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Riassunto Etica e Infinito, Sintesi del corso di Etica Sociale

Riassunto Etica e Infinito di Levynas

Tipologia: Sintesi del corso

2013/2014

Caricato il 03/03/2014

dade1993
dade1993 🇮🇹

4.4

(14)

14 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Riassunto Etica e Infinito e più Sintesi del corso in PDF di Etica Sociale solo su Docsity! LA DISTRAZIONE DA SE, OVVERO: LA PROSSIMITA’, IL SOCIALE In “Etica e Infinito” (1982) compaiono due immagini astronomiche. La prima tratta il sole, che il soggetto della conoscenza di Cartesio, il COGITO, riesce a dare a se stesso facendo di se quasi una stella fissa nel firmamento; la seconda è una espressione dove la parola disastro viene forzata, spezzandola, e indicando il fallimento di fare se stessi leva con cui sollevare il mondo. Il dis-astro non sempre indica catastrofe. E non è neppure soltanto interruzione di un progetto già fallito prima del suo sorgere. Il dis-astro inaugura la possibilità che l’umano arrivi a se stesso attraverso l’altro uomo. Tutto si gioca su una possibilità: che l’arroccamento su di se e la perseveranza nel proprio essere venga meno per un attimo e si cristallizzi. Se questa distrazione da se è possibile, allora non solo sarà possibile la libertà, ma sarà possibile anche quel mondo comune in cui l’umano appare all’umano nella sua libertà e nel suo segreto. Il dis-astrarsi da se è l’etica, è il sociale. È la stessa filosofia. Mostrare che la distrazione da se è possibile è questione fenomenologica, perché si tratta di rileggere con attenzione le esperienze in apparenza più normali che interessano il quotidiano e che proprio per questo, di solito vengono ricondotte sbrigativamente alle necessità vitali di ciascuno o interpretate in riferimento a se stessi, come se non contenessero nessun elemento di profondità. LA DISTRAZIONE Se è possibile distrarsi da se, se qualcosa può essere diverso da come è, e se, ancora il mondo degli uomini può venire smentito nella configurazione che si ritrova ad avere, allora anche l’umano è possibile. Il fatto che la distrazione da se sia possibile, che nella vita degli uomini qualcosa possa essere diverso da cosi come è, non appartiene in esclusiva ne all’ordine della volontà ne a quello dell’intenzione. Per una volontà che vuole soltanto ciò che deve essere voluto e per un pensiero che pensa solo ciò che deve essere pensato, la distrazione si riduce solo a essere sbadati. E di solito è cosi: della distrazione si riconosce per lo più il significato negativo e pericoloso. La distrazione da se ha poco a che vedere con l’essere sbadati o disattenti, con un puro essere distratti. L’invito a non distrarsi implica infatti una attenzione diversa, che impone di concentrarsi su quello che si sta facendo non solo come un prolungamento ma anche con un attenzione di diverso genere che va agli altri, o anche a se stessi considerati come altri di cui essere responsabili. Distrarsi come caduta di tono della lucidità mentale, come smemoratezza, e vi è un distrarsi che rimanda a una attenzione diversa, che allontana da se rimanendo presso di se in altro modo. Vi è un essere distratti e un essere distratti da se. Distrarsi da se per volgersi all’altro, inaugura l’apparizione di un mondo differente, che è poi il mondo dell’umano, dove qualcos’altro al di fuori di me e dei miei pensieri è presente e non è nulla di sopravvenuto o di accidentale rispetto al mio essere. Molti impegni quotidiani possono sembrare voluti e programmati laddove invece appartengono all’ordine quasi inspiegabile di una sollecitazione da parte di altri. Nel quotidiano ci si impegna in prima persona e ci si distrae da se senza che ci sia possibile distinguere chiaramente tra l’una e l’altra cosa. La distrazione da se è lo sbriciolarsi faticoso della ripetitività in apparenza ineluttabile delle proprie faccende. Ingresso e rottura non sono un apertura agli altri: sono il venire in luce