo alla casa lontana” che riformula l'attacco di un celebre sonetto petrarchesco “solo e pensoso i più deserti Campi/ vo mesurando a passi tardi e lenti”. Saba si avvaleva in maniera spontanea delle parole dei poeti che gli erano più cari quasi che la loro voce fosse tutt'uno con la sua. Nella tematica della poesia sabiana molto incide lo spirito dell'epoca: e dunque solitudine, malinconia, diversità ed estraneità rispetto alla folla, meditazione del tempo, amore frustrato, amicizia di pochi su cui si apre il cuore, sintonia con la bellezza del paesaggio. Tali temi lasciano filtrare i primi elementi di originalità che rimarranno in dote alla poesia del Saba maturo. Nell' arretratezza culturale di Trieste e del suo poeta c'era il vantaggio di recepire la poetica verista in ritardo e perciò come fosse stata una recente novità, infatti in Il borgo del 1905 tra le colline punteggiate di tetti e il golfo solcato da navi si incunea la visione delle fabbriche e della vita operaia. Il tema della nutrice, molto presente e molto sentito, aveva invece una matrice dannunziana dichiarata più tardi nell'episodio di Ernesto. Ernesto era la proiezione romanzesca del Saba adolescente che conosce a memoria Alla nutrice di D'Annunzio, che come molti della sua generazione ama quel poeta, e perché il tema gli è congeniale visto l'affetto che continua a provare per la sua balia. La casa della mia nutrice sopravviverà fino al canzoniere definitivo. Il ripristino delle poesie dell'adolescenza equivalenze per Saba il tentativo di lasciare emergere le origini della propria poesia e della propria autobiografia in versi. Nell'ultima edizione del canzoniere i componimenti riguardanti la fase adolescenziale caleranno a 16. Il progetto di un recupero dei propri scritti giovanili aveva tratti di modernità in quanto antidannunziani e antiavanguardistici, ma è proprio dal punto di vista dei contenuti che sabbia sembra intercettare la poetica novecentesca. In questo senso è utile fermare l'attenzione su Ammonizione. Per certi aspetti, come i versi tronchi, sembra di leggere l'ultimo poeta dell'800. Nel dialogo con la nuvola possiamo ritrovare quello con la luna di Leopardi nel Canto notturno: basterebbe l'incipit “che fai tu” a dichiararlo. Il verso “cui suonan liete le ore” ricorda la “stagion lieta” del “garzoncello scherzoso” nel finale del Sabato del villaggio. Anche l'immagine della nuvoletta che si dilegua ricorda il Leopardi di Sopra un bassorilievo sepolcrale. Lo spunto leopardiano era però rivisitato in maniera originale già nell'ambientazione aurorale anziché notturna e soprattutto nella chiave interpretativa del dissolversi della nuvola: presagio del disfarsi della vita umana. Il poeta stesso in storia e cronistoria ha avvertito: “questo motivo della nuvoletta, che appare e dispare, affiorerà nel Canzoniere, quasi un simbolo della bellezza e della dolcezza di vivere, congiunte alla fatalità della morte”. L'immagine tornerà nel frammento autobiografico in prosa intitolato Iddio, dove quest'ultimo, dietro ad una nuvola bianca che si andava assottigliandosi, spiava Saba per distruggere la sua felicità. Quel Dio che lo spiava dietro la nuvola bianca è un ricordo dell'infanzia (la sua amata nutrice) e la nuvola bianca una porta socchiusa. Saba quindi attribuisce una potenza evocativa all'immagine della nuvola che si dilata e si sfalda nel cielo. Pure espressa in uno stile connotato in direzione leopardiana e più in generale ottocentesca, tale simbologia intercettava ormai pienamente la poetica novecentesca. La poesia giovanile di Saba risente molto della psicanalisi, infatti quel Dio nascosto dietro le nuvole potrebbe rappresentare un minaccioso Superego. Infine Saba in Storia e Cronistoria del Canzoniere ci dirà che il bel nuvolo rosato rappresenta l'Aurora e nel suo dileguarsi ricorda al giovane che dovrà subire un giorno la stessa sorte. 3. Dai versi militari ai versi familiari Saba nei quattro mesi trascorsi a Salerno conobbe la vera umanità rappresentata dai soldati (me stesso ritrovai fra i miei soldati, come disse nel sonetto dell'Autobiografia). I valori della spontaneità e della reciproca solidarietà allora sperimentati sorsero nell'animo di Saba, facendogli abbandonare uno stile manierato e falso identificato con la moda dannunziana. Nei versi militari mette in scena delle figurine di soldati che ritrae con affetto e benevolenza sempre sentendoli fratelli e guarda la vita militare con un occhio verista. Nella Prigione, Saba trova un efficace soluzione alla tensione del sonetto nel paragone fra sé in cella di punizione insieme ai suoi compagni e Cristo sulla croce fra i due ladroni. In Cortile, il quadretto è giocoso e gioioso nel sentimento della condivisione di una medesima sorte. I due giovani soldati che coinvolgono il poeta nei loro scherzi e nella parodia della vita militare riescono a muoverlo a un sorriso, significativo della sua benevola partecipazione alla loro ingenuità. L'immersione nella realtà si accompagna a un irrobustirsi dell'espressione poetica grazie anche a una serie di ben amalgamati prestiti danteschi. Saba struttura il testo in tre momenti e ciò si sovrappone alla naturale scansione quadripartita delle strofe, come si osserva in Marcia notturna. alla chiusa di carattere sentenzioso sul rincantucciarsi in solitudine del poeta meditabondo che in qualche modo aggiorna il mito di Bellerofonte. Non solo al paesaggio urbano si volgeva l'animo di Saba come subito ci avverte la poesia Il torrente ambientata (così come già Il borgo) nel sobborgo di Roiano. Saba si appropriava con originalità di un tema diffuso in quegli anni, a partire da “Il fiume” delle pascoliane Myricae e specie in poeti giuliani che si ispiravano ai corsi d'acqua del Carso. Non è escluso che Saba sia tornato con la memoria al testo di Picciola (A un fiume alpino) concludendo il proprio con un analogo paragone pronunciato da sua madre durante una passeggiata. (In Picciola: “e noi seguitammo, o bel fiume, ad andare, tu verso il tuo cerulo mare, io verso il mio tacito porto”). Il monito che l'acqua in fuga lanciava per bocca della madre altera il poeta fanciullo era lo stesso memento mori proposto dalla nuvola che si sfalda in Ammonizione. La natura diviene il correlativo oggettivo dell'angoscia esistenziale, ma il canto si volge anche al paesaggio urbano vero e proprio e alla varia umanità che lo anima. È il caso di Tre vie, la poesia centrale di Trieste e una donna. In questa poesia vi è l'identificazione tra il soggetto poetico è la sua città mediante la scelta di tre vie emblematiche: Via del Lazzaretto Vecchio, a ridosso del lungomare dove si aprono i magazzini portuali e scontano la pena del vivere le cucitrici di cui Lina era collega( dunque anch'essa legata al frustrato amore coniugale); via del Monte, teatro della felicità a casa della balia e sede del cimitero ebraico che ricoverava le spoglie degli antenati; e via Rossetti, dove Lina abitava prima di sposarsi e che aveva visto nascere il loro amore. Il triplice itinerario si conclude su una scena che ricorda quella del primo incontro con Lina alla finestra e dà voce all'auspicio che lei possa tornare ad amare solo lui e che il poeta, amante e figlio al tempo stesso della propria donna, la salute dell'animo. Città vecchia, al pari di Trieste, è intessuto sul motivo della passeggiata, ma stavolta non verso il suburbio poco popolato bensì attraverso il quartiere più affollato. Ciò dà modo al realismo del poeta di registrare la presenza di qualche esercizio commerciale contenta la sua indole verista di esprimere una sorta di religione della travagliata vita degli umili. Nel finale addirittura egli accoglie un'idea di infinito antitetica a quella del suo Leopardi, cioè non metafisica anzi catartica per la contemplazione della calda umanità addensatesi nel dedalo di stradine dell'Antico ghetto. Data la presenza, nella raccolta, della Carmen di Bizet si potrà quindi ipotizzare una suggestione della scena iniziale del primo atto il quale si apre su una piazza gremita di gente che viene e che va. La città affollata è per Saba il luogo della multiforme umanità da cui estraniarsi in omaggio alla propria diversità oppure, a seconda del momento, in cui calarsi e immedesimarsi per illudersi di essere come ogni altro essere umano. Nei testi riuniti sotto il titolo Nuovi versi alla Lina si ha la vera e propria cronaca poetica della crisi amorosa nelle sue varie fasi e del ricongiungimento, in pezzi di diversa lunghezza e di diverso metro, tutti accomunati dalla Scansione in tre tempi e tutti ancora improntati a una tonalità melodrammatica. Dalle parole di Fano sappiamo che fu l'amico a suggerire a Saba di sfogare il suo dolore in versi. In effetti il poeta con Nuovi Versi alla Lina vuole costruire una serie di 15 brevi testi d'amore che compongono un romanzetto nel romanzetto, una suite che è come il cuore pulsante di Trieste e una donna. 