Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

riassunto etica e infinito, Sintesi del corso di Etica Sociale

riassunto del lobro etica e infinito

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

Caricato il 09/04/2020

SB1998
SB1998 🇮🇹

5

(1)

3 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica riassunto etica e infinito e più Sintesi del corso in PDF di Etica Sociale solo su Docsity! Etica e infinito – Emmanuel Levinas Introduzione – La distrazione da sé, ovvero: la prossimità, il sociale In Etica e infinito di Emmanuel Levinas compare per due volte un’immagine astronomica:
 > il sole, che il soggetto della conoscenza di Cartesio (il cogito) riesce a dare a se stesso 
 facendo di sé la stella fissa del firmamento 
 > la parola “dis-astro” (citando un’espressione di Maurice Blanchot), che indica il 
 fallimento dello sforzo di fare di se stessi la leva con cui sollevare il mondo Il dis-astro non è una catastrofe, e neppure l’interruzione di un progetto fallito: esso inaugura la possibilità che l’umano arrivi a se stesso attraverso l’altro uomo. Tutto sembra allora giocarsi all’interno di questa possibilità: che l’arroccamento su di sé e la perseveranza nel proprio essere possano interrompersi per un attimo. Se questa distrazione da sé è possibile, allora non solo sarà possibile la libertà, ma anche il mondo comune in cui l’umano appare nella sua libertà. Il dis-astrarsi da sé è l’etica, è il sociale, è la stessa filosofia. Mostrare che la distrazione da sé è possibile è questione fenomenologica, perché basta leggere con attenzione le nostre più normali esperienze quotidiane (che quindi vengono ricondotte sbrigativamente a necessità vitali, come se non nascondessero nessuna profondità). Levinas conia delle icone di pensiero che diventano paradigmatiche (il volto, il comando, l’eros, il femminile, l’unicità…) Ma, rispetto al risplendere di queste icone, il suo discorrere è più torturato, sofferente. Occorre dunque prestare attenzione a ciò che passa attraverso, che si capovolge: si scopre così tutta la fatica del linguaggio e dell’argomentazione, lo sforzo di un non detto mai del tutto adeguato a ciò che si vuol dire. 1. La distrazione Se è possibile distrarsi da sé, e qualcosa può essere diverso da com’è, allora l’umano è possibile: 
 > perché interrompe il muro della necessità che lo soggioga
 > perché si sospende la violenza reiterata di insistere a oltranza su se stessi Il fatto che la distrazione da sé sia possibile non appartiene né all’ordine della volontà né all’ordine dell’intenzione: per una volontà che vuole solo ciò che si deve volere, la distrazione si ridurrebbe solo a un essere sbadati, una dimenticanza, un difetto di concentrazione. ! infatti di solito della distrazione si riconosce solo il carattere negativo.
 La distrazione da sé ha poco a che vedere con l’essere sbadati: l’invito a non distrarsi implica infatti un’attenzione diversa, che impone di concentrarsi su quello che si sta facendo non come prolungamento di sé, ma come attenzione verso gli altri.
 ! Vi è un distrarsi come caduta di tono, disattenzione rispetto a ciò che si fa
 ! Vi è un distrarsi che allontana da sé rimanendo presso di sé in altro modo Vi è un essere distratti e un distrarsi da sé: quest’ultimo inaugura l’apparizione di un mondo differente, il mondo dell’umano, dove è presente qualcosa d’altro oltre a me e ai miei interessi. 
 La distrazione da sé accade all’umano quasi controvoglia, ogni giorno. Nel quotidiano ci si impegna in prima persona e ci si distrae da sé senza che sia sempre possibile distinguere chiaramente l’una e l’altra cosa. La distrazione da sé è l’ingresso dell’infinito nell’esistenza, perché rompe con ogni definizione (se tutto corrispondesse senza residui alla propria definizione, nessuna distrazione sarebbe possibile). Ingresso e rottura non sono un’apertura agli altri, ma l’irruzione dell’impensato dentro il pensato: l’ingresso dell’infinito nell’esistenza è la socialità stessa. 2. La lettura Leggere, oggi, è una consuetudine tanto indispensabile da risultare spesso inavvertita nella sua essenza e nel suo significato. Della lettura si offre spesso una giustificazione in termini di pura utilità, come strumentale per le faccende di tutti i giorni. La lettura sembra esistere per confermare ciò che dev’essere confermato: si è circondati da scritte che orientano l’esistenza come un manuale di istruzioni, e che esauriscono l’esistenza stessa nella cifra della strumentalità. La lettura tende a farsi sempre più veloce e strumentale, perfino i libri diventano strumenti. La lettura si allinea con la comoda rassicurazione che il mondo è già in ordine, ed è sufficiente una “guida turistica”. Ma a dispetto di questa convinzione, nella lettura si trova qualcosa di anche più profondo: “La lettura è una modalità del nostro essere”. L’esperienza della lettura solleva in alto, allontana da sé e dal proprio essere centrati su noi stessi. 
