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Riassunto esaustivo di 'Da Tasso a fine Ottocento', Sintesi del corso di Letteratura Italiana

Riassunto esaustivo di 'Letteratura italiana. Manuale per studi universitari, vol. 2 Da Tasso a fine Ottocento', a cura di G. Alfano, P. Italia, E. Russo, Milano, Mondadori, 2018 (capitoli su Goldoni, Beccaria e Verri, Parini, i due su Alfieri e il neoclassicismo, Foscolo, Manzoni e Leopardi), per esame di Filologia e storia della letteratura italiana moderna con la prof. Valentina Gritti (superato con il massimo dei voti). Sono esclusi i testi.

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

In vendita dal 26/02/2024

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elenaofelia 🇮🇹

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Scarica Riassunto esaustivo di 'Da Tasso a fine Ottocento' e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! Letteratura italiana. Manuale per studi universitari, vol. 2: Da Tasso a fine Ottocento A cura di G. Alfano, P. Italia, E. Russo, Milano, Mondadori, 2018 (capitoli su Goldoni, Beccaria e Verri, Parini, i due su Alfieri e il neoclassicismo, Foscolo, Manzoni e Leopardi) 5. CARLO GOLDONI 1. Un autore e la sua riforma, tra realtà e apologia Il percorso di Goldoni nella letteratura italiana del Settecento è segnato dalla proposta di una riforma, da un’azione di rinnovamento all’interno del teatro comico, dovuta a mutamenti sociali e al diffondersi dell’Illuminismo in Italia. Di questa riforma egli è l’interprete più significativo ma anche il principale apologeta, in diversi scritti (es racconto a posteriori nei Memoires, premesse alle edizioni alle commedie) si accredita come protagonista di un rinnovamento, modernizzatore delle pratiche teatrali (si fronteggiano le convenzioni e gli stereotipi della commedia dell’arte/teatro fondato sulla cura dei personaggi e dei testi, in rapporto con la letteratura contemporanea europea). In Goldoni la ricerca di riforma convive con una ripresa rispettosa delle convenzioni teatrali e con la pratica del teatro musicale (le ‘commedie nuove’ si alternano nella frequenza a testi più tradizionali -delle 200 solo 49 sono commedie a soggetto-). Evoluzione graduale, con convivenza tra pratiche teatrali assai differenti (scenario principale d’ osservazione di G. è Venezia). 2. La formazione, tra legge e teatro Goldoni nasce a Venezia nel 1707 e nei primi anni i suoi studi seguono gli spostamenti del padre. Prima frequenta le scuole dei Gesuiti a Perugia, poi quella dei Domenicani a Rimini e infine nel 1723 entra nel collegio a Pavia, per svolgere gli studi di giurisprudenza ma viene espulso per avere composto una satira dai torni forti contro le donne. Gli anni successivi sono occupati da viaggi e varie occupazioni, fino a quando inizia a svolgere mansioni giuridiche minori. Questa formazione irrequieta si lega subito alla scrittura teatrale dato che già bel 1730 avviene la composizione di alcuni intermezzi. Nel 1721 Goldoni fugge da Rimini per tornare a Chioggia imbarcandosi con una compagnia di comici. Egli rimane affascinato da quel mondo carico di vitalità e di allegria, animato dalle bizzarrie degli attori e da un clima di spensieratezza che avverte come affascinante. Nel 1731, costretto dalla morte del padre, prende la laurea in legge e l’anno dopo comincia ad esercitare la professione di avvocato a Venezia. Si tratta di una pratica che condizionerà gli anni successivi. Dopo una serie di prove minori da laboratorio di sperimentazione, dal 1734 inizia a collaborare con il teatro San Samuele di proprietà Grimani e con un altro teatro, il San Giovanni Grisostomo, specializzato nella proposta di opere musicali. Prende avvio così una stagione fitta di opere, un apprendistato concreto nel quale vanno sottolineati il rapporto con il capocomico Giuseppe Imer e i primi successi nel confronto con il pubblico di Venezia: la tragedia Belisario del 1734, il Don Giovanni Tenorio, tragicommedia in versi del 1736. 3. La lenta conquista della riforma: gli anni al San Samuele Nella seconda metà degli anni ’30 si colloca dunque un periodo decisivo per la formazione teatrale di Goldoni. Tra il 1737 e il 1741 consolida il rapporto con il SAN GIOVANNI GRISOSTOMO, passando attraverso la composizione di drammi seri e giocosi, di cantate e intermezzi, brevi azioni sceniche che erano appunto collocate nella pausa tra i diversi atti degli spettacoli. Un primo decisivo momento di maturazione si registra nel 1738: Goldoni scrive il Momolo cortesan, una commedia nella quale accanto alle indicazioni sommarie riservate agli attori, la parte del protagonista è scritta per intero ma il resto era improvvisato. L’opera sarà poi riscritta e pubblicata con il titolo di L’uomo di mondo nel 1757. Il Momolo di cortesan rappresenta da subito una svolta: la mediazione tra una sezione scritta e parti lasciate invece all’improvvisazione degli attori caratterizza anche il Momolo sul Brenta del 1739 e La bancarotta del 1740, una trilogia in cui Goldoni matura lentamente anche una riforma della maschera tradizionale di Pantalone. Questa figura perde i tratti più convenzionali e rigidi e assume invece nella scrittura goldoniana toni più seri e meditati, diventando quasi un polo positivo nella rappresentazione della società veneziana. I primissimi anni Quaranta sono fitti di scritture e questa sperimentazione più avanzata va di pari passo con la composizione di canovacci, opere buffe, melodrammi, prima di un nuovo scarto: la commedia La donna di garbo scritta nel 1742 e 1743, rappresenta il primo caso di commedia interamente scritta con battute definite per tutti gli attori e questa sarà importante perché sarà considerata una nuova scrittura per il teatro. Nel periodo del San Samuele Goldoni mette dunque a fuoco gli elementi chiave della riforma: lo fa attraverso un rapporto serrato con il pubblico veneziano e da una parte con la compagnia degli attori. La proposta di un’innovazione convive in Goldoni con una parziale conservazione dei moduli della commedia dell’arte, proprio in raggio e del necessario spirito di mediazione con quella che era la pratica degli attori, affermato si è raffinata nel corso delle generazioni. 4. Una parentesi in Toscana e il ritorno a Venezia Nel 1744 è costretto a lasciare Venezia per ragioni economiche per via dei troppi debiti che aveva accumulato, si sposta prima a Bologna e poi a Rimini e infine a Pisa. Qui riprende a esercitare la professione di avvocato continuando però a comporre, a distanza, opere per il teatro veneziano: l’Arlecchino servitore di due padroni, scritto e rappresentato nel 1745. In questo periodo cade anche l’aggregazione dell’Arcadia. Il triennio pisano si chiude nel 1748 e segna anche la chiusura della stagione di Goldoni avvocato. Poco dopo il ritorno a Venezia, Goldoni sottoscrive un contratto per cinque anni con l’impresario di Girolamo Medebach e sceglie di perseguire in modo esclusivo la professione teatrale, impegnandosi a comporre per ogni stagione otto commedie e due opere musicali. Inizia una stagione intensa con le opere più significative che risultano tutte calate nel vivo della società veneziana. Dal 1749 è ad esempio La putta onorata, commedia nella cui protagonista Goldoni proietta un’ideale di virtù misurata e pudica, una frugalità che rappresenta la dote più pregiata sull’orizzonte variegato della società lagunare. La protagonista Bettina preferisce la conservazione delle proprie origini. Cominciano così a definirsi, in una lingua che è diretta espressione della vita veneziana, una rosa di valori, trai quali sincerità, legami familiari, difesa della reputazione che dovrebbero garantire una coesione tra le diverse fasce sociali. Le simpatie di Goldoni puntano per lo più alle fasce più operose e alla borghesia. Altrettanto naturale, tuttavia, che lo sguardo dell’autore possa rivelare qualche tratto di paternalismo e di conservazione, fotografando un panorama che è meglio rimanga immobile. 5. Mondo e teatro Nel 1750 Goldoni realizza con il Teatro comico una riflessione e insieme una rappresentazione della sua riforma. Nella lunga prefazione al primo volume delle sue opere, stampato nel 1750, Goldoni offre una versione nitida dei modi e degli obiettivi del suo nuovo teatro. Prima viene presentato a tinte forti il quadro di decadenza della commedia dell’arte, in una prospettiva spinge soprattutto sull’elemento della corruzione morale. Un panorama di improvvisazione e di testi miseri che seppure magari efficaci grazie alla straordinaria abilità degli attori, suscitava passioni vili per una comicità di natura volgare. Di qui, per reazione, le ragioni e la forza della riforma fondata sullo studio di due libri: lo studio del mondo come una palestra per l’analisi e la comprensione delle passioni umani, nella dinamica continua tra vizi e virtù e nell’inesauribile varietà delle esperienze umane; lo studio invece del teatro per acquisire i colori utili a far impressione sugli animi, a conferma della cultura morale che Goldoni imprime alla sua istanza di riforma: in questo modo egli riprende una tensione a nobilitare la pratica del teatro, collocandola all’interno di una prospettiva alta, pedagogica, tensione che era stata di diversi intellettuali di primo settecento come Zeno e Metastasio. Un’ultima nota completa questa pagina ed è rivolta alle scelte di lingue e stile, improntate a un’immediatezza e a un paradigma di natura che intende giustificare la natura poco sorvegliata della scrittura di Goldoni, tanto rapida quanto diseguale. Mondo e teatro diventano così i due poli che orientano la scrittura in una combinazione di analisi di costumi e realtà e di abile resa scenica. 6. Le sfide dei primi anni Cinquanta Nel corso della stagione del 1750 una commedia, l’erede fortunata, va incontro a un brusco insuccesso, per cui Goldoni impegna a comporre per la stagione 1750-1751 sedici testi inediti (impegno rispettato). Tra gli -Infanzia, formazione e giovinezza (romanzo di formazioneàmaggiore vivacità stilistica); -Gli anni della scrittura teatrale a Venezia (manifesto di poetica, difesa della riforma à tendenza apologetica); -Gli anni francesi: un romanzo di viaggio e un saggio sui costumi( romanzo di viaggio e saggio sui costumi francesi à cronaca ripetitiva della vita parigina) Le ultime due parti secondo Franca Angelini sono mirate alla costruzione di un mito, il ‘romanzo di un vita’ offre il supporto a un progetto culturale e ideologico suggellato pur nelle prospettive di Parigi. I Mémoires portano a piena espressione tendenza autobiografica costantemente presente nella scrittura goldoniana e che scandiva, con altri toni, le prefazioni alle edizioni delle sue opere (opera a cui affida la sua immagine di pacato e bonario, con profonda inquietudine- rimane senza pubblico). Nel 1792 (post rivoluzione) la sua pensione reale viene revocata, riducendolo in miseria. Muore a Parigi nel 1793. 6. MILANO-EUROPA. L’ILLUMINISMO LOMBARDO 1. Illuminismo e giornalismo Tra il 1761 e il 1762 a Milano un gruppo di sodali si raccoglie nella cosiddetta Accademia dei Pugni (animosità dei dibattiti): uno spazio di sociabilità dive si traducono in territorio milanese le idee di rinnovamento culturale, politico ed economico della società civile elaborate dagli illuministi francesi. Vi sono quindi degli esiti di discussione collettiva di temi filosofici e di attualità socioeconomica inscritti in una prospettiva democratico-liberale. Il caffè, periodico di lingua, letteratura, costume, economia e politica che esce ogni dieci giorni tra il giugno del 1763 e il novembre del 1766, nasce proprio come costola di questa accademia, in ragione della coincidenza degli intellettuali coinvolti, infatti vi contribuiscono anche economisti, matematici e astronomi. La rivista è stata ideata con l’intento di promuovere e di spingere sempre più gli animi italiani allo spirito della letteratura, alla stima della scienza e delle belle arti e ciò che è più importante all’amore delle virtù, dell’onestà, dell’adempimento dei propri doveri, si riallaccia alla grande tradizione giornalistica europea ironica e accattivante che ha come capifila il britannico the Spectator di Addison. È un caffè ideale in cui discutere i temi dell’ordine del giorno e costituisce un dispositivo formale di collegamento tra i testi ma anche etico. Altre ollante tra i vari contributi è il presupposto di fondo che lo svecchiamento civile della società passi attraverso il superamento del sistema feudale di ancien Régime. In particolare, il maggior contributore della rivista fu Alessandro Verri che firma una serie di articoli che hanno come bersaglio proprio la pedanteria linguistica, additata come nemico fin dall’avviso ai lettori che apre la prima annata. Nella Rinunzia Verri, a nome degli autori, rivendica la necessità di attingere ad altre lingue per arricchire il patrimonio di lessico e di conoscenza dell’italiano: le idee e le cose devono prevalere sulle parole. Altro personaggio importanti è Carli che nell’articolo Della patria degli italiani richiama l’attenzione sulla necessità di superare l’endemica frammentaria politica, economica e morale della penisola in favore di un’unità civile su scala nazionale. 2. Una famiglia nell’età dell’Illuminismo: i fratelli Verri Pietro e Alessandro (figli del notabile Gabriele Verri) sono le personalità più rappresentative della Milano dei Lumi.  Pietro (1728-1797), primogenito, dopo gli studi filosofici a Parma, torna a Milano dove oltre a innescare l’esperienza dei pugni e del caffè e a pubblicare saggi di economia politica di taglio liberale, diviene funzionario asburgico su temi di interesse tributario ed economico.  Alessandro (1741-1816), dopo aver composto durante gli anni del caffè un saggio sulla storia d’Italia, intraprende un viaggio a Parigi al seguito dell’amico Beccaria e poi a Londra, per trasferirsi quindi a Roma dove abita fino alla morte dedicandosi esperimenti letterari (traduzioni, drammi e romanzi, con le avventure di Saffo poetessa di Mitilene;  Carlo invece diverrà senatore del regno d’Italia sotto Napoleone;  Giovanni (1745-1818) cavaliere dell’ordine di Malta, intreccia una relazione con Giulia Beccaria, figlia di Cesare da cui nascerà Alessandro Manzoni, erede di questa tradizione politico-filosofica. Con il viaggio oltremontano di Alessandro ha inizio il carteggio con il fratello Pietro, più di 3800 lettere scritte tra il 1766 e il 1797: una tavola di condivisione e revisione dei propri progetti ma anche di contrapposizione dialettica su temi politici, due visioni politiche opposte radicalizzatesi negli anni vissuti dall’uno nella Roma antica e del papato e dall’altro nella Milano del presente asburgico, tentando di riformarne dal didentro l’organismo politico e amministrativo. All’indomani dell’esecuzione di Luigi XVI, Pietro vede nella rivoluzione l’avvio della realizzazione di principi repubblicani e di emancipazione borghese a cui aderisce ideologicamente (Alessandro invece propende per un potere monarchico a guida religiosa). La stessa matrice illuministica dà vita alle osservazioni sulla tortura di Pietro Verri (1760 ma pubblicate con intento polemico in redazione definitiva del 1777ànel 1766 il padre firma il parere negativo del Senato di Milano sull’ abolizione della tortura). Nell’opera si dimostra come l’iter processuale contro il barbiere Giangiacomo Mora, accusato come untore durante l’epidemia di peste del 1630, fosse viziato dalle confessioni estorte attraverso la tortura (rischia di far confessare un innocente, capitolo ‘Se la cultura sia un mezzo per conoscere la verità’). Il moderatismo politico di Alessandro è illustrato dalle Notti romane al sepolcro degli Scipioni (1782 e 1804 con l’edizione definitiva divisa in due parti, ciascuna divisa in 3 notti suddivise in 6 colloqui). La scoperta nei pressi dell’Appia del sepolcro degli Scipioni è l’occasione per un percorso nella storia romana in forma di visione, con l’incontro di spiriti dei romani illustri, capitanati da Cicerone (si fa il punto sull’importanza della virtù politica e degli studi umanistici/violenza conquistatrice tipica dei condottieri). Gli spiriti desiderano vedere e sapere com’è Roma al presente quindi l’autore li conduce sul monte Palatino. Alla Roma imperialista e sanguinaria è succeduta la pacificata Roma papalina (seconda Roma, fenice risorta, impero nato dall’utilità, cresciuto dal consenso, confermato dalla persuasione), alla cui autorità si sono prostrati i sovrani temporali( Papa unica avanguardia contro costumi scellerati à es. Vaticano sconfigge gli ottomani nel 500). Crea quindi una mitografia di Roma (Musitelli) intesa come roccaforte dell’ecumenismo cattolico, nel segno di un orizzonte politico personale conservatore. 