5. La Serena Disperazione Lo stimolo che Saba scelse per il titolo di questa sezione del Canzoniere allude ad uno sconforto senza pathos interrotto dai rari momenti di grazia dalla poesia. Il nuovo scenario dei componenti è quello di Bologna che con i suoi colli richiama il paesaggio della natia Trieste. Anche per questo il poeta era portato a tornare con la memoria a luoghi e situazioni della sua città come in Caffè tergeste. Questa poesia ci restituisce un quadretto di vita cittadina che richiama alcune atmosfere di Trieste e una donna ma con un disincanto e con un agnosticismo per cui il vivere è sentito quale sofferenza priva di compenso, salvo poi vedere ricomporsi ogni conflitto anche razziale sopra il panno verde del biliardo. In Storia e Cronistoria Saba dichiarava che la poesia centrale di questa serie è Guido dedicato a un falegname bolognese adolescente che aveva fatto piccoli lavori nella casa del poeta. Vi si coglieva ancora una volta la poetica sabiana dei fanciulli inaugurata a suo tempo da Glauco e sentita con forza in questo periodo in relazione al lavoro minorile (come anche nel garzone con la carriola). In particolare Saba esaltava la semplicità e l'ingenuità del ragazzo inurbatosi dalla campagna Bolognese. Il testo riflette meglio di altri quell'elemento nostalgico che pervade la Serena disperazione. La giovinezza è un rimpianto tanto grande che in Storia e Cronistoria Saba afferma che la sua giovinezza è ormai morta e sepolta nonostante lui al tempo avesse solo trent’ anni. Questo perché il rimpianto non va alla giovinezza, ma alle ultime propaggini dell'infanzia e dell'adolescenza, a quel mattino della vita che il giovane sente disperatamente lontano. Il tema dominante era l'infanzia perduta e in Storia e Cronistoria, Saba avrebbe collegato questa sensazione anche al clima di disfacimento morale che pervade alla vigilia della Grande Guerra in cui tutti gli uomini apparivano ed erano depressi. Grande rilievo nel profilo della Serena disperazione hanno tre poesie collegate fra loro: Veduta di collina, La greggia e Il patriarca. Saba stesso in Storia e Cronistoria del Canzoniere le definisce un trittico che è accomunato a Dopo la giovinezza, infatti anche lì abbiamo tre pezzi costituiti da sette distici di endecasillabi a rima baciata. In Storia e Cronistoria l'autore rievoca così la genesi comune alle tre poesie: " seduto alla finestra della sua casa il poeta guarda una collina di faccia, dove un frammento di vetro brilla e si accende a tutto il sole e dietro al quale si vede l'occhio di Dio, l'infinito". La finestra era un osservatorio privilegiato del poeta già in liriche giovanili come A una stella (io seggo alla finestra) o Meditazione. Non a caso sulla copertina dell'edizione del Canzoniere stampato da Einaudi nel 1945 ci sarà l'immagine di un violino appoggiato proprio sul davanzale di una finestra. E la finestra era il luogo simbolico della creazione poetica. Franco Fortini, ragionando in margine a una poesia di Brecht, individua nel guardare dalla finestra una situazione emblematica della poesia contemporanea, in cui si evidenzia il senso di esclusione provato dal poeta. Ciò vale anche per Saba, che sul piano delle ascendenze poetiche avrà avuto certo presente anche la postazione iniziale di una delle canzoni più celebri di Petrarca: " standomi un giorno solo a la finestra". Il trittico in questione risale al 1913 e quindi il panorama a cui si riferisce il poeta è quello antistante l'abitazione Bolognese. Se guardare attraverso la finestra è metafora dell'atto poetico, la collina di fronte, coi suoi vigneti e i suoi agricoltori, ne è l'oggetto privilegiato e rappresenta un microcosmo di vita attiva. Così alla situazione poetica si legava l'immagine del riflesso del sole sui vetri delle finestre altrui, emblematica del pulsare della calda vita. La prima lirica (Veduta di collina) del trittico bolognese si pone come il testo più rappresentativo del pessimismo del periodo. I modelli a cui si rifà Saba andranno ricercati nella tradizione lirica tardo ottocentesca. L'immagine finale trova riscontro nell'onirica avventura di "Alla guerra in sogno". Qui Saba immagina di sognare di indossare l'uniforme dell'esercito piemontese in una mattina del 1848 o 1849 e di avvistare un isolato nemico in marcia, ignaro del pericolo, lungo la strada sottostante l'avamposto sabaudo in cui si trova il poeta. Di fronte “poche mucche bianche e nere aggiogate sul ciglio dell' altura, pascolavano laddove le nubi scostandosi lasciavano vedere una specie di azzurro occhio di Dio”. Il poeta in divisa di soldato potrebbe colpire il nemico ma divaga e l'occasione sfuma. Nel racconto dunque l'occhio di Dio ha tutta l'aria di alludere al controllo esercitato da un ente superiore affinché il delitto non si compia. Oltre all'affinità situazionale e al parallelo dell' immagine dell'occhio di Dio ritorna identico, nel racconto come nella lirica, il sintagma “sul ciglio dell' altura” indizio ulteriore di un' aspirazione comune a entrambi. Edoardo Weiss, in un suo manoscritto, ci dice che la presenza psichica del padre può anche esprimersi attraverso la sensazione dell'onnivegente occhio di Dio. Per Saba quell'occhio a cui niente sfugge delle nostre azioni o dei nostri pensieri non può che indurre a spaventarsi per un eventuale castigo, come faranno il più tardo frammento in prosa intitolato Iddio “l'aprirsi di uno squarcio di cielo fra le nuvole” che simboleggia il controllo della balia. L'immagine quindi si riferisce al rapporto fra individuo e cosmo, coinvolgendo la concezione del Divino propria di un agnostico come Saba. In Serena disperazione Saba è influenzato sia da Leopardi che dalla lettura di Sesso e carattere di Weininger, infatti lui stesso affermerà che si è servito di lui per tormentare Lina quando scriveva la Serena disperazione a Bologna. Prima e dopo il tradimento di Lina c’è stato il tentativo di prendere le distanze dalla morale della famiglia materna, portatrice di un modo di essere che non era il suo. La Serena disperazione è influenzata dall'infelicità, dalla nevrosi, dal senso di frustrazione e di rassegnazione di Saba in quel periodo. Occorre domandarsi poi quanto abbia inciso sulla contrapposizione tra il proprio occhio e quello divino sulla scena di Veduta da collina l'avversione maturata contro il Dio della famiglia materna e della tradizione biblica. Weininger nel capitolo XIII di Sesso e Carattere aveva scritto: “la sua relazione con Jeovah, l'idolo astratto, dinanzi a cui egli prova il timore dello schiavo, il cui nome egli non osa neppure pronunciare, caratterizza l’ebreo analogamente alla donna, dichiarando che ha bisogno di un dominio altrui sopra sé stesso”. Nietzsche e Weininger si incontravano sul terreno del peculiare antisemitismo semita di Saba, dando luogo all'idea di infinito, tutta negativa e avversa, fissatasi nell'immagine conclusiva di Veduta di collina. C'è da chiedersi allora se l'occhio di Dio apertosi fra le nubi non alludesse, anziché alla presenza psichica del padre, che per Saba era piuttosto un’assenza, a quella potenzialmente castrante della madre e dell'ambiente ebraico. Rispetto al loro Dio padrone che non perde mai di vista i propri fedeli, il poeta già in gioventù aveva sviluppato una concezione antitetica: “io credo in un Dio immanente, ovvero in un Dio che si invera nella natura, in noi stessi”. Nel 1928 scrivendo l'Uomo si riaffaccerà in lui un'immagine affine a quella della chiusa di Veduta di collina, con connotazione religiosa e punitiva: “dentro una nube muove il Dio che castiga”. Per quanto riguarda il carattere annichilente del culto in Sinagoga, Saba lo paragona alla pienezza di vita della religione greca antica: “vecchi schiacciati a terra dal senso di colpa, vociferanti in coro preghiere all'Altissimo in una lingua morta che nessuno di loro capisce; avrò ragione di amare quel ragazzo e di odiare quei vecchi”. In Veduta di collina la valenza autoritaria e inibitoria dell'occhio di Dio veniva peraltro a complicarsi per l'accostamento con l'idea dell'Infinito di Leopardiana memoria per cui basterebbe sottolineare, nell'incipit, il calco erma collina. La stessa situazione imita quella tratteggiata da Leopardi nell'Infinito, anche se la prospettiva risulta qui ribaltata nei confronti di quella leopardiana: lo sguardo del poeta procede verso l'altura e non dalla sommità del colle verso il piano. La funzione svolta nel celebre idillio della siepe è assegnata alla collina medesima che viene a escludere dallo sguardo di Saba tanta parte del perduto orizzonte. Solo che, se Leopardi superava idealmente l'ostacolo giungendo a contemplare nell'immaginazione l'immensa armonia della natura, egli risolveva invece la tensione della lirica scorgendo l'infinito in un lembo di cielo che dietro la sagoma del colle le nubi lasciavano intravedere; e questa specie di occhio di Dio tradiva l'incombere di ignote forze che presiedevano all'infelicità di chi la osservava. La collina acquisiva così il senso di protezione da un aldilà ostile e minaccioso, tutt'altro da quello leopardiano che pure i versi intendevano evocare. L'idea di un infinito antagonistico era estrania a Saba nella giovanile Città vecchia dove il poeta ritrovava l'infinito nell'umiltà. La formulazione del finale può essere una reminescenza di un brano di D'Annunzio del Poema paradisiaco dove egli usa la seguente terzina: “Voglio un letto di porpora, e trovare in quell'ombra giacendo su quel seno, come in fondo a un Sepolcro, l'Infinito”. 6. Amori leggeri e vaganti Il primo sonetto si apre con un distico, versi secchi in cui Saba rievoca una giovinezza infelice, a questo si accompagna il distico della terza strofa, dove si ha un assillo del fatto che egli non venne riconosciuto. Nel secondo sonetto ricorda la sua nascita e nel terzo (il più importante) parla del padre. Nel decimo sonetto Saba fa riferimento a due intellettuali: D’Annunzio e Papini. La “Voce” rifiutò di pubblicare il saggio di Saba “quello che resta da fare ai poeti” che venne pubblicato solo dopo la sua morte nel 1959. Nel saggio, che possiamo considerare come un manifesto della poetica di Saba, il poeta invitata gli intellettuali a fare una poesia onesta. A questo scopo contrappone onestà e disonestà, poesia sobria e ubbriaca; quindi il raffronto è tra due uomini nostri che meglio si prestano a dare un esempio di quello che intende per onestà e disonestà intellettuale: D’Annunzio con il secondo libro delle laudi (Elettra) e Manzoni con gli Inni Sacri. Questo articolo antidannunziano, del poeta vate, indovino e profeta, caratterizzato da una dimensione sacerdotale, viene rifiutato dalla Voce e per questo dice di non piacergli e di sentirsi di un’altra specie. 