della prossimità di altri, non come una esistenza buona ma come condizione umana, la bontà dell’esistenza. Se è possibile che io mi distragga da me stesso (non mi considero al centro dell’attenzione) allora è possibile l’umanità. LA LETTURA Leggere ormai è una consuetudine talmente indispensabile per la vita quotidiana da risultare spesso inaspettato nella sua essenza e nel suo significato. Nella sua diffusione globale, viene spesso a giustificarsi in termini di pura utilità e strumentalità. La lettura si trova ricondotta nell’ottica della gestione e della preoccupazione per se e per le proprie attività. La lettura sembra essere li per confermare ciò che deve essere confermato. Si è circondati da scritte che orientano l’esistenza come un manuale di istruzioni. La lettura sembra presentarsi come vademecum dell’esistenza stessa, e sembra esaurire di ritorno l’esistenza stessa nella cifra della strumentalità: un know how. Lettura dunque come: strumento dello strumento. La lettura viene percepita sempre di più come strumentale e veloce, come se il rapporto che tenesse con noi fosse estrinseco e di mero utilizzo. Ma nella esperienza della lettura in realtà c’è qualcosa di più estrinseco e profondo. Con l’umano la lettura va interpretata dal punto di vista “ontologico”, come “modalità del nostro essere”. L’esperienza della lettura solleva in alto, allontana da se e dal proprio essere concentrati su se stessi e fa incontrare l’altro. La lettura rapisce, facendo si che ci si distragga da se nei momenti più autentici, con l’apparizione poi di altri pensieri e di altre voci rispetto alle proprie. La lettura chiama fuori e distrae. La lettura fa dimenticare, ma senza perdere niente. Non si tratta di una temporanea sospensione dal mondo, quanto di un dialogo con l’identità nostra più profonda, aprendoci al volto dell’altro. Capitolo uno(la lettura) -> Tutti i giorni noi facciamo uso della lettura e la usiamo come in modo strumentale e vale non solo per il binario del treno, numero dell’autobus ma c’è anche un modo strumentale di leggere i libri che viene vista come una lettura meccanica ovvero come vero strumento. La lettura è un modo del nostro essere e lo si capisce nel testo di una canzone. La lettura strumentale non serve a nulla. Io per la prima sento quello che sente il protagonista e sento tutto perché mi immedesimo nel libro, canzone. Il tempo non ha più tempo e il luogo non ha più luogo. Io per un attimo non sono più uno mi stacco da me stesso ed esco dalla paranoia per entrare nella dimensione altra dell’altro personaggio. Ogni bel libro appartiene al grande libro dell’umanità e si ha il libro dei libri. IL LIBRO, L’UMANO. L’esperienza della lettura distrae perché distoglie da se e conduce verso altre parole e altri pensieri, che sono poi le parole e i pensieri comuni dell’umano. Sotto questo frangente ogni singolo libro appartiene al grande libro dell’umanità. Nel vasto panorama della lettura internazionale però, prevale un libro in particolare si presenta come Libro dei libri, ed è la Bibbia (ebraica). È facile saltare a conclusioni affrettate asserendo che Levinas favorisce la Bibbia per le sue appartenenze culturali e religiose. Ma queste opinioni sono facilmente confutabili in quanto l’autore traccia un profilo di assoluta laicità, in perfetta coerenza con il grande libro dell’umanità quale libro della responsabilità degli altri. Il Libro dei libri è dunque tale sia perché conferma la convergenza tra essere veramente umani e la sensibilità per gli altri, sia perché propone questo motivo come “eccellenza profetica”. La responsabilità per l’altro, espressa fin da subito a chiare lettere, diventa forma etica di un comando: per questo la Bibbia è il Libro dei libri, dove sono trascritte le prime nozioni affinché la vita umana abbia un senso. Questo libro non è sacro per la sua origine soprannturale, la sacralità del libro coincide con la laicità della consapevolezza etica della responsabilità