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Guide e consigli
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riassunto etica e infinito F.Riva, Appunti di Etica Sociale

riassunto dettagliato del libro di Franco Riva - "Etica e Cittadinanza".

Tipologia: Appunti

2022/2023

In vendita dal 17/06/2023

beatrice351
beatrice351 🇮🇹

4

(2)

12 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica riassunto etica e infinito F.Riva e più Appunti in PDF di Etica Sociale solo su Docsity! etica e infinito Il testo “Etica è Infinito” (1982) di Emanuel Levinas è basato su un dialogo giornalistico di domande e risposte secche con Philippe Nemo. Capitolo 1 à La distrazione da sé, ovvero la prossimità e il sociale Il distrarsi da sé Il libro inizia con un discorso strano: distrarsi da sé = non ha significato negativo, non significa essere sbadati, l’idea è che non sono più io il centro ma lo è tutto il resto à cambiare prospettiva. Se si è capaci di disastrarsi da sé, si può fare tutto. Il problema dell’etica è che ci sia l’umano. Se è possibile distrarsi da sé, è possibile l’umanità e che quindi ci sia un uomo. È possibile disastrarsi i sé (far si che non pensiamo a noi stessi)? Se ha una risposta positiva, esiste l’umanità. Il distrarsi da sé capita senza che noi lo vogliamo à come l’innamorarsi, l’appassionarsi di qualcosa. Allora qui tutto cambia: non sono più io che vivo e accade nel quotidiano non grazie a me, ma grazie all’incontro con l’altro (non cercato e non voluto). È possibile la socialità dell’umano: se non c’è il distrarsi da sé è una relazione neutra e non è possibile la socialità. L’appassionarsi e innamorarsi di qualcosa dentro il nostro quotidiano equivale all’ingresso dell’infinito nel finito à non sono più io chiuso in me stesso, ma mi viene data una prospettiva. La lettura Leggiamo tutti i giorni à la lettura è un’esperienza quotidiana ed è diventata, senza neanche accorgercene, inavvertita nella sua essenza e nel suo significato. Per le faccende di tutti i giorni, la lettura si trova ricondotta nell’ottica della gestione e della preoccupazione per sé e per le proprie attività. C’è una lettura scontata e banale (strumentale), ma anche una lettura profonda. La differenza è che la lettura vera ti trasporta altrove, ad esempio in un pianto che non è tuo ma dove ti sei immedesimato. La lettura non è la banalità del quotidiano, ma è una modalità del nostro essere e un modo di essere. Quando incontriamo un bel libro, testo, la lettura ci fa essere, non perché decido io ma perché mi fa essere. La lettura quotidiana è un’esperienza inavvertita e inconsapevole, quindi strumentale e utile a qualcosa, ma c’è anche quella parola che mi rende sensibile all’altro, fa apparire l’umano nella sua umanità, mi lascio trasportare in quella storia, in quell’esperienza. Questa è la fiera indipendenza degli esseri, tutto non si decide qui dove sono io. Si apre un mondo che non ripete io all’io. La vita è meno scontata di quello che sembra: ogni giorno succedono cose inaspettate. Proprio perché questo accade, è possibile l’umano. La lettura chiama fuori, distrae. Fa dimenticare, ma questa dimenticanza non è perdere qualcosa à ma ritrovare qualcosa che inaugura l’ingresso del mondo degli altri nel mio mondo. La lettura affiora una frattura nell’essere à ciò che è fa spazio alla trascendenza. Il pensiero del come Il pensiero del come è un modo di essere. Quando interviene quest’ultimo niente di ciò che è, rimane uguale a sé stesso; si può intendere in due modi: 1. Come una vera e propria rottura con la dimensione dell’essere generico à invita a parlare altre parole e a pensare altri pensieri 2. Come la presa di coscienza di un modo tipico di essere, che è quello dell’umano. Il pensiero del come indica una sporgenza, rappresenta l’ingresso della libertà nella vita degli uomini; il pensiero del come è il pensiero stesso dell’esistenza come modo tipico di essere dell’umano. Il fare e pensare si fissano sul che cosa, pensare al modo costringe a spostare l’attenzione dall’essere al come. Il come costringe ad allargare lo sguardo, a riguardare sempre e di nuovo da capo. Il come impone di ricordare pensieri dimenticati