3. Un intellettuale europeo: Cesare Beccaria Dopo la formazione presso il collegio dei Gesuiti di Parma, Cesare Beccaria (1738-1794) consegue nel 1758 il dottorato in legge presso l’ateneo pavese (1761 ‘conversione alla filosofia’ a seguito della lettura delle Lettere persanes di Montesquieu, in cui la società francese e il suo assetto politico-economico vengono criticati attraverso lo straniante punto di vista dell’ ‘altro’, due persiani in visita a Parigi). La moglie Teresa Blasco nel 1762 darà al filosofo una figlia, futura madre di Alessandro Manzoni. Sono anche gli anni della frequentazione dei Pugni e della stesura del pamphlet dei delitti e delle penne, nato dal confronto con gli altri illuministi lombardi(1764, l’opera più influente prodotta dal circolo dei lumi milanesi, saggio di politica legislativa e penitenziaria che ha un impatto sul pensiero filosofico ed europeo (tradotto in varie lingue, citato da Jefferson in sostegno all’ abolizione della pena di morte negli Stati Uniti), e sul diritto moderno (sostanziato dalla lettura di d’Alambert, d’Holbach, Diderot, triade dell’ Enciclopedie, i sensisti Codillac e Buffon, l’empirista scozzese David Hume, Helvetius autore di De l’esprit-principio sensisti di dipendenza della conoscenza dalle impressioni sensoriali sistematizzato in una costruzione utilitaristica, per cui ogni azione è volta ad ottenere il piacere evitare il dolore- . Il pamphlet viene avviato nel marzo del 1763 con la revisione di Pietro Verri e con sguardo di Alessandro Verri, investito del ruolo istituzionale di protettore dei carcerati, sarà concluso nel gennaio del 1764 e pubblicato anonimo a Livorno presso l’editore Coltellini per prevenire accuse di parzialità e di dare ai principi esposti valenza universale. Beccaria allestisce una prima redazione intitolata Delle pene e dei delitti, Verri copierà una seconda stesura introducendo innovazioni sia formali sia contenutistico, correzioni coatte d’autore; Morellet sottopone il testo rancese a un’operazione di montaggio e rimontaggio (Beccaria loda le modifiche attuate nel traduttore nell’avviso al lettore che apre la quinta edizione, mantenendo intatta la struttura nella sesta per ossequi implicito al manoscritto di Verrià l’edizione critica moderna accoglie l’ultima manifestazione di una volontà non contraddittoria dell’autore: ordinamento proposto da Morellet+ aggiunte introdotte nella 3 e 5 edizione. Beccaria, Verri, Morellet intervengono in stati testuali differenti producendo un’opera aperta (Francioni). Il libro è diviso in 47 capitoli preceduti da un’allocuzione a chi legge e da un’introduzione. Partendo dalla nozione di contratto sociale di Rousseau (fonte taciuta), Beccaria sostiene la volontà di evitare il dolore conseguente ai conflitti ha condotto gli uomini al consenso civile di limitare l’illimitata libertà originaria (patto comune). Le leggi, strumento attivo di limitazione, suscitano il timore di compiere azioni lesive nei confronti del corpo sociale, e puntano secondo il criterio dell'utile comune, alla massima felicità divisa nel maggior numero (introduzione). I testi legislativi devono essere comprensibili (Cap 5, Oscurità delle leggi), dichiarati pubblicamente e applicati senza eccezioni. Dal principio dell'utile discende anche la norma della proporzionalità delle pene, fondata sul criterio del danno pubblico (a delitti più gravi, corrispondono pene più gravi), disattesa dagli ordinamenti di antico regime (norme come ostacoli politici agli effetti negativi delle azioni umane). Dall' osservanza del principio di legalità discende logicamente il garantismo penale, primo argomento avocato contro la pratica della tortura (+ altri due argomenti: assurdità della tortura come purgazione dell’infamia, in quanto motivata dall’erronea credenza che il dolore che è una sensazione purghi l’infamia che è rapporto morale, e l'inconsistenza della condanna di un torturato sulla base di contraddizioni verbali a seguito di tortura (può portare gli uomini a dire cose false pur di salvarsi).Segue la discussione sulla legittimità della pena capitale( non è un diritto, è inutile e dannosa e va sostituita con la privazione della libertà, pur applicabile se il cittadino tenta di sovvertire gli istituti della convivenza civile). Ci si domanda poi come prevenire i diritti: attraverso leggi chiare e semplici, difese da tutta la nazione, che favoriscano più gli uomini che le classi di essi, tali da generare il giusto timore nel complesso si chiude con una riflessione sullo stadio di sviluppo di un corpo sociale nella sua relazione con l'intensità della pena (maggiore è la sensibilità sociale minore deve essere la forza della pena). Il trattato si conclude poi con il teorema generale ovvero che perché ogni pena non sia una violazione di uno o molti contro un privato cittadino, deve essere pubblica, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata a delitti e dettata dalle leggi. Nel 1768 Beccaria ottiene la cattedra di economia e commercio a Milano (Scuole Palatine), dettando le sue lezioni (poi edite Elementi di economia pubblica: come incrementare il piacere, si discute della ricchezza delle nazioni a partire da una prospettiva fisiocratica, assumendo che motore e base dell'economia sia l'agricoltura, per cui il surplus generato dalla modificazione dei beni debba essere reinvestiti nella produzione degli stessi). Nelle ricerche intorno alla natura dello stile (1770 per la prima parte mentre una seconda parte, incompiuta, è stampata postuma nel 1809) Beccaria riflette invece sul conseguimento del piacere connesso all’immaginazione, privato e gratuito. Negli stessi anni si dedica a un progetto, incompiuto, di storia filosofica dell’incivilimento, Il ripulimento delle nazioni. Dopo essere diventato alo funzionario nel 1771, egli si consacra al servizio del bene pubblico, stilando un gran numero di atti di governo (stretto vincolo fra pensiero e azione). 7. GIUSEPPE PARINI 1.Il poeta fra i «cenci e l’oro» del Settecento. Parini, di formazione arcadica, aperto all'Illuminismo, di gusto neoclassico e uomo aderente al riformismo di Maria Teresa d'Austria (fedeltà asburgica e rifiuto degli eccessi della Rivoluzione francese) è per vocazione un poeta ed un educatore, pur assolvendo anche compiti amministrativi. La sua estrazione provinciale, povera e plebea è all’origine del suo punto di osservazione sulla società e della riforma proposta. La prossimità al mondo degli ultimi acuisce la percezione della strutturale ingiustizia sociale, dell’immoralità dei privilegi e delle ricchezze di una aristocrazia neghittosa e corrotta, non accompagnati da moralità e utilità comune. D’altra parte, l’orgogliosa consapevolezza d’esser poeta, di far parte di un’aristocrazia spirituale lo rende coscientemente diverso dai plebei per nascita e per spirito: di qui il bisogno di autoritrarsi poeta e di comporre una poesia ‘difficile’ distinguendosi dalla facilità arcadia e melodia metastasiana troppo compromesse con un uso sociale che svilisce la lirica. Parini opera una letteratura che, da un lato, con le armi della satira e dell’ammonimento invita ed educa a una riforma razionale e morale dell’uomo e della società, dall’altro, tramite la lode del merito, l’adesione alla verità e la proposta di una bellezza incontaminata, celebra la vera nobiltà dell’esistenza: la virtù, la libertà, la tenerezza degli affetti. 2. Formazione ed esordio di Ripano Eupilino Giuseppe Parino, poi Parini, nasce a Bosisio il 23 maggio 1729, decimo figlio di Francesco Maria, piccolo commerciante di sete. Dalla provincia brianzola, Giuseppe giunge a Milano nel 1738 e vi frequenta, dal dalle loro cause economico sociali/sanità di Bossio).Lo sperimentalismo è tematico, ma ancor più poetico- linguistico: la concentrazione espressiva e le scelte retoriche e lessicali di piegano il lessico aulico della tradizione a rappresentare e giudicare la realtà contemporanea nella concretezza e quotidianità di oggetti e problemi (formulazioni polisemiche). Il tema dell’aria fa sì che il contrasto città/campagna, vizio/virtù siano ricondotti all’opposizione profumo/puzzo: l’enfasi sui sensi, lusingati od offesi, si riversa sulla rappresentazione poetica che ricerca l’evidenza persuadere il lettore, percorrendo nella prassi le conclusioni del Discorso sulla poesia e mettendo in pratica i principi estetici del sensismo (utile non è un giovamento morale, ma la capacità poetica di sostenere le riforme sociali, utili alla 'comun salute'.  La impostura (1761): costruita sull’ironica sottomissione del poeta all’altare della “Venerabile Impostura” cui è contrapposto l’”amabil lume” della Verità. 4. La grande poesia degli anni Settanta Nel 1762 abbandona i Serbelloni (scontro con la duchessa in seguito al maltrattamento di una damigella di cui prende le difese) e diviene precettore di Carlo Imbonati (figlio del conte Giuseppe Maria) fino alla morte di questi (sostanziale chiusura dell’Accademia dei Trasformati). Né gli impieghi come precettore né l’attività poetica e letteraria ne migliorano la condizione economica. Anche grazie alla spinta interiore datagli dalle ristrettezze si dedica ai versi che, con le odi, comporranno, negli anni Ottanta, la sua opera maggiore. Nelle terzine Al canonico Candido Agudio (1762), scritte per implorare un prestito, testimonianza della miseria in cui versa (sostiene anche la vecchia madre), accenna anche a Il Mattino (1763) cui devono seguire Il Mezzogiorno e La sera. 4.1 I preparativi del Giovin Signore: Il Mattino (1763) Il Mattino ha per tema le (in)attività d’un giovane aristocratico, offrendo un giudizio globale sulla nobiltà lombarda. Parini introduce una nuova modalità di critica sociale: copre i panni del poeta satirico con quelli del maestro d’eleganza e di divertimento. Abbandona perciò i toni dell’indignazione e della rivendicazione (amaro fiel, sferza) e costruisce il proprio conversevole discorso sull’ironia, l’uso dell’antifrasi e continua celebrazione ed elevazione stilistica di vite e oggetti preziosi ma fatui, che rimandano a una realtà sociale di oppressione e ingiustizia (edonismo poetico aggrava la severità del giudizio morale). Il Mattino si apre con l’ironica dedica Alla Moda (vezzosissima dea che governa la gioventù), da cui dipendono la scelta degli endecasillabi sciolti (fonte di piacere) e la destinazione (poesia da toilette, disimpegnata e modaiola). Caratteristiche:  Il metro deriva da poemi cinquecenteschi (Eneide di Caro; Le api di Rucellai) e settecenteschi (Femia sentenziato di Martello);  lo stile fa riferimento ai classici (Virgilio e Orazio);  Il genere si affianca al Rape of the Lock di Pope (poesia eroicomica).  Materiali ideologici vengono dal Discorso sopra la nobiltà (riferimenti ironici alla nobiltà di sangue o di moneta, raffronto fra la durezza degli avi e la vita oziosa, la relativa innocenza per ignoranza del signorino, corruzione dei costumi sociali ed educativi).  tema del distacco della società aristocratica dalla natura – fonte di vitalità sana, espressione di una razionalità e moralità oggettive (la mattinata del nobile, risvegliatosi a giorno fatto a seguito di una serata di festeggiamenti- coricato al canto del gallo, che invece richiama all'opera i contadini, modelli di vita laboriosa-, sarà tutta occupata dalla preparazione di sé per l’uscita in carrozza. Scopo dei preparativi (permettono di rappresentare il mondo mondano, la superficialità che lo contorna) è la comparsa nel bel mondo e l’accompagnamento della dama di cui è cavalier servente (riflessione sull’amore come costume sociale). A fronte della sana vita familiare degli umili il cicisbeo rappresenta il segno della corruttela nobiliare, distorsione della virtù (favola di Amore e Imene- elemento didascalico - dedicata alla divisione fra amore e matrimonio). Il signorino si reca alla dimora della dama con la quale trascorrerà le altri parti della giornata, chiudendo con la corsa del cocchio (e la vista dell'impuro sangue'- a contrasto con quello 'purissimo, celeste' con cui si apre Il Mattino- del cocchiere ferito, rimarcando la distanza sociale fra nobile e plebeo) questo momento della giornata. 4.2 Miti ed eroi della ragione: le odi dopo Il Mattino  Ode L’educazione (1764): composta per la guarigione di Carlo Imbonati e dedicata ai principi di formazione umana (la prima parte si qualifica come armoniosa e loda il destinatario, a cui offre la seconda parte in dono, in cui il rapporto maestro-allievo è trasposto nell'analogia mitica Chirone-Achille, e l'insegnamento diviene rivelazione di una verità e sapienza. L’ode, celebre per l’evidenza neoclassica delle immagini, è un positivo del Mattino e l’Achille-Imbonati, difensore della patria e caritatevole, appassionato entro i confini di ragione, rappresenta l'investimento di Parini nella formazione di un’aristocrazia illuminata e riformatrice, che sappia elevare il privilegio col merito della virtù.  ode L’innesto del vaiolo (1765): (fiducia nell’educazione e nel progresso) in sostegno alla campagna di valorizzazione del medico Giammaria Bicetti de’ Butinoni (accademico Trasformato e zio di Carlo), ostacolata dalla dall’ignoranza. Il pindarismo stilistico (comparazioni, metafore, apostrofi, estensione dei riferimenti geografici) si intona al pionierismo medico e riformatore del Bicetti, paragonato a Cristoforo Colombo, ma a questi superiore (valore della vita, salvaguardata dalla cura del vaiolo, superiore all' oro delle Americhe). La strofa conclusiva riconferma la funzione allettatrice e educatrice della poesia illuministica, non servile. 4.3 Il cicisbeo in società: Il Mezzogiorno (1765) Nello 1765 è pubblicato il secondo poemetto sulla giornata del nobile: Il mezzogiorno. Non muta l’impianto formale e ideologico ma si arricchisce di temi(il cicisbeismo, rituale rapportarsi di Dama e Cavaliere con reciproche infedeltà, litigi e gelosie, tipi e mode della società nobiliare), personaggi (la dama corteggiata, il marito inebetito cui è vietata gelosia, il cicisbeo) e maggior movimento articolato in quattro tempi:  l’arrivo del Giovin Signore presso la dama;  il desinare;  il caffè ed il gioco;  la passeggiata al corso. Sono inserite inoltre due favole, la prima (momento in cui la Dama si siede a tavola col Cavaliere) ha funzione sociale, con il racconto dell’origine dell’uguaglianza degli uomini infranta dagli dei, con l’invio sulla terra del piacere che porta la divisione fra nobili (con sensi adatti al diletto) plebe che segue solo il rozzo bisogno. La seconda, sferza l’innaturale mancanza di gelosia nei mariti nobili. La seconda, sull' origine del gioco del tric-trac (suggerito da Mercurio all' amante per assordare il marito geloso) sferza l'innaturale mancanza di gelosia dei mariti nobili. La scena del pranzo propone vari tipi di umani (il carnivoro, il vegetariano), latori di tesi o mode presenti nel dibattito culturale coevo. Significativo per comprendere l’illuminismo non libertino di Parini è il rapporto con i filosofi illuministi (Voltaire e Rousseau) delle cui idee il giovin signore si è infarcito durante la toilette, esponendole per farsi bello di fronte alla Dama quelle più spregiudicate contro la religione (ma guardandosi da quelle egualitarie--> ateismo alla moda, edonismo, e individualismo del Giovin Signore/ il loro opposto e l'umanitarismo dell'illuminismo pariniano). Il Mezzogiorno, giunto al culmine della socialità (frequentano il corso i nobili, coloro che da tutti sono serviti e a nulla servono) si chiude su lunghe ombre e rintocchi funebri, poiché la notte che sopraggiunge, annulla tutte le differenze apparenti (biologiche, sociali, estetiche), ottundendo, con le facoltà percettive, le possibilità rappresentative del poeta, la cui parola, ultima a tacere, è la sola a sottrarre al buio i 'cenci e l'oro', le inutili gesta del Giovin Signore. 5. Parini professore e funzionario (1766-1796) Anche grazie al successo di Mattino e Mezzogiorno e all’avvicinamento agli ambienti della corte, inizia una carriera come docente (+ tramite la partecipazione a commissioni ministeriali collabora al riformismo di Maria Teresa), e nel 1766 scrive l’ultima ode civile, Il bisogno (sostiene l’inutilità di pene aspre senza porre rimedio alle cause socioeconomiche del crimine).(chiusura dell' Accademia dei trasformati nel 1767) Il silenzio poetico sarà compensato dalla nomina, nel 1768, a poeta del teatro Ducale: comporrà drammi, fra cui l’encomiastico Ascanio in Alba (1771, musiche del 15enne Mozart), rappresentato come intermezzo al Ruggiero di Metastasio durante i festeggiamenti di Ferdinando con Riccarda Beatrice d'Este. Per la stessa occasione compone l’odicina il piacere e la virtù, favoletta encomiastica sulla riunificazione nel matrimonio regale di innocenza e libertà, e la Descrizione delle feste nuziali. Trascorso il 1769 a redigere il settimanale governativo La Gazzetta di Milano (pubblicazione di avvisi e dispacci di altri paesi), alla fine dell’anni ottiene l’incarico accademico a professore per la cattedra di Eloquenza e Belle Lettere nelle pubbliche scuole Palatine (6 dicembre pronuncia la prolusione: Discorso recitato nell'aprimento della nuova cattedra delle Belle Lettere), sostenendo il ruolo di guida delle lettere 'a promuovere e mantenere il buongusto nelle altre arti'. Le Lezioni di Belle Lettere si basano su un classicismo purista fondato sul toscano degli autori del Tre e del Cinquecento, approvato dalla Crusca e dall’Arcadia, funzionale a uno stile comunicativo, semplice, forte, ispirato ai principi della retorica classica (proporzione, ordine, chiarezza) e adatto anche, sul modello di Gallileo, a contenuti scientifici. Nel 1773 le scuole Palatine sono trasferite nel Ginnasio di Brera. Nel 1774 è inserito nella Commissione per la revisione dei testi scolastici e nel 1775 in quella che valuta le scuole di retorica di Cremona e Como. Nel 1776 collabora con Beccaria agli statuti dell’Accademia di Agricoltura e Manifatture e redige un piano per la riforma dei libri elementari scolastici. Dallo stesso anno insegna anche all’Accademia di Brera e dal 1777 vi ha stabile alloggio (situazione economica meno precaria). Nel 1778 stende il soggetto per il sipario alla Scala e sul finire degli anni Settanta e poi fini agli anni Novanta, Parini collabora con pittori e scultori di Brera ideando programmi iconografici e indicando loro soggetti mitologico- letterari per decorare, con gusto neoclassico, spazi pubblici e residenze private (idea di poesia come pittura). (Riforme dell'assetto burocratico di Giuseppe II mettono a rischio la sua posizione economica). Il terribile evolversi della Rivoluzione francese lo turba, egli teme il sovvertimento dei principi, anche religiosi, fondanti l’intera società. Nel 1796 quando nel corso delle campagne napoleoniche Milano cade sotto il controllo francese, Parini è coinvolto per pochi mesi nella municipalità repubblicana e tenta di collaborare ai lavori di una commissione incaricata di occuparsi di educazione e religione ma poi viene messo da parte (non incline agli estremismi dominanti). 6. Ritorno alla poesia: le Odi (1777-1796) (Ripresa dell'attività poetica) Nel 1777 è ammesso all’Arcadia di Roma con il nome di Darisbo Elidonio, e torna a comporre odi d’occasione:  La Laurea :(pindarica e chiabreresca) per l’addottoramento pavese in giurisprudenza di Pellegrina Amoretti, tematizza la ripresa della poesia dopo un lungo silenzio, tornando ad enfatizzare l’impegno etico nel comporre versi.;  Le Nozze : su invito di Passeroni per lo sposalizio di Carlo Malaspina e Teresa Montanari;  Il Brindisi nel 1778. Il valore assoluto della poesia e la persona del poeta(austera, eticamente irreprensibile) acquisiscono qui e nelle liriche degli anni Ottanta, un’importanza crescente, accreditando l’ode come spazio all’espressione e difesa dell’io poetico. Si affianca inoltre il tema della celebrazione della bellezza, muliebre, intangibile, rappresentata in versi di compostezza neoclassica. A questo filone fanno riferimento:  Le nozze, con il disegno della sposa addormentata che riapre gli occhi cercando il marito cui sorride incarnando l'armonia di brama e pudor;  Il brindisi in cui il poeta vecchio e ignorato dalle giovani celebra l’amicizia che dura per sempre al contrario dell’amore;  La recita de versi (1783-1784),contro la lettura di testi poetici durante rumorosi conviti;  Il pericolo (1787), in cui la bellezza femminile rischia di far mettere il poeta nella ridicola posizione del vecchio innamorato, è composta per la gentildonna veneziana Cecilia Tron, dall'attrazione per la quale si rifugia in campagna e nell' immaginazione;  Il dono (1790) costruito sul contrasto di affetti e piaceri, ode occasionata dall’invio del volume della tragedia d’Alfieri tremende ma circonfuse dalle grazie di Paola Castiglioni, la donatrice. drammaturgiche della tradizione barocca (portando alle estreme conseguenze elementi presenti già nelle tragedie di Voltaire e riattualizzando Seneca). Ma è la narrazione autobiografica della Vita scritta da esso il vero sigillo del cambiamento: l’autore si rivela a se e agli altri come individuo borghese che trova la propria realizzazione agendo il proprio ruolo all’interno di una rinnovata società civile, seguendo la via dei predecessori Montaigne e Rousseau. Il testo rilegge la vita dell’uomo-Alfieri nella tensione a costituirsi come drammaturgo d’eccezione nel tempo e nello spazio a partire dalla «conversione letteraria e politica» del 1775: l’io privato e l’io pubblico si saldano nel compimento di un curriculum artistico. 