per altri. Il miracolo della Bibbia coincide con la sua umanità cosi umana; si tratta di una sacralità alternativa che desacralizza i falsi luoghi del sacro. I problemi per il Libro dei libri spuntano quanto si passa dal contenuto a considerare la forma letteraria tramite cui esso si presenta, un modo che aspira a rivolgersi a tutti ma che appare distante dal modello concettuale che si ritiene più largamente condivisibile. IL PENSIERO DEL COME. Nell’esperienza della lettura viene anticipato il pensiero del come: pensiero non solo di ciò che è cosi come è, ma del modo di essere. Quando interviene il pensiero del come, niente di ciò che è rimane uguale a se stesso, e questo fatto si può intendere in due modi diversi. O come una vera e propria rottura con la dimensione dell’essere generico o come presa di coscienza di un modo tipico e non confondibile di essere, che è poi quello dell’umano. Il pensiero del come indica una sporgenza, rappresenta l’ingresso della libertà nella vita degli uomini. L’apparire del pensiero del come distoglie da un fare e da un pensare soliti, che si fissano SUL CHE COSA: pensare al modo invece costringe a spostare l’attenzione dall’ESSERE al COME. Il come costringe ad ampliare lo sguardo, a riguardare sempre e di nuovo da capo. Impone di ricordare pensieri dimenticati e a far emergere tanto i sottintesi quanto i malintesi del pensare e del fare soliti. In questo senso il pensiero del come non è più soltanto un sapere le cose ma un viverle e sentirle affettivamente. Il pensiero del come è reso possibile dalla presenza degli altri. Io comincio ad essere in me stesso non nell’insistere ma di essere il parametro di riferimento di tutti gli altri. Nel testo si utilizza una metafora politica ed astronomica -> io non sono il sole e la luna. L’io è un re che ha usurpato un trono. È legittimo deporre il re sia quelli veri che i professori. Se non succede una qualcosa del genere, se il primo gesto non è porre me stesso ma guardare gli altri non potrà mai nascere un rapporto. La socialità è questa. ESSERE E AL DI LA. Levinas attribuisce al pensiero del come tre funzioni: a. IL PENSIERO DEL COME MUTA IL SIGNIFICATO DELL’ESSERE: (richiama Heidegger). Prima che appaia il come l’essere è interpretato come sostantivo. Con l’apparizione del come tutto si rovescia. Dalla genericità dell’essere si passa alla personalità dell’esistere. Insieme al significato dell’essere mutano anche i modi della filosofia e dell’analisi razionale. All’analisi razionale, risulta insufficiente prendere in considerazione soltanto gli aspetti esplicitamente intenzionali dell’esistenza, perché scopre la pienezza di senso del mondo affettivo degli “stati d’animo” che registrano le modalità del nostro essere. Prima di essere pensiero il come è una rivelazione del modo con cui si è al mondo, e che si patisce attraverso gli stati d’animo. Sentimento che viene messo al centro dell’attenzione è l’angoscia, sentimento intimo e improvviso che porta il nulla talmente vicino a ciò che è, a noi che siamo, che diventa difficile farne, accomodando, un derivato dell’essere. Il pensiero del come cambia il significato dell’essere. Su questo Levinas è ambiguo senza essere ambiguo. Ambiguo perché si muove nella doppiezza, e non ambiguo perché dichiara fedeltà fenomenologica al primo Heidegger. Indica in poche parole che nell’ambiguità tra il modo dell’essere, che è poi l’esistenza, e l’al di la dell’essere prevale l’oltrepassamento. b. IL PENSIERO DEL COME FA EMERGERE, in secondo luogo, L’ESSERE INGOMBRATI SU SE STESSI: motivo del c’è, del ritrovarsi come si è. Del fatto che c’è qualcosa, si può fare una lettura come donazione, o una lettura nel senso dell’impersonale. E qui il “c’è” pone tutte quelle questioni che non riguardano il senso del come. Non si deve pensare che il regno dell’anonimato e il regno dell’umano però siano due cose disgiunte; il regno dell’anonimato è molto più prossimo a noi di quanto non sembri. Esistenza