3.Prigioni e fanciulle Per la raccolta I Prigioni, Saba prese spunto dai personaggi storico mitologici o da persone reali. I titoli sono volti a cogliere le peculiarità del carattere di ogni singolo personaggio rappresentato: ▪ il violento è Giulio II, ▪ l'ispirato è Michelangelo, ▪ il melanconico alla sua matrice nella psicologia di Petrarca, ▪ l'eroe, l'amico e l'amante si rifanno a figure della tragedia greca come Oreste, Pilade e Ippolito rivisitate con sensibilità ottocentesca. Di essi non è da escludere vi sia anche una qualche proiezione di sè stesso: almeno nel matricida Oreste. Saba definisce le sue prigioni come un'opera fuori dal vero, o alla quale il vero non ha dato che il primo pretesto. Saba tiene al carattere universale di questi tipi umani e, nello svelare i riferimenti cui i testi s'ispirano, aveva paura di snaturare o diminuire l'effetto artistico dei Prigioni dal momento che il lettore può formarsi una idea preconcetta invece di lasciarsi prendere per mano e trasportare dalla poesia. Accanto a modelli lontani nel tempo, in qualche caso lo spunto era stato fornito da persone in carne ed ossa. Giorgio Fano gli aveva ispirato l'appassionato. Saba sbagliava a pensare che l'identità del referente reale fosse qualcosa di accessorio e di superfluo per la comprensione del testo, perché rivela un implicito intento ritrattistica. Per la forma della corona i 15 sonetti i prigioni si ricollegano all' Autobiografia, mentre la concezione della serie li accomuna alle Fanciulle. Quello della fanciulla era uno dei temi prediletti da Saba, che rimontava a poesie lontane: almeno alla splendida la fanciulla dal bel volto come un polposo frutto di Trieste una donna. La serie del 23 presenta una galleria di ritratti di ragazze colte nei loro caratteri essenziali, realizzati in 12 poesie legate da uno schema metrico fisso, infatti ogni poesia si compone di quattro strofette, ogni strofetta di quattro versi, il primo e l'ultimo sono endecasillabi, settenari a rime baciate i due interni. Il numero 12 della serie potrebbe richiamare i 12 Sonetti di D'Annunzio su altrettante figure femminili intitolato le adultere, rispetto al quale le fanciulle sabiane fanno da contraltare. Nei sonetti dannunziani sfilavano donne del mito, della storia e della letteratura, ostentando i tormenti del loro spirito e della loro carne; qui i pezzi del mosaico sono giocati su una tonalità a tratti stilnovistica in modo da far risaltare la grazia dei soggetti ritratti e della femminilità non ancora matura. Quando Saba inserisce nel 1944 questa raccolta nel canzoniere definitivo sono passati ormai 20 anni da quando aveva scritto questi sonetti. Due fanciulle si erano uccise per amore, una fu catturata dai tedeschi e morì in una camera a gas, altre dovevano lottare con la vita e le crescenti difficoltà della vita, le più fortunate erano diventate delle madri e vivevano per allevare i loro figli. Malvina Frankel, cugina di Lina, fu per breve tempo La commessa della libreria di Saba. Malvina era poco avvenente e sensibilissima, morì suicida. Anche la sorella di lei, Rita, si uccise per amore. Una fanciulla nominata potrebbe essere Lina, la figlia di Linuccia, a cui si addicono oltre all'età anche la razza ebraica e il pallone esibiti nella strofetta iniziale. La terza fanciulla infine era Anna Curiel, la donna che amava Giorgio Fano. 4.Figure e canti e la formazione di Cuor Morituro Nel 1926 la pubblicazione di Figure e canti rivelò un Saba nuovo, più ricercato o più composto; per alcuni semplicemente più moderno. Lo stesso Saba avvertiva lo stacco riordinando tutte le proprie poesie nella seconda redazione del Canzoniere pubblicata nel 1945 che avrebbe fatto cominciare il secondo volume della raccolta con le sezioni che avevano formato Figure e canti. Figure e canti rende evidente l'inadeguatezza del confronto tra Saba e i crepuscolari. Figure e canti era un titolo caratterizzante che negli anni Trenta Saba avrebbe pensato di trasferire al volume in cui desiderava riunire integralmente le sue poesie, infatti in Storia e cronistoria del Canzoniere avrebbe detto che Figure e canti sarebbe stato il titolo più appropriato al complesso della sua opera. Il cambiamento di stile in Cuor morituro è dato dalla crisi evolutiva che il poeta stava vivendo. Cuor morituro è per Saba la stagione di un lieve rinnovamento formale e, leggendo queste poesie, si avverte che qualcosa di nuovo gli deve essere accaduto. In Cuor morituro poi la parola è più valorizzata. In questo periodo Saba lesse attentamente Ungaretti col quale fu in corrispondenza. Saba s'ispirò alla tecnica secca ed incisiva di Ungaretti, infatti leggerà il porto sepolto nel 1925. Cuor morituro si prestava anche allo stoccaggio dei componimenti nati come poesie sciolte oppure come parte di un ciclo abortito: è il caso del Sonetto di paradiso il quale negli intenti di Saba avrebbe dovuto essere il primo di una nuova serie di 15 sonetti intitolata Il Paradiso. Tra i materiali bisogna riconoscere la presenza di alcuni testi fra i più importanti di questa fase della poesia sabina, a cominciare dalla Vetrina, in cui il poeta proponeva una situazione affine a quella delle ricordanze leopardiane. A letto malato, egli vaga con la memoria, dalla visione delle stoviglie inglesi di porcellana dipinta appartenute agli avi materni, conservate nella vetrina che gli sta davanti. L'io giunge alla contemplazione del divino milleottocento e il finale tragico è modulato sul desiderio di morte in termini leopardiani. In La brama, un altro componimento di questa sezione, s’individua nella pulsione erotica il movente fondamentale di ogni esperienza umana, compresa quella creativa. Il bilancio positivo riservato a cuor morituro in storia e cronistoria è motivato con l'ampio arco di tempo in cui essa si consolidò: abbraccia circa dieci anni della vita del poeta. Si trattava della sezione più tormentata e la cui elaborazione aveva richiesto un enorme quantità di modifiche. 5.Il poemetto: l’Uomo Saba vuole tentare l'esperimento del poemetto, utilizzando un altro metro. In Storia e cronistoria dichiara l'intento della scelta formale: le strofe più lunghe sono di carattere narrativo, è in esse che si addensano i fatti che accompagnano la vita dell'uomo; le brevi sono prevalentemente liriche e hanno la funzione del coro nelle tragedie greche. L'alternarsi del metro era funzionale al succedersi di momenti di distensione narrativa e di tonalità più propriamente lirica. Il poeta mirava a compendiare la storia naturale ed esistenziale dell'essere umano dalla nascita fino alla morte e perciò intitolò il testo l'Uomo. Esso sa quindi poco di autobiografico. L'autore stesso in Storia e cronistoria ha dichiarato che ha volutamente creato una figura paterna, che mancò nella sua infanzia e di cui egli ebbe sempre nostalgia. Il focus posto sul corso di una vita convenzionale ideale ha finito per spersonalizzare il poemetto, infatti il suo personaggio è un popolano, un lavoratore che impersona la media dei lavoratori in una città di traffici ed industrie. La vicenda si svolge con il susseguirsi di vicende tipiche: il momento in cui l'uomo vive le proprie esuberanze adolescenziali, quello in cui si mette a lavorare, e poi quando si sposa e via di seguito fino alla vecchiaia e la morte. L'elemento melodrammatico si sposa bene con l'alternanza metrica e con il soggetto idealizzato della vita di un individuo scelto quale specchio della condizione umana: “simbolo lirico del destino di tutti”. Il poemetto è la dimostrazione della tensione del poeta durante gli anni Venti verso un organismo poetico che superasse la poesia breve. Saba vuole sottolineare l'eroismo dell'essere umano che lotta e soffre i drammi della vita con la prospettiva annunciato del naufragio finale. 6.Preludio e fughe Alla fine degli anni Venti Saba si scopriva sempre di più attratto da nuovi esperimenti: il punto più avanzato di questa propensione fu Preludio e fughe. L'aspirazione a una poesia che si ispirasse alle forme musicali aveva preso corpo già nel 1923 con Preludio e canzonette, ma il titolo stesso diceva che si trattava di poesia cantabile piuttosto che di vera e propria ambizione di fare della musica in versi. In Storia e cronistoria del canzoniere il poeta indica il sottile rapporto fra la nuova serie musicale e la sua aspirazione tardo adolescenziale di fare il violinista. Un giorno Saba decise di suonare il violino sul piano e ciò consenti un'analisi dei testi musicali per adattarli dal violino al piano. Questo studio ha fatto sì che Saba riuscisse a suonare Bach non sul violino né sul piano, ma in parole. L'importanza e il fascino di Preludio e fughe stanno soprattutto nel sovrapporsi di istanze psicoanalitiche all'aspirazione di far musica in parole. In Storia e cronistoria il poeta spiegava che la tipologia delle voci che si rincorrono l'una con l'altra, secondo il genere musicale della fuga, esprimevano aspetti diversi della personalità come in gara fra di loro: distinte graficamente da tondo e corsivo, “una voce lieta ed una malinconica, una ottimista e l'altra pessimista di fronte alla vita, si scambiano le parti e penetrano una nell'altra”. Si trattava insomma di ricomporre nella musica verbale un io diviso. Analogo principio regola lo svolgimento delle altre fughe a parte la sesta, che è invece a 3 voci, poiché la dodicesima, come afferma Saba stesso in Storia e cronistoria, suggerisce che esse si possono semplificare e ridurre in due, dal momento che quella dell'Eco e quella dell'ombra sono in realtà una sola. Saba ebbe l'ispirazione per la sesta fuga quando un giorno vide una fanciulla molto giovane amante di sè stessa che sedeva davanti ad uno specchio. Vicino a lei c'erano due amici: Il primo era un giovane fatto(estroverso), il secondo poco più che adolescente (introverso). Entrambi parlavano d'amore, facendole la corte, e la fanciulla assente li ascoltava. La poesia era nata dal ricordo di questa scena di corteggiamento nei confronti di Linuccia da parte di due giovani. Anche il canto a tre voci viene a ricomporre nella polifonia una personalità che intende essere soprattutto quella del suo autore, un Io scisso ricomponibile solo grazie alla poesia. Inedita era la rifunzionalizzazione dello schema dialogico per ricomporre un dissidio interiore, in cui il poeta metteva a frutto la sua costitutiva predisposizione ad accogliere istanze psicoanalitiche. Un testo di tale intimità ospita echi dell'avversione al fascismo allora imperante. In Storia e cronistoria il poeta avrebbe rivelato che i versi “Là uccisor non v'è, né ucciso, e non torbida demenza” celavano un velato accenno al delitto Matteotti. L'ucciso era Matteotti, l'uccisore Dumini, e torbida demenza il fascismo. Analoga allusione alla situazione