 La lettura rapisce, chiama fuori, distrae, fa dimenticare (non nel senso di perdere qualcosa, ma di un ritrovare): sconvolge dalle fondamenta la presunzione di un mondo unico. Con l’esperienza della lettura affiora una frattura nell’essere: fa spazio alla trascendenza, prendendo la forma di una duplice polemica
 > contro la riduzione della scrittura a prodotto culturale 
 > contro la nobile reclusione della lettura nell’intimismo 
 La lettura, al contrario, discute l’indipendenza degli esseri nella loro identità, mette in contatto: fa apparire il volto degli altri. 3. Il libro, l’umano L’esperienza della lettura distrae, perché distoglie da sé e conduce verso altre parole e altri pensieri. Ogni singolo libro appartiene al grande libro dell’umanità: 
 ! l’umanità dell’uomo consiste proprio nella responsabilità per altri. Tuttavia, un libro in particolare si presenta come Libro dei libri: la Bibbia. Può sembrare strano parlare di un Libro dei libri quando tutti i libri appartengono al grande libro dell’umanità, e si potrebbe insinuare che Levinas faccia questa affermazione in virtù della sua appartenenza religiosa (egli era ebreo). Grande libro dell’umanità: libro delle responsabilità per l’altro, a cui ogni libro appartiene 
 Libro dei libri: conferma la convergenza tra l’essere veramente umani e la sensibilità per gli altri.
 Nella Bibbia la responsabilità per l’altro non è implicita, ma si trova espressa a chiare lettere, fino ad assumere la forma etica di un comando. “la Bibbia è il libro dei libri in cui si dicono le cose prime, quelle che dovevano essere dette perché la vita umana abbia senso”. Questo libro non è sacro per la sua origine sovrannaturale: la sua sacralità coincide con la laicità della consapevolezza etica di una responsabilità per altri. Il miracolo della Bibbia coincide con la sua umanità che esprime il fondamento stesso della prossimità tra uomo e uomo. 
 È una sacralità alternativa, in cui si depositano 1) una rottura irrevocabile rispetto agli ordini dell’esistenza 2) una crisi irreversibile 3) una pluralità essenziale 4) un dialogo strutturale 5) una messa in discussione dell’egoismo 6) la fine del dogmatismo gratuito. Per il Libro dei libri spuntano dei problemi quando dal contenuto si passa a considerare la forma letteraria con cui esso si presenta: il modo in cui dice “le cose che dovevano essere dette” entra in La prima parola non è mai garantita, neppure nelle parole stesse che sono spesso anticipo e ricaduta di ogni violenza: lo stesso comando di responsabilità per l’altro si innalza di fronte a ciò che può essere offeso. La prima parola, che è un comandamento, si innalza nella nudità e nella fragilità del volto d’altri. 8. Dire e disdire Il secondo problema riguarda il metodo: se la parola è più di una parola, non può accontentarsi delle parole già dette o ritornare ad un suo utilizzo strumentale. Il problema del metodo riguarda dunque la parola che si rivolge all’altro, che si rivolge a Dio. Un dire consapevole, meditato, tecnico: la parola della filosofia. 
 > da un lato non si può fare a meno di deporre il dire in un detto 
 > dall’altro un dire consapevole e meditato trasforma il detto in già detto 
 ! il dire filosofico è un continuo disdire. La filosofia mette a fuoco questa presa di distanza: il dire filosofico vive nella necessità di disdirsi sempre. Ma la questione di un dire che è un disdire va oltre il problema della parola filosofica: riguarda la questione stessa di restituire il senso dell’infinito, che non si può catturare in un sapere chiuso. Si tratta di pensare come dire ciò che non può essere detto. Il dire che disdice testimonia la presenza dell’infinito, ma non si lascia interpretare come limite: nella difficoltà e nell’impossibilità, viene a galla la sua infinità. 9. Eros, il mistero Nella sua normalità quasi fisiologica, la sessualità appartiene al quotidiano, documentando quello che in apparenza sembra un ritorno continuo su di sé ma che invece porta fuori da se stessi.
 ! ciò che Eros porta in superficie non è quello che dice per davvero. Diversi segnali del comportamento fanno di Eros un essere concentrati su se stessi: 
 > da un lato si fa di Eros il manifesto della libertà
 > dall’altro è il segno di un’insufficienza radicale, come se portasse con sé l’allusione a una 
 pienezza che non si trova. Una fenomenologia di Eros pone in risalto che in Eros qualcosa sfugge alla conoscenza, annunciando una trascendenza che non sta al di là dell’umano ma al suo interno. Eros rimanda al “mistero”, testimonia che l’alterità e sia prima che dopo ogni altra cosa.