à pensiero del come non è solo sapere le cose, ma viverle e sentirle (praticarle affettivamente). Pensiero del come documenta la possibilità ambigua dell’esistenza e gli è essenziale la pluralità: il pensiero del come è reso possibile dalla presenza degli altri. L’essere tra gli altri non viene posto: si “subisce” in qualche modo, così come il pensiero del come che ci prende ogni tanto e non si sa ‘come’. Il dire Dire è un’esperienza quotidiana: si presenta nella forma di un parlare con altri, di un salutare altri. Il dire all’altro diventa subito più di un semplice parlare à diventa un vedere altrimenti. Il parlare o il salutare non sono soltanto un comunicare o un riconoscere, sono piuttosto un rispondere ad altri e un rispondere di altri. Il dire ha un ritmo responsabile: la parola è più della parola, rispondere è un farsi responsabili e farsi responsabili è rispondere. Il dire si fa dialogo à il dialogo è il modo tipico dell’interumano. La differenza tra il dire e il detto diventa in qualche modo il modello per distinguere più in generale l’ordine dell’interumano dai depositi “materiali” con cui viene equivocato. Il dire procede e sorregge il detto, il sociale precede e sorregge la società. L’alternanza tra dire e detto, alternanza del sociale e della società, pone un duplice problema: o Prima parola = in un primo momento sembra privo di senso dopo aver affermato che il dire è autentico al dialogare. Nel dialogo, le parole vanno e vengono senza origine e senza fine. Nella parola arrivata ad essere parola, si fissa una responsabilità per altri. Per questo, rispondere e farsi responsabili costituisce la prima parola. La prima parola è una parola con la quale si risponde all’altro e questo spiega il passaggio dal detto al dire, dal parlare all’essere in dialogo. È un comandamento, un ordine che mi viene rivolto e da cui ci si trova investiti. La prima parola non è mai garantita ed è quella che è più di una parola à si innalza nella nudità e nella fragilità del volto d’altri. Dire e disdire o Metodo = il problema del metodo riguarda la parola che si rivolge all’altro, la parola che si rivolge a Dio, la stessa parola di un dire consapevole e meditato à parola della filosofia. La filosofia mette a fuoco questa presa di distanza, questa interruzione dell’essere dato in quanto scontato. Il dire filosofico vive nella necessità di “disdirsi sempre” à riguarda la questione del restituire il senso dell’infinito che non può essere catturato in un detto o in un sapere chiuso. è FIGLIO à l'esperienza del figlio è ancora più misteriosa di Eros, perché in questo caso l'altro e altro pur essendo me in qualche modo = cioè sangue del proprio sangue, ma non è possesso, né proprietà. Questa è l'esperienza parallela della paternità = la relazione con un estraneo che pur essendo altri è me. È un modo di essere perché la paternità è questo essere pluralista. In entrambe, il motivo del patetico dell'amore è quello di ritrovarsi spossessati emergono con nitidezza. Eros e una partecipazione che interroga, un’uscita dalla solitudine dell'essere. Eros come figura femminile rappresenta l’alterità = qualcosa che resta un mistero e più del maschile sa cos’è una carezza. Eros come figura maschile rappresenta l’essere pluralista, la paternità è un essere pluralista. DIMENSIONE DEL TEMPO à Il tempo di Eros è dettato dall’altro: è il tempo in cui attendo, in cui aspetto di essere di fronte a te. Eros mi annuncia che l’altro è già lì prima. Eros non si concentra su di sé: ci si dimentica di sé. Senza Eros il mistero non è tale: l’altro è presente a me prima ancora che si palesi à non viene superata la differenza = ‘io voglio stare con te, in quanto sei te’. La differenza di Eros vi è grazie all’alterità. La filosofia non aiuta molto ad esprimere Eros. Eros è patos, patetico nel senso che l’amore patisce la mancanza dell’altro. Volto e moderazione Si parla a lungo del volto à in che cosa consiste, a cosa serve la fenomenologia del volto = cioè l’analisi di ciò che accade quando guardo gli altri faccia a faccia? Non è chiaro se si possa parlare di “fenomenologia del volto”; perché una fenomenologia descrive ciò che appare: l’accesso al