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Riassunto Etica e infinito, Appunti di Etica Sociale

Riassunto del libro "etica e infinito" per l'esame di Etica Sociale

Tipologia: Appunti

2019/2020

Caricato il 03/02/2020

Se.fa
Se.fa 🇮🇹

4.8

(10)

17 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Riassunto Etica e infinito e più Appunti in PDF di Etica Sociale solo su Docsity! ETICA E INFINITO La distrazione da sé, ovvero: la prossimità, sociale In “Etica e Infinito” (1982) compaiono due immagini astronomiche. La prima tratta il sole, che il soggetto della conoscenza di Cartesio, il COGITO, riesce a dare a se stesso facendo di se quasi una stella fissa nel firmamento; la se- conda è una espressione dove la parola disastro viene forzata, spezzandola, e indicando il fallimento di fare se stessi leva con cui sollevare il mondo. Il dis-astro non sempre indica catastrofe. E non è neppure soltanto interruzione di un progetto già fallito prima del suo sorgere. Il dis-astro inaugura la possi- bilità che l’umano arrivi a se stesso attraverso l’altro uomo. Tutto si gioca su una possibilità: che l’arroccamento su di se e la perseveranza nel proprio es- sere venga meno per un attimo e si cristallizzi. Se è possibile distrarsi da sé, allora non solo sarà possibile la libertà ma an- che quel mondo comune in cui l’umano appare all’umano nella sua libertà e nel suo segreto, un mondo che sfugge alla necessità del dominio. il distrarsi da sé è l’etica, è il sociale, è la stessa filosofia.mostrare che la distrazione da sé è possibile è questione fenomenologica, perché si tratta di rileggere con attenzione le esperienze in apparenza più normali che intessono il quotidiano e che, proprio per questo di solito vengono o ricondotte sbrigativamente alle necessità vitali di ciascuno, o interpretate in riferimento a sé stessi come se non contenessero nessuna profondità. se è possible distrarsi da sé, se qual- cosa può essere diverso da come è, allora anche l’umano è possibile: possi- bile perché per un attimo si sospende la violenza reiterata di insistere a ol- tranza su se stessi come se non vi fosse nessun’altra possibilità data all’u- mano se non quella di lottare con gli altri. il fatto che la distrazione da sé sia possibile, che qualcosa nella vita degli uomini possa essere diverso da come è, non appartiene in esclusiva né all’ordine della volontà, né a quello dell’in- tenzione.Solitamente della distrazione si riconosce per lo più il significato ne- gativo e pericoloso, ma in realtà la distrazione da sé ha poco a che vedere con l’essere sbadati o disattenti, poco a che vedere con un puro essere di- stratti. vi è dunque un distrarsi come disattenzione verso ciò che si fa ed uno che rimanda a un’attenzione diversa, che allontana da sé rimanendo presso di sé in altro modo. per quest’ultima distrazione la volontà e il pensiero inau- gurano un modo diverso di essere, che non è più un semplice prolungamento di sé. Vi è un essere distratti e un distrarsi da sé: quest’ultimo(distrarsi da sé per volgersi ad altro) inaugura l’apparizione di un mondo differente, dove qualco- sa d’altro oltre a me e ai miei interessi è presente. la distrazione da sé acca- de nell’umano, quasi controvoglia. essa è l’ingresso dell’infinito nell’esistenza perché rompe con ogni definizione: nessuna distrazione da sé sarebbe pos- sibile sempre l’umano, davvero fosse tutto così come è.l’ingresso dell’infinito nell’esistenza(presenza dell’infinito in un atto finito) è la socialità stessa. accade nel quotidiano : -nella lettura: la lettura è diventata talmente indispensabile per la vita quoti- diana da risultare spesso inavvertita nella sua essenza e nel suo significato. della lettura si percepisce questo: che tende a farsi sempre più veloce e strumentale. essa intrattiene con l’umano un rapporto ontologico, è una mo- dalità del nostro essere.l’esperienza della lettura allontana dal proprio essere centrati su sé stessi, fa incontrare dell’altro, chiama