 Eros annuncia una differenza dell’umano che non è equiparabile al “numero” (differenza di somme e sottrazioni di singole unità) né alla “natura” (differenza dell’umano in maschio e femmina). L’alterità erotica attraversa ciascuno, e chiama fuori da ciò che di fatto si è. Da Eros si viene presi, il che interrompe la logica lineare della centralità della coscienza: Eros attira verso una zona di opacità intima. Si parla di una comunicazione dell’eros, in virtù del rovesciamento per cui Eros si differenzia dal possesso e dal potere. Quando Eros si manifesta velandosi (per esempio nel pudore e nel femminile), risulta difficile interpretarlo nei termini classici di “lotta per il reciproco riconoscimento”, o “fusione romantica”. Eros non separa il linguaggio dell’unione e quello della differenza, ne parla in modo contestuale: differenza e unione, così, si appartengono da sempre a vicenda. L’esperienza di Eros è attraversata dal sulla differenza di corpi (maschile e femminile). Leggendolo secondo il programma contrapposto della lotta, questa differenza si riduce a una complementarietà fisiologica: però così facendo si trascura il modo umano del loro rapporto. Eros non fa incontrare le differenze, non le confonde tra di loro: piuttosto, fa vibrare la differenza come qualcosa che appartiene fin da subito alla propria identità. Più che di un prendere, allora, Eros si fa esperienza di un cedere: passività nell’attività, “patetico” nell’amore, depossessione. Levinas insiste su due esperienze particolari: la carezza erotica e quella del figlio. Entrambe fanno emergere nitidamente il movimento patetico dell’amore e quello del ritrovarsi spossessati. > la carezza erotica si distingue dal puro toccare come il comunicare e il dire, la società e il sociale.
 La carezza “non sa quello che cerca”, non risponde ad un agire ordinato dallo scopo preciso: 
 nella carezza vi è un prendere ma anche un lasciare, è un “gioco” che domanda di essere sempre 
 giocato di nuovo.
 > l’esperienza del figlio è “ancora più misteriosa” di Eros, perché l’altro è radicalmente altro pur 
 essendo in qualche modo me. L’esperienza della paternità rovescia il possesso, la proprietà. ! Eros è una partecipazione che interroga, un’uscita dalla solitudine dell’essere. 10. Il sociale, l’etica, la filosofia L’uscita dalla solitudine dell’essere è il sociale, a cui sembra si arrivi attraverso la rottura, l’altrimenti che l’essere, il dire, l’Eros, il figlio… come in un cammino dal singolo alla socialità. Ma non è così: Levinas, nell’impostare il discorso sul sociale, tiene in parte presente la riflessione di Aristotele, che parla della città come: > derivata per accrescimento interno dagli individui 
 > originaria, antecedente agli elementi che la formano I segnali negativi e oppositivi sono molti; tuttavia a proposito del sociale si osserva anche in Levinas un passaggio doppio. Il sociale diventa il luogo, umano, della distrazione da sé: 
 luogo della libertà. > da un lato è introdotto come un momento ulteriore ed esplicito del discorso 
 > dall’altro è continuamente sotteso ad analisi sugli aspetti dell’essere. Persino l’affermazione filosofica per eccellenza, “la filosofia prima è un’etica”, non viene pronunciata quando si tratta di polemizzare col metodo trascendentale del sapere o col primato della conoscenza oggettivante: ma viene citata in riferimento al sociale, al “faccia a faccia degli umani”. Le parole del sociale sono quindi le parole dell’etica e della filosofia. I segnali di questa equiparazione sono molteplici, e rintracciabili in un triplice gruppo di parole: > parole della dissociazione: mettono in relazione dimensioni alternative, come dire e 
 comunicare, società e sociale… 
 > parole dell’equivalenza: fanno apparire nello stesso luogo termini appartenenti alla stessa 
 famiglia di significati, come filosofia e etica 
 > parole dell’immersione: recuperano i termini a cui Levinas affida gli snodi più delicati del 
 discorso per sottrarli a una deriva linguistica Sono parole che vengono pronunciate in riferimento all’essere e alla conoscenza, all’etica e alla responsabilità, ma che alla fine si depositano nel sociale.
 Le parole sommerse, in particolare, sono di grande interesse perché costringono a rileggere l’itinerario di un pensiero per scoprirvi qualcosa di importante. Secondo Levinas “il sociale è l’ordine stesso dello spirituale”: esso non si può quindi concepire come somma delle psicologie individuali. In più, il tema centrale della responsabilità per altri si colora subito di un’intonazione sociale e politica: si parla dunque di un “io deposto”. Alla possibilità di dare concretezza alla filosofia, Levinas risponde affermando che del sociale si dice non la concretezza dell’applicazione ma la purezza della filosofia. 