3. Neoclassicismo italiano Il Neoclassicismo arriva a lambire anche la società letteraria italiana. Se Vincenzo Monti e Ugo Foscolo sono gli esponenti maggiori, molti sono gli altri interpreti: Pindemonte, Arici, Fantoni, de’ Giorgi Bertola. Al loro stile di esibita eleganza, che pesca dalla tradizione mitologica classica, è allineata la raccolta di inni Agli dei consenti, offerta in dono a Giulio Perticari per il suo matrimonio con la figlia di Monti, Costanza. Monti, maturato nel classicismo arcadico romano patrocinato da Papa Pio VI, diventa a Milano funzionario della Repubblica Cisalpina e quindi «istoriografo» del Regno d’Italia sotto Napoleone (pensa per lui: Il Prometeo, La Spada di Federico II, Le api panacridi in Alvisopoli, Il Bardo della Selva Nera , e la traduzione in sciolti dell’Iliade, nella quale tutto l’armamentario retorico-stilistico della poetica neoclassica è dispiegato per celebrare la linea politica imperialista di Bonaparte). 4. Alla ricerca della lingua Se per Alfieri (nel quotidiano adopera piemontese e francese) l’italiano è una lingua-obiettivo da inseguire, negli stessi anni il codice linguistico nazionale è al centro di dibattito. Come nel caso del professore e traduttore Melchiorre Cesarotti(maestro di Foscolo a Padova), la cui edizione definitiva del Saggio sulla filosofia delle lingue applicato alla lingua italiana afferma, facendo proprie le istanze del sensismo francese, l’inarrestabile mutabilità delle lingue storico-naturali, in conseguenza del continuo contatto tra loro. Tra 1806 e 1811 vede la luce il prodotto lessico-grafico di una teoresi linguistica su presupposti opposti rispetto a quelli del Saggio: la ristampa del Vocabolario della Crusca curata da Antonio Cesari, caposcuola del movimento purista, che si propone di incrementare il patrimonio lessicale italiano non attraverso forestierismi, ma attingendo all’italiano del Trecento, percepito come età dell’oro (non solo le tre corone). È Monti a tirare le fila: a partire dal rifiuto del protezionismo linguistico di marca nazionalista del Cesari, nella sua Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca pone la necessità di avvalersi in prosa e in poesia di un italiano letterario cinquecentesco di stampo classicista, che guardi ai modelli di Caro, Ariosto e Tasso, ammettendo aperture a forestierismi e neologismi. 5. Sotto il segno del progresso civile Nella Milano neo-capitale del Regno Lombardo-Veneto si fronteggiano gli esponenti delle due tendenze classicista e romantica. La polemica è avviata dall’articolo di Madame de Staël Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni, in cui la baronessa sollecita i letterati a volgere in italiano le opere straniere in modo da rivitalizzare contenuti e stile della letteratura nazionale. A lei ribatte con alcuni interventi Pietro Giordani, fautore di un classicismo linguistico e letterario declinato in chiave progressista, per cui solo la perfetta padronanza della tradizione linguistica italiana (contrapposta alle letterature straniere e ai dialetti) può servire alla liberazione socioculturale delle masse. È questo l’anello di congiunzione tra il pensiero di Giordani e quello degli intellettuali di fede romantica e di orientamento politico liberare e antiaustriaco che animano la rivista «Il Conciliatore» la cui redazione è unita dalla convinzione che le lettere servano al progresso del consorzio civile. Convinzione illustrata da Berchet nell’epistola pedagogica Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliolo, nella quale si proclama che ‘la sola vera poesia è quella popolare’. Infatti, è popolare e romantico il romanzo pubblicato nel 1832 da un altro ex redattore della rivista, Silvio Pellico: Le mie prigioni. Il focus su un protagonista antieroico, sostenuto dalla fede cattolica, e l’impiego di un linguaggio piano e comprensibile contribuiscono alla diffusione capillare di questa prosa memorialistica, che si concentra sugli anni trascorsi in carcere dall’ autore tra il 1822-1830, in conseguenza alla sua partecipazione ai moti carbonari antiasburgici del 1821. 1. VITTORIO ALFIERI 1. Un aristocratico contro ogni dispotismo Aristocratico, viaggiatore, drammaturgo, poeta e autobiografo. Vittorio Alfieri, con la sua biografia e con la sua opera, riassume il ‘700, ultimo atto delle società di antico regime e prologo di un’era nuova, l’era borghese. Alfieri descrive questo cambiamento epocale dalla posizione privilegiata di un nobile (grand tour nell' Europa dell' ancien regime), sviluppando un pensiero politico avverso a tutti i tipi di tirannide (di un solo o della maggioranza), che trova corrispondenza scenica e letteraria nella produzione tragica innovativa, destinata a mutare le forme del teatro. Allo stesso tempo, è proprio l’emersione della disprezzata soggettività borghese a preparare il terreno adatto alla creazione e alla ricezione dell’autoanalisi consegnata alla Vita (autobiografia). 2. Il Grand Tour e i primi esperimenti letterari Ad Asti, nel 1749 nasce Vittorio Amedeo Alfieri (figlio del conte Antonio Amedeo Alfieri); vedova, la madre si risposa con Giacinto Alfieri di Magliano e di Castagnole, e Vittorio è affidato al prete don Ivaldi, che gli insegna le basi della scrittura (fino alla quarta classe). Tra il 1758 e il 1766 intraprende i primi «non studi» presso l’Accademia Reale di Torino, dove si accosta autonomamente all’Eneide nella traduzione di Annibal Caro, all’Ariosto dell’Orlando Furioso, e alle opere di Metastasio e di Goldoni. A Torino, grazie allo zio Benedetto Alfieri, conosce il teatro in musica, assistendo all’opera Il Mercato di Malmantile sul libretto di Goldoni. In la Vita, Alfieri confessa di non essere mai stato così attratto da qualcosa come dalle opere in musica, che gli lasciavano un senso di malinconia che risultava produttiva: ammette di aver prodotto la maggior parte delle sue opere durante o poco dopo aver ascoltato musica (motore per il concepimento di idee da riversare nella scrittura tragica). Ma Torino non è solo musica, è anche teatro di parola (nel 1765 assimila il repertorio francese comico e tragico; anni che già contengono gli elementi di un ente libero: naturale pendenza a giustizia, eguaglianza, generosità-Vita-). Un breve gita a Genova (babbuinata), nulla se confrontato agli altri viaggi “esotici”, lo spinge ad allargare il perimetro del proprio spazio mentale ed ideale, affrontando nel maggio del 1766 un viaggio in Italia (Milano, Firenze, Roma, Napoli--> eccetto Roma, ovunque conosce i sovrani del luogo, riportandone un’impressione di ‘tirannia’ generalizzata). Si muove poi a Venezia, Genova e infine in Francia dove giunge alla corte di Luigi XV, che lo colpisce negativamente. In Inghilterra e in Olanda apprezza gli ordinamenti politici democratici. Nel 1769 l’esperienza della corte viennese di Maria Teresa, la lettura delle Vite di Plutarco e la repulsione nei confronti della cortigianeria di Metastasio (rifiuta di conoscerlo) forgiano l’inclinazione antitirannica. Alfieri riparte poi per Praga, Dresda, Berlino, dove conosce il ‘tiranno’ Federico II, arriva in Svezia, esaltato dalla sublime natura gelida, in Finlandia, a San Pietroburgo rifiuta di accedere alla corte di Caterina II; Torna in Inghilterra, passa per Parigi e giunge in Spagna, poi a Lisbona dove conosce l’erudito Tommaso Valperga di Caluso (grande amico). Nel maggio 1772 rientra a Torino e l’anno successivo diventa il ‘caposcuola’ di una accademia culturale formata da vecchi compagni di collegio, chiamata Société des Sansguignons (dei Senza-ubbia), maturando il dialogo satirico in francese l’Esquisse du Jugement Universel (Abbozzo del giudizio universale). Partendo dai modelli di Luciano e Voltaire, traendo spunto dalla lettura del Gil Blas e del Diable boiteux di Lesage, dei Mémoires di Prévost, degli Essais di Montaigne e dei Caractères di La Bruyère, in questa parodia filosofico- libertina mette alla berlina, sottoponendoli a giudizio divino, prima Carlo Emanuele III di Savoia e la sua corte (+autoritratto di sé), poi l’aristocrazia piemontese e la civetteria femmini (scherno ludico di una satira destinata al diletto dei pochi membri della Société, con i germi avversione per l’ipocrisia degli uomini di corte e per il dispotismo). Il manoscritto conservato alla Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze che trasmette l’Esquisse contiene anche il diario intimo noto come Giornali, composto tra il 1774 e il 1777 in due momenti distinti, in uno scrivendo in francese, nell’altro in italiano. In questo testo, prima scrittura dell’io alfieriana, alla cesura costituita dal cambiamento di codice linguistico corrisponde una cesura strutturale e morale: nella prima parte domina il racconto dell’amore per l’ 'odiosamata signora' Gabriella Faletti di Villafalletto, con cui Alfieri intreccerà un relazione fino al 1775; nella seconda il fulcro è la gloria letteraria, obiettivo perseguito con lucidità dopo la rottura del legame amoroso. Mentre dedica cure all’amante ammalata, Alfieri si affaccia alle prime prove drammaturgiche: Antonio e Cleopatra, abbozzato a gennaio 1774 per essere messo in scena al teatro Carignano il 16 giugno 1775, insieme alla farsetta I poeti (si prende gioco del tragediografo padovano Giuseppe Bartoli). Il testo conosce sette stadi redazionali, in un passaggio dalla prosa, sia in italiano che in francese, al verso, prima incerto poi in endecasillabo sciolto. Lo spunto autobiografico ('il serventismo' di Antonio ricalca quello di Alfiero verso la Falletti) è controbilanciato dal tema universale del potere tirannico, personificato da Cleopatra e Augusto: tema cardine dell’intera drammaturgia tragica alfieriana. 3. Teatro e potere Dopo anni di apprendistato giunge a suo compimento la conversione letteraria e politica. Alla ricerca della fama letteraria non è disgiunta quella di una lingua, l’italiano, che va appresa e padroneggiata da un uomo che si esprime in piemontese e francese. Il «ben dire» deve essere perseguito in lingua italiana, non nello piacevole francese: scelta politica, oltre che linguistico-letteraria. Quanto al ben ideare e al ben comporre, spiega l’autore stesso il metodo di lavoro dei tre respiri:  Ideare: distribuire il soggetto in atti e scene, stabilire il numero dei personaggi, mettere in una breve prosa l'estratto scena per scena dell'azione e delle battute;  Stendere: riprendendo il primo foglio, riprendere le scene accennate dialogizzando in prosa come viene la tragedia intera, stendendo di getto ogni pensiero, senza badare alla forma;  Verseggiare: mettere quella prosa in versi, e a mente riposata scegliere tra gli scritti del primo getto i migliori pensieri e renderli poesia, poi limare, levare, mutare (fondamentali tuttavia i primi due momenti). Per perseguire il suo progetto linguistico e culturale, il poeta si ritira nel 1775 a Cesena, dove studia con due abati e riscrive in prosa italiana le stesure francesi di due tragedie, il Filippo e il Polinice, compiute poco prima, leggendo Dante, Petrarca, Ariosto, Tasso e la Tebaide di Stazio tradotta da Cornelio Bentivoglio. Tornato a Torino, verseggia il Filippo, si applica allo studio del latino e legge Shakespeare in traduzione francese. Al Filippo (soggetto è il sovrano spagnolo eponimo, maniaco del controllo, chiuso nella reggia- prigione) lavora a più riprese (quattro versificazioni), distaccandosi gradualmente dalla fonte, il Don Carlos di Saint Réal, nella connotazione antitirannica e libertaria assunta dal figlio Carlo, e affinando un lessico di impronta dantesca. Alla lettura della Tebaide è collegato il Polinice, (imperniata sui personaggi Eteocle, fratello di Pollinice e tiranno di Tebe, e lo zio Creonte, entrambi negativi; diversamente dalla fonte classica e quella moderna di Racine, nella mutua morte Pollinice non è vendicativo ma ribadisce stoicamente la sudditanza al fratello che morente lo uccide). L'Antigone è la prima tragedia dall’iter compositivo interamente italiano: la materia è attinta dal serbatoio mitografico tebano, con l’accento è spostato sulla protagonista femminile (colpe della famiglia di Edipo trovano catarsi nella morte). Dalla lettura delle tragedie senecane e la traduzione dell’Ars Poetica di Orazio, nascono le idee dell’Agamennone e dell’Oreste (tragedie gemelle), stesi a Siena nel 1777. Il tema della prima tragedia è la malsana passione di Clitennestra per il manipolatore Egisto, mentre in Agamennone vengono meno i connotati tirannici in favore di quelli, positivi, di padre. La seconda rivaleggia con l’omonimo dramma voltairiano, rispetto al quale Alfieri, nel Parere sulle tragedie, si fregia di maggiore essenzialità della costruzione dei rapporti tra i personaggi, ridotti al minimo, e un distillato tragico a senso unico nell’implacabile vendetta che anima il figlio del principe acheo. A Firenze Alfieri fa la conoscenza del degno (non lo ostacola nel perseguimento della gloria) amore per la contessa Louise Stolberg d’Albany, e il disincanto per il progetto politico di Vittorio Amedeo III, militarista di ispirazione prussiana, spinge Alfieri nel 1778 a donare tutti i beni alla sorella Giulia in cambio di una cospicua rendita: il poeta, spiemontizzato e disvassallato, è indipendente dal placet sabaudo e per la pubblicazione dei propri scritti. In questo periodo porta a compimento le «tragedie di libertà»:  la Virginia (verseggiata nel 1777): celebrazione della repubblica romana (ha letto Tito Livio), in cui il popolo libertario rovescia la tirannide di Appio;  la Congiura de’ Pazzi (stesa nel 1777, verseggiata 1778-79): si rifà alla congiura antimedicea ordita dai banchieri Pazzi, nella quale Raimondo assume i connotati di un Bruto toscano che si contrappone ai tiranni Giuliano e Lorenzo; Notevole è lo sforzo di trasfigurazione del particolare(autobiografico-contingente) in universale mediante il ricorso all’astrattezza del lessico petrarchesco, all'omissione dei nomi dei referenti reali, all’andamento gnomico di explicit e alle apostrofi a personaggi storici o a concetti astratti. 6. La Vita scritta da esso La vena autoconoscitiva è presente sin dagli esordi: nei Giornali, nel cameo dell’Esquisse e in vari episodi lirici delle Rime, tra cui il sonetto di autopresentazione Sublime specchio di veraci detti, dove riconosceva in sé la dicotomia tra l’indole tragica, forte e sublime, e quella comica, goffa e imbelle (Achille-Tersite). Queste due indoli si manifestano contenutisticamente e stilisticamente nell’autobiografia, permettendo all' autore di costruirsi con il progredire dell’autoanalisi: così circolarmente il personaggio diventa autore, grazie ad un Narratore padrone di tutte le raffinatezze del racconto (Anglani), progresso conoscitivo in cui la pratica diaristica ha fallito, in quanto la presa diretta sui fatti e la vicinanza tra autore e scrittura hanno fatto del diario un 'appannato specchio'. La scelta della scrittura autobiografica consente ad Alfieri di appoggiarsi a una tradizione illustrata da opere come la Vita di Cellini, gli Essais di Montaigne e i Mémoires di Goldoni (genere strumento di affermazione ideologica borghese). La Vita scritta da esso è suddivisa in quattro epoche (Puerizia, Adolescenza, Giovinezza, Virilità), periodo che va dalla nascita al 1803. L’arco di composizione va dal 3 aprile 1790 al 2 maggio 1803 per la parte prima, rivista nel 1798 e poi riscritta a maggio 1803, e dal 4 al 14 maggio 1803 per la parte seconda, e durante il processo di correzione e rielaborazione viene messo a punto quel tono medio della Vita, caratterizzata da escursione tra elementi alti e iperletterari ed elementi bassi e colloquiali (uso di aggettivi e sostantivi alterati, in un andamento paratattico). Si interviene anche su alcuni contenuti, mutando la valutazione complessiva dei fatti rivoluzionari, rinnegati. Il racconto autobiografico accompagna il lettore lungo le varie tappe della vita dell’autore, all’interno di un disegno «rigorosamente annalistico rivissuto come romanzo dell’io»: a fare da spartiacque tra gli intoppi amorosi e le dissipazioni della giovinezza da una parte, e la carriera dell’uomo maturo dall’altra, è la vocazione teatrale. In questo percorso, la lente dell'autore allarga le dimensioni psicologiche del personaggio a discapito delle altre figure incontrate, tratteggiate ma mai indagate: unico argine al dilagare dell'io è la figura del servo Elia, che Alfieri costruisce come doppio di sé stesso, ma più saggio e concreto, in grado di accompagnarlo in questa traiettoria di maturazione artistica e umana. 7. La vena comico-satirica La produzione comico-satirica degli ultimi dieci anni fa da contraltare al lascito lirico delle rime, e quello narrativo della vita. Le diciassette Satire (1792-1797, stampate postume nel 1806) sono un’aspra ma divertente condanna morale in terzine del secolo (modello Parini, Giovenale). A essere presi di mira sono: i cicisbei, la monarchia, la classe nobiliare, a borghesia, l’anticlericalismo di stampo umanista, le pratiche di moda, il colonialismo, il genere maschile, in una liquidazione poetica e pessimistica di un sistema retto sull’ipocrisia, che però non assume le forme dell’invettiva ad personam, travalicando gli individui e il tempo st cui è riferita, con validità universale. Mosso dal timore di una lettura filo giacobina dei trattati e delle opere teatrali, Alfieri tra il 1793 e il 1795 comincia a ideare una silloge delle liriche e delle prose antifrancesi già composte e di quella che andrà a comporre, fermandosi nel 1798. L’eccentrico prosimetro satirico ottenuto, dal titolo eloquente di Misogallo, non vedrà la luce per ragioni di prudenza politica e sarà pubblicato postumo nel 1814, quando le acque rivoluzionare si sono calmante e ha inizio la Restaurazione (manifesta fede antirivoluzionaria, abbassando i francesi al rango animale con l’ambivalenza dell’appellativo Galli). Nell’Epigramma I, datato 18 febbraio 1790. In Parigi”, si allude a una promozione dei francesi a uomini liberi all’interno di una monarchia costituzionale, in forza degli errori commessi dal regime assoluto. Nel marzo 1799, in conseguenza dell’arrivo dei francesi a Firenze dove Alfieri e l’Albany vivono in pianta stabile dal 1792, i due scappano e lasciano la città per farvi ritorno ad agosto dopo la ritirata francese, assistendo in seguito all’entrata degli austro-russi. La tetralogia comica, datata 1804, dedicata alle diverse forme di governo, l’uno (la tirannide), i pochi (l’oligarchia), i troppi (la democrazia), superate dal contravveleno della monarchia costituzionale dell’Antidoto, è il risultato di un orientamento costituzionalista maturato negli anni e riconfermato nel corso di rivolgimenti politici che lo hanno coinvolto. A queste quattro pièces e si vanno ad aggiungere La Finestrina, in cui si immagina il disvelamento delle abbiette intenzioni umane per mezzo di una finestra aperta sul cuore degli spiriti celebri che popolano l’oltretomba e l’incompiuto Divorzio sull’ipocrisia del matrimonio aristocratico. Alfieri muore l’8 ottobre 1803 (seppellito in Santa Croce a Firenze). 