e anonimato, apertura anonima e apertura personale sull’essere si ritrovano collimanti. c. IL PENSIERO DEL COME, infine, INTERROMPE CON L’ESSERE DATO, cosi come è. L’essere dato, il fatto di essere in un mondo, circondati da cose che reclamano attenzione, sembra quasi invitare ciascuno a porsi personalmente assumendo la cura per queste cose stesse. La cura delle cose però prevede un ingombro dell’esistenza. Ciò che chiama l’esistenza al di fuori dell’anonimato non è dunque la cura per le cose, ma l’esistere e l’apparire alla vita come umani, che diventa allora faccenda non di un porsi ma di un deporsi. Il pensiero dell’essere annuncia al di là dell’essere un oltrepassamento. L’esistere, modo proprio dell’essere umano, si dice eticamente, nelle responsabilità per l’altro. Solo la responsabilità per l’altro permette di uscire dall’oscurità anonima dell’esserci: da nome ai nomi. Posizione e deposizione designano la sovranità dell’io, immotivata nel momento in cui appare il pensiero del come. L’uscita dall’anonimato dell’esistenza nella responsabilità, per altri corrisponde alla relazione sociale con gli altri. Il pensiero del come si chiama fuori dall’anonimato, e deposita in un disinteressata responsabilità per gli altri. Il sociale è il modo tipico di essere dell’umano, ma lo è nel modo di un essere oltre se stesso, di una capacità di trascendere. differenze interumane annullandole in un’unità superiore. L’insieme dell’umano va cercato in un modo diverso sia dalla “totalità” sia dalla “sintesi”, “perché tra gli uomini viene meno questa sfera del comune, questa sfera del comune che viene presupposta invece in ogni sintesi”. L’unità dell’umano va pensata nel faccia a faccia, ossia nella pluralità essenziale. L’etica, vale a dire il pensiero della responsabilità per l’altro, per questo non è secondaria rispetto alla riflessione generale sulle forme del sapere e sul modo di dare unità. La filosofia prima è un’etica. Il significato morale dell’esistenza non è secondario perché pone frontalmente il problema dell’unità dell’umano: unità di ciò che è, di per sé, è incomparabile. Pensare questa unità non è quindi un fare sintesi. La vera unione o il vero insieme non è un insieme di sintesi, ma un insieme del porsi di fronte. Pensare il comune deve esprimere l’idea del faccia a faccia, l’insieme del ciò che resta. Le parole talora sfuggono: insieme e comune danno vita all’ennesima tensione, come avviene per il dire e il comunicare, per il sociale e per la società. Chiaro è anche che l’insieme porta con sé la pluralità insormontabile dell’umano, mentre il comune viene collocato sul lato della sintesi e della totalizzazione, dell’accumulo. Il vero insieme dell’umano porta nel proprio cuore il segreto della pluralità come quello della dignità stessa dell’umano. Quello che segna è un rimanere, tanto nel pensiero quanto nella pratica. L’insieme dell’umano è il modo di uno scarto che non si colma, di una vicinanza e non di una distanza. NE TOTALITARISMO, NE LIBERISMO. L’insieme non è sintesi dei diversi, ma è modo di essere gli uni di fronte agli altri. Dal rifiuto della sintesi deriva, in prima battuta, la critica spietata a ogni totalitarismo e successivamente, la critica al liberismo. L’opzione sociale per il liberismo si giustifica inoltre quasi da sola per la sola forza della reazione polemica contro gli orrori. Il totalitarismo è il condensato sociale di un pensiero della totalità. Il tema del segreto, in Levinas, permette di affrontare la critica al liberismo. Dalla critica al totalitarismo sembrerebbe quasi scontato passare a quella del liberismo. L’approdo al liberismo si vuole talmente naturale e razionale che qualsiasi dubbio o qualsiasi critica nei suoi confronti vengono subiti incriminati di essere un ritorno, più o meno addolcito ai totalitarismi, con una conseguente paralisi. Alla crisi del liberismo non sembra esserci nessuna alternativa se non quella del liberismo stesso. Eppure, il