 La filosofia prima come etica si dice dunque in riferimento al sociale: le parole della dissociazione, dell’equivalenza e dell’immersione restituiscono lo sforzo di dire ciò che è umano per eccellenza. Il compito della filosofia è dunque dare unità, creare un sistema dove tutto venga ricondotto a un’unità di sintesi dove la diversità è il pretesto di un compattamento “un po’ più movimentato”. Il modo dell’unità del pensiero rispecchia anch’esso i modi dell’unità dell’umano: a un sapere assoluto e totalizzante corrisponde una socialità della sintesi e dell’omologazione, mentre a un pensiero dell’infinito corrisponde una socialità del faccia-a-faccia. 11. L’insieme e il comune Usciti dalla mentalità cosmologica di fare di se stessi gli astri di riferimento, le parole della filosofia, dell’etica e del sociale si stringono in una vicinanza sia teorica che pratica. Il problema che ci si pone, in fondo, è sempre lo stesso: il problema dell’uno e dei molti, del medesimo e del diverso, dell’insieme. Questo si giostra in una difforme continuità tra
 > teoria (“sintesi” tra ciò che non coincide)
 > etica (dove si prende di petto la questione dell’io e dell’altro)
 > sociale (che introduce alle modalità di convivenza) L’unità del pensiero, la differenza dell’altro, i modi dell’essere insieme si possono però raccogliere tutti sotto il problema di fare e pensare l’unità. Le figure teoriche del pensiero, quindi, anticipano (o esplicitano) le forme pratiche del convivere. L’insieme dell’umano non si può intendere né nel modo naturalistico (che trascura l’irriducibilità umana dell’essere) né al modo della sintesi hegeliana (che annulla tutte le differenze) 
 ! l’insieme dell’umano va cercato nel faccia a faccia, nella pluralità essenziale. L’insieme umano coincide con la sua stessa molteplicità: per questo l’etica, il pensiero della responsabilità per l’altro, non è secondaria rispetto alla riflessione generale sul sapere. 
 Il significato morale dell’esistenza non è secondario, perché pone frontalmente il problema dell’unità nell’umano: questa non sta in una sintesi, ma nel faccia-a-faccia. L’uscita dalla polemica e lo sblocco della ricerca di un’unità propria dell’interumano approda a una forma paradossale: il vero insieme dell’umano porta nel proprio cuore il segreto della pluralità come quello della dignità stessa dell’uomo. 12. Né totalitarismo, né liberalismo L’insieme non è una sintesi di diversi, ma un modo di essere uno di fronte all’altro. 
 Dal rifiuto della sintesi deriva sia la critica del totalitarismo che quella del liberalismo: > il totalitarismo è il condensato sociale di un pensiero della totalità, che pone l’accento sulla 
 sintesi. Il centro della sua critica riguarda la perdita del “segreto” dell’esistenza che impedisce la 
 sintesi e che garantisce una società plurale. Una società ispirata a un’idea di comune così 
 distorta sarà una degradazione dell’unità dell’umano.
 > dalla critica al totalitarismo ci si aspetterebbe un approdo al liberalismo, ma ciò non accade: 
 il liberalismo infatti risponde al totalitarismo ricalcando il suo stesso linguaggio, spostando 
 l’accento non sulla sintesi che accomuna tutti ma sugli individui e sulle garanzie preliminari. 
 La struttura del ragionamento rimane intatta, e il segreto delle esistenze non si salva. Nel totalitarismo il segreto dell’esistenza viene negato, nel liberalismo viene fatto dipendere da una “teoria oggettiva della società”, secondo cui essa funziona meglio se lasciata agire liberamente. 
 Terminati gli studi, Levinas sognava di “lavorare in filosofia”, e grazie a Husserl ha avuto la possibilità di farlo senza trovarsi immediatamente rinchiuso in un sistema di dogmi né procedere per intuizioni caotiche. Husserl affermava che “filosofia è una scienza rigorosa”, ricerca legittima che non esce dai ranghi. Levinas ha incontrato l’opera di Husserl casualmente, a Strasburgo. Lo hanno colpito principalmente la “possibilità di riconoscersi”, una riflessione radicale centrata sul sé, un cogito che si cerca e si descrive senza farsi ingannare. 
 Apparentemente tra l’opera di Levinas e quella di Husserl sembra esserci poco in comune, ma non va dimenticato che per Husserl il carattere di valore non è attribuito agli esseri dalla modificazione di un sapere, ma deriva da un atteggiamento specifico della coscienza. 
 La relazione con gli altri può venire indagata come intenzionalità irriducibile. 2. Heidegger Un altro pensatore importante nello sviluppo di Levinas è stato Heidegger Levinas lo ha scoperto perché un suo libro (Essere e tempo) veniva letto nell’ambiente da lui frequentato. Nonostante sia il verbo per eccellenza, la parola essere viene ancora usata abitualmente come un sostantivo: Heidegger invece ne risveglia la “verbalità”, che oggi ci sembra scontata ma che è stata essenziale. 