1. UGO FOSCOLO 1. Lo «spirto guerrier» e le «libere carte» In Ugo Foscolo le due componenti, dello «spirto guerrier» (attiva, militare, passionale-->soldato) e quella contemplativa, mitopoietica delle «libere carte» (poeta), non disgiunte, benché la prima sia un ostacolo per la conclusione dei progetti letterari, interrotti e ripresi in diversi tempi e luoghi. Gli impegni militari e gli scontri politici lo spingono a cambiare città: un ‘viaggio sentimentale’ che ha sua origine esistenziale e linguistica nell’isola natìa Zante, il suo polo positivo nella Firenze patria della lingua italiana ('lingua sposa piuttosto che madre' Dionisotti), il suo polo negativo nella rissosa Milano napoleonica e il suo “altrove” nell’esilio in Svizzera prima e in Inghilterra poi. Dovunque, la pratica della scrittura grave e appassionata delle Poesie, dei Sepolcri e delle Ultime lettere di Jacopo Ortis è accompagnata dal suo rovescio, testi ascrivibili a Didimo Chierico, alter ego che mette a nudo la vanità delle persone e delle cose. Nell’animo impulsivo e passionale di Foscolo (temperato dal razionale didimeo), è il motore primo della sua attività intellettuale (scrittura che sostituisce l'azione, esprime una passione interiore, in un circuito dai sensi, all' ingegno, alla penna) 2. Una formazione policentrica e autonoma Nicolò Ugo Foscolo nacque a Zante, isola sotto la dominazione veneziana, il 6 febbraio del 1778 (figlio di un medico di Corcira Andrea). Riceve i primi rudimenti di latino e greco classici al seminario arcivescovile di Spalato (trasferitosi nel 1785). A seguito della morte improvvisa del padre nell’ottobre del 1788, ci sarà una temporanea diaspora familiare, conclusasi solo nel 1793 con il ricongiungimento della madre e dei quattro figli, a Venezia. Di madrelingua greca, ancora non padroneggia l’italiano, idioma che impara imponendosi una 'rigida disciplina linguistica' (Dionisotti), ma è qui che riprende gli studi (scuola di San Cipriano a Mauro, pubbliche scuole degli ex Gesuiti) e che si introduce nei salotti delle nobildonne Giustina Reiner Michiel e Isabella Teotochi Albrizzi, attorno ai quali gravitavano il germanista Bertòla e il poeta Ippolito Pindemonte, futuro dedicatario dei Sepolcri. In questo ambiente matura il primo progetto poetico, la Raccolta Naranzi (1794), una silloge manoscritta (smarrita) di 41 liriche, offerta all’amico Costantino Naranzi, e pubblicata postuma nel 1831. La raccolta -tripartita in Inni ed elegie, Anacreotiche e canzonette, Odi – è di argomento amoroso, con un repertorio di immagini e di lessico arcadici (indice di precoce inclinazione per la poesia lirica). Alla fine del 1795 individua in Melchiorre Cesarotti un maestro ('poeta della nazione'): per cui si iscrive nel 1796 nell’ateneo patavino, entrando in contatto con i suoi allievi. Testimonianza del fermento formativo e progettuale di allora è un documento autografo, il Piano di studi (1796) scomponibile di un due sezioni: 1. Morale; Politica; Metafisica; Teologia; Storia; Poesia; Critica; Arti e Scultura: offre un canone di letture che va dalla Sacra Scrittura a Goethe, passando per la tradizione poetica greco-latina e italiana, a poeti contemporanei come Bertòla e Monti, con divertenti e antidogmatiche osservazioni a margine. 2. Prose originali; Prose tradotte; Prose Varie; Versi; Originali; Poemi; Appendice – Versi Stampati: progetti terminati, in corso o in fase di ideazione. Le turbolenze politiche si riverberano nella prima prova tragica, il Tieste (ottobre del 1795), rappresentato al teatro Sant' Angelo di Venezia nel 1797 (dicotomia Atreo-Tieste leggibile come contrapposizione tra assolutismo dell’ancien régime e un atteggiamento riformista e di apertura democratica). Confrontato con Vittorio Alfieri, se da una parte ne riprende i moduli strutturali e tematici, in continuità con la dialogia degli Edipidi formata dal Polinice e dall’Antigone, questi stessi moduli sono qui piegati a dialogare in maniera più stretta con le contingenze politiche. Nell’aprile dello stesso anno Foscolo ('pupil of the revolution' Essay on the Present Literature of Italy) decide di arruolarsi a Bologna come cacciatore a cavallo della Repubblica Cispadana; poi, rientrato a Venezia, partecipa alle discussioni in seno alla Società di Istruzione Pubblica, verbalizzatore per la Municipalità provvisoria della città dogale, da poco liberata (1797). Correlativi poetici di quest’entusiasmo politico sono le odi (poesia patriottica-rivoluzionaria) Ai novelli repubblicani e Bonaparte liberatore, quest’ultima dedicata a Reggio Emilia, da poco liberata. La classica struttura di nove strofe di endecasillabi e settenari si snoda qui a inseguire la vittoria sui regimi antidemocratici da parte della Libertà, incarnata da «un Sol Liberator»: le «Itale genti» sono responsabili della conservazione del nuovo ordine sociopolitico, impresa che riuscirà solo se scortata dalla «Virtù» e dall’ardimento del «patrio amor». Ma la firma del trattato di Campoformio (17 ottobre 1797), che sancisce lo smembramento dei territori veneziani tra Francia, Austria e Repubblica Cisalpina, ridimensiona la figura di Napoleone agli occhi di Foscolo, che deluso dal baratto, a metà novembre lascia Venezia alla volta di Milano 3. Soldato, giornalista, erudito Il trasferimento a Milano si traduce nella frequentazione del Circolo Costituzionale e nell’avvio della collaborazione con il democratico «Monitore italiano» che dirige con lo storico Pietro Custodi e l’economista Melchiorre Gioia (commenta in chiave giacobina i testi dei processi delle sessioni del Consiglio dei seniori della Cisalpina- che verbalizza- e cura la sezione «Notizie universali», allenandosi al ragionamento e alla scrittura politica). Dopo la chiusura del «Monitore» a opera della censura napoleonica, prosegue la propria attività pubblicistica a Bologna, a partire dal giugno del 1798, scrivendo sul modenese «Giornale Repubblicano di Pubblica Istruzione», sul «Genio democratico» e sul «Monitor Bolognese» (su queste due testate pubblica a puntate le Istruzioni politico-morali, concentrato delle sue posizioni politiche: propone modifiche alla Costituzione repubblicana per ottenere maggiore autonomia nazionale e libertà individuale). Gli anni tra il 1798 e il 1801 il cantiere del romanzo epistolare Le ultime lettere di Jacopo Ortis è interrotto dalla presa di servizio come luogotenente della Guardia nazionale agli ordini del generale Tripoult; partecipa alla presa di Cento e trascorre al seguito del generale Mcdonald, nella Genova assediata dagli austro-russi, dal luglio 1799 fino alla capitolazione della città il 4 giugno 1800. Qui si dedica alla pubblicazione dell’ode A Luigia Pallavicini caduta da cavallo e alla riedizione di Bonaparte liberatore, con una nuova dedica proprio a Napoleone, che accede personalmente al potere. Il poeta esorta il generale ad agire per la salvezza dell’Italia sottolineando la gravità dell’errore commesso a Campoformio e adombrando lo spettro di Cesare. Dopo alcuni spostamenti nel marzo del 1801 è a Milano, nell’estate gli viene commissionato dal governo cisalpino un testo celebrativo di Napoleone, appena prima dei Comizi di Lione, nel corso dei quali viene ratificata la Costituzione della Repubblica Cisalpina. Il risultato è l’Orazione a Bonaparte pel congresso di Lione (1802): riprendendo le idee esposte nelle Istruzioni, Foscolo ribadisce – in 10 capitoletti – che solo una Costituzione che lasci spazi di manovra alla 'nazionale indipendenza' possa risollevare le sorti politiche della Cisalpina e dei suoi cittadini. Fra maggio 1799 e fine 1802 il poeta lavora a un abbozzo in prosa chiamato (dagli editori) Sesto tomo dell’io o Frammenti di un romanzo autobiografico: è l’atto di genesi dell’alter ego ironico di Foscolo, Didimo Chierico. Tra il 1802 e il 1803 il poeta, dopo aver accantonato l’idea di tradurre il De rerum natura di Lucrezio (Frammenti di Lucrezio), si cimenta nella traduzione e nel commento della Chioma di Berenice di Catullo, singolare esperimento che trascende i limiti dell’esercizio erudito. Il testo si compone si quattro discorsi critici (seguiti dall' epistola ad Hortalum, dal testo in latino annotato e dalla versione in endecasillabi, 14 considerazioni filosofiche e da un Commiato): il quarto, Della ragione poetica di Callimaco, si articola in un’argomentazione programmatica che consegue direttamente dallo studio del testo lucreziano e trova i Ai due lati della lirica troviamo prima un presente di travaglio emotivo e passionale, poi un futuro di contorni poco rassicuranti, parzialmente risarcito solo dalla possibilità di ottenere la fama attraverso le «libere carte»: si sostituisce così alla struttura progressiva e lineare di P. quella regressiva e circolare, e in definitiva coerente, speculare e concentrica di D e N. Nelle odi di apertura, di ascendenza pariniana, in cui la bellezza e le doti delle amiche sono contate ricorrendo a una fitta rete di riferimenti mitologici, preparando il lettore alla maratona serrata dei successivi sonetti. La prima ode A Luigia Pallavicini… è composta da 18 strofe di 6 settenari rimanti, mentre la seconda da 16 strofe di settenari chiuse da un endecasillabo: viene in ripresa la scatola formale della canzonetta settecentesca condotta a maturazione da Frugoni, e riempita di immagini e stilemi neoclassici. Si consideri l’incipit della prima ode, calibrato da una profusione di iperbati, anastrofi e perifrasi onomastiche. Il libro si chiude con l’amara constatazione della chiusura di un secolo e delle speranze in un avvenire democratico e libertario; al poeta resta solo la compensatoria possibilità di illustrarsi con fatiche dotte e di trovare rifugio e fama nella libertà dello studio e dell’attività politica. 6. Dei Sepolcri e L’Esperimento Con i Sepolcri porta a maturazione, in un prodotto originale per i contemporanei (carme di 295 endecasillabi sciolti), i frutti delle riflessioni politiche e delle sperimentazioni formali praticate nei decenni precedenti, fondendo l’epistola settecentesca con il metodo delle transizioni di ascendenza pindarica, greca. Questo è il quadro storico e biografico in cui il carme si va a inserire: tra giugno 1804 e marzo 1806 prende servizio come capitano di fanteria dello Stato maggiore della Divisione italiana in Piccardia e nelle Fiandre, periodo in cui si dedica anche alla traduzione dell’Iliade e del Sentimental Journey di Laurence Sterne. Rientrando a Milano fa tappa a Verona dal Pindemonte che stava scrivendo un poema di argomento sepolcrale, I Cimiteri. Foscolo scrive all’Albrizzi e, riferendosi al comune amico, non cita il poema, anzi la invita a esortare Pindemonte a proseguire la traduzione dell’Odissea quasi a distoglierlo dal progetto, mentre nel frattempo lui è occupato alla traduzione del Commentario della battaglia di Marengo. L’idea di un poema di tema sepolcrale in era già stata concepita se il 6 settembre 1806 egli dà per completa un’epistola sui sepolcri. Probabilmente, questa prima stesura del carme (rielaborata anche alla luce della pubblicazione in Italia del decreto Della polizia medica che estende al territorio italiano l’obbligo igienico di seppellire i cadaveri fuori dalle mura cittadine- editto di Saint Cloud del 5 settembre-) trova forma stabile prima del 18 dicembre 1806, data in cui Foscolo dà per imminente la stampa per i tipi bresciani di Niccolò Bettoni (carme poi dato in lettura a Vincenzo Monti). Tralasciando la questione del plagio a Pindemonte, destituita da fondamento dallo stesso in apertura dell'omonimo poemetto responsivo dell'epistola foscoliana dove afferma di aver composto i suoi Sepolcri dopo la ricezione e la lettura di quelli dell' amico, da porre in rilievo è la strategia, ai limiti della legittimità, con cui Foscolo brucia sul tempo l’amico, assicurandosi il primato nell’elaborazione di un tema delle sepolture e del culto dei morti. La concezione foscoliano dei sepolcri come 'documento storico della funzione civile' (Gavazzeni) poggia le basi su un insieme di documenti poetici, eruditi e pubblicisti sul tema( precedenti lirici inglesi: Parnell, Young, Grey, Hervey; dei francesi Legouvé e Delille; repertorio informativo allestito da Johann Nicolaj, il De sepulcris Hebraeorum, Cimiterj di Gianbattista Giovio-inopportunità delle sepolture indistinte); il tutto è però filtrato dallo storicismo vichiano che permette di introdurre coerentemente, in un orizzonte laico, il culto dei morti a favore dei vivi, in virtù della funzione storica e civile di ammaestramento dei popoli. Altra fonte è il romanzo ortisiano, soprattutto la lettera XXV: il rispecchiamento natura/spirito all’insegna delle tranquillitas animi, le lacrime pietose versate sui sepolcri e la corrispondenza d’affetti dei vivi nel cui ricordo i morti sopravvivono, l’ultimo sguardo del morente alla ricerca della luce, il gemito della natura nella tomba, che vince il silenzio e l'oscurità della morte. Funzione civile significa funzione politica, soprattutto se onorati con sepolture dignitose sono uomini magnanimi, paradigmi etici per tutti. Discorso chiarito dallo stesso Foscolo (risponde all' abate Aimé Guillon, che ne criticava l'impostazione materialistica): 'L’autore considera i sepolcri politicamente, ed ha per iscopo di animare l’emulazione politica degl’italiani con gli esempi delle nazioni che onorano la memoria e i sepolcri degli uomini grandi.' L’altra chiave di accesso all’opera è di ordine retorico-stilistico: riprendendo un termine impiegato da Guillon stesso nella recensione dove lo accusava di eccesso di erudizione, Foscolo rivendicava l’invenzione di un sistema di « transizioni formate da tenuissime modificazioni di lingua e da particelle che acquistano senso e vita diversa secondo gli accidenti, il tempo, il luogo in cui sono collocate», riattualizzazione di un andamento ragionativo greco, ravvisabile nelle odi di Pindaro. La struttura argomentativa del carme: anche se in un’ottica materialistica conservare le spoglie del defunto in una tomba sia per l’individuo indifferente, il sepolcro è utile per nutrire gli affetti di chi rimane; eppure l’editto di Saint-Cloud nega questa funzione alle tombe( un'altra legge destinò Parini alla fossa comune);l’istituzione dei riti funebri è stato passaggio per la transizione dalla condizione di belve a quella di uomini civili (benché laddove manchi il valore individuale i sepolcri siano inutile pompa). Le tombe dei grandi possono ispirare grandi imprese, come i sepolcri di Santa Croce accendono l’animo del poeta. I tumuli di Maratona possono ispirare amor di patria anche ai greci (anche luoghi privi di monumento sepolcrale possono accedere a tale funzione come il promontorio Reteo ( ospitava i resti di Aiace), o il ricordo degli eroi senza sepolcro: in questi di assenza di tomba sopperisce in canto del poeta (tesi definitiva: la poesia ha valenza eternatrice , edifica il sepolcro migliore--> Omero interrogando le urne restituisce poeticamente le vicende degli eroi). Dal punto di vista linguistico, le scelte lessicali appaiono di moderato classicismo. L’analisi dei termini selezionati da Foscolo mostra come accanto a parole assenti dal lemmario della Crusca(ramingare, suburbano, inseminato), il poeta inserisca voci che sono presenti nella Crusca solo con esempio in prosa, ma certificate da un canone ristretto di poeti che ne hanno già autorizzato l’uso -Monti, Parini, Alfieri, Cesarotti, Caro, Tasso- (lessico slegato dalla normatività dei vincoli della Crusca, anche se la maggioranza quantitativa delle parole rientra nel linguaggio poetico attestato dalla Crusca).Nel 1806 Foscolo, assieme a Cesarotti e Monti, si occupa di un progetto di traduzione a tre voci, l’ esperimento di traduzione dell’iliade di Omero (1807, Bettoni). Testo che oltre a essere spia dell’interesse mai spento di Foscolo per il testo omerico e la sua restituzione in lingua italiana, è da leggersi come preparazione del terreno all’affermazione della scuola neoclassica di Foscolo e Monti, formando un dittico con il vertice del Neoclassicismo foscoliano, i Sepolcri. 7. La cattedra e il palcoscenico Il 18 marzo 1807 Foscolo è nominato con decreto vicereale, professore di eloquenza latina e italiana presso l’università di Pavia, egli prende servizio effettivo, sebbene vide la soppressione della cattedra per decreto già nel novembre (tiene 5 lezioni). Pur da una cattedra nominata dall’establishment napoleonico, Foscolo decide di rimanere fedele a se stesso. Alla celebre prolusione è affidata l’idea di uno studio e di una pratica della letteratura come coincidenza tra teoria e prassi, di una postura etica dell’intellettuale impegnato opposta all' intrattenimento (Dell' origine e dell'ufficio della letteratura).È alla storiografia contemporanea che si deve rivolgere il letterato italiano per incidere sul presente di servitù politica, perché in tutte le storie si spiega la nobiltà dello stile. Nel 1809, a Milano, (indomani della pubblicazione della prolusione, per i tipi di Stamperia Reale) le accuse all’inadeguatezza del mondo culturale milanese suscitano malcontento. Foscolo si inimica Monti e tutto l’entourage del periodo classicista e filonapoleonico 'Il Poligrafo' (Urbano Lampredi parodizza le istanze della prolusione). Sulle colonne degli «Annali di Scienze, Lettere ed Arti», Foscolo risponde con il frammento Ragguaglio d’un’adunanza dell’Accademia de’ Pitagorici (5 giugno 1810), scritto parodico in cui è tematizzata l’esigenza della libertà intellettuale. È con Ajace che la situazione precipita: in questo dramma a chiave, rappresentato alla Scala il 9 dicembre del 1811, si possono riconoscere nella figura di Agamennone Napoleone, in Ajace il generale Moreau, in Ulisse il ministro Fouché e in Calcante Pio VII. C ritica trasparente e forte al potere costituito che inasprisce gli animi(tragedia stroncata da Lampredi). A fine mese Foscolo decide di andarsene da questa “prigionia” milanese. 