fuori, distrae. la lettura fa dimenticare ma questa dimenticanza non è un perdere qualcosa: è un ritrovare che inaugura l’ingresso del mondo degli altri nel mio mondo. Con l’esperienza della lettura affiora una frattura dell’essere: ciò che appare ai nostri occhi fa improvvisamente spazio alla trascendenza. la frattura del- l’essere, nel caso della lettura, prende la forma di una duplice polemica: con- tro la riduzione della scrittura ad un prodotto culturale e contro la reclusione della lettura nelle galere dell’intimismo.le lettura mette in contatto, fa apparire cioè il volto dell’altro. -nel discorso -nell’eros -nel figlio -nella responsabilità per altri Il libro, l’umano l’esperienza della lettura distrae perché distoglie da sé e conduce verso altre parole e altri pensieri, che sono poi parole e pensieri comuni dell’umano. da questo punto di vista ogni singolo libro appartiene al grande libro dell’umanità perché l’umanità dell’uomo consiste proprio nella responsabilità per altri. nel panorama della letteratura internazionale, un libro si presenta come libro dei libri, ed è la Bibbia. il libro dei libri è dunque tale sia perché conferma la convergenza tra l’essere veramente umani e la sensibilità per gli altri, sia perché propone questo motivo con una eccellenza profetica, ossia in modo esplicito e consapevole. nel libro dei libri la responsabilità per altri non è im- plicita ma si trova espressa a chiare lettere, fino ad assumere la forma etica, di un comando.La sacralità del Libro dei libri concede con la laicità della con- sapevolezza etica della responsabilità per altri, il miracolo della bibbia viene a coincidere con la sua umanità così umana, quella che esprime il fondamento stesso della prossimità tra uomo e uomo.nel libro dei libri la rottura con ciò che è e l’altro e la responsabilità(l’etica) vengono messi a fuoco come tali. si tratta perciò di una sacralità alternativa che desacralizza i falsi luoghi del sa- cro.pur senza essere in contraddizione con il grande libro dell’umanità al qua- le tutti i libri appartengono, la bibbia presenta però dei problemi quando dal contenuto si passa a considerare la forma letteraria con cui esso si presenta. La distrazione da sé accade, nonostante tutto. accade nella lettura, nel pen- siero del come. Accade nella parola, altra esperienza quotidiana che si situa in quel bivio inafferrabile tra l’esistere in prima persona e l’anonimato.tra il dire e il comunicare passa la stessa differenza tra l’esistere e l’essere anoni- mo: mentre il comunicare relaziona al modo dell’impersonale e del neutro, dello scambio oggettivo di informazioni, il dire mette di fronte all’altro. la comunicazione non distrae da se e dal proprio essere dato, secondo Levi- nas, la comunicazione non rappresenta di per sé l’uscita dalla solitudine del- l’essere, spesso conferma proprio quella solitudine. la comunicazione perciò non è il sociale con cui si nasce a se stessi in quanto uomini. nel comunicare ci si scambia informazioni, oggettivando. e così non ci si trova di fronte ma semplicemente di fianco all’altro, come se l’incontro con lui venisse mediare dall’informazione che si intende comunicare. la comunicazione dipende inol- tre da un sapere, nel senso che è funzionale alla sua trasmissione, in questo caso la diffidenza di Levinas per la comunicazione insiste sul rapporto tra la conoscenza e il sapere in cui si deposita(la conoscenza impedisce la distra- zione da sé nell’attimo stesso in cui sembra farsi rapire dalla meraviglia per le cose da conoscere) vi è quindi rapporto diretto tra conoscere e comunicare: conosce al modo della pura oggettivazione è in qualche modo un catturare, e cominciare estende a sua volta questa cattura- la socialità che è la stessa responsabilità per altro, non può quindi avere la stessa struttura della conoscenza, perché rimane pur sempre una solitudine e non mette sul serio in comunione con il vero altro: la socialità è un modo diverso di uscire dall’essere rispetto