 Egli definiva chiaramente la filosofia come “ontologia fondamentale”, intesa come comprensione del verbo essere. Le analisi dell’angoscia, della preoccupazione, dell’essere-per-la-morte di Essere e tempo hanno lo scopo di descrivere l’essere e l’esistere dell’uomo, non la sua natura.
 Lo ha colpito particolarmente l’intenzionalità che anima lo stesso esistere, e tutta una serie di stati d’animo. A un’analisi banale, l’angoscia è un movimento affettivo senza causa; Heidegger invece la carica di significato. Come per l’effetto di un’intenzionalità, dunque, l’esistenza stessa è animata da un senso: il senso ontologico primordiale del nulla. 
 C’è qualche aspetto deludente in Heidegger? L’unica cosa che delude Levinas è la scomparsa della fenomenologia vera e propria a vantaggio della poesia: secondo lui il linguaggio ha in sé una saggezza che va esplicitata.
 ! invece, per Levinas, il detto non conta tanto quanto il dire (meno delle informazioni, conta il 
 fatto che ci si stia rivolgendo a un interlocutore)
 Un ulteriore, fondamentale apporto del pensiero di Heideggeer è un nuovo modo di leggere la storia della filosofia: egli presenta un modo nuovo, diretto, di dialogare con i filosofi del passato, ricercando nei grandi classici insegnamenti estremamente attuali. 3. L’«il y a» Levinas ha iniziato a scrivere pubblicando saggi su Husserl e Heidegger, ma il suo primo libro è un piccolo volume intitolato “Dall’esistenza all’esistente”: di cosa tratta? Di ciò che Levinas chiama «il y a»: è un fenomeno dell’essere impersonale, “il”. La sua riflessione sull’argomento prende il via dai ricordi dell’infanzia, in cui il bambino percepisce il silenzio della sua cameretta come un brusio, come quando si avvicina l’orecchio a una conchiglia vuota. 
 Il fatto dell’«il y a» non si può negare: nel vuoto assoluto che si può immaginare prima della creazione, «il y a». Un qualcosa di impersonale (come “piove” o “fa notte”), senza gioia né abbondanza: un rumore che ritorna, né nulla né essere. 
 L’esperienza dell’«il y a», però, non è angoscia (tema di cui all’epoca si discuteva parecchio).
 Altra esperienza simile all’«il y a» è l’insonnia, in cui si può e non si può affermare che ci sia un io che non riesce a dormire. L’impossibilità di uscire dalla veglia è un qualcosa di oggettivo, indipendentemente dalla mia iniziativa, e la coscienza è spersonalizzata. Anche Maurice Blanchot sembra portare avanti temi molto simili:
 Nella sua opera si possono reperire un gran numero di espressioni suggestive: egli parla del “trambusto” dell’essere, del suo “rumore”, “mormorio”. Non si tratta più di stati d’animo, ma di fine della coscienza oggettivante.
 In Blanchot non c’è più l’essere, e neppure un qualcosa: ciò che si dice va sempre disdetto. Nel suo ultimo libro, egli lo chiama “disastro”: non c’entra con la morte o la disgrazia, ma rappresenta l’essere che si stacca dal suo riferimento a una stella, un dis-astro. 
 Si presenta poi l’esigenza di uscire dall’«il y a», uscire dal nonsenso: davanti a fenomeni come la fatica, la pigrizia, lo sforzo, Levinas mostra il terrore di fronte all’essere, che mostra l’ombra dell’«il y a».
 Una proposta di soluzione, in questo caso, poteva essere il momento in cui appaiono le cose per se stesse, che dominano l’«il y a». Ma l’io che esiste è ingombrato da tutti gli esistenti che domina: per uscire dall’«il y a» non bisogna porsi, ma deporsi. La deposizione della sovranità da parte dell’io è la relazione sociale con altri, la relazione disinteressata: uscire dall’essere. 4. La solitudine dell’essere Dopo “dall’esistenza all’esistente” Levinas ha scritto “Il Tempo e l’Altro”, volume in cui sono raccolte quattro conferenze tenute al College di filosofia di Jean Wahl Jean Wahl era attento a tutto ciò che aveva un senso, e si interessava particolarmente alle continuità tra l’arte e la filosofia. Era il 1948, e mentre molti intellettuali si occupavano dell’aspetto sociale dei problemi, Levinas rimaneva ancorato al suo progetto metafisico, pur occupandosi in qualche modo anche del “problema sociale”. “Il Tempo e l’Altro” è una ricerca sulla relazione con gli altri, perché riguarda il tempo come apertura verso l’altro, come trascendenza. L’opera comincia affermando che il fine delle conferenze è “mostrare che il tempo non è il fatto di un soggetto isolato e solo, ma è la relazione stessa del soggetto con altri”. 