8. Firenze Dopo una serie di peregrinazioni Foscolo decide di spostarsi a Firenze (agosto del 1812): entra a far parte della cerchia intellettuale attorno alla contessa d’Albany, compagna di Alfieri. In questo clima di serenità rimette mano ai progetti incompiuti come la traduzione del capolavoro di Sterne il viaggio sentimentale di Yorick lungo la Francia e l’Italia(veste linguistica cruschevole, gusto parolaio per il ribobolo), in calce all' edizione pisana pubblica Notizia intorno a Didimo Chierico (autobiografia di una figura ortisiana in 15 capitoli), in cui Didimo è il rovesciamento scettico e ironico di Ortis e di Foscolo, allo stesso tempo un erudito alessandrino e un antipedante, un chierico che guarda le cose con distaccata saggezza. Didimo/Foscolo, ricalcando l’ironia affettuosamente storica di Yorick, atta a smascherare le fatuità del carattere delle persone, egli afferma di aver affinato la propria conoscenza della lingua da tradurre grazie alla vicinanza, nelle Fiandre, con gli inglesi e perfezionato l’italiano stando a contatto con i fiorentini del contado: Nella villa di Bellosguardo, sua residenza, Foscolo lavora a un’idea letteraria del 1808, Le Grazie. Tra agosto e settembre 1812 il pota compone la Prima redazione dell’inno, poi rimaneggiata nel 1813 fino a configurare la Seconda redazione. Quindi Foscolo si distacca dal progetto originario dedicato a Canova, pensando a un inno in tre parti dedicati a Venere, Vesta e Minerva. Nel frattempo, la redazione della Ricciarda (rappresentata nel 1813 al teatro Corso di Bologna) interseca il percorso delle Grazie: la tragedia viene inviata alle autorità del Regno Italico insieme a un estratto dell’inno terzo del carme, i Versi del rito, ottenendo l’approvazione della censura. Fonda sull’amore impossibile di Ricciarda per Guido, figlio di Averardo, fratellastro del padre Guelfo e assediante la città di Salerno di cui Guelfo occupa il trono: il re salernitano, accecato dalla gelosia filiale, uccide prima la figlia e poi se stesso. Il tema amoroso si intreccia con quello patriottico, con la finale esortazione machiavelliana a liberare l’Italia dall’occupazione barbara. Rientrato a Firenze, Foscolo riprende a lavorare all’episodio dei Silvani e riordina il materiale poetico dei tre inni sul Quadernone. L’estrema mobilità e rarefazione testuale dell’insieme rende problematico offrirne una lettura critica organica, ma è possibile individuare temi e strutture nascoste che percorrono i frammenti. L’inno, seppur si riallaccia alla tradizione mitologico-didascalica neoclassica della Musogonia di Monti e dell’Urania di Manzoni, è esito della riflessione foscoliana sul bello e sull’arte (incarnati dalle divinità greche) e sulla loro funzione civilizzatrice e consolatoria, con motivo patriottico e politico vitale, in ragione delle condizioni politiche di incertezze successive alla campagna di Russia e alla caduta di Napoleone, e frustrazione conseguente del poeta. Nella difficoltà di innestare un tema politico incerto come il destino del Regno dall' interno della compagine mitologica da vedere è una delle ragioni della frammentarietà strutturale di questo classico incompiuto. Il valore sociale della parola poetica è già presente nell’ incipit dell’inno primo, nel quale le Grazie sono invocate (modulo proemiale omerico) affinché diano al poeta quell’«arcana/Armoniosa melodia pittrice» che sola, mediante il carme, può rallegrare l’Italia afflitta dagli invasori della coalizione antinapoleonica. 9. Uno sguardo da un altro pianeta: l’esilio Dopo la disfatta di Napoleone a Lipsia (ottobre 1813), Foscolo va verso Milano dove riprende servizio come capitano aggiunto allo Stato maggiore. I rivolgimenti politici del tempo lasciano il poeta incerto sul da farsi, finché non cerca l’appoggio del neogovernatore austriaco Bellegarde, che gli affida l’elaborazione programmatica di un periodico filogovernativo; Foscolo redige quindi Parere sulla istituzione di un giornale letterario in tre paragrafi: tornano i temi pavesi della corruzione dell' elite questa ma il richiamo al compito letterario è all’insegna del presupposto che la letteratura può farsi mediatrice fra la ragione di stato e le passioni del popolo. Questo cambio di campo (giudicato negativamente dagli amici liberali) ha vita brevissima: Foscolo anziché prestare giuramento agli austriaci scappa a Lugano e non tornerà mai più in Italia. Nel 1816 a Zurigo dà di nuovo alle stampe Le ultime lettere di Jacopo Ortis: le innovazioni più importanti sono la rifusione, nella lettera del 17 marzo, dei temi antinapoleonici e l’aggiunta della Notizia bibliografica, di taglio apologetico e tono didimeo, a sgombrare il campo dai sospetti di plagio di modelli europei, ripercorrendo la traiettoria editoriale dell’opera e fornendone una chiave di lettura politica. Nel 1816, sempre a Zurigo (ma con falsa indicazione «Pisa 1815»), stampa una tiratura di 12 esemplari, come Didimo Chierico, L’Hypercalypseos liber singularis, satira in versetti latini della società letteraria milanese (scritta nel 1810-11). Il testo è accompagnato da una Clavis nella quale vengono sciolte le allusioni interne, dove troviamo anche un’altra breve descrizione di Didimo. Nel testo un dialogo con l’ombra dell’Imbonati che aveva domandato il perché avesse disdegnato la poesia, diviene occasione per elogiare Alfieri, (il primo tragediografo che avesse osato mostrare le miserie dei potenti e vendicare gli umili), di Parini ( virtuoso poeta dal 'plettro immacolato') e di Omero ( 'sommo/ d'occhi cieco, e divin raggio di mente'), modelli poetici e di vita (Foscolo lo cita nei Sepolcri apprezzandolo), per cui la poesia che nasce dalla tradizione classica e che ha in Alfieri e Parini modelli, deve trovare una propria strada (mette in crisi l'imitazione neoclassica, con la volontà di trovare una corrispondenza fra forma e contenuto). 3. Parigi, Fauriel e la conversione (1805-1810) Dal 1805 al 1810 Manzoni vive regolarmente a Parigi, tornando a Milano in due occasioni :per la morte del padre 1807; per il matrimonio con Enrichetta Blondel, ginevrina di famiglia calvinista, con rito protestante nel 1808. Grazie all' amicizia con Claude Fauriel (filologo e storico della letteratura medievale e provenzale, Manzoni inizia a frequentare gli Ideologues francesi, eredi della tradizione illuministica(Destutt de Tracy, Georges Cabains, Benjamin Constant--> si raccolgono nella casa di Fauriel a Meulan),che esercitano anche l'opposizione al napoleonico. La frequentazione (5 anni di soggiorno parigino) con gli Ideologues cambierà l’approccio di Manzoni alla realtà, trovando nel metodo scientifico, nell’imprescindibile valore dell’esperienza, nella lontananza delle astrattezze metafisiche, un habitus mentale che non abbandonerà mai. Questi due eventi inoltre portano ad un percorso di riflessione spirituale che lo conduce alla conversione (trasformandolo in un campione dell' ortodossia cattolica--> episodio del 2 aprile 1810, durante le celebrazioni per le nozze di Napoleone con Maria Teresa d'Austria, rifugiatosi nella chiesa di San Rocco a Parigi, dopo aver smarrito Enrichetta, l'avrebbe poi trovata all' uscita miracolosamente, riconoscendone il segno dell'intervento di Dio nella vita del singolo-->cristianesimo incarnato e affidato nella storia all'umanità della Chiesa). L’amicizia con Fauriel è l’unica che ci permette di osservare un dialogo tra i due, così intimo, che risulta un dialogo con se stesso (corrispondenza in lingua francese. Un esempio lampante è presentato dalla lettere del 9 febbraio 1806 ove è presente una riflessione sullo stato delle lettere i n Italia, dove la pigrizia, la divisione politica e l’ignoranza generale hanno portato uno stacco netto tra la lingua parlata e quella scritta, divenuta lingua morta, tanto da non permettere agli autori di conseguire il proposito di educare la moltitudine al bello e all'utile. Altro aspetto delle conversazioni con Fauriel è ricco di approfondimenti interiori e spesso referenziale, in cui confessa anche le sue difficoltà come l’agorafobia. Nel 1809 scrive un poemetto in endecasillabi legato al classicismo montiano, l'Urania, imperniato sulla gara poetica tra Pindaro e Corinna, e avvia il poemetto in ottave La Vaccina (ispirazione pariniana, dedicato alla diffusione del vaccino contro il vaiolo, letteratura di impegno etico-civile). Dal momento della conversione agli Idéologues parigini si sostituiscono l'abate gesuita Eustachio Degola, consigliere spirituale a Parigi, e dopo il ritorno a Milano, monsignor Luigi Tosi (seguirà la numerosa famiglia in un percorso interiore, una spiritualità espressa con pratiche devozionali, e un controllo sull'attività letteraria). 4. Via Marone e Brusuglio: un quindicennio creativo (1812-1827) La vita condotta dal ritorno a Milano, in compagnia della madre, tra la gestione della tenuta di Brusuglio, e con la nascita del secondogenito Pier Luigi, si stabilisce nella casa di Via Morone 1. Avrà dieci figli in totale (molti muoiono giovani o prima del padre), che cagionano la salute di Enrichetta che il 25 dicembre del 1833 muore di tubercolosi, segnando la vita di Manzoni, occupata dalla scrittura e dalla passione per la botanica, esercitata nella tenuta di Brusuglio, ampliando le coltivazioni (vuole produrre un Saggio di nomenclatura botanica).  Inni Sacri (1812-1815) è la prima opera letteraria di argomento religioso, con l'abiura dei testi precedenti, l'Urania e La Vaccina. Con la conversione la poesia diventa forma espressiva letteraria ai contenuti della fede (scelta del genere 'inno'), compresi e condivisi da informe non solo sentimentali, mostrando però una volontà di rinnovamento delle forme religiose(superamento di pratiche devozionali popolaresche), per una poesia veicolo di contenuti teologici ortodossi attraverso forme metriche di facile assimilazione, con lingua poetica costruita sul superamento della tradizione classicista (nuova innografia cristiana). Un programma ambizioso che porta sul piano della poesia religiosa le esigenze di adeguamento della forma al contenuto di formulazione illuministica e che il Neoclassicismo non poteva più garantire, ma scontrandosi con difficoltà contenutistiche (rivestire di forme poetiche temi teologici) e stilistico (presentarli in forme nuove ma non ignare della tradizione) (lungo arco di tempo, risultato parziale). Dei 12 titoli di un indice manoscritto del 1812 solo 4 sono stati realizzati: Il Natale, La Risurrezione, Il nome di Maria, La Passione (stampati nel 1815 presso la tipografia Agnelli); La Pentecoste viene ripresa nel 1817, pubblicata nel 1822; Ognissanti ripreso nel 1847 rimane incompiuto; sarà assimilato agli Inni Sacri il poema composto in occasione della morte di Enrichetta, Il Natale del 1833 (estraneo all' impianto compositivo). Per avvicinare i contenuti religiosi ad un pubblico non colto o religioso agisce sul metro (strofe e versi brevi, derivati dalla melica 700esca). Il risultato è un linguaggio nuovo, libero e di forte impatto, ricco di ornati retorici, che contribuiscono a creare un impatto popolare, autorevole e arcaico; non sempre poeticamente efficace, palestra per la più complessa Pentecoste, frutto più maturo della poesia manzoniana (strofe di settenari sdruccioli irrelati e piani misti, chiusi con rime tronche).I richiami biblici ed evangelici sostituiscono le riprese letterarie dantesche e petrarchesche, e contribuiscono al processo di «sliricizzazione» della lingua poetica giustificato anche dalle date: L’arco di composizione della Pentecoste copre non solo la scrittura del Carmagnola e dell’Adelchi ma anche la prima scrittura prosastica della Morale cattolica (1819)e Fermo Lucia (1821, prima edizione dei promessi sposi). 5. Manzoni romantico? L’adesione di Manzoni alle idee romantiche comincia nel periodo parigino (+ influsso del progressismo illuminista) e nella conversione religiosa una consonanza con il movimento europeo (parole chiave: religione, nazione, lingua). Tuttavia, un primo elemento di rottura con l’Illuminismo è costituito dal prevalere di istanze spirituali sull’analisi razionale e scientifica, dal recupero della dimensione sociale e collettiva di tali istanze, vissute in una dimensione storica: una religione rivelata e incarnata nella Chiesa, una nazione, espressione politica dell’idea di unità di popolo, una lingua, forma concreta di comunicazione tra individui. Così la storia (non più solo luogo della razionalità decifrante la realtà e sottomettente la natura) è il campo di azione di una divinità non astratta, ma rivelata nelle Scritture(inaccessibile attraverso solo la scienza) e incarnata nell’uomo. Le riflessioni di Vico nella Scienza Nuova (1725-1744) il pensiero Manzoniano (obiezioni a un sapere che si esaurisce nella razionalità sperimentatrice: le conquiste scientifiche illudono di aver dominato la natura, opera divina, per cui l'uomo ha conoscenza solo della storia che ha attraversato, e prima di essere luogo della sperimentazione è luogo della rivelazione). Per Vico il sapere metafisico, pur non essendo un sapere assoluto è fonte di ogni verità, irraggiata in tutte le scienze (immagine simile a quella della Pentecoste per la grazia divina: la rifrazione della luce). Se la metafisica non è creata dall' uomo, l'uomo è in grado di creare attraverso la storia la civiltà, in cui verifica con il 'sensus communis' il principio del 'verum ipsum factum':il vero sapere della storia, in cui l'uomo si può riconoscere, strumento di comprensione della realtà e dell’uomo, superiore alle leggi scientifiche. Se la storia è una scienza nuova e la Provvidenza si manifesta nella storia, la verità rivelata è la legge trascendente che governa la storia stessa (lasciando all' uomo il libero arbitrio). -->il valore assoluto assegnato da Manzoni alla storia è in sintonia con le istanze romantiche da Vico. Anche gli altri due temi, la nazione e la lingua (Lettera sul Romanticismo a Cesare Taparelli d'Azeglio), trovano fondamento in Vico: La nascita della civiltà, che permette di uscire dallo stato ferino, avviene attraverso istituzioni (nozze, tribunali e are-->il popolo si riunisce in consorzi civili) che rivelano l’azione della Provvidenza nella storia, la cui espressione è rappresentata dalla lingua, non creazione individuale, ma espressione di una collettività (usi, costumi). Anche la riflessione sulla lingua, intesa come strumento di comunicazione che deve adeguare la parola alla cosa, è in sintonia con le riflessioni del Romanticismo europeo (--> distruzione delle entità imperiali sovranazionali, nascita dello Stato Unitario). Il saggio Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni di Madame de Staël, pubblicato nel 1816 sulle pagine della «Biblioteca italiana», coinvolge in polemica classicisti e romantici; influenza Manzoni che con l’adesione ai modelli tragici shakespeariani e la lettura (in francese) di Walter Scott, la mette in pratica nell’esercizio poetico e prosastico. (Posizione di Giordani: estraneità delle fantasie settentrionali all' immaginario letterario nazionale, costruito sul culto del bello e concretizzato in poesia su modello classico; Breme, fronte romantico milanese: tiepido nei confronti del romanzesco e dell' eccesso di fantastico, coincide con le posizioni di Manzoni poi espresse nella Lettera sul Romanticismo) . Fortemente legati alle istanze romantiche nel sollecitare una poesia che unisse alle tematiche civili, di derivazione illuminista, l’impegno politico, sono gli inni :  Aprile 1814 : è scritto di getto, dopo che Manzoni ha assistito al massacro del 21 aprile perpetrato dalla folla inferocita contro il ministro delle finanze Giuseppe Prina, accusato di un’eccessiva pressione fiscale (repulsa di Manzoni per l'irrazionalità della folla); incompleto ma interessante per l’uso di una lingua poetica divisa tra il rinnovamento tentato con gli Inni Sacri e il legame con Petrarca (modello delle grandi canzoni politiche);primo testo impegnato per sollecitare la delegazione italiana inviata a Parigi a chiedere l’indipendenza dopo la sconfitta di Napoleone;  Proclama di Rimini, del 1815: Il cambiamento delle circostanze politiche lo spinge a interrompere il precedente per dedicarsi a un testo in occasionato dal proclama del 30 marzo 1815 a Rimini, emanato da Gioacchino Murat, reggente al trono di Napoli, in cui si auspicava una sollevazione contro gli austriaci, emanato in maggio dopo la sconfitta di Tolentino con il ritorno dei Borboni sul Regno di Napoli, e retrodatato a marzo per incitare alla rivolta (suscita in Manzoni spiriti unitari ripresi nell'Ode Marzo 1821). 6. Riformare il teatro e riscrivere la storia Un primo effetto dello scritto di Madame de Staël, lo troviamo nel Conte di Carmagnola, scritto tra 1816 e 1819, interrotto dalla Pentecoste e dalla Morale cattolica. Dopo la riforma della lingua poetica tentata con gli Inni sacri, affronta la riforma del teatro, da emancipare dalla tradizione classica e mitografica alfieriana, astratta e avulsa dalla storia, e da avvicinare al modello shakespeariano, migliore unione di rappresentazione di vicende storiche e introspezione psicologica del personaggio per i romantici. Il rispetto del vero porta Manzoni a dichiarare l’impossibilità di rispettare le unità aristoteliche, mantenendo delle tre (tempo, luogo e azione) solo l’azione. La nuova drammaturgia, esposta nella Prefazione del Carmagnola, è basata sui principi ricavati dal Corso di letteratura drammatica di Schlegel (lo spettatore non può percepire l'inverosimiglianza per la differenza di tempi e luoghi della tragedia, e ne vede l'unità data dalla concordia delle parti).Solo un' analisi appassionata delle passioni permette di adempiere al fine didascalico e morale e allo spettatore di formarsi un' opinione dell' azione rappresentata (solo una storia verosimile permette all' ideologia dell' autore di penetrare e allontana accuse di immoralità al teatro). L’autore potrà riservarsi un «cantuccio» per esprimere il proprio punto di vista nel coro, che costituisce il secondo elemento di novità (a differenza del coro greco, non riferisce le azioni fuori scena ma le commenta, e offe il punto di vista dell'autore in ' persona propria'). Difficile infondere naturalezza, sebbene la storia si tratta dal vero (letta in Storia delle repubbliche italiane nel Medioevo di Simonde de Sismondi) e si svolga tra la Serenissima e il Ducato di Milano nel primo quarto del XV secolo. (trama sul libro) La stesura del coro, composto sin dalla prima elaborazione del testo, rivela, nella scelta del metro popolare e cantato (strofe di otto versi decasillabi), le intenzioni didascaliche e civili: le vicende storiche sono piegate all' ideologia dell’autore (sebbene rivendiche impersonalità). Il coro si domanda se i guerrieri stiano invadendo o difendendo la terra dove sono nati (triste realtà di una guerra fratricida); nella parte finale del coro viene condannata la violenza, in contraddizione con il dramma del protagonista, che partecipa e non questiona la guerra, al soldo dell’uno o dell'altro padrone). La tragedia pubblicata nel gennaio 1820 a cura di Ermes Visconti, per i tipi di Vincenzo Ferrario, dedicata a Fauriel, non riesce ad evitare i rischi di un dramma a tesi, e i recensori ne criticano lo stile trascurato e troppo simile al vero, ma apre in Italia il dibattito europeo sul teatro. La severa recensione di Victor Chauvet (1820, Lycée Francais), concentrata sul mancato rispetto delle unità aristoteliche, provocando la risposta di Manzoni che, partendo dal rispetto del vero storico e dallo scopo della letteratura, approfondisce il ruolo del poeta e il rapporto tra il vero e il verosimile (artista può colmare i vuoti di rappresentazione). Manzoni si dedica anche alla rilettura della Storia delle repubbliche italiane del Sismondi, utilizzata già per il Carmagnola, soprattutto nei passi in cui l’autore riconosceva nel dominio della Chiesa e nel tradimento del messaggio evangelico un elemento di corruzione dei costumi degli italiani, un ostacolo alla costruzione di uno Stato nazionale (temi machiavelliani, l'opera viene messa all' indice nel 1817). Manzoni ispirato dal padre Tosi, intraprende con le Osservazioni sulla morale cattolica (opera apologetica: morale cattolica non di spaziale e temporale (dall'ampiezza delle conquiste alla chiusura dell’isola; dalla velocità delle imprese, al tempo lungo della memoria) con l’inedita e umanissima immagine del condottiero chino sul foglio bianco, incapace di narrar se stesso e sommerso dai ricordi del passato. Nuova è anche l’introduzione della Provvidenza come deus ex machina, capace di trasportare Napoleone «verso più spirabil aere» (Qui comincia l’ultimo tema dell’ode, la fiducia in Dio, che è speranza per tutti quelli che soffrono. Così anche Napoleone, caduto nella disperazione, trova rifugio e conforto nella mano di Dio, che pietosamente lo trasporta “in più spirabil aere” (espresso con un iperbato ) e lo avvia per i sentieri fioriti della speranza, verso orizzonti infiniti, verso una meta che è più radiosa di ogni desiderio (la gloria eterna che supera ogni desiderio umano), in un regno dove tutto è pace, dove non giunge più l’eco della gloria fragile e debole degli uomini). Si celebra così nella persona del vittorioso condottiero, il vero e proprio trionfo della Fede, che piegai ai piedi della Croce colui che aveva dominato tutta l’Europa. Inviate due copie alla Censura austriaca, M. se ne vede recapitare indietro, senza il visto per un riconosciuto eccesso di lodi verso Napoleone, un solo esemplare. L’altro comincia a circolare in versione manoscritta e a stampa, spesso pubblicato assieme agli Inni sacri, fino alla stampa nelle Opere varie del 1855. 8. 1821-1823: prove generali di romanzo La stesura del Cinque Maggio aveva interrotto Manzoni in un’impresa che lo occupò per 30 anni e rappresenta il versante in prosa del tema affrontato con Adelchi, discusso con Fauriel e Thierry: il rapporto tra popolazioni diverse e dei conflitti come motore della storia. Il Romanzo accoglie anche la necessità di fondare su documenti originali l’indagine sul ruolo delle masse popolari, 'il volgo disperso', che lo spinge a comporre L' Introduzione dei primi due capitoli portando il punto di vista popolare del conflitto tra popolazioni, attraverso una storia che ha come protagonisti 'genti meccaniche e di piccol affare', solitamente vittime del flusso della storia. Il titolo oscilla tra il nome dei due protagonisti, Fermo e Lucia, e la loro condizione di Sposi Promessi, che è il motore della vicenda (titolo ufficiale sarà quello di Promessi Sposi). Non abbiamo abbozzi precedenti alla prima stesura, che segnalino un modello ispiratore preciso, la quale presenta personaggi, ambiente, temi e fatti delineati, ma indifferenza ai problemi linguistici. I temi di riflessione vengono esplicitati da M., nell’Introduzione, coeva ai primi due capitoli conclusi nel giugno 1821 (anno attraversato da subbugli politici-->Thierry, Fauriel, Scott offrono il quadro storiografico, ma le Osservazioni sulla tortura di Pietro Verri rappresentano il polo ideale-stesura definitiva del 1777 postillata da Manzoni stesso-, che ricostruivano arbitri, atrocità del processo al barbiere Giangiacomo Mora accusato di unzioni malefiche durante la peste a Milano del 1630, presentando un caso emblematico per rappresentare dei fatti del passato per riflettere sui misfatti del presente). I primi nuclei del romanzo sono poco romaneschi ma molto storici e politici. Il protagonista è il tema della giustizia che nel processo della Colonna infame rappresenta l’emblema degli errori e delle ingiustizie provocate dal sistema giudiziario (autorità), dall’ignoranza dei religiosi (superstizione) e dall’insipienza del popolo (stupidità). Un racconto 'in forma di romanzo ' sul tema del male che prende spunto da 'fatti realmente accaduti'. Le indagini necessarie a documentare lo sfondo storico mettono al centro il rapporto tra la verità della storia e la ricostruzione lecita al narratore, che inventa personaggi e vicende per rendere la storia più verosimile, colmando vuoti di informazioni. La scelta del romano non è scontata né semplice, rinnovatrice delle istituzioni letterarie. La tradizione romanzesca, sviluppatasi in Inghilterra con Daniel Defoe -Robinson Crusoe, 1719-, con Samuel Richardson - Pamela: or virtue rewarded, 1740-, con Henry Fielding -Tom Jones, 1749-, si era consolidata con la novità scottiana che aveva riscosso attenzione in Francia, innestando l’attenzione per folklore e valorizzazione delle vicende popolari sulle riflessioni della prima storiografia romantica (primo successo di Waverley, 1814). Alcuni romanzi gotici, come Frankenstein (1818) di Mary Shelley, contribuirono a farne un genere popolare, lettura di intrattenimento destinata a un pubblico non troppo colto, femminile, alla ricerca di evasione, riassumibile nel concetto più volte utilizzato da M. nelle lettere (come pericolo da evitare) di romanesque, pericolosa combinazione di invenzione ed esasperazione delle passioni già denunciata nella Lettera al signor Chauvet. I modelli di non possono, tuttavia, essere assunti acriticamente, necessitano di revisione, per utilizzare l’universalità e la popolarità di un romanzo che non fosse romanzesco, e che della realtà esprimesse i sentimenti senza essere sentimentale (distacco esplicitato all' inizio del secondo topo del Fermo e Lucia, costituito da una lunga digressione teorica, caduta nella revisione per la stampa, dedicata ai romanzi). In questa rivoluzione M. adotta un espediente di antica tradizione letteraria, che gli permette di garantire la veridicità della storia raccontata e contemporaneamente di mettersi al riparo dalle accuse di inverosimiglianza che nella Lettera aveva rivolto ai romanzi d’invenzione: nell’ Introduzione, scritta nell' aprile del 1821, il racconto è anticipato da una digressione teorica sugli effetti della Storia che finge ricopiata da un manoscritto settecentesco, un 'dilavato autografo', di cui non menziona l'autore (invenzione letteraria, sebbene potrebbe incorrere nelle stesse obiezioni mosse da Manzoni contro i romanzieri traditori del vero). Dopo poche righe, in cui il testo viene presentato al lettore nella veste originaria, il Manzoni/Autore prende parola e dichiara di avere copiato il testo solo fino a quel punto, decidendo poi di conservare i fatti e di rifarlo, dichiarando una motivazione di ordine storico (non stilistico-linguistico), che pone subito al centro il rapporto tra vero e verosimile, tra storia e invenzione, e il tema, già affrontato nella Lettera, dell’ingerenza del narratore. Il testo originario viene quindi presentato come un documento reale dove l'anonimo ha tralasciato di mostrare il suo punto di vista, ma l’atteggiamento di Manzoni/autore è stato più da storico che da narratore, cercando conferma dei fatti nei documenti. Pare che il manoscritto non esista, ma Manzoni si comporta come se ricavasse veramente informazioni da un antigrafo, per non incorrere alle medesime accuse che aveva espresso nelle Lettere a C. Non dimentichiamo che l’espediente del manoscritto ritrovato era quanto di più letterario fosse stato tramandato dalla tradizione cavalleresca (Morgante di Pulci, Orlando Innamorato di Boiardo e Furioso ariostesco, derivati dal manoscritto del vescovo Turpino ecc.). Il duplice piano istituito da Manzoni nel confronto con l’Anonimo permette di sviluppare separatamente i due livelli della narrazione: quello storico, della vicenda narrata dall’Anonimo, e quello riflessivo di cui il responsabile è solo Manzoni, giacché tra i giudizi dell’anonimo e i propri, con uno dei primi esempi di ironia manzoniana, di aver ritenuto i propri più sensati (incursioni dell’autore necessitate dal prendere distanza dal punto di vista anacronistico). 9. Un Romanzo popolare: il Fermo e Lucia Solo nel marzo 1822, terminato l’Adelchi, si mette al lavoro sul romanzo e sulla documentazione storica necessaria. Non è da escludere che l’interruzione del giugno precedente sia stata provocata non solo dal desiderio di terminare la tragedia, ma anche dalle difficoltà di proseguire la storia (arrivata al 3 capitolo) con informazioni storiche che a Brusuglio non poteva procurarsi. La scrittura, ripresa dal giugno 1822, conduce le vicende fino alla fine del II tomo (ottobre 1822). Stende il III tra novembre e marzo 1823, e il IV tra la primavera 1823 e la data che sugella la fine della prima stesura: 17 settembre 1823. La «storia del XVII secolo scoperta e rifatta da Alessandro Manzoni» (sottotitolo della stampa), da un lato sviluppa personaggi di invenzione, dall’altro costringe il narratore a confrontarsi con i dati storici. Altre informazioni sugli usi e i costumi del tempo le ricava dalle Historiarum Patriae del Ripamonti, direttamente citato per le vicende relative ai personaggi e fatti storici (es. documentazione sulle 'Gride' emanate per contrastare i soprusi dei signorotti locali fornite dallo stesso Cattaneo nell' aprile 1821, informazioni relative alla peste, a suor Marianna De Leyva ricavate dalle Historiarum Patriae del Ripamonti- uno dei familiares di Federico Borromeo e storiografo dell' Ambrosiana-, autore di una cronaca De pestilentia, utilizzata in aggiunta al Ragguaglio dell' origine et giornali successi della gran peste di Alessandro Tadino, incaricato della sanità pubblica. La peste è lo scenario in cui le vicende dei due si intrecciano con la grande storia, con la guerra di successione del Ducato di Mantova, la carestia e l’epidemia portata dai lanzichenecchi calati in Italia in soccorso degli spagnoli, sfondo su cui Manzoni fa muovere i suoi protagonisti costretti alla fuga dopo aver scampato il rapimento di Lucia da parte dei bravi. Nella prima redazione Manzoni, riprendendo la narrazione all’inizio del secondo tomo (romanzi stampati e venduti per tomi) decide di seguire inizialmente le vicende di Lucia e dedica il secondo tomo (cap II a VI) alla storia della madre badessa che accoglie Lucia, suor Gertrude, al secolo Marianna De Leyva, le cui vicende aveva letto nelle Historiae del Ripamonti e che ricostruisce in una sorta di romanzo nel romanzo (modelli gotici e scandalistici parigini come Religieuse di Diderot), in una lunga 'Digressione' (trama sul libro). La 'promessa', la responsabilità individuale di fronte alla scelta, è tema fondamentale, fulcro della vicenda narrata sugellata dal personaggio apparentemente meno costruito: Lucia. Se Fermo/Renzo accompagna il racconto delle sue avventure con una morale degna del più classico dei romanzi di formazione, Lucia ribadisce nella conclusione (identica in tutte le versioni, ma di icastica efficacia nella prima stesura) che pur non avendo tenuto comportamenti tali da causare guai, eppure questi l'hanno raggiunta, ma la fede in Dio li raddolcisce e li rende utili per una vita migliore, conclusione rivoluzionaria assunta a costrutto morale dell' intero romanzo, che non cede al gusto del romanzesco e chiude le peripezie dei due promessi sposi nelle forme domestiche e di un’ordinaria vita famigliare. Questa scelta di romanzo 'senza idillio' (Raimondi) era presente a Manzoni, che sapeva di non assecondare il desiderio romanesque, e la giustifica all’inizio del II tomo, in una digressione teorica che cadrà dalla riscrittura della Seconda minuta: Di fronte alle obiezioni di non essersi concentrato sui passi amorosi, dichiara di aver deliberatamente saltato dal manoscritto originario i passi di questo genere perché futili se l’amore lo si prova interiormente, e piuttosto pericolosi per chi per le circostanze della vita deve sopire le passioni. In quest’ottica è importante l’aggiunta di due capitoli finali (37° e 38°) che rompono con la tradizione del lieto fine e introducono elementi nuovi: un analitico riepilogo delle vicende dei personaggi (la fine di Gertrude e di don Ferrante) e le difficoltà incontrate da Renzo nello stabilirsi nel nuovo paese, per le malelingue. L’aggiunta sulla delusione dei compaesani di fronte alle fattezze di Lucia e sulle angherie subite da Renzo, ordinaria contadina, è una netta presa di posizione dell’autore contro di stereotipi del romanzo tradizionale, dove l’eroina ha caratteristiche di bellezza e bontà e l’eroe è senza difetti. Il disagio della nuova vita da sposi viene risolto con l’elevazione sociale di Renzo, con la proposta del cugino Bortolo della condivisione di un'impresa di filatura a Bergamo, divenendo imprenditore e trasferendo tutta la famiglia nello Stato di Venezia. Quello che potrebbe essere un secondo lieto fine viene caricato di una modesta e quotidiana mediocrità, un finale anti-romanzesco che, se amplifica la funzione del narratore regista, ne mette anche in luce la volontà di seguire il normale flusso della vita, per fedeltà non più solo verso l'Anonimo, ma verso la realtà stessa. 10. Dal Fermo e Lucia ai Promessi Sposi 1825-1827 10.1 Un romanzo, quattro «digressioni» Pochi giorni dopo la fine del Fermo e Lucia (23 settembre 1823) Manzoni stende la Lettera al Marchese d’Azeglio sul Romanticismo, mettendo in chiaro i limiti della nuova corrente e le novità da lui perseguite. Il parere di Fauriel (legge il romanzo all'inizio di ottobre, rimarrà ospite a casa di Manzoni fino all' aprile 1824, in Italia fino all' ottobre del 1825) e la sua revisione è fondamentale per i cambiamenti di struttura per la crisi linguistica che ne seguirà, in una revisione radicale di forma e sostanza. Testo postillato anche da Ermes Visconti (amico, teorizzatore del romanticismo, collaboratore al 'Conciliatore), e le due revisioni entrano quasi in competizione con il testo. Le osservazioni al Fermo: - spazio eccessivo alle digressioni, successivamente ridotte, provocando una decurtazione significativa anche nel numero delle pagine del testo (da 4 tomi della prima redazione a 3 della seconda)--> Cade il racconto sulla vita di fra Cristoforo e quello di Federigo Borromeo; ridimensionati i quattro capitoli dedicati alla «Signora» (anche per i timori religiosi di don Tonsi); cade la digressione da cui sarebbe scaturita la «storia della colonna infame» ( colonna eretta nel 1630 sull’abitazione del barbiere Gian Giacomo Mora, e rasa al suolo dopo la sua uccisione, demolita dall’amministrazione austriaca nel 1778).Dopo avere presentato le conseguenze dell’ignoranza e della superstizione riguardo la diffusione del contagio, riporta dal Ripamonti due episodi di «furor popolare», e il secondo permette di dimostrare l’inutilità della tortura, scaturendone la più importante digressione del romanzo (Storia della colonna infame, pensata come Appendice storica già per la stampa del 1825, ma che aspetterà l'edizione del 1840 per la pubblicazione come parte integrante del romanzo). 10. 2 Una lingua nazionale intorno ai temi filosofici e religiosi, ma soprattutto i due condividono la passione politica e lo spirito unitario. Nel dialogo dell’invenzione 1841, ma pubblicato solo un decennio dopo, dedicato proprio al filosofo di Rovereto, Manzoni supera le resistenze verso il pensiero rosminiano, applicandolo nelle riflessioni tra storia e invenzioni, che porteranno ad una condanna definitiva del romanzo in favore di una distinzione delle due narrazioni: quella d’invenzione e quella storica. L’artista non può creare, ma solo trovare le idee che sono da sempre nella mente di Dio, l’invenzione non è un procedimento creativo ma solo lo svelamento di una verità già presente prima che l’artista vi si applichi, e non potendo competere con la creatività divina gli resta solo da trovare nella storia le tracce del suo passaggio. Manzoni nutre sempre meno fiducia nelle possibilità del narratore di unire storia e invenzione per la radicale fedeltà al vero, e rovescia le posizioni che aveva assunto nella lettera a M. Chauvet, in una condanna del romanzo e 'dei componimenti misti di storia e invenzione'. Le reazioni di Goethe alla lettura del romanzo stimolano in Manzoni nuove riflessioni (recensione nel 1827: apprezza l'impianto generale, muove critiche al 3° tomo per l'eccessiva quantità di dati storici, suggerisce all' editore la rimozione delle parti sulla peste, la guerra, la carestia). Per rispondere a Goethe Manzoni elabora una lettera sul romanzo, mai spedita, ma prenderà le forme di un trattato, pubblicato nel 1850 nelle Opere varie (Del romanzo storico e, in genere, dei componimenti misti di storia e d' invenzione) in cui vengono affrontati temi del poema epico e la tragedia, in cui viene mescolato il reale con in fantastico e viene destituito di legittimità il romanzo. Tra vero e verosimile Manzoni preferisce il vero, e se il romanzo storico non può garantirlo, tanto vale seguirne il solo vero, e raccontare la storia. Ed è quello che farà nella rielaborazione della storia della colonna infame.La revisione del 1840 di quest’ appendice storica lo occupa fino alla conclusione della stampa del romanzo nel novembre 1842 attingendo alle storie de Ripamonti, e nuove fonti, sottolineando in forma più sentita la veridicità delle testimonianze dirette (le memorie di don Giovanni Gaetano de Padilla). Nonostante la dichiarata derivazione dalle Osservazioni, la ricostruzione manzoniana ha un impatto autonomo, alternando alle citazioni dirette della «copia manoscritta» le osservazioni dell’autore che commenta i fatti narrati, facendo emergere le responsabilità individuali dei giudici, simbolo dell'iniquità a cui giunge l'uomo quando si rifiuta di valutare i fatti secondo coscienza. La modernità della forma del libro-inchiesta verrà riconosciuta nel Novecento (Leonardo Sciascia), che difenderà il testo dalle accuse di Benedetto Croce di avere trascurato alcuni dati storici importanti e occultato le torture imposte da Federico Borromeo ad altri imputati. La scelta definitiva per la storia e le vicende politiche legate alle prime due guerre d’indipendenza portano Manzoni alla stesura di un saggio comparativo tra le due rivoluzioni, quella francese e quella italiana, pubblicato incompiuto postumo nel 1889 (stesso metodo d'indagine del romanzo, lingua assestata, ricostruisce i fatti dei primi mesi del 1789, e ricava dall' analisi comparativa la legittimazione della rivoluzione italiana e la condanna di quella francese e delle sue due principali conseguenze: l'oppressione sotto il nome di libertà, l'incapacità di stabilire un Governo duraturo). Un’analisi storica che diventa un appassionato inno civile, a quella libertà in nome della quale poteva essere considerato legittimo il rovesciamento di uno stato oppressore (libertà di essere cittadino sotto giuste leggi, istituzioni stabilite, assicurato contro violenze private e ordini tirannici del potere, immune al predominio della società oligarchica, dalla pressione di forze militari). 