liberismo, corrisponde al totalitarismo ricalcando lo stesso linguaggio: anziché della sintesi che accomuna tutti, l’accento si pone sugli individui e sulle garanzie preliminari. Nel totalitarismo il segreto dell’esistenza viene negato, nel liberalismo invece viene fatto dipendere da una teoria oggettiva secondo la quale la società funziona meglio quando ci si lascia andare a un modello liberale. La libertà viene cosi a essere relativizzata e perfino assorbita all’interno dei giudizi sull’efficienza e sul funzionare, con il rischio di non trovare più voce poi per sopravvenuta inutilità. In uno dei suoi primi libri inoltre, Levinas, è come se pone un autocritica verso se stesso, giudicando la sua elaborazione su “Totalità e Infinito” troppo formale, mentre il suo impegno doveva andare a scavare alla ricerca della vera essenza di socialità, che è differente dalla socialità totale e addizionale. Obiettivo è quello dunque di una socialità che non risulti schiacciata dal principio di paura reciproca e della limitazione della guerra di tutti contro tutti. Un caso rilevante della necessità di ripensare il sociale riguarda la politica. Nella tradizione moderna la limitazione razionale della guerra di tutti contro tutti si traduce nel pensiero della regola della convivenza, che rimane in qualche modo al di la dell’ insieme inteso come faccia a faccia, e dunque prevede una razionalità sociale che non sia più di stampo totalitario o addizionale. La politica si pone al riparo di qualsiasi critica, mentre si fa criticare e controllare dall’etica. La politica viene infatti definita come una seconda forma di socialità, che rende giustizia al segreto della vita perché questo segreto non è una chiusura che tiene a distanza ma è responsabilità per altri. La politica non mette in forma la distanza ma la prossimità, non la separazione ma la responsabilità per gli altri. Alla politica come forma di socialità si può collegare il discorso della paura. La politica come limitazione discende dalla parola egoistica per l’altro. Il timore per l’altro inoltre è probabilmente il fondamento della socialità, non è un fattore egoistico, è amore senza eros. Il sociale, questo farsi carico degli altri, è il segreto della vita. VOLTO E MODERAZIONE. Il problema del modo in cui l’umano sta insieme fissa due modelli alternativi di pensiero, quello dell’uguale e quello dell’ineguale. Il pensiero dell’uguale fa cardine sul sapere dell’assoluto: odio, più o meno dichiarato, per la finitezza. Il pensiero dell’uguale però non va confuso con un principio di uguaglianza e con una istanza di giustizia. Il pensiero dell’ineguale sorge invece dall’idea di infinito: trascendere non significa qui negare la differenza a favore di un oltre, ma scorgere la trascendenza in ciò che attraversa l’umano, nel suo stesso differire. Niente nell’umano è mai compiuto fino in fondo. L’approdo al sociale è infinito nel finito, che non è una negazione bensì l’istituzione radicale di una trascendenza. Sull’idea di infinito il richiamo a Cartesio è d’obbligo. L’infinito segnala una sproporzione impensabile, una sproporzione che sopravvive quando non si fa coincidere tutto il senso della realtà con il pensiero che lo pensa. Dalla alternativa di questi due modelli di pensiero, discendono due registri di riflessione, dei quali l’uno pare dominante se non fosse per il fatto di venire contrappuntato e in un certo senso anche corretto dal secondo. Il pensiero iconico di Levinas si scolpisce cosi di nuovo in una serie di rotture, che si muovono tra il paradosso e la provocazione. Lungo la strada di questo pensiero iconico infine, si approda alla questione delle precedenze: non più l’essere, il sapere, il soggetto, la conoscenza, ma l’etica che si fissa in un esplicativo e originario punto di vista etico. Alla costruzione, anche letteraria, delle icone dell’etica fa da un altro contrappunto l’esigenza di dire la relazione sociale, che è poi la stessa etica. Il bisogno di dire più da vicino la relazione sociale, compare fin dai discorsi più consolidati, che insistono sull’icona del volto e del comando. Levinas ad un punto avvisa che il sociale fatica a parlare soltanto il linguaggio iconico del Volto dell’altro. E proprio in questo discorso, si fissa l’elemento del terzo soggetto, introducendo cosi il motivo alla giustizia. Il terzo è infatti l’altro uomo con cui sono in un rapporto mediato, attraverso il rapporto con chi ho di fronte. Nella tematica del terzo, che è poi quella con cui Levinas apre concettualmente il problema della giustizia, si individua la relazione interpersonale che stabilisco con altri uomini. RESPONSABILITA’, PROSSIMITA’, GIUSTIZIA. Il privilegio etico d’altri, fissato nell’icona del volto, va moderato. La prossimità fa ruotare infine la distrazione da se sul lato più positivo, sospendendo il linguaggio della rottura, senza che la prossimità sia di per se risolutiva di ogni cosa, essendo soltanto anzi, l’inizio di un mondo umano sempre ancora da venire e da pensare. La prossimità si trova nel cuore della responsabilità. In virtù della responsabilità, l’io, il soggetto, si disastra in un essere soggetto ad altri. La responsabilità ridefinisce l’identità dell’io, per condurla dapprima verso la deposizione di una sovranità usurpata, e quindi alla soggezione nei confronti del compito che incombe da parte dell’altro, e che non si può rifiutare. La responsabilità risveglia a se stessi, ma come uno choc di ritorno. Al centro di una responsabilità cosi incombente si ritrova dunque la prossimità. La prossimità con altri assume la stessa potenza etica del volto: ordina. La prossimità inoltre riguarda una situazione che interpella: situazione di una vicinanza dell’altro a me, detta da tutto se stesso, detta dal corpo. Il corpo esprime, il corpo è volto dell’umano. La prossimità non si sceglie, rimanda alla stessa condizione umana, che è la condizione di essere incarnati. La prossimità si trova al centro della responsabilità perché pone nuovamente di fronte al problema iniziale, quello dell’essere anonimo e quello del sorgere dell’esistenza, quello di ciò che è scontato e quello di ciò che viene assunto responsabilmente. La prossimità c’è e non c’è: si fa prendendo seriamente questa faccenda cosi spirituale di essere incarnati, corpi accanto a corpi. Lo spirituale dell’umano, la stessa responsabilità è la vicinanza attenta dei corpi. La giustizia si pone non solo come pensiero del terzo, degli altri con cui noi siamo direttamente in rapporto, ma anche nella responsabilità. Senza la prossimità davvero non si comprende da dove derivi all’io la responsabilità che gli compete, e il discorso sembra arrampicare sul vetro del gusto per le icone e per le iperboli, come se la sua certezza provenisse da convinzioni radicate in una fede che precede il discorso stesso. La responsabilità totale, la giustizia che viene reclamata per i torti subiti dagli altri, e anche di quelli con cui non sembra di essere in rapporto, trova la sua plausibilità nella razionalità del sociale. Nella prossimità si è davvero responsabili non solo per la propria responsabilità ma anche per la responsabilità degli altri, per le loro colpe . Ciò è cosa visibile inoltre ogni giorno, perché nella disattesa delle responsabilità l’umano fa catastrofe di se stesso. Il sociale non è la società. Il sociale è la responsabilità della res ponsabilità, l’umanità stessa dell’umano: giustizia che sola rende giusta ogni giustizia. Breve accenno sulla filosofia di Levinas Dopo la guerra, Levinas divenne un pensatore di punta in Francia, emergendo dal circolo degli intellettuali che circondavano Jean Wahl. La sua opera si basa sull'etica dell'Altro o, come direbbe Levinas, egli ricerca "l'etica come prima filosofia". Per Levinas, l'Altro non è conoscibile e non può esser ridotto ad un oggetto per sé, come è detto dalla metafisica tradizionale (chiamata ontologia da Levinas). Levinas preferisce pensare