 La solitudine era un tema esistenzialista, e il libro rappresenta un tentativo di uscire dall’isolamento dell’esistere, così come il libro precedente era un tentativo di uscire dall’«il y a».
 Due tappe: > uscita verso il mondo della conoscenza
 > nella comunicazione ci si trova a lato d’altri, senza confronto diretto: esistere è un 
 fatto privato, l’esistenza non si può comunicare.
 ! la solitudine appare perciò come l’isolamento che segna l’evento stesso di essere. Il sociale sta al di là dell’ontologia. Levinas prosegue: “è banale affermare che non esistiamo mai al singolare: siamo circondati di esseri e cose con cui intratteniamo relazioni, siamo con gli altri con la vista, il tatto, la simpatia, il lavoro comune… ma sono tutte relazioni transitive”.
 Si mette in discussione il “con”, inteso come possibilità di uscire dalla solitudine. Come rappresentare la condivisione dell’esistenza? Sembra che si possa condividere quello che si ha, e non quello che si è. 
 Ci possiamo scambiare di tutto, tranne l’esistere: “in quanto incomunicabile, l’esistere è radicato nel mio essere, che rappresenta la parte più privata di me”. 
 La solitudine non è il tema centrale di questa riflessione, ma è solo uno dei segni dell’essere. Non si tratta di uscire dalla solitudine, ma di uscire dall’essere. Prima soluzione: uscita da sé costituita nel rapporto verso il mondo nella conoscenza e nei “nutrimenti”, cioè i godimenti con cui il soggetto inganna la sua solitudine. Per quanto riguarda la conoscenza, è per essenza una relazione con ciò che viene eguagliato e inglobato, ciò di cui si sospende l’alterità, ciò che diventa immanente perché è alla misura della mia portata.
 Cartesio diceva che il cogito poteva darsi tutto tranne che l’infinito: la conoscenza è sempre adeguazione tra il pensiero e il pensato. 
 La conoscenza è sempre stata interpretata come assimilazione. Essa non ci mette in comunione con l’altro, non rimpiazza la socialità: è una solitudine. La socialità è un modo diverso di uscire dall’essere rispetto alla conoscenza: va considerato anche il ruolo del tempo (non una semplice esperienza della durata, ma un dinamismo che conduce altrove) 5. L’amore e la filiazione Nonostante alcune metafore suggeriscano che amore è conoscenza, la prima analisi in cui la relazione all’altro rompe il modello del soggetto-che-conosce-un-soggetto è quella che riguarda l’eros. L’alterità di altri sarebbe significante come il futuro del tempo? Nell’eros si esalta un’alterità tra esseri non riducibile alla differenza logica o numerica che distingue un qualsiasi individuo da un qualsiasi altro. 
 L’alterità erotica, però, non è semplicemente dovuta ad attributi diversi: il femminile è altro dal maschile non soltanto per natura. L’alterità che comanda la relazione erotica, nella quale niente riduce l’alterità che in essa si esalta, si può pensare solo come da sé altro, origine stessa del concetto di alterità.
 È una falsa idea romantica quella dell’amore come confusione di due esseri: l’altro è sempre assolutamente altro. Il non-conoscere non va inteso come una privazione della coscienza, l’alterità non è sinonimo di imprevedibilità. riflette che l’analisi del volto con la signoria degli altri, è primaria, il presupposto di tutte le relazioni umane. 
 Ma allora com’è possibile punire, reprimere? Com’è possibile la giustizia? A determinare le leggi e a instaurare la giustizia sono la presenza di fatto della molteplicità degli uomini, e quella del terzo accanto ad altri. Se io sono solo con l’altro, gli devo tutto; c’è il terzo, però. Devo moderare questo “privilegio d’altri”, e da qui deriva la giustizia. Levinas non vuole “costruire un’etica”, tenta soltanto di cercarne il senso: non ogni filosofia deve essere programmatica. La scoperta dell’etica nel volto rompe con le filosofie della totalità perché il sapere assoluto è un pensiero dell’uguale. Nonostante si sappia che la verità non è mai definitiva, si continua a promettere una verità più vera, adeguata: l’essere finito che siamo non può esaurire il compito del sapere, ma nonostante questo, esso consiste proprio nel fare in modo che l’Altro divenga il Medesimo. Al contrario, l’idea dell’Infinito implica un pensiero dell’Ineguale. Secondo Cartesio si tratta della prova dell’esistenza di un Dio: siccome il pensiero non avrebbe potuto produrre qualcosa che lo supera, ne consegue che l’idea dell’Infinito è stata posta in noi da un Dio Infinito. Allora, nel volto si produce il superamento dell’atto attraverso ciò a cui l’atto stesso conduce: nell’accesso al volto è presente un accesso all’idea di Dio. In Cartesio l’idea dell’infinito resta teoretica, un sapere: in Levinas la relazione all’Infinito è un Desiderio. Il desiderio, al contrario del bisogno, non può essere soddisfatto, cresce con la sua soddisfazione. E il desiderio è un pensiero che pensa più di quanto non pensi, più di ciò che pensa: paradossale, ma non più della presenza di un infinito in un atto finito. 8. La responsabilità per altri L’ultimo grande libro pubblicato da Levinas è “Altrimenti che essere o al di là dell’esistenza”, che riguarda la responsabilità. Husserl aveva parlato di responsabilità per la verità, Heidegger di autenticità. Cosa intende Levinas per responsabilità? Levinas parla di responsabilità come struttura essenziale, primaria, fondamentale della soggettività, descrivendo la soggettività in termini etici. 