politica era nel Primo congedo. In Storia e cronistoria Saba dichiara che Preludio e Fughe rappresentano il tentativo di rifugiarsi in sé stesso per sfuggire alla tetraggine di una realtà dominata dal regime. Saba stesso afferma che senza il fascismo non avrebbe scritto queste poesie. Il poeta si rifugio più che mai in sè stesso tappandosi le orecchie per non udire le voci degli altoparlanti e ascoltando invece altre voci che si combattevano nel suo cuore dal nascere in due scisso. L'allusività politica del congedo sconsigliava di pubblicarlo durante il ventennio fascista. Nel 1945, anno in cui venne pubblicata un’edizione del Canzoniere, La prima, Avevo, segnata in esordio dalle allusioni a “questa casa ospitale”, al “Palazzo Pitti” visto dalla finestra a liberazione appena avvenuta, è significativa per l'impegno retorico che veicola un senso di perdita e di spersonalizzazione indotto dalla clandestinità, un’inquietudine esistenziale, la sensazione di essere sopravvissuto in un mondo divenutogli ormai estraneo. Dopo le prime due strofe, che costituiscono la protratta introduzione, la struttura risulta marcata dal ritornello fatto scattare sistematicamente dalla rima baciata in - etto, con cui si bollano il fascista abietto e il tedesco lurco di dantesca memoria, i quali hanno espropriato il poeta di tutto ciò che aveva di più caro: ritornello che in Storia e cronistoria il poeta rivela di aver desunto dalla strada nei giorni della liberazione di Firenze (un motivo popolare che, nei primi giorni della Liberazione, correva le vie desolate di Firenze che si poteva per così dire coglierlo da ogni bocca). Saba vi lamentava la nostalgia di Trieste e ripercorreva l'intero arco dei suoi rapporti con la città Toscana. Il rinnovato impegno civile e politico di Saba si esprimeva senza schermi al Teatro degli artigianelli in via dei Serragli dove in settembre assistette a una recita amatoriale. Avevo e Teatro degli artigianelli furono le prime poesie pubblicate da Saba dopo il periodo della clandestinità. Bastano questi e gli altri componimenti di 1944 a farlo rubricare fra i maggiori poeti della Resistenza. 3. Ho scritto fine al mio lavoro Negli ultimi mesi del 44, il poeta, annichilito dal timore di un ritorno dei nazifascisti che proprio nel dicembre sferrarono una potente controffensiva in Garfagnana, aveva vagheggiato più volte il suicidio; ma si era fatto forza e sveva lavorato a dare l'aspetto definitivo al Canzoniere e ad avviare Storia e cronistoria. Partì per Roma lasciandosi alle spalle una città che ormai per lui era legata al ricordo del terrore e della segregazione. In estate la raccolta poetica sarebbe andata in stampa nella capitale per il marchio di Einaudi, rivelando la fisionomia più moderna acquisita dal libro rispetto alla redazione del 21. L'apertura del libro spetta comunque ad Ammonizione, mentre l'ultima poesia di Varie è stata composta nella casa di Palazzo Pitti. Nel dicembre del 44, poco prima di partire per Roma, il poeta era andato insieme a Linuccia a trovare Sanguinetti e la sua prima moglie Maria Sanna. Brunetto non era in casa, ma Saba si trattenne in conversazione con Maria e in contemplazione di un quadro che gli era caro, dipinto dal defunto Bolaffio, raffigurante due uomini seduti su una panchina che parlano di politica. La poesia che si ispira a quell'episodio fu dedicata a Bruno e Maria Sanguinetti e prese il nome di La visita. Il testo fu concepito per figurare alla fine del nuovo Canzoniere e la stessa strofa finale ha un tono lapidario che intende chiudere non solo la singola poesia, ma il lungo discorso poetico del libro. Fino a quel punto la struttura del Canzoniere aveva rispecchiato il fluire della vita del suo autore e del farsi delle varie sezioni. Ora il poeta sentiva che la grande raccolta si chiudeva su sè stessa e sullo scenario del proprio tempo. Tutto convergeva in questa direzione: l'accenno all'ora tarda, la visione retrospettiva della propria poesia come canto di una vita intera, il motivo dello sfacelo dell'Italia durante e dopo il passaggio del fronte. Il poeta collocò la poesia in ultima posizione entro l'estrema sezioncina in cui riunì i pochi pezzi composti dopo ultime cose che non gli sembravano adatti a entrare in 1994. Lo spartiacque della sezione era costituito dai fatti dell'8 settembre del 43, ma con il recupero di qualche testo più vecchio datato 1934 ed uno scritto 10 anni dopo per la sorte allora ancora incerta della Duchessa d'Aosta Anna d'Orléans detenuta nel campo di concentramento tedesco di Hirschegg. Nella nuova edizione Einaudi del 1948 egli aggiunse al corpus le poesie di Mediterranee scritte a partire dagli ultimi mesi del 45 e le mise in coda al resto. In Storia e cronistoria Saba dice che Mediterranee si collocano oltre il Canzoniere, infatti tutte le sezioni successive a Varie si configurano come parte aggregata al Canzoniere già concluso nel 45. Epigrafe era destinata a una pubblicazione postuma, e insieme a Uccelli e Quasi un racconto esse erano sentite come postumi rispetto allo spirito del libro. Le appendici avrebbero dovuto essere riunite al Canzoniere perché completavano idealmente la sua opera poetica però non erano comunque parte integrante dell'architettura portante. Chiudere il libro con un componimento come La visita equivaleva a terminare con una sorta di testimonianza in favore della poesia che resisteva come una salda quercia allo sfacelo circostante e anche a rendere il debito omaggio a Sanguinetti il quale, pur essendo figlio di uno dei più ricchi industriali del regime, aveva generosamente scelto la lotta per la libertà e pagato di persona prima con il confino poi con l'arresto e con la detenzione nelle mani del feroce Mario Carità e della sua banda di aguzzini, da cui era riuscito a sfuggire. 4.Mediterranee Le poesie di questa raccolta sono improntate a una rivisitazione personale del mito classico. Mediterranee risulta limpida e gioiosa a paragone del senso di perdita e di frattura rispetto al mondo naturale che era al fondo di Mediterraneo di Montale cui il titolo implicitamente può alludere. Mediterranea sono state scritte a Roma, meno Amai. Questa e le altre due (Raccontino e Epigrammi) sono state scritte a Milano. Altri pezzi si aggiunsero poi fino al momento della consegna del libricino a Mondadori nell' estate del 43. Il componimento che il poeta collocò in apertura della nuova raccolta, Entello, individua esplicitamente due referenti della serie Lina e in Federico Almansi. 5.Le ultime appendici al Canzoniere Nell'edizione Einaudi del 1961 Epigrafe viene riportata a seguito di Mediterranee. Il gruppetto di poesie Epigrafe è quello che nacque per primo alla ripresa dell'ispirazione all'indomani della stampa di Mediterranea nel 46. La breve serie, risalente al biennio 1947-48, si collegava alla precedente per il tema dell'amore efebico per Federico, cui si incentra la bellissima Vecchio e giovane. La vecchiaia riservava a Saba non solo la passione ma anche una delle più belle poesie d'amore che li abbia mai scritto. La dislocazione di Epigrafe in ultima posizione poteva sembrare editorialmente la più opportuna per via della chiusa con la poesia eponima della serie. Saba ha lasciato indicazioni in proposito al posizionamento di Epigrafe nel rispetto della cronologia, dunque a seguito di Mediterranee. Nell'estate del 1948 Saba scrisse le poesie di Uccelli, originariamente pensate come parte integrante di Epigrafe. Esse erano nate durante una pausa della grave depressione che lo attanagliava. Nonostante il suo amore per i passerotti e per i colombi che vedeva dalla finestra, l'ispirazione gli era venuta dall'incontro librario con quei volatili. Carletto aveva comprato dei libri di ornitologia e li aveva nascosti dentro una cassa, considerandoli un pessimo affare. Un giorno Saba li trovò per caso e incominciò a leggerli. La vita elementare di quelle creature rappresentava uno spettacolo a cui assimilare ormai la semplicità del proprio esistere. Le forme, i colori e soprattutto le fantasie che ne scaturivano aiutavano infrangere la solitudine. Anche la memoria era una fonte di ispirazione e le poesie sugli uccellini richiamarono un ricordo riferito a Lina in una lettera: “ho ritrovato il balcone di casa mia e Pimpo”. Pimpo era Federico che, disteso sul letto, cinguettava i suoi complicati amori ascoltati da Saba come ascoltava il canto del merlo. Il ricordo del merlo provocò la stesura della breve poesia intitolata Merlo dedicata al ritorno onirico dell'infanzia perduta. Dalla stessa occasione libraria che fece scoccare la scintilla di Uccelli era nata peraltro anche per una favola nuova rimasta aggregata alla compagine di epigrafe. Il mondo degli uccelli è il protagonista anche di Quasi un racconto, dove spiccano le Dieci poesie per un canarino. Stavolta l'ispirazione veniva da volatili vivi e vegeti. Saba dopo essere tornato dalla clinica di Roma ebbe un breve periodo di tregua dalle sue sofferenze e venne incitato dalla moglie a comperare un uccelletto. Scrisse subito Dieci poesie per un canarino e tutti, come gli comunicò Linuccia, ne rimasero incantati. La terzina iniziale Al lettore, focalizza l'attenzione sull'alato protagonista come campione di quel mondo naturale con cui il vecchio poeta aspirava a sentirsi in sintonia. Anche in quasi un racconto aleggiava l'amore per Federico, infatti era lui il suo interlocutore assente, tanto che la poesia libreria antiquaria si conclude Rivolgendosi direttamente a lui e rievocando un suo ricordo d'infanzia. Nella prima delle Dieci poesie per un canarino intitolata A un giovane comunista, tornava ad affacciarsi la politica e la poesia era caratterizzata da una chiusa paradossale che contrapponeva all'amore per i volatili quello per Togliatti del giovane interlocutore. Il personaggio è composto da due persone, ossia il ragazzo amato e il ragazzo comunista. In questo ibrido interlocutore il poeta vedeva incarnarsi lo spirito del tempo, informato a una razionalità che si contrapponeva all'affetto incondizionato: tant'é che il ragazzo di A un giovane comunista considerava superficialmente l'oggetto d'amore del poeta, cioè l'uccellino, trovandolo semplicemente stupidino. Saba e la sua poesia non potevano non partecipare al fermento della Ricostruzione del dibattito politico di quegli anni. Tuttavia il poeta ne prendeva le distanze sul piano esistenziale. La forma di vita del canarino gli risultava positivamente antitetica, in quanto elementare e autentica, alla politica che era lontana dal suo sentire. Inoltre nella condizione del canarino e gli allegorizzava la propria reclusione entro il perimetro degli affetti familiari. Vi è infatti un'analogia fra la protezione in gabbia che moglie e figlia li garantiscono è quella che gli offre al Canarino (vedendola invece rifiutata dal suo giovane amico). La catena narrativa che lega queste poesie registra una crisi del rapporto gioioso con i volatili. Il loro comportamento da angoscia al poeta per effetto del pigolare lamentoso, dell'atteggiamento aggressivo è schizofrenico del canarino verso la canarina sua compagna di gabbia, finché arriva il giorno che l'uccellino fugge nel cielo aperto e allora il poeta vive con l'evasione come un dramma (oggi è passata una settimana dalla disgrazia ed io muoio d'angoscia). Terminava con la Fuga del canarino la breve vicenda di quasi un racconto ma non la stagione dell'amore di Saba per gli animali. Quando nel biennio 1953-1954 vide la luce le Sei poesie per la vecchiaia, il poeta pensò di inaugurarle proprio con una riflessione sul rapporto fra l'uomo e gli animali. Il testo è quasi un aforisma inversi inteso a magnificare la spontaneità e la genuinità del comportamento male di contro a quello umano. Su questa nota caratteristica del suo pensiero termina l'intera serie. Le Sei poesie della vecchiaia mettevano fine al rapporto di Saba con le Muse in simmetria con l'apertura delle poesie dell'adolescenza e giovanili. Pure attraversando stagioni fra loro diverse la sua era rimasta sempre una poesia attinta a una vena autentica, limpida, infatti Saba dava voce alle passioni oscure che lo agitavano con un'inaudita semplicità. La poetica di Saba rispondeva al famoso detto del Nietzsche della Gaia Scienza: “siamo profondi, ridiventiamo chiari”. E le sue ultime prove lo riconfermavano l'autore di una forma nitida che dà voce originalmente alla nevrosi novecentesca capostipite di una linea di poesia lieve e diretta. La vicenda narrata in Alla guerra in sogno, si avvicina a Veduta di collina con cui condivide l'ambientazione e diverse immagini. Saba si addormenta e sogna di essere un soldato piemontese durante la prima guerra d'indipendenza. Dopo un lungo appostamento il poeta avvista un nemico isolato che attraversa ignaro il campo di tiro. Allora egli prende la mira, ma il suo spirito contemplatore lo frena nello sparare. Il protagonista rinvia l'azione prima per poter essere più sicuro di colpire il bersaglio, poi per studiare la figura del soldato nemico, infine al pensiero della madre di lui che si affaccia alla mente e provoca una sorta di rimorso che lo blocca definitivamente, infatti quel giovane era un contadino e doveva rappresentare per i suoi genitori un vero tesoro poiché chissà quanto sua madre aveva patito per allevarlo. Il protagonista si perde scrupoli e divagazioni, e intanto il soldato austriaco esce dalla portata di fucile. Oltre la collina vi è l'intera armata austriaca. L'esito del racconto sottolineali inadeguatezza alla vita pratica del carattere contemplatore che finisce per pagarne le conseguenze. Lasciandosi sfuggire l'occasione propizia si è destinati a rimanere beffate dalla sorte e dagli avversari, non solo in sogno ma anche nella vita reale. Le sette novelle sono chiuse dal racconto Come fui bandito dal Montenegro, una sorta di rievocazione del viaggio a piedi in Montenegro fatto ai primi del 900 con un amico e soprattutto del litigio per un conto esoso risolto con l'intervento della polizia e con la conseguente loro espulsione da quel paese. Allo stesso periodo risalgono altre due novelle, Lissa e Ferruccio. La prima prende spunto dalla tragica battaglia navale del 1866, dove l'Italia venne sconfitta dagli austriaci, e dal sentimento di vergogna che gli suscitava da ragazzo. Il protagonista litigava con i suoi compagni di scuola austriaci per difendere la sua patria. La novella si ispira ad un altro ricordo autobiografico, quello del servizio di leva a Salerno dove Saba conobbe la lealtà e l'umanità dei soldati italiani. Ferruccio racconta invece l'angoscia notturna di una famiglia che scopre il letto vuoto del proprio figlioletto e mette in scena il Candore di quest'ultimo, che si è allontanato di notte solo per andare a pesca. Dopo una lunga pausa Saba tornò alla prosa e in Tre ricordi del mondo meraviglioso rievoca la visita a D'Annunzio in Versilia. Saba fornisce un ritratto di D'Annunzio accondiscendente col giovane aspirante poeta solo per levarselo dai piedi, tanto è vero che non dà seguito alcuno alla promessa di aiutarlo a pubblicare i suoi versi, trasmettendo così il vero carattere del fascinoso quanto narcisista e fatuo scrittore. La narrativa di Saba virava fortemente verso la narrazione di aneddoti. Egli riesuma le figure della propria infanzia come quella del grande attore Tommaso Salvini e quella dello zio Giuseppe. Saba poi inserisce nei suoi racconti anche Italo Svevo, che aveva conosciuto e a cui dedica Italo Svevo all' ammiragliato britannico. Anche questo è un racconto aneddotico, infatti Italo Svevo parlava con Saba del suo successo come uomo d'affari a seguito dell'accordo per la fornitura alla Reale Marina Britannica di un ingente quantitativo di vernice prodotta dalla fabbrica diretta da Svevo. Saba sfrutta l'episodio per connotare il carattere bonario di Svevo descrivendo nella soddisfazione per l'assenza di burocrazia e la rapidità con cui l'affare era stato concluso. La gioia di Svevo era analoga a quella da noi provata all'arrivo dell'ormai insperato successo letterario. Il finale era poi centrato sul rapporto di Svevo con l'idea della morte. In seguito Saba ha fatto meno ricorso al genere del racconto breve, ma su sollecitazione della figlia Linuccia, scrisse le Polpette al pomodoro. Saba vi dava libero sfogo alla fantasia partendo dall'evocazione delle magnifiche polpette che Lina cucinava per finire a raccontare di avere invitato a cena Leopardi. Saba proietta sé stesso nel personaggio dell’adorato poeta ottocentesco quando descrive Leopardi, affermando che “gli occhi indicavano una grande bontà ed una intollerabile stanchezza, come di persona troppo forte per morire e troppo debole per sopportare”. L’ illustre ospite svanisce quando Saba gli comunica le proprie perplessità circa l'abbinamento di rose e viole in esordio del Sabato del villaggio, configurando la scomparsa di Leopardi come una sorta di diplomatica fuga da responsabilità. Erano queste le sue prove di scrittura in prosa quando nel 1953 confessava “sarei certamente diventato un grande poeta, raddoppiato da un altrettanto grande posatore”. 3. La tentazione del teatro Saba provava un forte amore per il teatro e soprattutto per il melodramma come testimonia la presenza della Carmen di Bizet nel Canzoniere. In gioventù Saba si è esercitato a comporre dei drammi, di una prima fase sopravvivono solo due atti di tragedia che fanno intravedere un rapporto fra il protagonista Mario e la madre ricalcato su quello fra Saba e sua madre, inoltre vi è anche la presenza di un padre fuggitivo e di una balia. Non si può dire riuscito poi l'atto unico in sette scene intitolato Il letterato Vincenzo, che venne scritto alla metà del 1911 in occasione di un concorso bandito dal teatro minimo di Trieste e risultò un fiasco completo. Il testo era costituito l'amoroso formato dal protagonista dalla moglie e da una rivale. La trama di per sé abbastanza gracile si avvicina per certi aspetti all'intreccio di alcune novelle di quegli anni. Vincenzo è un poeta che si è separato dalla moglie lena e convive con Bianca, scrittrice celebre, pur non nutrendo rimorsi e rimpianti nei confronti della consorte. Quando questa si presenta in casa sua mentre bianca e fuori per dirgli che è malata e che perciò Vorrebbe lasciare a vivere presso di lui la loro figlioletta Paolina, Vincenzo coglie l'occasione per confessarle che pensa di continuo a lei e Lena, pur rimproverandogli l'opportunismo di averla lasciata per stare con una donna di successo che può essergli utile per la sua carriera, ammette che anch'essa non fa che pensare a lui. Lena apprende da Vincenzo che la sua povera solitudine non è stata un sacrificio funzionale alla grandezza del marito, ma che questi ha conosciuto l'elegante scrittrice dopo e non prima il dissidio coniugale. Bianca è stata un ripiego e non la causa determinante della separazione. Quindi il suo rapporto con Bianca è rassegnazione, non tensione verso le altezze dell'amore e del successo. Il testo ribalta la funzione del tradimento, assegnandola al protagonista maschile, alla moglie quella del ritorno al nido domestico e al marito la volontà di rimettersi insieme ma introducendo il colpo di scena finale di segno opposto a sancire definitivamente la separazione. Fatto stesso che dopo la rappresentazione il dramma non venisse più riprese che il poeta non ripetesse l'esperimento della scrittura per il teatro rende chiaro come egli stesso considerasse questi tentativi non più che una parentesi giovanile. 