12. L’eterno lavoro: uno scrittore alla ricerca della lingua Gli effetti della «risciacquatura in Arno» sono riconducibili a linee correttorie precise, che fanno della lingua della Quarantana la grammatica d’uso dello stato unitario: scelta la variante di toscano fiorentina per il prestigio storico garantito dalla tradizione letteraria e con l'aiuto di revisori madrelingua, Manzoni lavora direttamente su una copia di lavoro della Ventisettana, corretta a mano solo negli aspetti linguistici. Alcune correzioni sono sistematiche e facilmente rintracciabili in un confronto tra le edizioni e nelle varianti lessicali e sintattiche, da Giovanni Nencioni. Correzioni che talvolta peccano di ipercorrettismo fiorentino, come riscontrerà Policarpo Petrocchi. La forma linguistica della Quarantana deve il suo successo soprattutto al lavoro costante di de-letterarizzazione svolto da Manzoni su espressioni e locuzioni regolarmente sostituite con le corrispondenti del parlato. (Teresa Borri lo sollecita alla ristampa nel 1839, anche per motivi economici, e ne verranno ristampate 59.000 copie)Nel progettare la nuova edizione per non incorrere negli stessi danni Manzoni escogita quella che definisce «speculazione», ma che si rivelerà un disastro finanziario: una pubblicazione a dispense, con illustrazioni, per rendere difficile la contraffazione ed estendere la fruizione ad un pubblico popolare. Per le vignette viene stabilita da Manzoni con una scelta di immagini e di distribuzione nel testo, vengono assoldati i collaboratori della bottega di Francesco Gogin, celebre nella recente tecnica della litografia, arricchendo il romanzo di elementi nuovi (10000 copie che lasceranno migliaia di invenduti). Se la questione della lingua è risolta, le riflessioni intorno ai problemi teorici sull’origine delle lingue, la loro unificazione e diffusione, oggetto di studio dai tempi del libro sulla lingua, continuano ad affascinare Manzoni. Nel 1834 la stroncatura del Marco Visconti di Tommaso Grossi, accusato di aver introdotto nel testo espressioni milanesi e lombarde incomprensibili sul territorio nazionale, aveva sollecitato la stesura, inizialmente a 4 mani, di una risposta in cui le espressioni milanesi incriminate venivano riscontrate in autori toscani per legittimarne l'uso sulla base di motivazioni analogiche. Motivazioni che la nuova soluzione fiorentina destituisce di fondamento, affossandone il trattato. Manzoni nel 1860 viene nominato senatore del Regno, riconosciuto ispiratore del risorgimento, capo della scuola cattolico-liberale, e nel 1862 entra a far parte della Commissione per l’unificazione della linguai cui lavori confluiscono nella Relazione dell’unità della lingua e dei mezzi per diffonderla (scritta su invito di Emilio Broglio, ministro della Pubblico Istruzione) in cui ribadisce la scelta del fiorentino dell’uso contro il ricorso ai diversi dialetti d’Italia che risulterebbero un ostacolo all’unificazione linguistica. Contrasti con una sezione della stessa commissione portano Manzoni alle dimissioni, ma subito operativa la sua soluzione con la compilazione del Novo vocabolario della lingua italiana, pubblicato nel 1873 e 1897, curato dallo stesso Broglio con la collaborazione del genero Giovan Battista Giorgini. Gli ultimi anni trascorrono nella dimora di via Morone, raggiunto dalla famiglia del figlio Pietro, e dedicando gli studi all' opera di comparazione storica tra rivoluzione francese ed italiana del 1859 e al lavoro sulla lingua. Nel 1873 a seguito di una caduta le sue condizioni fisiche peggiorano, e la morte lo sopraggiunge il 22 maggio. 3. GIACOMO LEOPARDI 1. Storia di un’anima e storia delle anime Per poter comprendere al meglio alcuni tratti dell’ opera di Leopardi, bisogna far riferimento alla figura poetica del Bruto cesaricida della sua canzone “Bruto minore” del 1821 (pubblicata nelle Canzoni, 1824): Bruto, il combattente sconfitto a Filippi, rappresentato nel tragico monologo pronunciato prima di un teatrale suicidio, è l’alter ego con cui Leopardi si affida ai posteri, che, dopo l’Unità, lo hanno relegato alla figura del malinconico pessimista esistenziale, nella crisi del razionalismo illuminista, attratto dagli ideali del primo Rinascimento. Il Risorgimento aveva declinato un altro credo, che voleva gli italiani «con Manzoni in chiesa» e con «Leopardi in guerra» (Carducci). Ed è questo Leopardi “progressivo”, ma senza ideologie progressiste, che è più vicino alla grandezza della propria opera: il poeta che usa l’inesistita giovinezza come innesco di una poesia costruita sul potere immaginativo della memoria, la malattia come strumento conoscitivo e l’isolamento geografico e politico di un retrivo borgo dello Stato della Chiesa come punto di vista privilegiato per riflettere su sé e il mondo (isolamento espresso nella lettera del febbraio 1824 a Gian Pietro Vieusseux, che gli proponeva una collaborazione continuativa con l’‘Antologia’). Sorprendente paradosso, che affiancava all’estraneità al mondo una sperimentata conoscenza dell’animo umano, incessantemente osservato sin dall’ infanzia, educata alla lettura dei classici come un serbatoio di temi, motivi, generi, risposte a domande esistenziali. Egli ha spaziato da quel punto di osservazione in tutti i campi dello scibile (nello Zibaldone), dalla filologia alla linguistica, dall’antropologia alle scienze sociali, elaborando un sistema di pensiero creativo definito “pensiero poetante” (Prete) in grado di cogliere alla radice le ragioni dei comportamenti umani e di rappresentare le storie delle loro anime in forme classiche, poetiche, e non attraverso la costruzione di un metodo filosofico. Nonostante la sua anacronistica fedeltà ai classici, Leopardi produce un modello di poesia patriottica e civile che animerà il Risorgimento, da Carducci al Pascoli politico, e affranca il Novecento da una lingua sclerotizzata nei modelli cruscanti, nei generi letterari, negli schemi metrici, rinnovando la grammatica lirica della tradizione italiana. Con i Canti (poesie sentimentali-filosofiche) e le Operette morali (prosa metafisica antinarrativa), Leopardi porta nel cuore del XX secolo temi e forme moderne e un’esperienza letteraria animata da un’inesausta resistenza al “mal di vivere”. 2. Recanati: erudizione e filologia Il nucleo familiare di Giacomo Leopardi segna la sua formazione: nato il 29 giugno del 17, primogenito dal padre conte Monaldo (interdetto dall’ amministrazione della casa per improvvidi investimenti) e dalla madre Adelaide Antici (involontario capofamiglia), fratello di Carlo e Paolina. La biblioteca (costituita per ambizioni istituzionali di un territorio retrivo) sarà il territorio di cultura di un enfant prodige erudito, riscatto di fronte alla famiglia e al mondo esterno. Una biblioteca come un secondo e diverso ventre materno offerto a un figlio da un padre (Damiani), dall’ affetto prepotente ed esclusivo, fatto di ricatti psicologici e invidie. Interiorizzare i precetti educativi paterni vuol dire garantirsi in famiglia rispetto, affetto e riconoscenza e Giacomo adempie al compito con spaventosa solerzia (es. adunanze d’esame tenute di fronte alla famiglia e ai maggiorenti recanatesi), documentata da scritti come le Dissertazioni filosofiche (scritte dai 12 ai 14 anni) che inaugurano i sette anni di “studio matto e disperatissimo” che ne fanno l’intellettuale più colto della sua generazione e rovinano la sua fragile salute nella postura e nella cronicizzata malattia agli occhi, come scriverà nel marzo del 1818 al Giordani. Fra i 12 e i 18 anni scrive numerose opere erudite: Storia dell’ astronomia, Saggio sopra gli errori popolari degli antichi; poesie puerili di gusto arcadico; traduzioni giovanili del 1816 :quella in ottave, dell’Arte poetica di Orazio, il primo e parte del secondo libro dell’Odissea, la pseudovirgiliana Torta e il secondo libro dell’Eneide, la cui fama raggiunge Monti e Giordani; eruditissime false traduzioni (contraffazioni d’autore): l’Inno a Nettuno, seguito dalle Ode a despotae 1817, pubblicate sullo ‘Spettatore italiano’ reca una profetica epigrafe teocritea: «è il canto più bello dei doni spettanti agli Dei». Il “canto” sarà il segno distintivo di una nuova poesia. 3. Poesia sentimentale e poesia patriottica: Leopardi romantico? 3.1 Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica  Apprestamento della morte: 1816, poemetto allegorico in terzine dantesche sullo stile delle visioni settecentesche di Alfonso Varano, anticipa i temi della fama, dell’ingiustizia di una fine precoce (Leopardi gravato da una salute malferma), ripresi nell’idillio Le rimembranze, sulla morte dell’alter ego Filino, compianto dal padre e dal fratello  Nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica (non dato alle stampe)(si inserisce nel dibattito tra classici e romantici acceso nel 1816 dall’ articolo di M.me de Stael sul primo numero della Biblioteca italiana’, denunciante l’arretratezza italiana, eccessivamente classicistaLeopardi risponde prima con la Lettera ai Sigg. compilatori della Biblioteca italiana, 1816, perduta dal direttore Acerbi, non dato alle stampe) composto tra il gennaio e l’agosto del 1818 in risposta all’intervento vicino alle posizioni staeliane del cavaliere di Breme sullo “Spettatore italiano”, Leopardi mette a fuoco alcuni capisaldi del suo pensiero, come le ragioni e le possibilità di esistenza della poesia in un’età impoetica come quella settecentesca, dominata dal razionalismo che mina il sistema di poesia immaginativa, attivo, come sostenuto da Vico, dalla nascita della poesia stessa. Son già operative le categorie vichiane sull’origine della poesia dall’ignoranza della realtà, sulla sua derivazione dalla “maraviglia” piuttosto che dalla visione razionale e scientifica, sull’impossibilità, nel XIX secolo, di ignorare questa consapevolezza, come se la scoperta del vero non fosse un “attentato” alla poesia (la poesia si occupa del dilettoso e dell’immaginazione che attinge sia dal vero che dal falso, mentre il filosofo dell’utile e del vero). Per la sopravvivenza moderna della poesia è necessario non comporre più poesia immaginativa (superata dalla conoscenza), ma solo poesia sentimentale (condannata da Leopardi a questa altezza) come frutto dello spirito romantico. L’uomo moderno, per rimanere con la poesia vicino alla natura seguendo i modi semplici e oggettivi delle rappresentazioni antiche, pur avendo perso le condizioni di purezza e meraviglia che producevano la stupefazione, cercherà di percorrere due strade: la prima strada sarà quadernetto a righe, ora conservato alla Biblioteca Nazionale di Napoli, scrive i primi tre testi inaugurando la poetica del «vago», affrancandosi dai metri e gli stili tradizionali e mettendo l’io lirico al centro di un’avventura letteraria che, mentre afferma una filosofia negativa, difende la potenza ‘euforica’ (Blasucci) dell’immaginazione e della facoltà poetica che la rende eterna. La dolorosa contemplazione della luna descritta e ricordata scorre per quindici versi: un falso sonetto privo di rime, ma ricco di rimandi fonici e ritmici.  Qualche mese dopo, nel settembre 1819, da una simile contemplazione idillica compone L’infinito: affrancato dalla rappresentazione di una realtà visibile, è proiettato in una dimensione metafisica. Quelli che chiamerà “idilli esperimenti situazioni, affezioni, avventure storiche del mio animo” trovano in questo testo (14 endecasillabi più un verso di chiusura) l’avventura più ambiziosa. La veduta ristretta dal monte Tabor (ora chiamato colle dell’infinito) permette al pensiero di estendersi in profondità interiori e sovrumani silenzi, toccando la vertigine di un pauroso abisso, ma la voce del vento che muove le foglie circostanti distoglie l’io lirico dall’immersione in un itinerarium mentis in infinitum (Binni) e spalanca alla mente la potenza di una vittoria sul tempo. L’infinito non è una delle piacevoli illusioni ma il fondamento di ogni illusione (Blasucci), e nel suo atto fondativo è euforico: La parabola dell’ intero componimento si incornicia fra ‘Sempre caro mi fu’ e ‘il naufragar m’è dolce’; lo stesso brivido di paura che sfiora il poeta a metà del testo non è introdotto come una limitazione ma come potenziamento del piacere (Blasucci). Nonostante questi due testi e Odi Melisso (che risulta più canonico ed escluso dalla compagine finale) risalgano al primo tempo di composizione, tutta la serie viene pubblicata nel volume dei Versi del 1826, sotto l’insegna dell’anno 1819 come se fosse la data fondativa del nuovo genere poetico.  Il passaggio al ‘vero’ fa sì che Leopardi tenti, nel 1820, l’incastonamento in una canzone tradizionale, costruita sul modello dei Sepolcri, i primi germi del proprio ‘sistema’: Composta nel gennaio 1820 in 10/12 giorni ed inviata al Briganti il 4 febbraio insieme alle canzoni funerarie per una pubblicazione complessiva, l’Ode ad Angelo Mai prende spunto dalla scoperta del De re publica di Cicerone fatta dal filologo custode della Biblioteca Vaticana. Quando inviò la canzone al Brighenti confessò che, a dispetto del titolo, nessuno né tantomeno suo padre, avrebbe potuto indovinarvi, nascosta, una canzone piena di orribile fanatismo (passa in rassegna i vetusti divini della tradizione italiana e auspica che il rinnovamento di studi operato dal Mai porti l’età sì tarda ad un civile e politico risorgimento). Con Dante e Petrarca inizia una rassegna emula di quella foscoliana in Santa Croce, che però mostra in ogni figura il pensiero del celebrante; con Cristoforo Colombo, scopritore dell’ignota immensa terra, Leopardi dichiara l’esito disforico di ogni conoscenza umana (Ahi ahi, ma conosciuto il mondo/Non cresce, anzi si scema, e assai più vasto) e la nascita del ‘solido nulla’ per cui solo il nulla cresce. Ricordando Ariosto condanna l’abbandono del presente delle ‘belle/Fole’ e la consapevolezza che ‘tutto è vano altro che il duolo’; con Tasso celebra la potenza della poesia capace di fare del nulla oggetto di canto; con Alfieri si candida a muover guerra ai tiranni. Osteggiata da Monaldo, in combutta col Brighenti, non solo per la scandalosa canzone funeraria, ma per l’inserimento nella plaquette a tre delle due patriottiche, in quella che sarebbe stata la prima ‘forma’, ovvero la prima struttura mentale, del libro delle Canzoni, l’Ode al Mai viene stampata in opuscolo nel luglio 1820 a Bologna, da Jacopo Marsigli, con dedica, scritta dall’ editore, al conte vicentino Leonardo Trissino. 4.3 Lo Zibaldone Nel corso del 1820, le riflessioni depositate sullo Zibaldone di pensieri diventano quasi quotidiane e riguardani argomenti eterogenei quali estetica, poetica, linguistica, sviluppati secondo un percorso individuale e asistematico sollecitato dalle osservazioni della realtà dalle introspezioni e dalle letture. Tra i temi che affollano l’enciclopedia del sapere dello Zibaldone – che nel 1823 Lopardi comincerà a organizzare in indici tematici prima sotto forma di elenchi, poi con schede, richiamate alle pagine, caselle di un indice analitico che doveva servire per opere future – prendono forma riflessioni svolte con maggiore intensità, e “nel contrasto tra disordine superficiale della scrittura e ordine implacabile della mente, risiede, forse, un particolare motivo di fascino” (Pacella). Ciò che differenzia Leopardi dai grandi filosofi negativi della modernità come Schopenhauer e Nietzsche, è il ruolo assegnato alla poesia e alla capacità immaginativa, portatrice di una forma di conoscenza non inferiore, e a volte superiore alla quella scientifica, finendo a decretare: “chi non ha o non ha mai avuto immaginazione (…) non sarà mai se non un filosofo dimezzato’’ (Zibaldone, 4 ottobre 1821, pagina 1834), non conoscerà mail il vero, poiché dovendo la ragione applicarsi al ‘sistema della natura’, per comprenderlo non può fermarsi alla sua dimensione razionale, ma penetrarne il mistero, e solo l’immaginazione e la poesia che la traduce in forme comunicabili sono capaci di svelare i rapporti delle cose, facoltà precipua del gran poeta, che permette al filosofo di scoprire i rapporti, legare insieme i particolari, di generalizzare. Per questo la poesia per sua natura cerca il ‘bello’ e la filosofia il ‘vero’, ed esse devono collaborare tra loro per la loro affinità, altrimenti non è possibile dominare la realtà, ma la si segue (fa l’esempio dei filosofi tedeschi). Dal 12 al 23 luglio, sulle pagine dello Zibaldone prende corpo la teoria del piacere, secondo cui il desiderio umano (congenito, dunque l’uomo non esisterebbe se non lo provasse, e termina con la vita) di un piacere illimitato (né di durata né di estensione; il desiderio stesso di piacere è presente in noi come forma di tensione all’ infinito) provoca una condanna all’insoddisfazione non potendo estinguersi in un’ esperienza di piacere concreta essendo essa limitata (non eterna né immensa), ma anche una continua tensione a un potenziamento indefinito dell’immaginazione umana, capace di espandere all’infinito il piacere intellettuale. Ogni riflessione sulla felicità dell’uomo verte dunque da questi capisaldi: la vocazione alla felicità, la tenacia nel perseguirla nonostante le continue frustrazioni e poi con la svolta rappresentata dal Dialogo tra la Natura e l’Islandese, l’individuazione di un principio impersonale ed esterno responsabile di questa “macchina dell’infelicità” e la ferma, e a tratti eroica, volontà di contrapporvisi. 