volto, invece, è immediatamente etico. La relazione col volto può essere dominata dalla percezione (notiamo gli occhi, il naso, la fronte…), ma il volto in quanto volto non vi si riduce. Il volto è senza difese, nudo, povero. Il volto è esposto e minacciato, ma allo stesso tempo è ciò che ci vieta di uccidere. Il volto infatti è significazione, senza contesto. Di solito si è un “personaggio”: professore di, figlio di, abitante di… Il volto, al contrario, è senso da solo: tu sei tu. Il volto, quindi, non è “visto”: è ciò che non può diventare un contenuto afferrabile dal pensiero, è incontenibile, conduce al di là. La sua significazione lo fa uscire dall’essere in quanto correlativo di un sapere. Il volto è ciò che non si può uccidere, o almeno ciò il cui senso consiste nel dire “tu non ucciderai”. L’omicidio è un fatto banale, uccidere si può: l’esigenza etica non è anche ontologica, infatti esiste il male. Il concetto di volto è legato al concetto di discorso: il volto parla, in quanto è esso stesso a rendere possibile e a cominciare ogni discorso. Si tratta di una relazione etica al di là del sapere, assunta in modo autentico dal discorso. Allora anche il discorso non appartiene all’ordine del sapere? Nel discorso si distingue tra dire e detto, e il dire è un modo di salutare gli altri, di rispondere. Nel volto degli altri c’è un’elevazione, perché “altri” è più grande di me. Il “tu non ucciderai” è la prima parola del volto, e si tratta di un ordine: nell’apparizione del volto c’è un comandamento. Spesso però l’incontro con gli altri avviene nella violenza, nell’odio, nel disprezzo: ma Levinas riflette che l’analisi del volto con la signoria degli altri, è primaria, il presupposto di tutte le relazioni umane. Ma allora com’è possibile punire, reprimere? Com’è possibile la giustizia? A determinare le leggi e a instaurare la giustizia sono la presenza di fatto della molteplicità degli uomini, e quella del terzo accanto ad altri. Se io sono solo con l’altro, gli devo tutto; c’è il terzo, però. Devo moderare questo “privilegio d’altri”, e da qui deriva la giustizia. Levinas non vuole “costruire un’etica”, tenta soltanto di cercarne il senso: non ogni filosofia deve essere programmatica. La scoperta dell’etica nel volto rompe con le filosofie della totalità perché il sapere assoluto è un pensiero dell’uguale. Nonostante si sappia che la verità non è mai definitiva, si continua a promettere una verità più vera, adeguata: l’essere finito che siamo non può esaurire il compito del sapere, ma nonostante questo, esso consiste proprio nel fare in modo che l’Altro divenga il Medesimo. Al contrario, l’idea dell’Infinito implica un pensiero dell’Ineguale. Secondo Cartesio, si tratta della prova dell’esistenza di un Dio: siccome il pensiero non avrebbe potuto produrre qualcosa che lo supera, ne consegue che l’idea dell’Infinito è stata posta in noi da un Dio Infinito. Allora, nel volto si produce il superamento dell’atto attraverso ciò a cui l’atto stesso conduce: nell’accesso al volto è presente un accesso all’idea di Dio. In Cartesio l’idea dell’infinito resta teoretica, un sapere: in Levinas la relazione all’Infinito è un Desiderio. Il desiderio, al contrario del bisogno, non può essere soddisfatto, cresce con la sua soddisfazione. E il desiderio è un pensiero che pensa più di quanto non pensi, più di ciò che pensa: paradossale, ma non più della presenza di un infinito in un atto finito. Responsabilità L’ultimo grande libro pubblicato da Levinas è “Altrimenti che essere o al di là dell’esistenza”, che riguarda la responsabilità. Husserl aveva parlato di responsabilità per la verità, Heidegger di autenticità. Cosa intende Levinas per responsabilità? Levinas parla di responsabilità come struttura essenziale, primaria, fondamentale della soggettività, descrivendo la soggettività in termini etici. L’etica non è un supplemento rispetto a una base, ma rappresenta il nodo stesso del soggetto: etica intesa come responsabilità. Levinas intende la responsabilità come responsabilità per altri, quindi come responsabilità per ciò che non mi riguarda. Si scopre l’altro nel suo volto, e se ne è responsabili: ma bisogna descrivere il volto anche in positivo. Appena guardo l’altro ne sono responsabile, anche senza dovermi assumere nessuna responsabilità nei suoi confronti: la sua responsabilità mi incombe, e va al di là da ciò che faccio. La responsabilità non è un semplice attributo della soggettività, perché la soggettività non è un per sé: essa è, fin da subito, per un altro. Anche la prossimità non è solo spaziale, ma essenziale: l’altro mi si avvicina perché sono responsabile di lui. Non è una relazione intenzionale, e non c’è bisogno della conoscenza. Il legame con gli altri si stringe solo come responsabilità, che essa sia accettata o rifiutata, che si sappia o no come assumerla, che si possa o no fare qualcosa per gli altri. Dire “eccomi”: essere umani significa questo. L’incarnazione della soggettività garantisce anche una spiritualità: si analizza la relazione interumana come se, nella prossimità con gli altri, il volto mi ordinasse di servirlo. Formula estrema: “il volto mi ordina”, mi chiede. La relazione intersoggettiva, d’altronde, è asimmetrica: io sono responsabile di altri senza aspettarmi di essere ricambiato, anche se dovesse costarmi la vita. L’inverso è affar suo, io ho sempre “una responsabilità in più” rispetto agli altri. Tanto che, afferma Levinas, “io sono responsabile di male che mi viene fatto”. Ma solamente io: i miei vicini sono già altri e per loro si deve reclamare giustizia —> io sono responsabile della responsabilità degli altri. L’’io, di principio, non si distacca dalla sua “prima persona”, e la soggettività può arrivare fino alla sostituzione degli altri: assume la condizione di ostaggio. La soggettività in quanto tale è originariamente ostaggio, e risponde fino al punto di espiare gli altri. Può scandalizzare, ma per Levinas l’umanità nell’umano è assente. L’umanità nell’essere storico- oggettivo, è l’essere che si disfa della sua condizione, il dis-inter-esse: “altrimenti che essere”. Essere umano significa vivere come se non si fosse un essere tra gli esseri, come se con la spiritualità umana le categorie dell’essere si ribaltassero. Di fatto, si tratta di dire l’identità stessa dell’io umano a partire dalla responsabilità, cioè a partire da questa posizione o quella deposizione dell’io sovrano nella coscienza di sé. La responsabilità mi incombe in modo esclusivo e io, umanamente, non posso rifiutare. Gloria di testimonianza La relazione etica ci fa uscire dalla solitudine dell’essere. Se non siamo più nell’essere, siamo allora solo in una società? In altre parole: cosa ne è dell’Infinito annunciato in “Totalità e Infinito?” L’infinito viene all’idea nella significanza del volto: il volto significa Infinito. Questo non appare mai come tema, ma proprio in questa significanza etica. Non si è mai sdebitati nei confronti degli altri. Nell’esigenza etica c’è un infinito appunto perché è inappagabile: essa è esigenza di santità, perché solo gli ipocriti possono affermare di aver fatto tutto il loro dovere, e tale è la manifestazione dell’infinito (anche se non è una manifestazione nel senso di uno svelamento). Quando in presenza di altri dico “eccomi!”, è il momento in cui l’Infinito entra nel linguaggio, ma senza darsi a vedere: non appare poiché non è tematizzato, ma come il Dio-non-tematizzabile nel pensiero e tuttavia non-indifferente. In questo “eccomi!”, l’infinito non si mostra: allora come può acquisire senso? Perché dicendo “eccomi”, il soggetto testimonia l’infinito, e attraverso questa testimonianza si realizza la rivelazione dell’infinito, si glorifica l’infinito. La testimonianza non va pensata come se si fondasse su una conoscenza o una tematizzazione: essa infatti è una rivelazione, ma non dà nulla. La testimonianza etica è una rivelazione che non è una conoscenza: si “testimonia” in questo modo soltanto dell’infinito, soltanto di Dio. “L’Infinito di cui non è capace nessun tema, né nessun presente, è testimoniato dal soggetto o dall’Altro nel Medesimo, in quanto il Medesimo è per l’Altro. Attraverso questo assorbimento si accusa gloriosamente, e mi accusa sempre più: il Medesimo è sempre obbligato nei confronti dell’Altro” à questo modo di
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