alla co- noscenza. la comunicazione, che dipese dalla conoscenza e dall’informazio- ne, non fa in quanto tale il mondo degli uomini. Il dire anche il dire è esperienza quotidiana ce si frammischia al comunicare. il dire quotidiano si presenta nella forma di un parlare con altri, di salute altri. nel parlare e nel salutare viene qualcosa di diverso rispetto alla comunicazio- ne anonima e standardizzata. per parlare a qualcuno o per salutare qualcu- no, al di là dello scambio di informazioni, guardare in voltoci si deve accorge- re dell’altro. il parlare o il salutare altri non sono soltanto un comunicare o un riconoscere: sono piuttosto di già un rispondere ad altri e un rispondere di al- tri. la parola è più della parola, rispondere è un farsi responsabili e il farsi re- sponsabili è un rispondere. la relazione con altri è un discorso che immerge in un rapporto che precede il rapportarsi stesso. in questo senso il dire si fa dialogo. il dialogo è il modo tipico dell’interumano. il dire precede e sorregge il detto, il sociale precede e sorregge la società. l’alternanza del dire e del det- to, parallela all’alternanza del sociale e della società, pone un duplice pro- blema - parola: il problema della prima parola sembra privo di senso dopo avere af- fermato che il dire autentico è un dialogare. nel dialogo, infatti, le parole vanno e vengono in qualche modo senza ordine e senza fine. eppure il problema della prima porla non fa che esplicitare qualcosa che, nel dialogo, è già lì. - metodo Nella parola arrivata ad essere parola, si fissa una responsabilità per altri. Proprio questo rispondere e farsi responsabili costituisce la prima parola. Il problema della prima parola non ha senso se lo si prende sul lato della parola detta o della parola rivolta verso l’altro. la prima parola in tal modo non è quella che si rivolge all’altro ma quella tramite cui si risponde all’altro. Ciò è utile per spiegare il passaggio dal detto al dire, dal parlare all’essere dialogo. Per un altro verso, il problema della prima parola si riempie di un contenuto etico. La prima parola è un comando, che viene rivolto e da cui ci si trova in- vestiti. È forma etica perché la prima parola non è una parola prima, dalla quale tutto il resto discende come dalla sua origine. La prima parola non ha garanzia, la prima parola si innalza nelle nudità e nella fragilità del volto d’al- tri. Dire e disdire La prima parola rappresenta il primo problema del rovesciamento che condu- ce dal detto al dire. Il secondo problema è quello che riguarda il metodo. Se la parola è più di una parola non può accontentarsi delle parole già dette ne ritornare a un suo utilizzo strumentale. La prima parola comanda anche il pensiero del come della parola stessa: pensiero di far vivere nelle parole e nei discorsi ciò che sta al di là della cattura, che è pensiero stesso dell’infini- to. Il problema del metodo riguarda dunque la parola che si rivolge all’altro, la parola che si rivolge a Dio, la parola di un dire consapevole e meditato, a vol- te anche tecnico. La filosofia mette a fuoco questa presa di distanza. La que- stione di un dire che è un disdire va però ben al di là del problema della paro- la filosofica. Riguarda la questione stessa del restituire, nell’universo immen- so delle parole, il senso dell’infinito che non può essere catturato in un detto o in un sapere chiuso. Si tratta di pensare come dire ciò che non può essere detto fino in fondo. Nella difficoltà e nella stessa impossibilità di tematizzare l’infinito viene a galla la sua infinità. La struttura di un dire che si disdice di continuo è dunque struttura stessa di infinito. Il parlare strumentale e quello prensile lasciano spazio a un essere parlati più che ad un parlare. Nel dire che si disdice, l’infinito non è elemento esterno, ma interno. L’interiorità del- l’umano diventa comando, che si impone tramite la stessa voce. Eros il mistero La sessualità appartiene al quotidiano più del quotidiano