4.Gli aforismi di scorciatoie e raccontini Il poeta avvertì il richiamo forte della scrittura fulminante dell'aforisma, ammirata nei libri dell'amato Nietzsche, a cominciare dal biennio 1934-1935. A quel tempo risale il primo nucleo dei testi che rispondono al brillante titolo di Scorciatoie. Presentando al pubblico nel 1946 la redazione definitiva il poeta ricordava che molte scorciatoie avevano un carattere politico e vennero da lui distrutte. Esse si riferivano gli avvenimenti allora in corso come la guerra etiopica. Quando viene l'armistizio e l'invasione da parte dei tedeschi dell'Italia apparve sicura, Saba le affidò ad un suo amico ed ebbe cura di togliere la copia che gli consegnò tutte le politiche per evitare di compromettere l'amico. Il grosso della raccolta era maturato nella primavera del 45 in virtù di una ripresa quasi febbrile dell'ispirazione. Saba definisce scorciatoie e raccontini le sue operette morali per la riflessione filosofica che si affacciava e momentaneamente si sostituiva all'ispirazione poetica. La forma della scorciatoia consentiva anche a uno che pensatore di professione non era, di dar voce a briglia sciolta all’urgere della riflessione e senza condizionamenti derivanti dalla necessità di costruirsi un sistema di pensiero. In scorciatoie la filiera principale rimonta a Nietzsche, che veniva considerato nel periodo uno dei responsabili del nazismo. In una scorciatoia Saba afferma a riguardo che sarebbe bastata la vicinanza di Nietzsche al dottor Rosenberg per fargli rimettere l'anima, ma prima avrebbe strangolato sua sorella. In queste parole Saba ha concentrato l' intero di bacio del suo tempo sull'interpretazione e sulla misinterpretazione del pensiero di Nietzsche, il malinteso superomismo di Zarathustra che aveva legittimato l'ideologia nazista, rappresentata dal gerarca e teorico della superiorità della razza ariana Rosenberg e dalla stessa sorella del filosofo che aveva contribuito in maniera decisiva a stravolgere la ricezione dei suoi scritti e a orientarla in direzione nazionalsocialista, per contro la natura originalmente libertaria di quel pensiero. In Aurora di Nietzsche, il cui sottotitolo era pensieri sui pregiudizi morali, Saba vi aveva trovato un riscontro forte alla propria insofferenza per la mentalità borghese e al proprio anticonformismo. Particolarmente congeniale gli sembrava il fatto che il filosofo additasse nelle falle della psicologia del benpensante l’origine di molte false certezze. Il tema forte del libro di Nietzsche è nella considerazione dell’individuo nella sua solitudine quale valutatore del mondo e, proprio per questo, immorale in quanto in grado di porsi contro il senso comune corrente. L'uomo teme il giudizio che un altro possa avere su di lui, poiché egli stima se stesso in base al giudizio che gli altri hanno su di lui ed allora tende ad essere in accordo, piuttosto che in contrasto, con gli altri e ad adeguare il suo comportamento a quello del "gregge". L’uomo che non si comporta così è ritenuto immorale. Il comportamento del singolo, dell'individuo isolato, controcorrente, diviene allora sinonimo di immoralità. La vera corruzione è negli insegnamenti di chi si conforma a norme di comportamento, cioè morali, seguite dai più; infatti Si corrompe nel modo più sicuro un giovane, se gli si insegna a stimare chi la pensa come lui più di chi la pensa diversamente (Aforisma 297). In sostanza dire moralità o dire obbedienza è, secondo Nietzsche, la stessa cosa. L’uomo libero è l’uomo immorale. Il poeta abbinava il nome di Nietzsche a quello dell'altro grande innovatore e punto di riferimento della propria riflessione, cioè Freud. Tale binomio costituisce l'insegna sotto la quale Saba inscrive in larga parte le proprie considerazioni. Il rigore molare dell'inventore della psicanalisi era ricondotto da Saba al predecessore Nietzsche, maestro della coraggiosa indagine della realtà. Questo è l'asse su cui si sviluppa la riflessione e lo stile risulta ricavato dalla mimesi rispetto agli aforismi di Nietzsche, infatti Saba afferma “non so più dire senza abbreviare, e non poteva abbreviare altrimenti”. Ancora più evidente la vicinanza con i temi nietzscheani nella scorciatoia 51 nella quale viene richiamato uno dei concetti fondamentali della filosofia di Nietzsche che la riconduce ai greci: il concetto della ciclicità del tempo, di un eterno ritornare del tempo, quindi la rottura con la tradizione giudaico-cristiana del tempo lineare che ha inizio e tende verso una fine e un fine; da un lato, perciò, la visione della natura sempiterna, dall’altro lato la visione creazionista di un tempo che ha inizio con l’atto della creazione e che terminerà con il giudizio Universale. Scrive Saba: Il tempo è rotondo; ritorna in sé stesso. E gli orologi, che servono a indicarlo, dovrebbero pure essere rotondi. Lo furono infatti: dalla loro invenzione a ieri. L'uso, ultimamente invalso di dare agli orologi forma quadrata, triangolare, ottagonale, è uno dei tanti piccoli indizi dello smarrimento dei nostri giorni. Di mille e non più mille (Scorciatoia 51) Gli aforismi di Saba erano caratterizzati da una scrittura fitta di incisi che rispecchiava la ricerca di una brevità densa e al tempo stesso la frammentarietà e la sistematicità del pensiero. Essi inoltre volevano registrare in presa diretta il colloquio interiore del poeta e il procedimento di chiarificazione del pensiero mediante semplificazione verbale. La presenza entro il nucleo originario delle scorciatoie di varie considerazioni sulla situazione dell'Italia di allora rivela la forza spesso scatenante dell'attualità politica. Quando Saba le assembla gli eventi bellici sono freschi e l'attenzione non può non appuntarsi sui disastri della guerra di Hitler e Mussolini, come nella scorciatoia 127 dove Mussolini viene descritto come “due terzi boia e un terzo pover' uomo”. Il romanzo incompiuto fu scritto durante i ricoveri di Saba in clinica a causa della forte sindrome depressiva e fu definitivamente abbandonato quando il poeta si sentì impossibilitato a portarlo al termine e chiese alla figlia di distruggerlo. Il poeta arrivò a scrivere quattro episodi, poi senti che gli mancavano le forze per procedere e scrisse una paginetta di conclusione provvisoria. In seguito riprese e scrisse un quinto episodio, infine dovete cedere alla stanchezza e alla malattia e non continuò più. Le vicende si svolgono in poco più di un mese. Il protagonista è un Alter Ego dell'autore adolescente, così come il personaggio della madre è la controfigura romanzesca della madre di Saba. La storia si apre dopo la rinuncia alla frequentazione scolastica da parte di Ernesto e con il suo impiego come praticante commesso nel magazzino di una ditta, se conosce il facchino a cui si offre come parte sessuale passivo. In seguito si racconta il rapporto assiduo che si sviluppa fra i due, la noia che subentra in Ernesto e la sua voglia di sottrarsi, poi la sua prima rasatura, l'insorgere della curiosità per il versante eterosessuale e l'avventura con una prostitute, la corte da parte dell'uomo che insiste a volerlo è lo stratagemma di una lettera di insulti rivolta al principale che Ernesto mette in atto per farsi licenziare e non subire più gli incontri con l'uomo. In seguito la madre cerca di convincere il figlio a riprendere il lavoro sì che ragazzo si vede costretto a rivelarle la sua esperienza omosessuale. A questo punto si colloca la nota intitolata quasi una conclusione. Dopodiché Saba aggiunge un quinto racconto in cui Ernesto conosce Ilio violinista in erba come lui e diventa suo amico. Di qui in poi la storia avrebbe dovuto procedere a raccontare questa grande amicizia fino all'età adulta, compreso l'innamorarsi di una stessa ragazza che sarebbe diventata moglie di Ilio. La trama dunque è centrata sull' iniziazione erotica del protagonista come ricerca incerta e confusa di sé stesso. All'esigenza di realismo risponde l'adozione prevalentemente per i colloqui tra Ernesto e il facchino del dialetto triestino " un po' ammorbidito" per ammissione dello stesso autore. Saba riteneva impubblicabile il romanzo ben più per il ricorso al dialetto che per il suo scabroso contenuto, ciò ci fa intuire quanto fosse costitutiva della sua scrittura la necessità di verità del dialogo che il dialetto stesso implicava. Saba intendeva parlare della scoperta dell'eros durante l'adolescenza tanto impudicamente quanto candidamente, in ottemperanza ai principi di poetica a cui si era attenuto per tutta la vita. Anche se la narrazione presentava situazioni ritenute scandalose dalla morale borghese, Saba poteva definire il libro castissimo perché le esperienze di Ernesto sono senza malizia, senza secondi fini, di una castità che la gente non capisce. Saba sottolineava poi che la gente ha bisogno di mettersi in libertà, ossia di liberarsi dalle sue inibizioni. Questo sarebbe il mestiere della sua vecchiaia, infatti Ernesto non l'aveva inibizioni. Ernesto, ovvero l'adolescente Saba, era un primitivo, nel senso che non era ancora condizionato dal cumulo di inibizioni che si stratificano nell'animo col passare del tempo. Perciò la sua curiosità per la sessualità di ogni tipo rientra a pieno titolo in quell'innocenza che lo induce a fare di nascosto una serie interminabile di monellerie rivolte contro il suo principale. La luce in cui l'autore ha rivissuto gli eventi narrati nel romanzo è quella della teoria freudiana. La pulsione omosessuale di Ernesto è analizzata e spiegata mediante categorie psicoanalitiche, come l'assenza psichica del padre e il carattere repressivo della madre. Il comportamento del ragazzo, inspiegabile secondo la mentalità comune rappresentata dalla madre, viene riportato dal narratore e analista ai traumi della prima infanzia. A risorgere nel ricordo sono fatti e persone rimasti latenti, generatori di disagio psichico. In questo senso Ernesto può essere considerato anche come un doppio del piccolo Berto e il libro equivale a una sorta di autoanalisi condotta in solitudine dall'anziano poeta. Il darsi al facchino da parte di Ernesto viene eletto quale ricerca di una figura paterna: affiorano insomma le patologie e le ferite di una vita. Come si legge in alcuni passi, Ernesto adotta uno sdegnoso disinteresse per la lontananza del padre che rivela evidentemente l'azione denigratoria compiuta dalla madre. Fin dal suo primo apparire sulla scena la madre di Ernesto viene caratterizzata in antitesi, anche fisica, rispetto al figlio. Viene infatti una difformità tra la figura corpulenta della madre e quella slanciata del figlio che sottintende una diversità profonda e anche un certo antagonismo tanto che, al complimento dell'uomo che gli dice che è bello, Ernesto replica affermando che mai nessuno glielo aveva detto, nemmeno tua madre. Il carattere della madre era infatti anaffettivo o troppo affettivo, in quanto provava una forte gelosia nei confronti della balia