la filosofia come la 'conoscenza dell'amore' piuttosto che l'amore della conoscenza. Nel suo sistema, l'etica diventa un'entità indipendente dalla soggettività al punto che la responsabilità è intrinseca al soggetto; per questo un'etica di responsabilità precede qualunque 'oggettiva ricerca della verità'. Levinas fa derivare la preminenza della sua etica dall'esperienza dell'incontro con l'Altro. Per Levinas l'incontro faccia a faccia con un altro essere umano è un fenomeno privilegiato nel quale la prossimità dell'altra persona e la distanza sono entrambi fortemente sentiti. Alla rivelazione del volto il primo desiderio naturale di una persona è di uccidere l'Altro. Allo stesso tempo, la rivelazione del volto costringe l'immediato riconoscimento dell'incapacità di una persona di farlo. Ogni uomo deve istantaneamente riconoscere l'inviolabilità e l'autonomia dell'Altro, riconosciuto come "insegnante". Capitolo 4 – LA SOLITUDINE DELL’ESSERE In questo Capitolo Nemo interroga Levinas sul suo saggio “Il Tempo e l’Altro”. Era il 1948 e, nonostante ci si concentrasse molto in quegli anni sul tema dell’aspetto sociale dei problemi, Levinas continua sul percorso metafisico (si occupa degli aspetti ritenuti più autentici e fondamentali della realtà, secondo la prospettiva più ampia e universale possibile). Egli afferma che il suo saggio è una ricerca sulla relazione con gli altri (tema dell’altro) in quanto questa ha per elemento il Tempo, come se il tempo fosse la trascendenza (si intende qualcosa al di là rispetto a questo mondo, ed è opposto a immanenza che invece si tratta dell’analisi di cio che è immanente, che risiede nell’uomo), l’apertura verso l’altro. Il tempo permette questa relazione del soggetto con gli altri, infatti la solitudine era l’isolamento dell’angoscia, e il libbro rappresenta un tentavio di uscire da questo isolamento dell’essere. Due tappe fondamentali: 1. Uscita verso il mondo della conoscenza il sapere è immanenza e che in esso non vi è lacerazione dell’siolamente dell’essere; 2. Comunicare--> non si può pero comunicare l’esistenza, posso raccontarla ma non condividerla. La solitudine appare perciò come l’isolamento che segna l’evento stesso di essere. Noi viviamo in un mondo dove è impossibile evitare una relazione con qualcuno, ma cio non toglie il fatto che queste relazioni sono transitive, poiché io vedo l’altro, ma non sono l’altro: si puo condividere quello che si ha, ma non cio che si è! La relazione fondamentale dell’essere non è quella con gli altri. Tra esseri ci si puo scambiare tutto tranne l’esistere: essere significa isolarsi attraverso l’esistere. La solitudine è una piccola parte di questo grande tema: la cosa fondamentale non è uscire dalla solitudine, ma uscire dell’essere. Bisogna uscire da sé, senza ingannare la solitudine con i godimenti terrestri. Anche la conoscenza è sintomo di solitudine. Il tempo appare come una liberazione dell’esistenza: il tempo è un dinamismo che ci conduce altrove rispetto alle cose che possediamo. Capitolo 7 – IL VOLTO Qui Nemo interroga Levinas sul tema del volto nel libro “Totalità e Infinito”. Il volto è qualcosa di Etico [etica del volto], e il modo migliore per incontrare qualcuno è non guardare com’è il suo volto (colore occhi, ecc..). La pelle del volto è la parte piu nuda, ma con dignità, e quasi ci invita a un atto di violenza, anche se allo stesso tempo il volto è ciò che ci vieta di uccidere. Il contesto in cui si trova un volto è irrilevante: il volto è senso da solo: TU SEI TU. Il volto è immediatamente etico e ci ordina “tu non ucciderai”. Il volto para, dialoga, dice (tema del dire). Questa analisi del volto è il presupposto di tutte le relazioni umane, e si deve dare tanta attenzione poiché questa relazione interpersonale che stabilisco con altri devo stabilirla anche con gli altri uomini (il tema del terzo). Infine si spiega il tema “volto e moderazione”.
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