stesso. Sta li a do- cumentare che quello che in apparenza sembra, con i suoi bisogni improro- gabili, un ritorno continuo di se, in realtà non è altro che qualcosa che condu- ce fuori da se stessi. La differenza solidale tra il dire e il comunicare si ripro- pone anche per Eros. Diverse eccezioni fanno di Eros un essere concentrati su se stessi, un essere incardinati nei propri desideri al punto che Eros e la sua liberazione diventano una libertà stessa dell’umano. Eros oscilla tra una rivendicazione e una moralizzazione, che sono figlie l’una dell’altra; Eros da una parte si fa manifesto di libertà, dall’altra invece segno inequivocabile di una insufficienza radicale, come se portasse con se l’allusione ad una pie- nezza che infine viene meno. Eros rimanda anche al mistero, ad una alterità che non appare semplicemente dopo di me e dopo la mia coscienza. Eros annuncia una differenza dell’umano che non è equiparabile ne alla semplice differenza tra somma e sottrazione di singole unità, ne alla differen- za di attribuiti sessuali nei diversi soggetti. L’ “alterità erotica” attraversa cia- scuno e chiama fuori da ciò che di fatto si è. Eros destabilizza da ciò che si crede o che si desidera stabile. Da Eros si viene presi e questo interrompe la logica lineare e solare della centralità rischiarante della coscienza che si gio- ca nella prospettiva pacifica del porre e del prendere. Eros attira verso una zona di opacità intima, e in questo senso attiva sia “un movimento opposto a quello di coscienza” che pone l’altro a distanza e dopo stessi, sia uno “scacco della comunicazione” al modo dello scambio di informazioni. È difficile inter- pretare Eros secondo canoni classici, sia che si tratti di termini di lotta che di reciproco riconoscimento, perché sia la lotta che la fusione vivono nell’assen- za di una diversità intima. Eros non parla un linguaggio scisso, ma parla in modo contestuale, cosi che differenza e unione si appartengono da sempre a vicenda. L’esperienza di Eros è attraversata dal discorso sul corpo e sulla dif- ferenza dei corpi. Eros non fa incontrare le differenze, non le confonde tra di loro. Fa piuttosto vibrare la differenza come qualcosa che appartiene fin da subito alla propria identità. Di Eros si fa più esperienza di cedere rispetto al prendere. L’esperienza del corpo e della differenza sessuale, il fenomeno del pudore e della ritrosia, la lacerazione interiore che rende difficile controllare Eros rinviano nella direzione di questo rovesciamento. Levinas insiste su due esperienze particolari, quella della carezza erotica e quella del figlio. In en- trambe, il movimento del patetico dell’amore e quello del ritrovarsi sposses- sati emergono con nitidezza. L’esperienza della carezza erotica si distingue dal puro toccare: la carezza di Eros “non sa quel che cerca” ne risponde ad un agire ordinato secondo uno scopo preciso. Nella carezza vi è sia un pren- dere che un lasciare, un toccare ma anche uno sprofondare nel piacere del tocco. Nella carezza erotica si intravede la volontà di un “gioco” che vuole essere riproposto più volte. Nella carezza si inaugura un ordine e un tempo diversi, che è il tempo dell’umano. L’esperienza del figlio a sua volta, appare ancora più “misteriosa”, perché in quel caso l’altro è radicalmente altro pur incriminati di essere un ritorno, più o meno addolcito ai totalitarismi, con una conseguente paralisi. Alla crisi del liberismo non sembra esserci nessuna al- ternativa se non quella del liberismo stesso. Eppure, il liberismo, corrisponde al totalitarismo ricalcando lo stesso linguaggio: anziché della sintesi che ac- comuna tutti, l’accento si pone sugli individui e sulle garanzie preliminari. Nel totalitarismo il segreto dell’esistenza viene negato, nel liberalismo invece viene fatto dipendere da una teoria oggettiva secondo la quale la società fun- ziona meglio quando ci si lascia andare a un modello liberale. La libertà viene cosi a essere relativizzata e perfino assorbita all’interno dei giudizi sull’effi- cienza e sul funzionare, con il rischio di non trovare più voce poi per soprav- venuta inutilità. In uno dei suoi primi libri inoltre, Levinas, è come se pone un autocritica verso se stesso, giudicando la sua elaborazione su “Totalità e Infi- nito” troppo formale, mentre il suo impegno doveva andare a scavare alla ri- cerca della vera essenza di socialità, che è differente dalla socialità totale e addizionale. Obiettivo è quello dunque di una socialità che non risulti schiac- ciata dal principio di paura reciproca e della limitazione della guerra di tutti contro tutti. Un caso rilevante della necessità di ripensare il sociale riguarda la politica. Nella tradizione moderna la limitazione razionale della guerra di tutti contro tutti si traduce nel pensiero della regola della convivenza, che ri- mane in qualche modo al di la dell’ insieme inteso come faccia a faccia, e dunque prevede una razionalità sociale che non sia più di stampo totalitario o addizionale. La politica si pone al riparo di qualsiasi critica, mentre si fa criti- care e controllare dall’etica. La politica viene infatti definita come una secon- da forma di socialità, che rende giustizia al segreto della vita perché questo segreto non è una chiusura che tiene a distanza ma è responsabilità per altri. La politica non mette in forma la distanza ma la prossimità, non la separazio- ne ma la responsabilità per gli altri. Alla politica come forma di socialità si può collegare il discorso della paura. La politica come limitazione discende dalla parola egoistica per l’altro. Il timore per l’altro inoltre è probabilmente il fon- damento della socialità, non è un fattore egoistico, è amore senza eros. Il sociale, questo farsi carico degli altri, è il segreto della vita. Volto e moderazione Il problema del modo in cui l’umano sta insieme fissa due modelli alternativi di pensiero, quello dell’uguale e quello dell’ineguale. Il pensiero dell’uguale fa cardine sul sapere dell’assoluto: odio, più o meno dichiarato, per la finitezza. Il pensiero dell’uguale però non va confuso con un principio di uguaglianza e con una istanza di giustizia. Il pensiero dell’ineguale sorge invece dall’idea di infinito: trascendere non significa qui negare la differenza a favore di un oltre, ma scorgere la trascendenza in ciò che attraversa l’umano, nel suo stesso differire. Niente nell’umano è mai compiuto fino in fondo. L’approdo al sociale è infinito nel finito, che non è una negazione bensì l’istituzione radicale di una trascendenza. Sull’idea di infinito il richiamo a Cartesio è d’obbligo. L’infinito segnala una sproporzione impensabile, una sproporzione che sopravvive quando non si fa coincidere tutto il senso della realtà con il pensiero che lo pensa. Dalla alternativa di questi due modelli di pensiero, discendono due re- gistri di riflessione, dei quali l’uno pare dominante se non fosse per il fatto di venire contrappuntato e in un certo senso anche corretto dal secondo. Il pen- siero iconico di Levinas si scolpisce cosi di nuovo in una serie di rotture, che si muovono tra il paradosso e la provocazione. Lungo la strada di questo pensiero iconico infine, si approda alla questione delle precedenze: non più l’essere, il sapere, il soggetto, la conoscenza, ma l’etica che si fissa in un esplicativo e originario punto di vista etico. Alla costruzione, anche letteraria, delle icone dell’etica fa da un altro contrappunto l’esigenza di dire la relazione sociale, che è poi la stessa etica. Il bisogno di dire più da vicino la relazione sociale, compare fin dai discorsi più consolidati, che insistono sull’icona del volto e del comando. Levinas ad un punto avvisa che il sociale fatica a parla- re soltanto il linguaggio iconico del Volto dell’altro. E proprio in questo discor- so, si fissa l’elemento del terzo soggetto, introducendo cosi il motivo alla giu- stizia. Il terzo è infatti l’altro uomo con cui sono in un rapporto mediato, attra- verso il rapporto con chi ho di fronte. Nella tematica del terzo, che è poi quel- la con cui Levinas apre concettualmente il problema della giustizia, si indivi- dua la relazione interpersonale che stabilisco con altri uomini. Responsabilità, prossimità, giustizia Il privilegio etico d’altri, fissato nell’icona del volto, va moderato. La prossimità fa ruotare infine la distrazione da se sul lato più positivo, sospendendo il lin- guaggio della rottura, senza che la prossimità sia di per se risolutiva di ogni cosa, essendo soltanto anzi, l’inizio di un mondo umano sempre ancora da venire e da pensare. La prossimità si trova nel cuore della responsabilità. In virtù della responsabilità, l’io, il soggetto, si disastra in un essere soggetto ad altri. La responsabilità ridefinisce l’identità dell’io, per condurla dapprima ver- so la deposizione di una sovranità usurpata, e quindi alla soggezione nei con- fronti del compito che incombe da parte dell’altro, e che non si può rifiutare. La responsabilità risveglia a se stessi, ma come uno choc di ritorno. Al centro di una responsabilità cosi incombente si ritrova dunque la prossimità. La prossimità con altri assume la stessa potenza etica del volto: ordina. La pros- simità inoltre riguarda una situazione che interpella: situazione di una vici- nanza dell’altro a me, detta da tutto se stesso, detta dal corpo. Il corpo esprime, il corpo è volto dell’umano. La prossimità non si sceglie, ri- manda alla stessa condizione umana, che è la condizione di essere incarnati. La prossimità si trova al centro della responsabilità perché pone nuovamente di fronte al problema iniziale, quello dell’essere anonimo e quello del sorgere dell’esistenza, quello di ciò che è scontato e quello di ciò che viene assunto responsabilmente. La prossimità c’è e non c’è: si fa prendendo seriamente questa faccenda cosi spirituale di essere incarnati, corpi accanto a corpi. Lo spirituale dell’umano, la stessa responsabilità è la vicinanza attenta dei corpi. La giustizia si pone non solo come pensiero del terzo, degli altri con cui noi siamo direttamente in rapporto, ma anche nella responsabilità. Senza la prossimità davvero non si comprende da dove derivi all’io la responsabilità che gli compete, e il discorso sembra arrampicare sul vetro del gusto per le icone e per le iperboli, come se la sua certezza provenisse da convinzioni ra- dicate in una fede che precede il discorso stesso. La responsabilità totale, la giustizia che viene reclamata per i torti subiti dagli altri, e anche di quelli con cui non sembra di essere in rapporto, trova la sua plausibilità nella razionalità del sociale. Nella prossimità si è davvero responsabili non solo per la propria responsabilità ma anche per la responsabilità degli altri, per le loro colpe. Ciò è cosa visibile inoltre ogni giorno, perché nella disattesa delle responsa- bilità l’umano fa catastrofe di se stesso. Il sociale non è la società. Il sociale è la responsabilità della responsabilità, l’umanità stessa dell’umano: giustizia che sola rende giusta ogni giustizia. analisi voluttà : in realtà ciò che è accarezzato non è toccato, la carezza non cerca la morbidezza vellutata o il tepore della mano offerta nel contatto.- l’essenza della carezza è il suo stesso cercare,poichè essa non sa cosa cer- ca. questo non sapere, questo disordine fondamentalmente costituisce l’aspetto essenziale della carezza.è come un gioco con qualcosa che si sot- trae, un gioco privo di progetto e di piano. e la carezza è l’attesa di questo avvenire puro senza contenuto. Filialità esiste una seconda figura di relazione con altri che non è una relazione di conoscenza e realizza in modo autentico l’uscita fuori dall’essere, e che im- plica anche essa la dimensione del tempo: è la filialità. la fililalità è ancora più misteriosa, è una relazione con altri in cui altri è radicalmente altro, in cui tut- tavia è in qualche modo me. l’io del padre ha a che fare con un’alterità che è sua, senza essere né possesso ne proprietà. considerare le possibilità dell’altro come proprie possibilità, poter uscire da qualcosa che è assegnato verso qualcosa che non è assegnato ma che co- munque è proprio: ecco la paternità. la filiali può essere concepita come re- lazione tra esseri umani senza legame di parentela biologica.è possibile ave- re un atteggiamento paterno nei confronti di altri. considerare altri come pro- prio figlio significa per l’appunto stabilire con lui le relazioni che vengono det- te al di la del possibile.la paternità è una relazione con un estraneo che, pur essendo altri, è me. la relazione dell’io con un me stesso che tuttavia è estra- neo a me. nè le categorie del potere né quelle dell’avere possono designare la relazione con il figlio.l’alterità del figlio infine non è quella di un alter ego, la paternità non è una simpatia con la quale posso mettermi al posto del figlio. sono mio figlio attraverso il mio essere e non attraverso la simpatia. la pater- nità non è semplicemente un rinnovamento del padre e del figlio e la sua con- fusione con lui. essa è anche l’esteriorità del padre rispetto al figlio. 6. Segreto e libertà Totalità e infinito, libro di Levinas In cosa si oppongono totalità e infinito? nella critica della filosofia si trovami riferimento alla storia della filosofiche può essere interpretato come un tentativo di sintesi universale, cioè come una ri- duzione di ogni esperienza a una totalità in cui la coscienza racchiude il mondo, non lasciando nulla al di fuori di sé, e diventa quindi pensiero assolu- to.la coscienza di sé è nello stesso tempo la coscienza del tutto. L’esperienza della relazione si trova non nella sintesi ma nel faccia a faccia degli umani, nella socialità, nella sua significazione morale.bisogna però capi- re che la moralità non si aggiunge come uno strato secondario, al di sopra di una riflessione astratta sulla totalità e sui suoi pericoli: la moralità ha una por- tata indipendente e preliminare.la filosofia è prima di tutto un’etica. Levinas definisce delle cose non sintetizzabili. tra queste, il non sintetizzabile per ec- cellenza è sicuramente la relazione tra gli uomini.nella relazione interperso- nale non si tratta di pensare insieme me e l’altro: si tratta di essere di fronte.la vera unione o il vero insieme non è un insieme di sintesi ma un insieme del faccia a faccia.la vita e la storia non formano una totalità ma rappresentano due punti di vista assolutamente non sintetizzabili. nel suo libro totalità e infinito, Levinas cerca di fondare la socialità su qualco- sa di diverso rispetto ad un concetto sintetico de la società. “il reale non deve essere determinato soltanto nella sua oggettività storica, ma anche a partire dal segreto.il pluralismo della società è possible soltanto prendendo il via da questo segreto”. una società rispettosa della libertà non potrebbe avere quindi a fondamento semplicemente il liberalismo(teoria og- gettiva della società secondo la quale quest’ultima funziona meglio quando si lasciano andare le cose in modo liberale) un tale liberalismo farebbe difende- re la libertà da un principio oggettivo e non dal segreto essenziale delle vite. (?) La politica deve poter essere sempre controllata e criticata a partire dall’etica. questa seconda forma di socialità renderebbe giustizia al segreto che rappre- senta per ciascuno la propria vita, segreto che scaturisce non da una chiusu- ra ma dalla responsabilità per altri. la responsabilità per altri nel suo avvento etico è incedibile, non ci si può sottrarre, ed è quindi principio di individuazio- ne assoluta. 7. Il volto In che cosa consiste questa fenomenologia del volto, vale a dire l’analisi di ciò che accade quando guardo altri faccia a faccia? Forse non è corretto parlare di fenomenologia, poiché quest’ultima descrive ciò che appare. Piuttosto l’accesso al volto è immediatamente etico. la rela- zione con il volto può senz’altro essere dominata dalla percezione, ma il volto in quanto volto non vi si riduce. il volto è significazione, significazione senza contesto.il volto è senso da solo: tu sei tu.si può quindi dire che il volto non è visto, è ciò che non può diventare un contenuto afferrabile dal pensiero. la relazione con il volto è immediatamente etica. il volto è l’incontenibile, con- duce al di là, e per questo la sua significazione lo fa uscire dall’essere in quanto correlativo di un sapere.Volto e discorso sono legati: il volto parla. proprio il discorso e più esattamente la risposta o la responsabilità, è questa relazione autentica. nell’apparizione del volto a determinare le leggi e a instaurare la giustizia son la presenza di fatto della molteplici degli uomini e quella del terzo accanto ad altri.se sono solo con l’al- tro, gli devo tutto;’è il terzo però. io so cos’è il mio prossimo in rapporto al ter- zo? chi è il mio prossimo? la relazione interpersonale che stabilisco con altri devo stabilirla a ce con altri uomini.è perciò necessario moderare questo pri- vilegio d’altri, e di qui deriva la giustizia. Questa, esercitata dalle istituzioni, che sono inevitabili, deve sempre essere controllata dalla relazione interper- sonale iniziale. nel volto, così come io ne descrivo l’approccio, si produce il superamento del- l’atto attraverso ciò a cui l’atto stesso conduce.nell’accesso al volto è presen- te sicuramente anche un accesso all’idea di Dio. Distinzione tra dire e detto: che il dire debba comportare un detto è una necessità dello stesso rodine di quella che impone una società con leggi, isti- tuzioni e relazioni sociali. il dire invece è il fatto che di fronte al volto io non resto semplicemente là a contemplarlo: gli rispondo. il dire è un modo di salu- tare altri, ma salutare altri significa già rispondere di lui. 8. La responsabilità per altri per responsabilità morale si intende la struttura essenziale, primaria, fonda- mentale della soggettività.Di conseguenza si descrive la soggettività in termi- ni etici, etica intesa come responsabilità. Levinas intende la responsabilità come responsabilità per altri, quindi come responsabilità per ciò che non è affar mio, o anche che non mi riguarda; ovvero chi mi fissa è avvicinato da me in quanto volto. si scopre il volto come colui verso il quale si è responsa- bili, descrivendolo positivamente e non soltanto negativamente.l’avvicina- mento al volto non appartiene all’ordine della pura e semplice percezione, dell’intenzionalità che va verso l’adeguazione.in positivo si afferma che appe- na altri mi guarda io ne sono responsabile, anche senza dover assumere nessuna responsabilità nei suoi confronti(la sua responsabilità mi incombe)si tratta di una responsabilità che va al di là di ciò che faccio. la responsabilità non è un semplice attributo della soggettività(che non è un per sé ma ancora una volta per un altro). la prossimità d’altri è presentata come il fatto che altri non è semplicemente vicino a me nello spazio, ma si avvicina a me essen- zialmente in quanto mi sento responsabile di lui. la prossimità non si concilia con questa intenzionalità, non si riduce al fatto che altri mi sia conosciuto. il legame con altri si stringe soltanto come responsabilità, sia che essa venga rimutata o accettata. la relazione intersoggettiva è una relazione non simme- trica. in questo senso i sono responsabile d’altri senza aspettarmi di essere ricambiato, anche se dovesse mostrami la vita. l’inverso è affar suo.io sono soggezione ad altri proprio nella misura in cui la relazione tra altri e me non è reciproca, io sono soggetto essenzialmente in questo senso. io sono respon- sabile di una responsabilità totale che risponde di tutti gli altri e di tutto negli altri. la giustizia ha senso solo se conserva lo spirito del disinteresse che anima l’idea della responsabilità per un altro uomo. la soggettività assume la condizione di ostaggio, è originariamente ostaggio e risponde fino al punto di espiare per gli altri.
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