e anche della zia. Ciò fa risaltare il contrasto rispetto ai riguardi e alle attenzioni che il facchino gli usa, alle tenerezze da innamorato che gli riserva, alla gratificazione rappresentata inizialmente per innesto dal rapporto con lui. La prostituta Tanda viene presentata invece come un doppio della balia. I ricordi della casa della sua amata nutrice che la stanza della prostituta epoca in Ernesto, stabiliscono una netta relazione fra le due donne in antitesi alla figura della madre. Ma anche la relazione omoerotica aveva creato una contrapposizione con l'ambiente familiare. C'è un sottile parallelismo fra l'avversione di Ernesto alle posizioni conservatrici della famiglia e il sentirsi attratto da un uomo del Popolo. Ernesto mette fine rapporto omosessuale per lo scarso spessore culturale dell'uomo, infatti se gli avesse potuto contraccambiare i favori sessuali del ragazzo con la propria azione di mentore il loro rapporto non sarebbe finito così presto. Dopo che il facchino ha manifestato un accenno di sadismo, il ragazzo si ribella e ribalta la situazione conquistando la posizione dominante. Ernesto si avvale di tutto il suo potere, determinato dall'attrazione sessuale, per spodestarlo facendosi consegnare lo strumento di sopraffazione, esercitando egli stesso la superiorità sancita dalla punizione del colpo di Verga e manifestata ancora nel prosieguo con l'immediato ordine rivolto all'uomo : “e adesso lavoreremo da superiore a inferiore”. L'incompiutezza del romanzo crea uno squilibrio che impone all'attenzione del lettore soprattutto il fatto più eclatante, cioè la relazione omosessuale, mentre se la stesura fosse stata completata si vedrebbero nitidamente le implicazioni con il prosieguo e con la conclusione. Accanto al tema della ricerca di una figura maschile di riferimento emergerebbe una linea di sviluppo ed eterosessuale conseguente all'iniziazione con la prostituta. Nel quinto episodio si affaccia infatti una figura femminile, la donna rappresenta la scoperta del fascino e della seduzione. Anche a causa della sua incompiutezza dunque all'indomani della pubblicazione Ernesto fu considerato come una confessione dell'anziano poeta circa le sue prime esperienze e inclinazioni omosessuali. Invece la mira dell'autore era stata quella di ripescare dalla memoria le schegge superstiti della propria interiorità di ragazzo. Ernesto fu per Saba l'illusione di chi verso la fine della vita riscopre il mondo meraviglioso della propria adolescenza. In Ernesto il paesaggio urbano si riduce a uno scenario opaco per Saba, infatti non innesca nessun meccanismo analitico. Anche questo contribuisce a conferire alla narrazione l'essenzialità e la naturalità di un sogno a occhi aperti. Ernesto si profilava al suo stesso autore come un testo rispondente a quegli stessi requisiti che egli considerava necessari affinché un romanzo si potesse considerare riuscito. 7.Cenni sull’epistolario Il tono di Saba nelle sue lettere è spesso lamentoso e con gli anni lo diventa sempre di più. Particolarmente intense sono le lettere familiari a Lina e a Linuccia, mentre in altre fioriscono gustosi di trattini di personaggi come quello di Svevo. Lettere contengono anche dei veri e propri brani di critica e belli sono poi certi squarci onirici, dato che a qualsiasi età Saba amò raccontare e interpretare i propri sogni. Si prestava attenzione ai sogni e alla loro interpretazione anche prima di entrare in analisi con Weiss, come dimostra una lettera con un resoconto dettagliato di un sogno fatto ad un amico per coinvolgerlo nella catena di emozioni che l'onirica avventura aveva suscitato. Di notevole interesse sono poi le aperture di argomento politico sia nelle lettere degli anni della guerra sia in quelle successive al voto del 18 aprile 1948, che decretò la vittoria della Democrazia Cristiana è la sconfitta del fronte Popolare. Anche nelle lettere degli ultimi anni, spesso lagnose per la depressione, ci sono accensioni brillanti come quella che riguarda la confidenza di un intenso momento di commozione e di pietà per la vicenda del Cristo in croce, non figlio di Dio ma persona atrocemente vessata, martoriata e abbandonata da tutti. Ciò si traduce in visionaria partecipazione alle sofferenze della condizione umana. Se a Saba non sarebbe dispiaciuto l'emistico “pianse e capi per tutti” fatto porre da Linuccia sulla sua sepoltura, se la figlia avesse potuto conoscere l'intero carteggio con sereni avrebbe saputo che il padre come epigrafe sulla propria tomba voleva tre versi finali di una poesia Sereniana: “ora ogni fronda è muta, fatto il guscio all'oblio, perfetto il cerchio”. Saba in Fortini 1.Il Canzoniere L’ingannatrice facilità di Saba traspare innanzitutto dal suo Canzoniere, che non è di certo facile afferrare nella sua complessa architettura e articolazione. Conferisce un apporto all’opera anche la condizione periferica del poeta, poiché a Trieste si respirava un’aria Ottocentesca. Le prime poesie di Saba sembrano dei quadretti di natura, ma non si riduce ai crepuscolari, bensì in lui troviamo qualcosa di più, manifestato dalla sua inquietudine. Saba inizia a rendersi conto che gli arcaismi linguistici, dovuti soprattutto alla situazione di frontiera della sua città natale, avrebbero potuto costituire un punto di forza per la sua poesia, bisognosa di uno schermo (per parlare di sé) e di una meditazione proprio per la sua natura autobiografica e autoanalitica. Saba capì che la metrica tradizionale, la fedeltà alla rima erano strumenti preziosi per svolgere una sua esigenza di romanzo autobiografico. Il linguaggio ottocentesco gli consente quindi una socializzazione della poesia e una meditazione per parlare in profondità dei suoi sentimenti. Saba riesce a fondere le tonalità e gli argomenti del quotidiano e dell’umile con il discorso dei sentimenti. La cultura germanica a cui si ispira Saba è quella tardo romantica, ad esempio di un H. Hein, tanto che Muscetta scoprì che la struttura del Canzoniere era simile ad Hein anche se Saba non lo conosceva. Saba salta le avanguardie e si riallaccia ai poeti romani di cui recupera il linguaggio. I sentimenti di Saba e l'autobiografia erano legati a problemi psicologici e a domande sul chi sono rispetto agli altri uomini. La cultura triestina riceveva da Vienna temi e problemi di psicologia del profondo che nel resto d'Italia erano scarsamente avvertiti. L'oggetto della lirica sabiana sarà l'analisi la descrizione di sé stesso e la rappresentazione dei personaggi e delle realtà esterne, come pretesti di riflessioni e di passione, di piacere e di dolore (città vecchia). L'idea che il poeta si fa di sè stesso, è per un lato quella di un uomo come tutti gli altri, per un altro lato egli ha creduto di scoprire una ferita dolorosissima, una situazione di sofferenza, celata nell'inconscio, determinata dai traumi dell'infanzia, ma anche universale come il peccato originale e legata alla "brama", sostantivo che per Saba è la versione letteraria del termine freudiano di libido. (il torrente) Per la Furia della propria brama narcisistica gli amori del poeta hanno un'immediatezza straordinaria, un accento nudo e quasi insostenibile. (dico al mio cuore). Quegli amori o quelle gravi esperienze sono accettati secondo una convenzione che è quella dell'ethos borghese e dei cosiddetti sentimenti eterni. E tutto questo sembra ruotare intorno a una nevrosi che traspare dietro la salute lirica. Saba non ha mai cessato dal ripetere il tema della doppia origine biografica, della scissione, della contraddizione dei sentimenti. Negli anni della leva si sente isolato a causa del dono (poesia) che ha avuto dal padre. Il senso di estraneità al gruppo dei compagni dissolve il senso di appartenenza che nei versi precedenti era avvertito come un'affinità insolita. 2.Lina Saba conosce Lina nel 1905 e i due si sposano nel 1909, durante il periodo di congedo dalla ferma militare. A Lina dedica la poesia a mia moglie, che Saba definisce una poesia infantile, infatti se un bambino potesse sposare e scrivere una poesia per sua moglie scriverebbe questa. Il 1911 è per Saba l'anno della grave crisi coniugale rispecchiata nei versi della raccolta coi miei occhi. La moglie infedele diviene Carmen sfuggente consapevole del proprio destino, mentre Don José non si sente di interpretare fino in fondo la sua parte: Carmen infatti viene uccisa per un atto di gelosia, mentre Lina ottiene da Saba Il perdono sentito come inevitabile e concesso non per indulgenza, ma in nome di un amore disperatamente mescolato all'odio. Lina, con Trieste e una donna, diviene la figura femminile più importante. Saba consegna ai lettori il suo racconto in quartine e terzine rimate su schemi metrici fissi, in un andamento sintattico limpido e piano, con qualche iperbato, lontanissimo dallo sperimentalismo delle avanguardie, dall'ironia di Gozzano, dall'epica guerresca di D'Annunzio, dalla rivoluzione di Pascoli. In Saba il cozzare dei registri eterogenei non provoca mai grandi deflagrazioni né grandi scandali. Nei versi di Trieste e una donna Saba ci fa sospettare dell'assoluzione troppo rapidamente concessa a Lina, probabilmente perché influenzato dalla lettura di sesso e carattere, dove Weininger negava l'anima alla donna e di conseguenza ogni facoltà morale, ogni capacità di scegliere fra il bene e il male. Sarà l'incontro con la psicanalisi che permetterà a Saba di collocare nella giusta luce l'ambivalenza dell'amore per la moglie che traspare da quei versi. L'altro personaggio del romanzo autobiografico è Trieste con la sua scontrosa grazia, le vie strette e oscure, che si inerpicano verso il monte lasciandosi alle spalle la prospettiva immensa del mare. In questi quadri di vita cittadina le figure e le immagini sono parvenze e creazioni dell'autore. Il secondo libro di Versi mostra chiaramente che il programma poetico di Saba è già stato formulato e che la consapevolezza delle scelte di voce era quella di un artista maturo. Il breve soggiorno Fiorentino del 1911 aveva segnato una tappa cruciale nel cammino verso la definizione della propria poetica: Il poeta non sforzava mai l'ispirazione, in