 L’etica non è un supplemento rispetto a una base, ma rappresenta il nodo stesso del soggetto: etica intesa come responsabilità. Levinas intende la responsabilità come responsabilità per altri, quindi come responsabilità per ciò che non mi riguarda. Si scopre l’altro nel suo volto, e se ne è responsabili: ma bisogna descrivere il volto anche in positivo. 
 Appena guardo l’altro ne sono responsabile, anche senza dovermi assumere nessuna responsabilità nei suoi confronti: la sua responsabilità mi incombe, e va al di là da ciò che faccio. La responsabilità non è un semplice attributo della soggettività, perché la soggettività non è un per sé: essa è, fin da subito, per un altro. Anche la prossimità non è solo spaziale, ma essenziale: l’altro mi si avvicina perché sono responsabile di lui. Non è una relazione intenzionale, e non c’è bisogno della conoscenza. 
 Il legame con gli altri si stringe solo come responsabilità, che essa sia accettata o rifiutata, che si sappia o no come assumerla, che si possa o no fare qualcosa per gli altri. Dire “eccomi”: essere umani significa questo. L’incarnazione della soggettività garantisce anche una spiritualità: si analizza la relazione interumana come se, nella prossimità con gli altri, il volto mi ordinasse di servirlo. Formula estrema: “il volto mi ordina”, mi chiede. La relazione intersoggettiva, d’altronde, è asimmetrica: io sono responsabile di altri senza aspettarmi di essere ricambiato, anche se dovesse costarmi la vita. L’inverso è affar suo, io ho sempre “una responsabilità in più” rispetto agli altri. Tanto che, afferma Levinas, “io sono responsabile del male che mi viene fatto”. Ma solamente io: i miei vicini sono già altri, e per loro si deve reclamare giustizia. ! io sono responsabile anche della responsabilità di altri L’’io, di principio, non si distacca dalla sua “prima persona”, e la soggettività può arrivare fino alla sostituzione degli altri: assume la condizione di ostaggio. La soggettività in quanto tale è originariamente ostaggio, e risponde fino al punto di espiare gli altri. Può scandalizzare, ma per Levinas l’umanità nell’umano è assente. L’umanità nell’essere storico- oggettivo, è l’essere che si disfa della sua condizione, il dis-inter-esse: “altrimenti che essere”.
 Essere umano significa vivere come se non si fosse un essere tra gli esseri, come se con la spiritualità umana le categorie dell’essere si ribaltassero. Di fatto, si tratta di dire l’identità stessa dell’io umano a partire dalla responsabilità, cioè a partire da questa posizione o quella deposizione dell’io sovrano nella coscienza di sé. La responsabilità mi incombe in modo esclusivo e io, umanamente, noon posso rifiutare. 9. La gloria della testimonianza La relazione etica ci fa uscire dalla solitudine dell’essere. Se non siamo più nell’essere, siamo allora solo in una società? In altre parole: cosa ne è dell’Infinito annunciato in “Totalità e Infinito?” 
 L’infinito viene all’idea nella significanza del volto: il volto significa Infinito. Questo non appare mai come tema, ma proprio in questa significanza etica. Non si è mai sdebitati nei confronti degli altri. Nell’esigenza etica c’è un infinito appunto perché è inappagabile: essa è esigenza di santità, perché solo gli ipocriti possono affermare di aver fatto tutto il loro dovere, e tale è la manifestazione dell’infinito (anche se non è una manifestazione nel senso di uno svelamento).
 Quando in presenza di altri dico “eccomi!”, è il momento in cui l’Infinito entra nel linguaggio, ma senza darsi a vedere: non appare poiché non è tematizzato, ma come il Dio-non-tematizzabile nel pensiero e tuttavia non-indifferente.