5. Estetica e poetica: tra vago e pellegrino 1820-1821 Le letture di estetica svolte dal Saggio sul gusto di Montesquieu (indaga le caratteristiche di un bello non classico) che, nell’agosto del 1820, portano a sviluppare una propria “teoria della grazia” basata su ciò che è fuor dall’uso, sono importanti per l’elaborazione della poetica del pellegrino, alla base della lingua delle Canzoni. Una poetica non neoclassica e che non consiste nell’equilibrio delle parti, ma in una sorta di disarmonia tra i vari elementi. Non è la naturalezza, non è la perfezione (‘un viso di quel genere che chiamano piccante, vale a dire imperfetto, e irregolare, fa ordinariamente più fortuna di un viso regolare e perfetto’) e ne deriva la superiorità nella lingua di vocaboli lontani dalla lingua corrente, che chiama ‘pellegrini’, con alta occorrenza nella sua poesia, fino a modificare la considerazione dei barbarismi (inizialmente ritenuti forestierismi da rigettare come lingua ‘ritirata dall’ uso corrente’), il uso nelle canzoni patriottiche, contestato dalla critica cruscante (Francesco Cassi), sottopone la lingua delle Canzoni ad un’ illustrazione dettagliata dei luoghi poetici della tradizione in cui quei termini erano responsabili delle maggiori eleganze (pur non attestati dal Vocabolario della Crusca). Le più di settanta pagine delle Annotazioni, scritte nella prima metà del 1822, e pubblicate insieme alle dieci Canzoni del 1824, costituiscono una dichiarazione di poetica inalterata nel tempo, nonostante alla lingua “pellegrina” si affianchi, soprattutto con gli Idilli, un’altra forma di nobilitazione della lingua letteraria, non più sotto forma di reinvenzione semantica nella tradizione, ma dissolvimento dei contorni della poesia, che acquisisce maggiore eleganza quanto più riesce a sfumare, evocare, alludere: una lingua “vaga”. (Sulla base delle osservazioni svolte da Beccaria sulla ‘natura dello stile’) in una celebre pagina dello Zibaldone, distingue i termini, voci della scienza, che «ci destano un’idea quanto più si possa scompagnata, solitaria e circoscritta», dalle parole, che ci permettono di «far errare la nostra mente nella moltitudine delle concezioni, e nel loro vago, confuso, indeterminato» ed «esprimono un’idea composta di molte parti e legata con molte idee concomitanti». Quest’ultime costituiscono la lingua “vaga” della poesia, una lingua capace non tanto di rappresentare la realtà, quanto di esprimere la sua finzione, alternativa alla realtà e indefinita, sia spaziale (notte, notturno) che temporale (irrevocabile) perché destano un’idea senza limiti e poeticissime. Sul quadernetto napoletano, Leopardi torna a scrivere, prima del 1820, La sera del giorno festivo (idillio in cui il sentimento doloroso di una passione non ricambiata si fonde con il dolore universale nella solitudine della notte); poi, nel 1821, Il sogno (in un sogno la passione amorosa viene dissolta nella dolcezza del ricordo) e La vita solitaria, ampia escursione in endecasillabi sciolti nelle varie parti della giornata, che ribadisce la condanna/necessità per il poeta di isolarsi per potersi obliare del mondo, dinamica che anticipa la cifra stilistica dei Canti, libro costruito per aggregazioni successive, la cui coerenza si deve alla sincronizzazione all’ultima stagione delle stagioni precedenti- De Robertis-. Stagioni che, anche all’interno del medesimo libro, assumono forme differenti; un esempio sono le canzoni civili composte alla fine del 1821 (scrive 2000 pagine dello Zibaldone). (Due canzoni dedicate all’ educazione della gioventù italiana) La prima, Nelle nozze della sorella Paolina, mascherata nel titolo indirizzato alla sorella Paolina e alle sue imminenti nozze, immagina una nuova pedagogia basata sull’educazione alla forza, alla virtù, ai pericoli, e individua in Virginia, fanciulla romana che preferì essere uccisa dal padre pur di sottrarsi al decemviro Appio Claudio, un modello di virtù antica attualizzata. La seconda, A un vincitore nel pallone, è un’esaltazione della forza fisica, in questo caso di Carlo Didimi, un campione poi patriota carbonaro e di un’educazione che, come gli antichi, privilegi anche lo sport, il gioco, il movimento, la “sudata virtude”. Tutti anti-principi della propria educazione, ed in chiave polemica nella chiusa ribadisce i capisaldi del suo sistema, e azzarda che la vita sia beata se ardimentosa o se figlia d’affanno. Ma è con il personaggio di Bruto cesaricida che Leopardi costruisce una figura realmente antica e di vertiginosa attualità, titanica e moderna, un alter ego che rimarrà inalterato negli anni e alimenterà il proprio sarcastico dolore al fuoco dell’ironia delle Operette. Qui l’ironia è soffocata dalla guerra mortale eterna che Bruto guerreggia con il fato, con un amaro sorriso che sente fraterno e che getta sull’ ironia leopardiana un’ombra luttuosa, oltraggiosa sfida che si lancia agli dei, nel non prendere sul serio la loro ostinata persecuzione. Le riflessioni sul suicidio sono presenti anche nello Zibaldone in un testo argomentativo in cui Leopardi riflette su virtù e gloria, già riconosciuti come vana illusione dagli antichi come Teofrasto (Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto vicini a morte). Bruno è vicino al sentire dei moderni essendo vissuto nell’ ‘ultima età dell’immaginazione’ (nel suo laboratorio creativo L. pensa già alle Operette morali). Saffo (monologo che precede il suicidio) invece è figura tragica da cui scaturisce una nuova vena poetica: da un lato canzone filosofica, dall’altro elegia, intreccia alla lingua pellegrina quella vaga, alimentata dall’ esperienza degli idilli, primo testo in cui Leopardi utilizza la parola “canto”. Il volume che nel maggio 1822 Leopardi ha composto ( seconda ‘forma’ del libro delle Canzoni) presenta: sette canzoni tradizionali solo nella forma, avviate verso la dissoluzione del metro classico, con un linguaggio “pellegrino” che segue la meno ortodossa tradizione cinquecentesca (Annibal Caro e Tasso, il petrarchismo di Bembo), animate da una oraziana poetica degli ‘ardiri’ che rinnova classici come Orazio e Virgilio, e chiuse da una liquidazione del classicismo montiano come la canzone Alla primavera (consacrata alla giovinezza dell’umanità, stato di natura in cui ogni cosa era viva secondo l’immaginazione umana e abitata da esseri uguali a noi: stato irripetibile e che provoca la fine del mito, traduzione poetica delle antiche favole ma anche fine dell’illusione di una poesia immaginativa). Dunque, un libro antimontiano in quanto anticlassicista e «spurio», cioè innovatore, anche nel disequilibrio tra poesie e prosa (poesie accompagnate con una dimostrazione filosofica come la Comparazione e una linguistica come le Annotazioni, e che si concludeva con un’allocuzione al lettore, che recuperava l’ironica dialogicità della Proposta del Monti e l’originalità di Ovidio, prova per le Operette morali. 6. Pausa e speranza nel viaggio a Roma e partenza da Recanati Il 1822 è la data dell’anno del primo viaggio di Leopardi fuori da Recanati. Su consiglio del cognato Carlo Antici, parte per la capitale con lui, dove soggiorna dal novembre all’aprile 1823, a contatto con il mondo culturale che aveva sempre vagheggiato affinché potesse procurarsi un lavoro nell’ambiente bibliotecario o ecclesiastico. In quest’ambito matura il progetto degli Inni cristiani, già abbozzato nel 1819 e in sintonia con la dichiarata antitesi nascosta in ogni titolo di poesia. Inni molto più pagani che cristiani e un intendere la religione in senso “estetizzante”: un ‘repertorio’ di miti da utilizzare in senso poetico. L’esaltazione dello stato di natura in cui erano immersi i primitivi (Abramo, Noè) diventa una celebrazione del secolo d’oro, della felicità perduta del genere umano, consistente in uno stato di natura simile a quello delle bestie, pre civilizzazione. Uno stato di ignorante beatitudine condiviso nella modernità solo dalle popolazioni primitive delle «vaste Californie selve», dove «nasce beata prole». Gli elenchi di letture svolte in questi mesi presso la Biblioteca Barberiniana, testimoniano le strade di ricerca che Leopardi prenderà d’ora in poi: dal costante studio dei classici (3 edizione dell’ Iliade di Monti e il Plutarco di Marcello Adriani) ai volgarizzamenti di testi della cristianità ( Trattati di San Giovanni Grisostomo sulla computazione del cuore di Manzi, le Vite dei Santi Padri del Cesari, il Boezio del Varchi), a un manuale come il Trattato dello stile e del dialogo del Pallavicino, pubblicato nel 1819 e utilizzato per correggere lo stile delle Canzoni, in un perfezionamento linguistico che mentre raggiunge il parossismo rivela a Leopardi la sua inutilità, come confesserà al Giordani. Ottenuto il visto della censura per un ricordo all’ interno di un destino di infelicità. L’altro è A Silvia, dove gli inganni del cuore prendono le forme di un’illusione amorosa e, dietro un personaggio forse reale, un archetipo della bellezza femminile e della poesia, scaturendo da una dimensione autobiografica, di rimembranze borghigiane sollecitate dal paesaggio pisano e dalla potenza rasserenante della poesia come ricordo e felicità del momento del canto. Ma la disposizione al canto si esprime attraverso l’invenzione narrativa di un personaggio delicato e potente, un perfetto alter ego della disillusione occorsa «all’apparir del vero» e della morte delle speranze insieme con quella giovane donna (non segna più le fonti e i modelli linguistici, si libera del metro della tradizione e compone 6 lasse diseguali). La dimensione memoriale, svanite le favole antiche, è l’unica praticabile in poesia, unico spazio di poesia consentito al poeta. Risultato del luogo e del doloroso soggiorno a Recanati sono le altre poesie che compongono il secondo nucleo dei Canti pisanorecanatesi, composte nel 1829 in ordine: Le ricordanze, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia (retrocesso prima della coppia Quite+Sabato, con preciso intento argomentativo). Per non chiudere il libro (che ripubblica le Canzoni prive delle Annotazioni, più gli Idilli del 1826) con il Canto notturno il più sconsolato prodotto del pensiero poetante leopardiano, in cui la dimensione metafisica dell’Islandese è riproposta in un deserto dell’Asia nel dialogo (muto) tra un pastore e la Luna, decide di anticipare queste costatazioni: la rappresentazione petrarchesca della vita umana nella corsa senza senso di un ‘vecchiarel infermo’ che dopo aver sfidato gli elementi naturali finisce in un abisso ove precipitando il tutto oblia, e contrappone alla sua consapevolezza, l’incoscienza della greggia indifferente, sofferente e annoiata, e la dimensione illusoria di una libertà sconfinata, aerea. La quiete dopo la tempesta e Il sabato del villaggio (nonostante continuino sulla linea delle Ricordanze la presentazione della riflessione filosofia alternata da quadri naturali con personaggi figure del poeta, fungono da risposta alle molte domande poste dal Canto notturno). Nella nuova poetica dei Canti fiorentini, i contenuti filosofici (Ode Angelo Mai) vengono presentati in forme popolari con lessico rurale, stilemi di ripetizione, prevalenza di versi brevi, sintassi a dialogo senza rinunciare alla cantabilità, alla naturalezza dell’espressione. Nella Quiete, tenta di presentare, nelle forme semplici e cantabili di lasse di diseguale lunghezza, l’esistenza del male come condizione necessaria per vincere la noia e sperimentare il sollievo, quanto non l’ebrezza dell’ uscir di pena del lavoro operoso, svolto dopo essere scampati allo scacco della natura. Un piacere connaturato alla sofferenza naturale, che si rinnova a ogni esperienza di dolore e si rafforza grazie alla memoria. Se essa è prontuario di filosofia morale individuale in cui si dimostra l’esistenza del piacere nel passato, attraverso exempla popolari, Il Sabato del villaggio, il giorno in cui la comunità ferve nell’aspettazione della festa, adempie alla stessa funzione nello spazio collettivo del pagus e in una dimensione temporale proiettata nel futuro. Inevitabile l’accorato consiglio al giovane che vuole che il tempo si affretti, senza sapere che quel sabato, che presto diventa giorno di festa, è la sua più compiuta felicità. Quando il libro dei Canti venne pubblicato nell’aprile del 1831 (sostenuto economicamente dagli amici fiorentini della cerchia Viesseux, primo fra tutti Pietro Colletta, per un anno di studio a Firenze, e a cui dedicherà il libro), Leopardi era coinvolto nella più sconvolgente e cruda passione amorosa per Fanny Targioni Tozzetti, venticinquenne moglie del celebre naturalista e madre di due giovani, appassionata di autografi. Nello stesso anno conosce Antonio Ranieri, esule napoletano, e inizia quel settennato di sodalizio amicale che renderà esclusivo e mediato ogni altro rapporto. Mal ricambiato da Fanny, disilluso per l’inganno amoroso, le dedica le più aspre e sentimentali poesie, scritte negli anni 1832-33: Il ciclo di Aspasia in cui la poesia riveste nuclei di puro raziocinio nichilista, in alternarsi di illusione e disillusione Consalvo, Il pensiero dominante, Amore e Morte, A se stesso, Aspasia (sciascun testo sviluppa una diversa gradazione della passione amorosa). Se con il Consalvo sperimenta i toni sentimentali dell’ idillio, il sogno, mettendo in scena un incontro impedito non dalla dimensione onirica, ma dalla dimensione dell’ amante, dichiaratosi sul letto di morte (vicinanza agli idilli, il testo viene spostato in posizione alta, prima di A lla sua donna). Con il pensiero dominante offre ai lettori introspezione, l’esperienza amorosa dona all’ essere la capacità di vedersi attraverso la poesia come uno specchio. La dicotomia tra ‘amore e morte’ come fondamento dell’esistenza si unifica nella poesia omonima in un’unica entità: la morte invocata si offre al poeta come una bellissima fanciulla, l’amore è disciplina che mostra la morte come liberazione, ed il poeta è pronto ad accoglierla in un ultimo appuntamento amoroso. In A se stesso, rivolgendosi al cuore come in Risorgimento, condanna i suoi inutili palpiti e, come Bruto con la virtù, maledice la natura che alimenta l’amore, solo per disprezzare più vilmente chi se ne nutre. Tornando con Aspasia dieci anni dopo alla poesia amorosa ora animata da delusione e da raziocinio sentimentale, recupera la dimensione platonica dell’idea della ‘sua Donna’, piuttosto che una figura reale: L’amore, estremo inganno, è rivolto solo all’idea amorosa incarnata in terra e, caduto l’incanto, l’amante può rinnegarla, affidando alla poesia il compito di registrare con fermezza la resistenza a questa sconfitta. 10. Sterimantor Vesevo: Napoli 1833-1837 Prima di lasciare il mondo fiorentino, Leopardi progetta un settimanale, lo “Spettatore fiorentino” polemicamente dichiarato di nessuna utilità di cui, con Ranieri, avrebbe curato scrittura e redazione in cambio di un modesto stipendio mensile, ma l’opposizione governativa tronca il periodico, nel clima di controllo culturale che avrebbe portato alla soppressione, nel marzo 1833, dell’«Antologia». In compagnia della sorella Paolina e di Ranieri, nel 1833 si trasferisce a Napoli dove vivrà fino alla sua morte (39 anni) per complicazioni asmatiche di una condizione di salute precaria. Sono questi gli anni di raccolta dei Pensieri e dei Paralipomeni della Batracomiomachia di Omero (l’aggiunta, in ottave, ma autografo solo il primo canto, alla pseudomerica Guerra dei topi e delle rane, tradotta nel 1817 e inserita nel volume dei Versi nel 1826), temi satirici che prendono di mira le ideologie liberali dei moti del 20-21 (topo/liberali napoletani cinsorti contro le rane/Borboni, sostenuti dai granchi/austriaci). La disillusione delle filosofie progressiste e un inasprirsi del pensiero nichilista (operetta Tristano), portano all’ isolamento dalla cerchia fiorentina (Palinodia al Capponi) e dagli intellettuali napoletani (messi alla berlina con I nuovi credenti, pubblicati postumi).Con il libraio e stampatore Starita, progetta la seconda edizione dei Canti, uscita nel 1835, come primo volume di un’edizione completa delle Opere in cui vengono aggiunti il ciclo d’Aspasia, una contraffazione d’autore come il Passero solitario (privo di autografo e a lungo creduto un idillio giovanile, racconta i temi degli anni 20 alla dimensione matura dei canti pisano-recanatesi) e due poesie sepolcrali (riallacciano riflessioni foscoliane, ispirati dai bassorilievi di Tenerani. Nella nuova edizione napoletana viene aggiunta una sezione di Frammenti che presenta il “rovescio” della poesia di una vita: l’idillio del 19 poi escluso dai Canti, Odi Melisso, l’Elegia II del 18, ovvero Il primo amore, alcuni veri dell’ Appressamento alla morte del 1816 e due traduzioni attribuite a Simonide di Amorgo composte tra il 23-24, con cui si chiude il volume. La censura borbonica colpisce il primo volume delle Operette e impedisce la pubblicazione del secondo, costringendolo pensare a una nuova edizione integrale, progettata per l’editore francese Baudry e interrotta dalla morte (sul cui progetto si baserà Ranieri per l’edizione postuma Le Monnier del 1845). Su un esemplare slegato della Starita, negli ultimi mesi, introduce a mano alcune correzioni e compone due nuovi testi: La Ginestra e il desolato Tramonto della luna. L’impianto argomentativo della Ginestra appare ambizioso, impegnativo e anche polemico, canzone di sette strofe diseguali che ribadisce, senza perdere musicalità (ricca di rime al mezzo), la necessità della poesia di farsi portatrice di una lucida cognizione del vero: sullo sfondo di un vulcano minaccioso, di un paesaggio scabro e desolato, proietta l’umile fiore del deserto, la lenta ginestra, flessibile, come nelle Georgiche, ma resistente nello spargere al cielo il suo profumo che consola il deserto, a visibile metafora delle magnifiche sorti e progressive dell’ uomo, costantemente minacciato dalla natura funesta, ma pervicace nell’ illudersi di una sua centralità, potenza, e nell’ ignorare il vero. Per allontanare da sé le accuse di misantropia, Leopardi porta ancor più avanti la sua riflessione riconoscendo nella “social catena” una resistenza armata contro l’“empia natura” (letto dai suoi denigratori solo postumo, modello di umanesimo civile per le future generazioni). Difficilmente è stata sottratta l’opera leopardiana ad una dimensione autobiografica, clichés che egli stesso rifiutò, rivendicando l’estraneità della propria condizione fisica ed esistenziale al suo sistema. Il 24 maggio 1832, Leopardi, scrivendo a Louis De Sinner, ribadisce con fermezza l’infondatezza degli stereotipi che si sarebbero sclerotizzati sulle sue forme di pessimismo e la forza, al contrario, delle riflessioni sul destino umano consegnate al Bruto minore: In una Napoli sconvolta dalle rivolte e dal colera del 1836, Leopardi muore il 4 giugno 1837 assistito dalla sorella Paolina e da Ranieri, senza esser riuscito a vedere l’ultima stampa dei Canti dove aveva cancellato a mano su N35 la nota in cui disconosceva la paternità di uno dei tanti testi reazionari del padre Monaldo: «L’autore dichiara che le Considerazioni sopra la Storia ultima del Botta ristampate in questa città, ed altri scritti del genere, che corrono per l’Italia, non sono suoi. Simili dichiarazioni in tal proposito egli ha pubblicato già altre volte, per mezzo di giornali, in altre parti d’Italia».
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