quanto essa è reazione. Saba apriva polemicamente il suo articolo “quello che resta da fare ai poeti” con un invito a fare la poesia onesta. Al D'Annunzio che si ubriaca per aumentarsi diceva di preferire il più astemio e il più sobrio dei poeti italiani, il Manzoni degli inni sacri. La fedeltà a sè stessi viene indicata da Saba come reazione alla pigrizia intellettuale che impedisce di toccare il fondo, reazione alla dolcezza di lasciarsi prendere la mano dal ritmo, dalla rima, da quello che volgarmente si chiama la vena. 3. Un padre scomodo: Saba e Petrarca A partire dal 1913 Saba Comincia a pensare a una sistemazione organica dei testi. Il lavoro si interrompe quando Saba viene coinvolto nelle vicende della guerra. Si torna a parlare del progetto di una raccolta organica il 18 settembre 1917 e l'8 settembre 1921 Saba realizza una copia del Canzoniere che viene pubblicato poco dopo la morte della madre. Nessun accenno alle ragioni che hanno indotto Saba a scegliere questo titolo per la raccolta di versi. Saba aveva pensato di proporre In alternativa a questo titolo, quello di Chiarezza in chiave polemica nei confronti delle correnti simboliste a cui aderivano molti dei suoi contemporanei. Saba ha dichiarato in più occasioni la sua predilezione per Dante rispetto a Petrarca (Dante ha sbagliato di più e più spesso del Petrarca, ciò non toglie che questi stia al primo come una candela al sole). La corrente petrarchesca, come afferma Saba, non esiste nella sua poesia giovanile, essa infatti si riallaccia alla corrente Dante-Parini-Foscolo. Un'altra testimonianza significativa si trova in una delle prime scorciatoie dove Saba afferma che Laura assorbito tutta la tenerezza di Petrarca, mentre la sensualità il poeta la rivolse ad altro. Saba afferma che l'amore vero vuole entrambe le cose e perciò nel Canzoniere di Petrarca non c'è un solo verso che possa dirsi d'amore, come accade invece in Dante che scrisse il più bel verso d'amore di sempre, ossia la bocca mi baciò tutto tremante. Le esplicite prese di posizione a favore del modello dantesco non vengono mai accompagnate da esempi testuali, come avviene con Heine o con i Sonetti di Foscolo. La corrente petrarchesca in Saba si avverte solo nella dedica ai lettori della prima edizione del canzoniere del 1919. Quando Saba scrive Storia e cronistoria del Canzoniere intende fare una dichiarazione di guerra a tutta la critica e a tutto il pensiero contemporaneo italiano. In questo testo Saba suggerisce un'affinità profonda con il testo Buch Der Lieder di Heine e aggiunge che non avrebbe mai scritto il Canzoniere se non avesse letto quell'altro Canzoniere con l'amore che forse solo una misteriosa affinità può rendere fecondo. Ritroviamo un elemento petrarchesco nella poesia di Saba in riva al mare, dove l'autore invoca una sorta di perdono dalla morte per non averla scelta come unica Musa degna di essere cantata. Questi versi si avvicinano molto al sonetto di Petrarca che invoca il perdono del Re del cielo per aver amato Laura, cosa mortale, dimenticandosi dell'amore di Dio. È evidente come il modello petrarchesco abbia costituito uno dei riferimenti culturali più significativi, ma Saba ha posto tutte le necessarie barriere difensive contro il rischio di venire catalogato sotto la rubrica odiatissima dei petrarchisti. 4. Come un romanzo La stesura del romanzo proseguirà per tutta la vita. La storia del Canzoniere nelle successive edizioni è la storia dei fallimenti del poeta e le ultime raccolte testimoniano di una felicità raggiunta che coincide con la rassegnazione, con una sorta di forzata rinuncia alla vita stessa. Nei confronti dei testi giovanili con cui Saba Continua a lavorare convinto che nascondano il nucleo identico della verità su sé stesso, il giudizio del poeta maturo sarà sempre molto oscillante: Storia e cronistoria del Canzoniere riconosce i limiti delle prime prove di un periferico, mentre in vecchiaia si accanisce a ricercare nella memoria un'utopica forma originale dei sonetti giovanili più volte modificati e riscritti nel corso degli anni. Sono il luogo a cui Saba continuamente ritorna, ma il suo viaggio è ostacolato dalle frequenti crisi nervose che spesso tolgono a Saba ogni capacità di lavorare. Saba prosegue con le raccolte successive nella riproposizione di una poetica e nel ripensamento sintetico della propria storia. Figure e canti è il primo libro di Saba ad ottenere consensi ampi. Preludio e canzonette inaugura il secondo tempo della storia poetica sabiana: Le prime attrici sono Paolina e Chiaretta, già protagoniste di Cose leggere e vaganti e dell'Amorosa spina. Tornano gli scenari e pensieri di sempre: la città, le piazze, il mare, la malinconia, la vecchiaia e la morte. Le sperimentazioni caute di Cose leggere e vaganti trovano compimento nell'abbandono dell'endecasillabo, spezzato dalle cesure, come forma metrica dominante. La materia, cantata su accordi nuovi, è ripensata: meno urgente la volontà di raccontare, meno commossa e partecipe la voce che racconta. Gli oggetti appaiono paradossalmente più distanti e nitidi, come figure di sogno. La riflessione sulla propria storia e sul discorso poetico si integra nella poesia Il Borgo, dove troviamo il desiderio di immergersi nella calda vita. L'Uomo segna un ritorno al padre nei toni del racconto epico, ma si tratta di un’epica quotidiana, senza eroismi. L'oscura leggenda del padre viene reinventata con troppa enfasi e ciò fa rimpiangere la semplicità del ritratto affidato al terzo sonetto dell'Autobiografia (egli era gaio e leggero). Nel dialogo fra le voci dell'antica tenzone del Terzo sonetto dell'Autobiografia prende vita Preludio e fughe. Saba aveva intenzione di trasformare la terza voce in un angelo, ma poi ha finito con umanizzare quella figura e l'ha ricondotta ad essere un sogno della sensualità giovanile. Le voci delle fughe appartenevano a sua madre e suo padre, quando il poeta ebbe superato quel dissidio non avrebbe più potuto scrivere le fughe. I consensi per Saba arriveranno solo nell'ultimo dopoguerra. 5. Il ritratto smarrito Dopo alcuni anni di sospensione dell'attività poetica esce nel 1934 la raccolta parole. Saba pensa anche ad una seconda edizione del Canzoniere che includa l'ultima produzione e offra una nuova sistemazione delle raccolte precedenti. Le prime trattative con gli Editori non hanno esito positivo. Saba inizia a scrivere le brevi prose che usciranno con il titolo scorciatoie e raccontini e lavora ai versi di ultime cose. Il lettore del Canzoniere avverte qualcosa di nuovo, come una nuova strana primavera. È la primavera che segui per Saba alla crisi del piccolo Berto, una grande chiarificazione interna, alla quale corrisponde un illimpidimento della forma. Con Parole prima, con Ultime cose poi, Saba abbandona del tutto la sua vena narrativa che tanto aveva disturbato i suoi critici. L'unico nome che troviamo citato in storia e cronistoria del Canzoniere al capitolo Parole è quello di Penna, verso il quale Saba dice di provare una punta di invidia per aver pubblicato un libretto in cui poteva, in poche pagine, dare intera misura di sé. Leggendo i versi, gli schemi metrici regolari lasciano il posto ad un andamento ritmico libero e anche quando l'endecasillabo torna a farla da padrone compaiono le rime sdrucciole, mentre il registro scopre una propria sicura stabilità. Le leggi razziali del 1938 inducono la famiglia Poli a lasciare Trieste per Parigi, che risulta una città poco sicura. Negli anni della guerra Saba conosce a Milano Giulio Einaudi a cui propone la ristampa della sua opera, ma il dramma dell'8 settembre lo obbliga a rifugiarsi a Firenze, dove vive uno dei periodi più tragici della sua vita, tanto che chiede Lina il consenso di suicidarsi. Tale consenso non gli viene accordato e Saba continua a vivere nel costante della morte, allontanato con il ricorso ai sonniferi e alla morfina. Le condizioni difficilissime in cui fu costretto a vivere non gli preclusero completamente la scrittura: In clandestinità scrisse la prima parte di storia e cronistoria del Canzoniere e portò a termine alcune poesie che faranno parte della sezione 1944. Nel corso del 1945, passato a Roma in una breve pausa di felicità, Saba porta a termine e pubblica le prime scorciatoie in cui torna a parlare della poesia, soprattutto dei versi degli altri, di quegli autori che ha amato. Vi traspare una poetica raffigurata in piccole, folgoranti miniature. Saba ribadisce la sua fedeltà all'intimo vero e alla chiarezza riconducibile anche alla tua esperienza psicoanalitica e alla cruciale lettura di Nietzsche. Nello stesso anno esce il Canzoniere di cui Saba è insoddisfatto. Nel 1946 riceve il premio Viareggio e nello stesso anno torna a Trieste, scontento della scelta obbligata, ma convinto anche che la sua poesia abbia in quella città le sue radici. Nel 1948 esce un'edizione del Canzoniere presso Einaudi, che comprende anche la nuova raccolta Mediterranee. Fra il 1949 il 1950 una vertenza editoriale, che coinvolge gli Editori Einaudi, Mondadori e Garzanti a proposito di alcune sezioni del Canzoniere, mette a rischio la possibilità di mantenere unità la raccolta: Dopo aver raggiunto un accordo, garzanti pubblica un'edizione di lusso nel 1951. In quell'anno Saba comincia a scrivere le poesie di quasi un racconto, per le quali aveva pensato in un primo momento, su suggerimento della figlia, al titolo Amicizia e inaugura il gruppo delle Sei poesie della vecchiaia. Nel 1952 invia a Carlo Levi il manoscritto della raccolta di prose gli ebrei e traccia un abbozzo del libro ricordi- racconti. Nel 1953 università di Roma gli conferisce la laurea honoris causa in occasione dei suoi 70 anni ed esce il volume uccelli- quasi un racconto. Da anni ormai Saba afferma di non voler scrivere più nulla e ad ogni nuova raccolta si affretta a scusarsi per quell'ultima debolezza. Nelle ultime poesie e tornano i personaggi di sempre, ma con uccelli il processo di inclusione sembra raggiungere risultati estremi: nel teatrino privato delle gabbie su cui il poeta si china per ascoltare e
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