 In questo “eccomi!”, l’infinito non si mostra: allora come può acquisire senso? Perché dicendo “eccomi”, il soggetto testimonia l’infinito, e attraverso questa testimonianza si realizza la rivelazione dell’infinito, si glorifica l’infinito. La testimonianza non va pensata come se si fondasse su una conoscenza o una tematizzazione: essa infatti è una rivelazione, ma non dà nulla. La testimonianza etica è una rivelazione che non è una conoscenza: si “testimonia” in questo modo soltanto dell’infinito, soltanto di Dio. “L’Infinito di cui non è capace nessun tema, né nessun presente, è testimoniato dal soggetto o dall’Altro nel Medesimo, in quanto il Medesimo è per l’Altro. Attraverso questo assorbimento si accusa gloriosamente, e mi accusa sempre più: il Medesimo è sempre obbligato nei confronti dell’Altro” ! questo modo di manifestarsi dell’Altro o dell’Infinito nella soggettività è il fenomeno stesso dell’ispirazione, e definisce quindi l’elemento psichico, cioè lo spirito. Il testimone testimonia ciò che è stato detto attraverso di lui: ha detto “eccomi!”, e scopre di aver manifestato ciò che il volto d’altri ha significato per lui. La gloria dell’infinito si rivela attraverso ciò che sa realizzare nel testimone. L’Altrimenti che essere è la gloria di Dio: l’Infinito non viene assorbito, ma comanda, pur nella sua impossibilità di poter essere conosciuto. Comanda, e in tal senso è interiore: “l’interiorità non è un luogo segreto da qualche parte dentro di me: è questo rovesciamento in cui l’eminentemente esteriore mi riguarda e mi investe e mi ordina, attraverso la mia stessa voce.” 10. La durezza della filosofia e le consolazioni della religione L’insistenza sulla testimonianza irriducibile a un sapere tematizzante implica una definizione indiretta di profetismo? Il profetismo è la forma fondamentale della rivelazione; Levinas lo vede come momento della condizione umana in quanto tale. Peer ogni uomo, assumere la responsabilità per altri è un modo di testimoniare la gloria dell’infinito, e di essere ispirato. 
 ! nell’uomo che risponde si dà il profetismo dell’ispirazione. Questa responsabilità prima della legge è rivelazione di Dio. Se le cose stanno così, a fianco dell’esigenza etica illimitata la profezia si interpreta in forme concrete. In queste forme, diventate religioni, l’uomo ha trovato consolazioni, ma questo non mette in dubbio la struttura secondo cui sono sempre io ad essere responsabile.
 In relazione a ciò ci si può chiedere se l’idea messianica abbia ancora un senso per Levinas: per esserne degni, a suo parere, è necessario ammettere che l’etica ha un senso, anche senza le promesse del Messia. Secondo Levinas la Bibbia è il risultato di profezie, e in essa la testimonianza etica è stata depositata in forma di scritture. Il fatto che la critica della storia moderna abbia dimostrato che la Bibbia sia stata scritta da autori diversi in epoche diverse non influisce su questa convinzione, al contrario la conferma. 
 Un qualunque uomo etico, in qualsiasi luogo e in qualsiasi tempo, potrebbe offrire testimonianze scritte e orali che potrebbero costituire una Bibbia. La condizione soggettiva della lettura è necessaria alla lettura del profetico, se però vi si aggiunge il confronto e il dialogo. 
 Da ciò emerge il problema del richiamo alla tradizione, che non è un’obbedienza ma un’ermeneutica. Ma se è la testimonianza dell’etica a rivelare la gloria dell’Infinito, perché proprio la Bibbia e non Platone, o qualche altro testo importante? Descrivendo l’umano come uno squarcio nell’essere che mette in questione l’indipendenza degli esseri nella loro identità, Levinas non ha parlato di profondità insondabili e utopiche dell’interiorità: ha fatto riferimento semplicemente alla Scrittura e al Libro. 
 Quello che si dice scritto nelle anime è scritto innanzi tutto nei libri, il cui statuto è stato troppo spesso banalizzato come “utensili”. La letteratura realizza una lacerazione dell’essere, e attraverso la letteratura parla il volto umano. 
 Nelle letterature nazionali si dà partecipazione alla Sacra Scrittura: tuttavia Levinas è certo dell’incomparabile eccellenza profetica del Libro dei Libri. Le sacre scritture non significano attraverso racconti dogmatici, ma attraverso l’espressione del volto dell’altro uomo prima che si sia dato un contegno o una posa, e che esse illuminano. Esse parlano attraverso tutto quello che nel corso dei secoli hanno risvegliato nei lettori, comandando tutta la gravità delle lacerazioni in cui, nel nostro essere, viene messa in questione la buona coscienza del suo esserci. È questa la loro santità: un vento di crisi che soffia e lacera malgrado il riannodarsi dei nodi della storia. Allora l’esigenza etica sarebbe universale, e la consolazione un affare di famiglia. La religione, infatti, non è identica alla filosofia, e quest’ultima non offre la consolazione della prima. Nei suoi ultimi lavori Levinas continua la sua riflessione sulla responsabilità per altri con una riflessione sulla responsabilità per la morte d’altri.
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved